Il dopoguerra anticipato del Sud: quando il popolo scrive la Storia
di Pasquale Chessa
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di Pasquale Chessa
Martedì 7 dicembre, alle ore 17.00, presso la sede e sul canale Facebook della Biblioteca di storia moderna e contemporanea, in collaborazione con ANPI, INSMLI e IRSIFAR, sarà presentato il volume Paisà, sciuscià e segnorine. Il Sud e Roma dallo sbarco in Sicilia al 25 aprile di Mario Avagliano e Marco Palmieri. (Il Mulino, 2021). Intervengono: Anna Balzarro, Isabella Insolvibile, Giancarlo Governi, Gianfranco Pagliarulo. Coordina: Maria Corbi. Saranno presenti gli autori.
È stato chiamato «l'altro dopoguerra» il periodo vissuto dall'Italia meridionale e Roma tra il luglio del 1943, quando gli alleati sbarcano in Sicilia, e il maggio del 1945, quando la guerra finisce. Un lungo periodo, segnato dal procedere lento della linea del fronte verso nord, con combattimenti accaniti, violenze, stragi tedesche e alleate e atti di resistenza, spesso misconosciuti (non solo la battaglia per la difesa di Roma e le Quattro giornate di Napoli). Ma anche un vitale, caotico, difficile ritorno alla pace e alla libertà, con il primo confronto con la democrazia dopo il ventennio fascista. I problemi economici e sociali sono aggravati dall’atteggiamento dei militari alleati, intorno ai quali, come avviene ad esempio a Napoli e a Roma, proliferano fenomeni come segnorine, sciuscià e traffici del mercato nero che portano a un certo decadimento dei costumi morali. Esaurita l’euforia della libertà riconquistata ed emersa la consapevolezza del carattere illusorio dell’aspettativa che l’arrivo degli anglo-americani, simbolizzato dal pane bianco, dalle caramelle e dalle chewing-gum, porti miracolosamente alla fine della miseria, le truppe “salvatrici” nella penisola diventano sempre meno gradite. La presenza degli alleati, il ritorno dei partiti, delle radio, della stampa libera, la voglia di normalità e di divertimento, la rinascita del cinema e del teatro, con Anna Magnani, Totò, i fratelli de Filippo, De Sica e Rossellini, e poi la fame, il banditismo, le marocchinate, la criminalità. Attingendo a lettere, diari, corrispondenza censurata, relazioni delle autorità italiane e alleate, giornali, canzoni, film, il libro compone un racconto corale, curioso e inedito di quell'Italia del dopoguerra.
Mario Avagliano è un giornalista e storico, collabora alle pagine culturali de “Il Messaggero” e de “Il Mattino”. E’ autore di numerosi saggi su fascismo, seconda guerra mondiale, deportazioni e dopoguerra.
Marco Palmieri è giornalista e storico, ha lavorato per diverse testate e ha pubblicato numerosi saggi sulla deportazione, la resistenza e il dopoguerra.
Anna Balzarro è direttrice dell’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza (IRSIFAR)
Maria Corbi è una giornalista, inviata de La Stampa.
Giancarlo Governi è un autore televisivo, sceneggiatore e scrittore.
Isabella Insolvibile è una storica specializzata nella Resistenza italiana.
Gianfranco Pagliarulo è presidente nazionale dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI)
Patrizia Rusciani è direttrice Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea.
Diretta sul canale FB della Biblioteca
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E nei giorni successivi sul canale youtube della Biblioteca
di Mario Avagliano
È una sera qualsiasi del 1975, a Genova. Sul palco si esibisce l’attore Walter Chiari e all’improvviso lancia una provocazione al pubblico. «Quando Mussolini fu appeso per i piedi a Piazzale Loreto – afferma -, dalle sue tasche non cadde nemmeno una monetina. Se i nuovi reggitori d’Italia subissero la stessa sorte, chissà cosa uscirebbe dalle tasche di lor signori!» La cronaca non ci dice se la sua battuta venne accolta dagli applausi, ma non c’è dubbio che l’attore, che aveva trascorsi giovanili nella Repubblica Sociale, esprimeva un luogo comune sulla presunta onestà del duce e del regime fascista che è ancora diffuso in Italia.
Una “fake-news”, si direbbe oggi, che viene fatta a pezzi dal prezioso lavoro di ricerca di Mauro Canali e Clemente Volpini in «Mussolini e i ladri di regime. Gli arricchimenti illeciti del fascismo» (Mondadori). Un saggio che, attraverso documenti inediti provenienti dal Ministero delle Finanze, versati all’Archivio Centrale dello Stato e messi solo da poco a disposizione degli studiosi, ci fornisce un’impietosa radiografia del malaffare in camicia nera, facendo i «conti in tasca» ai gerarchi. A partire dal capo assoluto del fascismo, che nel 1919 aveva fondato il suo movimento anche per combattere i profittatori di guerra (i cosiddetti “pescicani”), e che invece quando il 25 luglio 1943 perde il potere, è un uomo ricco, proprietario di numerosi terreni e immobili di pregio, molti dei quali prudentemente intestati alla moglie Rachele, e di un imponente complesso tipografico. Beni che saranno valutati, nel 1950, circa 2 miliardi. I vent’anni di potere assoluto hanno reso il «povero maestrino» e la «contadina sempliciona e rozza» di Predappio due ricchi borghesi.
La ricerca storica di Canali e Volpini prende le mosse all’indomani della caduta di Mussolini. È il 5 agosto e da pochi giorni il maresciallo Pietro Badoglio si è insediato al Viminale col suo governo tecnico-militare che ha spodestato il duce dopo un ventennio di regime, mettendolo agli arresti anche se, pudicamente, i giornali hanno parlato di "dimissioni". Quel giorno, però, bando alla prudenza: quasi tutti i quotidiani riportano una notizia sensazionale. Il governo Badoglio ha istituito una commissione con il compito d’indagare sulle fortune accumulate dai gerarchi: i cosiddetti illeciti arricchimenti del fascismo. Una vera e propria Tangentopoli ante litteram. Il duce e i ras del regime, un tempo intoccabili, temuti e riveriti da stampa e opinione pubblica, vengono sbattuti in prima pagina con l’accusa di corruzione e concussione.
Quello che il libro scoperchia è un autentico verminaio. Una storia di tangenti e appalti, di capitali che trovano riparo all’estero, di raccomandazioni, di festini e di sesso, di cricche e di prestanome; un intreccio perverso tra politica e affari, alla faccia del rigore e dell’onestà tanto proclamati dalla propaganda fascista. Vicende a tratti grottesche, con fughe rocambolesche, rotoli di banconote nascosti nell’acqua degli sciacquoni del water, tesori sepolti in giardino. Verbali di sequestro dettagliati e scrupolosi che testimoniano gli illeciti arricchimenti del fascismo: ville favolose, palazzi, pellicce, arazzi, gioielli scintillanti, fino al numero di posate in argento, all’ultima pantofola, calza e mutanda dei gerarchi inquisiti. Solo in piccola parte questi patrimoni torneranno nei bilanci dello Stato.
Alla ribalta salgono nomi eccellenti. Si scopre ad esempio che Alessandro Pavolini, il Robespierre nero, ministro del Minculpop, boss del cinema di regime, è pronto a tutto, anche a cambiare le leggi, pur di far felice l’amante, l’attrice e icona sexy Doris Duranti (la prima, assieme a Clara Calamai, ad apparire sullo schermo con il seno nudo). L’integerrimo Roberto Farinacci, l’ideologo della purezza fascista, ha accumulato un patrimonio di centinaia di milioni: niente male per un ex ferroviere diventato avvocato copiando la tesi di laurea. Edmondo Rossoni, ex leader sindacale, considerato «la migliore forchetta del regime» e non solo perché usa pasteggiare con posate d’oro, si è invece costruito nel Ferrarese un vero e proprio impero immobiliare. Il mercimonio e la corruzione non risparmiano neppure le pratiche per ottenere l’arianizzazione: diversi ebrei per sfuggire in questo modo alle leggi razziste sono costretti a versare ai gerarchi fascisti pesanti tangenti. C’è poi Mussolini e i suoi «affari di famiglia», con gli intrallazzi di Galeazzo e Edda Ciano, l’avidità di donna Rachele e la rapacità del clan della famiglia della sua amante Claretta Petacci.
Un libro necessario quello di Canali e di Volpini, che smitizza una volta di più le presunte virtù del fascismo italiano, che fu un regime dittatoriale, guerrafondaio e razzista e non brillò neppure per integrità morale, lasciando all’Italia repubblicana una triste e penosa eredità di corruzione della politica e della burocrazia.
(Il Mattino, 26 agosto 2019)
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 20/08/2018, a pag. 32, con il titolo "Quando l’Italia capì di essere razzista", la recensione di Natalia Aspesi.
Prima fuori concorso alla Mostra, poi su Sky Arte, "1938. Diversi" il film di Levi e Treves per non dimenticare la vergogna di quei tragici eventi Quell’anno, il 1938, segnò il tempo del massimo consenso per il Duce: chi si aspettava da lui il riscatto, il predominio, la felicità, riempiva le piazze, persino più dei salviniani di oggi. La minoranza altra si occultava, spaventata, colpevolizzata, ridicolizzata ancor più di adesso, e allora in pericolo di vita. In un clima di tale asservimento entusiasta, bastarono cinque mesi, da luglio a novembre, per dividere gli italiani di serie A di "razza ariana" (in realtà molto miscelata), da quelli di serie B, perché di "razza ebraica". «Sono impressionanti le immagini di Benito Mussolini che nella Trieste del 18 settembre (in agosto era stato pubblicato il "manifesto della razza", ndr) raggiunge il palco da cui instaura l’antisemitismo come un fondamento dell’ideologia di regime».
Lo dice Sergio Luzzatto, storico e saggista, nel documentario di Sky Arte 1938- Diversi (il 4 settembre in anteprima fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia). «Per ricordare, per sapere, per capire, per risvegliare l’interesse dei giovani con un linguaggio diretto», dice il regista Giorgio Treves. «Anche io ne sapevo poco. I miei genitori avevano lasciato l’Italia nel 1940 con l’ultima nave diretta negli Stati Uniti, io sono nato a New York nel 1945. Della vita familiare a Torino mio padre non parlava mai». Il produttore Roberto Levi c’era, nel 1938 aveva 4 anni, ma la sua famiglia riuscì a fuggire in Svizzera prima dell’invasione nazista e l’inizio delle deportazione nel novembre del 1943. La velocissima campagna antiebraica si conclude il 14 novembre ’38 in parlamento dove, ricorda la storica Liliana Picciotto, «l’approvazione di questi decreti-legge avviene in un’atmosfera di consenso furibondo a Mussolini. In pochi minuti si decise la sorte degli ebrei d’Italia». 80 anni fa, uno dei nostri tanti, tragici, vergognosi anniversari. Da un diario, letto dall’attore Roberto Herlitzka: «La maestra chiamò il mio nome, e disse, "Bassi esci dalla classe". Mi ritrovai nel grande cortile assolato della Diaz. Solo, e scoppiai a piangere».
Liliana Segre, senatrice e sopravvissuta ad Auschwitz: «Molto spesso venivano in casa i poliziotti, ci trattavano da nemici della patria, con un atteggiamento di disprezzo, rude, di sospetto, che mi dava vergogna e paura, soprattutto paura». Aldo Zargani, scrittore: «Mi accorsi di essere ebreo, che stava cominciando qualcosa di terribile, il giorno in cui mio padre fu licenziato dall’orchestra dell’Eiar e diventammo una famiglia miserabile». Poco a poco, studenti e insegnanti ebrei vengono allontanati da ogni ordine scolastico: vietati i testi di autori ebrei, via dagli impieghi pubblici, via dall’esercito, via dal partito fascista (anche quelli fascistissimi che avevano partecipato alla marcia su Roma e si erano iscritti ancora prima), proibiti i matrimoni misti, allevare piccioni, avere una cameriera cattolica, affittare le stanze ai non ebrei, poi anche andare al mare. Su certi negozi c’era il cartello "vietato agli ebrei" ricordano senza stupore Luciana Castellina, Picciotto e altri. La minoranza ebraica italiana (uno su mille) era molto integrata soprattutto da quando, nel 1848 lo Statuto di Carlo Alberto di Savoia — lo racconta lo storico Alberto Cavaglion — aveva concesso ogni diritto, compresa la fine dei ghetti, agli ebrei. Allora, si chiede il film, in che modo Mussolini, il fascismo, sono riusciti a "inoculare" negli italiani l’antisemitismo? Con l’incessante propaganda al cinema, alla radio, coi manifesti, con le parate, con le canzonette, con i giornali, con le esibizioni a torso nudo del Capo, persino con la moda e il lusso per i ricchi e la battaglia del grano per i contadini; tutti in divisa, adulti e bambini, libro e moschetto (adesso forse il moschetto, ma non il libro), con il martellamento sulla superiorità fisica e intellettuale degli italiani, anche se allora in parte analfabeti e stroncati dai lavori faticosi. Una festa continua, una festa nel 1935 con la guerra d’Etiopia, spiega lo storico Mario Avagliano, e il razzismo rancoroso contro i "negri", gli africani (che del resto è rimasto una bella eredità). Poi con la guerra di Spagna contro i comunisti, oggi molto dormienti, e Mussolini che dichiara: «Quando finirà la Spagna, inventerò qualcosa d’altro. Il carattere degli italiani si deve creare nel combattimento». E inventa gli ebrei. Il documentario rappresenta la nostra pericolosa acquiescenza e fiducia al capo decisionista, in un tempo in cui non esistevano né tweet né selfie. Sfatata per l’ennesima volta l’idea degli italiani brava gente, perché se ci fu chi nascose e aiutò gli amici ebrei, tanti approfittarono della loro persecuzione o stettero zitti, come molti intellettuali. Non Toscanini, però e neppure papa Pio XI: morì prima che la sua enciclica antirazzista potesse uscire, ma disse «L’antisemitismo è un movimento odioso con cui noi cristiani non dobbiamo aver nulla a che fare. Spiritualmente siamo tutti semiti». Hanno ragione gli autori a definire il film necessario perché «quegli eventi sia pure in modo diverso tornano a minacciare il nostro futuro. Abbiamo il dovere di mobilitarci e impedirlo». Con l’ultima immagine confusa di un carro bestiame verso il nulla, il doc si ferma sull’abisso del Dopo, per raccontare le responsabilità del Prima.
(pubblicato su informazionecorretta.com)
Oggi il mondo ci è precluso, siamo soli nello spazio che per noi è divenuto freddo e la sua ricca vastità ci è inaccessibile. Siamo terribilmente soli
Espulsi dall’ambiente, accettati nell’incertezza dei senza patria. Siamo soli come due ebrei soltanto possono essere soli.
Enzo Arian
Il 18 settembre 1938 a Trieste, facendosi largo tra due ali di folla in delirio, Benito Mussolini pronunciava uno dei suoi discorsi sulla inferiorità della razza ebraica e sulla necessità di mettere in atto provvedimenti che isolassero gli ebrei italiani in quanto “diversi”. Il 5 settembre e il 17 Novembre dello stesso anno venivano firmati due regi decreti che richiamavano gli odiosi comandamenti del Manifesto della Razza del precedente 14 Luglio: è la promulgazione delle leggi razziali e l’espulsione degli ebrei dalla vita pubblica.
A 80 anni da quell’infame periodo, Giorgio Treves e Luca Scivoletto con la produzione di Roberto e Carolina Levi per la Tangram Film, propongono un toccante documentario che alle interviste di diversi saggisti e storici alterna le dolorose testimonianze di chi quelle leggi le ha vissute sulla propria pelle. Attraverso il fuoco incrociato di racconti e documenti, si riesce a fare luce su uno dei momenti più oscuri della nostra storia. Uscito stremato dal primo conflitto mondiale, il popolo italiano sembra affascinato da una idea di nazione forte militarmente, cosciente della propria superiorità e desiderosa di espandersi in Africa (“libro e moschetto balilla perfetto”). Il colonialismo nostrano, che sfocia nella guerra di Etiopia, è caratterizzato da un razzismo e una intolleranza verso le persone di colore, giudicate inferiori. I discorsi populisti, le canzonette come Faccetta Nera, gli articoli tendenziosi sulla stampa e le vignette satiriche convergono tutte verso l’odio per l’africano, diventato pacco postale o merce di scambio, schiavo sessuale o manodopera da sfruttare. Finita vergognosamente la campagna coloniale africana, fallita miseramente la guerra di Spagna, Mussolini cambia obiettivo. E’ curioso pensare che prima del 1937, gli ebrei erano comunque rispettati per il loro sacrificio durante la I guerra mondiale e alcuni di loro aderivano con convinzione al Partito Nazionale Fascista. Per questioni meramente politiche (l’allineamento con il partito nazionalsocialista tedesco) proprio nel 1937 il Ministero della Cultura Popolare (MinCulPop) aveva organizzato attraverso la stampa, la radio e il mezzo cinematografico una campagna mediatica diffamatoria che discriminava gli ebrei, dipinti come vigliacchi, avidi di denaro, traditori della patria.
Treves fa analizzare le cause di questa follia ideologica attraverso le parole apparentemente asettiche di studiosi ed esperti come Mario Avagliano, Sergio Luzzatto, Liliana Picciotto, Alberto Cavaglion, Luciana Castellina, Michele Sarfatti, Marcello Pezzetti, Edoardo Novelli, Walter Veltroni. I devastanti effetti li ascoltiamo attraverso i terribili ricordi di Rosetta Loy, di Alessandro Treves, di Roberto Bassi, di Bruno e Liliana Segre: le umiliazioni a scuola, l’isolamento dalla vita civile, le fughe precipitose in America o in Svizzera, la deportazione ad Auschwitz da quel maledetto binario 12 della Stazione Centrale di Milano.
Quando il discorso tende a farsi più personale, Treves saggiamente inserisce delle animazioni che fanno da filtro a questo materiale emozionale. Mantenere vivo il ricordo significa prevenire quello che Umberto Eco chiama l’eterno ritorno del fascismo, pronto a manifestarsi quando alla regressione economica si associa una rapida involuzione culturale. Scorre più di un brivido lungo la schiena mentre Roberto Herlitzka declama le parole di Enzo Arian o quando Liliana Segre parla di una linea nera continua che parte dalla firma di Vittorio Emanuele (il regio decreto sui Provvedimenti per la razza italiana) e si ingrossa sui binari di un treno per l’inferno.
Giorgio Treves non si limita a narrare i fatti ma propone una via per risorgere dalle ceneri di questo passato ignobile: dei ragazzi fuori dalla scuola ridono e parlano spensieratamente, forse è da loro che bisogna ripartire, perché le nuove generazioni non possono non sapere. Queste immagini e questa sofferenza devono servire a futura memoria, se la memoria ha un futuro.
(pubblicato su sentieriselvaggi.it)
Il film documentario “1938. Diversi” di Giorgio Treves è stato premiato durante la cerimonia di consegna dei Nastri d'Argento per i Documentari 2019 come "Miglior Documentario - Cinema del reale".
Prodotto da Tangram Film in collaborazione con Sky Arte, Mibact, AB Groupee AAMOD, e con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte - Piemonte Doc Film Fund, “1938. Diversi” mostra come articoli, vignette, fumetti e filmati contribuirono a trasformare, in pochi mesi, gli ebrei dapprima in "diversi" e poi in nemici della nazione. La voce di alcuni testimoni diretti, la ricostruzione di episodi realmente accaduti e il contributo di importanti studiosi di storia (tra cui Mario Avagliano, Michele Sarfatti, Sergio Luzzatto e Alberto Cavaglion) aiutano a comprendere il ruolo decisivo che i mezzi di comunicazione di massa ebbero in una delle vicende più tragiche dell'umanità.
I Nastri d'Argento sono l’iniziativa più importante nel calendario delle manifestazioni organizzate dal Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani.
Riconosciuti dal MiBACT Premio di Interesse Culturale Nazionale, sono il più antico riconoscimento per il cinema italiano, secondi nel mondo, per ‘anzianità’, solo agli Academy Awards: i giornalisti cinematografici iscritti al SNGCI li assegnano infatti dal 1946, attraverso un voto con scrutinio notarile, che premia ogni anno i migliori film, autori, interpreti, produttori e tecnici.