Il grande rifiuto. Militari italiani deportati nei lager nazisti. Intervista a Mario Avagliano

di Annamaria Iantaffi

Quando hanno fatto ritorno a casa, qualcuno li ha accusati di essere dei vigliacchi, altri degli attendisti; eppure tutti erano ex combattenti, molti volontari, qualcuno decorato. Erano gli Internati Militari Italiani, soldati dell’esercito che, dopo l’8 settembre del 1943, non cedettero né alle lusinghe della Repubblica di Salò, né vollero continuare a combattere accanto al vecchio alleato tedesco.
Dopo l’armistizio, rotte le fila, l’esercito italiano era allo sbando e i militari dovevano decidere del loro destino. Alcuni si sono dati alla macchia e alla Resistenza, altri invece non sono sfuggiti alle retate naziste e sono stati deportati, spesso con l’inganno, nei lager costruiti tra Austria, Polonia, Germania e Balcani. I loro diari, le loro lettere, sottratti agli sguardi degli aguzzini e nascosti per decenni, sono tornati alla luce grazie al lavoro di raccolta di Mario Avagliano e Marco Palmieri, giornalisti e studiosi di storia, che hanno dato vita al volume “I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi (1943-1945)”. Il volume, pubblicato a gennaio per il Mulino, ha raggiunto la seconda edizione e verrà presentato da Avagliano sabato 22 febbraio alle 18.00, nella libreria Mondadori di Monterotondo.

Mario, scrivi spesso del periodo storico che comprende le due guerre mondiali, perché?

Ritengo che questo periodo storico abbia ancora molti lati che non sono stati analizzati in profondità. Purtroppo l’Italia, a differenza della Germania, ha fatto poco i conti con la sua storia e alcune pagine sono state ignorate o prese in considerazione in modo riduttivo. Marco Palmieri ed io pensiamo che occorra raccontare la storia dal lato di chi l’ha vissuta, analizzando sentimenti, passioni motivazioni che hanno animato i protagonisti di qualsiasi parte: quelli della Resistenza, la popolazione civile, quelli del Fascismo e così via.

E qual è la storia dal punto di vista dei Militari Internati Italiani?

In questo libro tentiamo di toccare un capitolo fondamentale della Guerra di Liberazione della Resistenza, che tale non è stato considerato per tanto tempo. Il sottotitolo del libro è “Una resistenza senz’armi” perché i 650mila che dissero no all’adesione alle SS italiane, e poi alla Repubblica Sociale, sono protagonisti di una vera e propria Resistenza. Questi uomini avrebbero potuto essere impiegati sul campo e la campagna di liberazione dell’Italia sarebbe probabilmente durata molto di più; magari l’Italia sarebbe stata smembrata in due, come la Germania, se non avesse riscattato le sue azioni precedenti, sul tavolo della pace sarebbe stata trattata magari diversamente. Il loro apporto è stato fondamentale per i destini nazionali.

Perché questi militari hanno deciso di non aderire alla Repubblica di Salò?

Le motivazioni al “no” sono state diverse. Qualcuno cominciava ad acquisire una consapevolezza antifascista – pensiamo che questa generazione aveva conosciuto sui banchi di scuola solo l’ideologia fascista: come i ragazzi di oggi sono nativi digitali, loro erano nativi fascisti. Affrancarsi non era semplice, la consapevolezza poi maturava con la prigionia, infatti uno di loro, Alessandro Natta, che diventerà segretario del PCI, parlerà dei lager come di una “scuola di Democrazia”. In altri il “no” era dovuto alla stanchezza della guerra: di fronte alla richiesta di tornare a combattere con i Tedeschi, che nel frattempo
avevano avuto modo di farsi conoscere per la loro crudeltà anche verso le popolazioni occupate, gli Italiani si rifiutarono. Tanto più che i Tedeschi, soprattutto nei Balcani, nella cattura ingannarono i soldati italiani dicendo loro che se consegnavano le armi, li avrebbero riportati in Italia, mentre fecero proseguire i treni verso l’Austria, lasciando i nostri militari inermi contro sentinelle armate.

Che tipo di campi erano quelli verso cui erano diretti gli IMI?

Occorre distinguere: gli ufficiali furono destinati ai campi di prigionia, mentre sottufficiali e truppe furono inviati in campi in cui risiedevano solo di notte e il giorno erano lavoratori coatti, anche per 10-12 ore al giorno. Hitler adoperò una definizione ad hoc per considerarli diversi dagli altri prigionieri di guerra, chiamandoli internati militari italiani, Italienische Militär-Internierte (Imi), innanzitutto per una vendetta politica, perché la Germania era alleata con la Repubblica Sociale e occorreva giustificare nell’opinione pubblica il fatto che centinaia di migliaia di Italiani fossero trattenuti dai Tedeschi.
Poi per convenienza, perché lo sfruttamento degli IMI li sottraeva alla Convenzione Internazionale di Ginevra e gli negava l’assistenza della Croce Rossa Internazionale, di cui godevano i prigionieri inglesi americani francesi. Gli IMI, che non avevano neanche l’aiuto del loro governo, mangiavano la sbobba dei Tedeschi, fatta di acqua mista a verdura e terriccio, decisamente insufficiente per i bisogni alimentari, infatti morirono in circa 50.000.

Perché la storia degli IMI fino ad ora è stata ben poco nota?

Quando l’Italia si è schierata nel campo occidentale, per accreditarsi ha disegnato una storia solo parziale di quello che era accaduto prima, ha valorizzato la Resistenza armata e ha disegnato il Fascismo come fosse stato solo una storia passeggera, mentre aveva avuto con consenso del tutto maggioritario. Gli internati sono stati oscurati perché erano complicati da spiegare al consesso internazionale. Poi la Resistenza, a posteriori, è stata raccontata come appannaggio della sinistra, mentre molti dei militari internati hanno resistito in memoria del re e, non avendo padrini politici, sono stati dimenticati.

Eppure tra loro c’erano personaggi che poi sarebbero diventati famosi… 

A causa del loro sacrificio disconosciuto, molti di loro si chiusero nel silenzio: molti dei famigliari che ci hanno fornito diari e lettere hanno scoperto che il padre era un internato militare solo dopo la sua morte. C’era ad esempio l’attore Gianrico Tedeschi, il poeta Tonino Guerra, gli scrittori Oreste del Buono, Mario Rigoni Stern e Giovannino Guareschi, il padre di Peppone e Don Camillo, che appare sulla copertina del libro. E poi c’erano padri di persone che sarebbero poi diventate famose come Ferruccio Guccini, padre di Francesco, Carmelo Carrisi, padre di Al Bano, e Giuseppe Di Pietro, padre del magistrato. Inaspettatamente, anche Vasco Rossi era figlio di un IMI… Carlo Rossi fu salvato da un suo compagno di prigionia di Dortmund che si chiamava Vasco, per questo dette il suo nome al figlio, che ha saputo per intero la storia del padre solo due settimane fa, quando la madre ha ritirato per conto di Carlo la Medaglia d’Onore. I parenti degli IMI, infatti, solo negli ultimi anni hanno ricevuto il riconoscimento dell’operato dei loro padri. Meglio tardi che mai…

Vuoi citare un documento particolarmente toccante, tra quelli che hai esaminato?

L’intento dei Tedeschi era sempre la disumanizzazione del deportato; gli strumenti erano pratiche come l’identificazione con il cartello con il numero di matricola, le docce bollenti, l’esposizione la freddo durante gli appelli che duravano ore. I diari erano proibiti e, se trovati nelle perquisizioni improvvise tedesche, potevano comportare la fucilazione. Molti diari iniziano nei giorni dell’8 settembre: alla notizia dell’armistizio, i nostri connazionali ebbero l’urgenza della scrittura e proseguirono per evadere mentalmente o per lasciare traccia, terminando solo con la liberazione o il ritorno a casa. Uno dei capitoli più interessanti dei diari sono forse le storie d’amore o di sesso vissute dai sottufficiali della truppa che, costretti al lavoro coatto nelle città, nei campi o nelle fabbriche, avevano avuto occasione di conoscere donne tedesche o polacche, che spesso sono venute via con loro al ritorno in Italia tra il 1945-6.

(Il Tiburno, 18 febbraio 2020)

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Intervista a Fabrizio Failla, telecronista sportivo

di Mario Avagliano

 

Telecronista di calcio e di pallanuoto, commentatore, inviato a bordo campo. Fabrizio Failla è ormai da qualche anno uno dei giornalisti di punta di RaiSport e più amati dagli italiani. Non a caso nel 2002 è stato chiamato a condurre la Domenica Sportiva, assieme a Massimo Caputi e a Giacomo Bulgarelli. Failla, originario di Nocera Inferiore, fa parte attualmente del team della Rai che segue la Nazionale di calcio. Dal Portogallo, dove è stato in viaggio al seguito degli azzurri di Trapattoni, parla della crisi delle squadre di calcio e lancia una proposta choc a Cavese, Nocerina e Paganese: “Le divisioni del passato non hanno più senso. Diamo vita alla squadra di Cava e dell’Agro, in modo da creare un polo alternativo al Napoli e alla Salernitana”.

Ci parli delle sue origini.

Sono nato a Firenze, nella città di mio padre Ernesto, che è neuropsichiatria, ma sono vissuto e cresciuto tra Nocera e Salerno. Il mio carattere si è forgiato nel meridione, e se sono una persona felice e sorridente, lo devo alle mie origini salernitane. Ancora oggi i miei migliori amici sono quelli della scuola media e del liceo.

Com’era la Nocera della sua adolescenza?

Era una città devastata dalla camorra. Ricordo che negli anni Ottanta, quando uscivi in piazza, dovevi capire lontano da chi dovevi sistemarti per fumare una sigaretta, in modo da non correre il rischio di essere vittima di una sparatoria. Ho visto molti miei conoscenti finire male o addirittura morire.

Era una città devastata anche dal punto di vista urbanistico?

Purtroppo sì. Nocera era brutta, involuta, con un’architettura orribile e poco rispondente alle esigenze della gente. E dopo il terremoto, la situazione peggiorò ancora. Come molte altre città del Sud, fu presa d’assalto dai gruppi di malaffare. La commistione tra camorra, appalti pubblici e politica ha prodotto parecchi mostri dalle nostre parti.

Non salva niente di quel periodo?

Il ricordo più forte per me resta quello del terremoto del 1980, e in quella occasione a Nocera, a Salerno, a Cava, toccai con mano cosa significa la solidarietà e quanto la gente del Sud sia diversa da quella del Centro-Nord per la straordinaria capacità di fare comunità e di condividere sofferenze, sacrifici, difficoltà.

Immagino che in una situazione del genere, per un ragazzo di Nocera come lei, il giornalismo e lo sport fossero visti come un’ancora di salvataggio...

Non proprio. Fare il telecronista, o comunque il giornalista sportivo, è stato sempre il mio sogno, fin da quando ero bambino ed ascoltavo con i miei amici le fantastiche radiocronache di Tutto il calcio minuto per minuto.

Quando ha cominciato a fare sul serio?

Prestissimo, ad appena 15 anni, a Radio Nocera Amica, nella sede di via Nuova Olivella, al confine tra Nocera e Pagani.  

A proposito di Pagani, lei ha giocato con qualche successo nella Paganese calcio.

Io sono sempre stato trasversale. Ero di Nocera e giocavo nella Paganese. E qualche anno dopo, ho seguito come giornalista la Salernitana...

In che ruolo giocava?

Ero portiere, come adesso nella Nazionale dei giornalisti, dove mi capita di giocare contro i grandi campioni di cui una volta collezionavo le figurine, da Giancarlo Antognoni a Roberto Bettega.

Le sue prime radiocronache risalgono ai tempi di Radio Erta, l’Emittente RadioTelevisiva dell’Agro.

Avevo appena 17 anni ed era la stagione della Nocerina in serie B. Fu un’esperienza bellissima. Mi sentivo più grande della mia età perché il sabato partivo in trasferta, al seguito della squadra, e tornavo a casa il lunedì. Per i miei compagni del Liceo G.B. Vico ero quasi un eroe visto che conoscevo personalmente i giocatori. Anche i professori chiudevano un occhio sulle mie assenze.

Dopo la maturità, si iscrive a Giurisprudenza e nel frattempo continua ad occuparsi di sport come giornalista.

Non avevo né agganci politici né conoscenze giornalistiche, e quindi ho dovuto fatto tanta gavetta. Ho collaborato con Il Tempo, con l’Unione Sarda, con Superbasket, con radio e tv locali, fino a quando, nel 1985, sono finalmente approdato al Mattino di Salerno e a Telecolore. Tre anni dopo, nel 1988, alla vigilia delle Olimpiadi di Seul, sono stato assunto alla sede di Napoli.

Il passaggio alla Rai avviene nel 1991.

E da allora non mi sono più mosso da lì.

Quali sono le esperienze che ricorda con più emozione?

Nella pallanuoto, il titolo mondiale vinto dal Setterosa a Perth, nel 1998. Nell’atletica il record mondiale di Carl Lewis sui 100 metri, ai mondiali di Tokyo del 1991. Nello sci, la vittoria olimpica di Tomba nel 1992. Nel calcio, il ricordo più indelebile è la finale degli Europei in Olanda, compresa la coda non proprio emozionante del pestaggio ai giornalisti della Rai da parte della polizia olandese.

Qual è il collega con il quale si trova più in sintonia?

Sicuramente Carlo Paris, un giornalista eccezionale, di grande sensibilità umana e che anche professionalmente sa andare al di là dello sport. E’ uno dei pochi che in questo mondo non si fa prendere dal delirio di onnipotenza.

Oggi come oggi il telespettatore da casa è bombardato dagli eventi sportivi. Le piace come si racconta adesso lo sport?

Non sempre. A me non piace il cotto e mangiato, e spesso il prodotto che si vede in tv è proprio quello, anche a causa dei ritmi incessanti con cui si lavora. Manca uno sforzo di scavo, di inchiesta, di approfondimento.

Per chi ama lo sport, è inevitabile parlare della crisi del calcio. Come se ne esce?

O passa la linea del “tutti colpevole, nessun colpevole”, oppure il calcio chiude per debiti. Le altre soluzioni, coma quella di far partire le squadre fallite da una categoria inferiore, non mi sembrano praticabili perché magari vanno incontro alle esigenze sociali, ma non rispondono certo al codice civile.

Il decreto salva-calcio escogitato dal Governo non poteva funzionare?

No, perché era ideato solo per salvare la baracca. Era un tipo di soluzione ibrida che avrebbe coperto molte responsabilità. Lo Stato non può prevedere l’assistenza alle squadre di calcio per sempre, “a babbo-morto”. Il calcio ha bisogno di una cura forte. Bisogna sanare sul serio le società, anche a costo di passare attraverso le procedure di fallimento.

Dal suo osservatorio privilegiato, come vede lo stato di salute del Napoli, della Salernitana e delle squadre della provincia.

Gli anni belli del Napoli, della Salernitana, della Cavese e della Nocerina, che veleggiavano tra serie A e serie B, sono finiti, sono ormai alle spalle. Le squadre campane, e più in generale quelle del Sud, versano in una situazione difficile e presentano pesanti problemi economici. Non sono ottimista.

Ha qualche proposta da avanzare?

Mi piacerebbe che si costituisse una squadra di calcio di Cava e dell’Agro, che cioè Nocera, Pagani e Cava unissero le loro forze per dare vita a un polo alternativo al Napoli e alla Salernitana. Le divisioni di un tempo non hanno più senso e, anche dal punto di vista economico, una società del genere sarebbe assai competitiva. Ecco, se questo sogno si realizzasse, sarei disposto anche a dare una mano.

Torna mai a Nocera?

Un po’ meno di una volta, perché purtroppo il Napoli e la Salernitana non sono più in serie A, ma quando sono a Napoli per la pallanuoto, ne approfitto per fare una capatina a Salerno o a Nocera ed andare a trovare gli amici. Poi ho casa al mare ad Ascea Marina e trascorro lì ogni momento libero: è il mio buen retiro, non solo d’estate.

Salerno e Nocera sono cambiate rispetto agli anni Ottanta?

Eccome! Salerno è diventata una città assolutamente deliziosa. La giunta De Luca ha effettuato un restyling intelligente, strutturale, armonioso. Basta vedere i vicoli del Porto o di via dei Mercanti... Il recupero del lungomare e della parte storica, che costituisce la memoria di Salerno, è stato realizzato con gusto estetico e con eleganza.

E Nocera?

E’ cambiata in modo radicale, correggendo fin dove era possibile le brutture del recente passato. Trovo che si è sulla strada giusta anche per quanto riguarda la lotta alla criminalità. La città non è più dominata dalla camorra, e questa è una vittoria di cui tutti noi dobbiamo essere orgogliosi. Apprezzo anche il clima di integrazione razziale che si respira a Nocera come a Salerno, di gran lunga migliore rispetto alle città del Centro-Nord.

Com’è Fabrizio Failla nel privato?

Una persona estroversa, che è felice di vivere perché ha realizzato il sogno di quand’era bambino ma che non si prende mai troppo sul serio. Lo sport occupa gran parte del mio tempo, ma quando posso, ascolto musica o vado al mare. Non amo le tecnologie. Piuttosto che passare ore davanti al computer, preferisco leggermi un bel libro.

L’ultimo libro che ha letto?

L’allenatore, di John Grisham, una storia di amicizia, di amore e di football.

Allora è una fissazione!

Eh, sì. Ho la fissa dello sport, che ci posso fare...

 

(pubblicato su “La Città” di Salerno nell’aprile 2004)

 

 

Scheda biografica

 

Fabrizio Failla è nato a Firenze l’8 maggio del 1961, ma ha vissuto fino all’età di trent’anni a Nocera Inferiore. Laureato in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Salerno, ha iniziato la sua carriera di giornalista ad appena 15 anni di età, nelle radio locali (Radio Nocera Amica e Radio Erta). Dopo le collaborazioni con Il Tempo, l’Unione Sarda e Superbasket, nel 1985 è entrato nella squadra di cronisti del Mattino di Salerno e di Telecolore. Nel 1988 è stato assunto da il Mattino, presso la sede centrale di Napoli, lavorando allo sport e alla cronaca nera. Nel 1991 è passato alla redazione sportiva della Rai. Da tredici anni segue gli eventi più importanti dello sport mondiale, dalle Olimpiadi ai mondiali di calcio, di sci, di pallanuoto e di atletica leggera. Nel 2002 Failla ha condotto la Domenica Sportiva con Massimo Caputi e Giacomo Bulgarelli. Attualmente è nel team dei giornalisti Rai al seguito della Nazionale italiana di calcio.

 

Intervista a Dante Boninfante, giocatore di pallavolo

di Mario Avagliano

 

Uno dei giocatori italiani di pallavolo più promettenti, è un giovanotto di Battipaglia di 26 anni. Si chiama Dante Boninfante, è alto 1 metro e 88, ha un pizzetto risorgimentale e i capelli lunghi, e gioca nel ruolo di alzatore. Cresciuto nelle giovanili della squadra di pallavolo di Battipaglia che negli anni Novanta colse il traguardo della A1, dal 2002 è nel giro della nazionale di volley, ed ha già vinto uno scudetto, una coppa dei campioni e svariate altre coppe in Italia e in Europa. Quest’anno la sua squadra, la Estense 4 Torri Ferrara, naviga in brutte acque (al momento è penultima in classifica della serie A1), ma lui è sempre tra i migliori per rendimento. Boninfante racconta a la Città la storia della sua carriera. E lancia un allarme: “Dopo gli anni d’oro della A1 e della A2, a Salerno e in provincia il volley rischia di sparire”.

Le sue origini sono di Battipaglia?

Sì, mio padre Antonio era direttore della Cassa Rurale Artigiana di Battipaglia; ora è in pensione. Mia madre Maria Grazia, casalinga, è anche lei di Battipaglia.

Quando ha iniziato a giocare a pallavolo?

Fin dai sette-otto anni di età sono praticamente cresciuto mangiando pane e pallavolo. E i miei primi insegnati, sono stati proprio i miei genitori. Mio padre, infatti, aveva fondato insieme ad un amico una società di pallavolo che arrivò fino alla serie C, rivestendo la carica di presidente e per un periodo anche di allenatore. Poi è stato segretario generale della grande squadra del Battipaglia Volley che è stata in serie A1. Mia madre, oltre a giocare, ha allenato una squadra femminile di pallavolo in serie C e D.

In che momento la pallavolo è diventata una cosa seria per lei?

Prestissimo. A nove anni ho cominciato a giocare nelle giovanili della Paif Italia Battipaglia. Allora era davvero una bella società, molto ben organizzata, un po’ come quelle del Nord. Non a caso raggiunse il traguardo della A1. Ebbene, nel 1991 ero titolare dell’Under 14, e con quella squadra vincemmo il campionato nazionale a Boario Terme. Erano gli anni del boom del volley italiano, grazie alla vittoria ai mondiali. Tutte le squadre di serie A erano a caccia di campioni in erba. Così ricevetti offerte dal Modena, dal Ravenna e dal Treviso. Non ancora quindicenne, feci le valigie e con il mio amico Cosimo Gallotta, che è di Oliveto Citra, mi trasferii in Veneto.

Come mai scelse Treviso?

La Sisley Treviso invitò la mia famiglia e quella di Cosimo a visitare le strutture sociali, il Centro Sportivo, gli alloggi dei giocatori. Ci innamorammo di Treviso e di come era organizzata la società, e così optammo per la Sisley. Non me ne sono mai pentito, e neppure Cosimo, visto che anche lui gioca in A1, a Parma. Mia moglie Marika è di Treviso, e abbiamo  casa lì.

A quattordici anni è dura lasciare i genitori, gli amici, la propria città…

Il primo periodo fu entusiasmante. Un po’ la novità della città, un po’ il fatto di essere lontani da casa e quindi più liberi da vincoli. Poi, però, cominciai a sentire la mancanza dei genitori e degli amici, ad avvertire tutta la difficoltà di dover affrontare da solo i problemi della scuola. Mi mancava l’affetto dei miei, il calore del Sud, anche il mare. Il clima del Nord è freddo: d’inverno - a differenza che a Battipaglia - fare una passeggiata è quasi impossibile, si vive chiusi in casa, e quindi quando veniva l’estate mi godevo due mesi nella mia città.

Tra il 94 e il ‘97 arrivano i primi successi.

Con la Sisley Treviso ho vinto i campionati nazionali Under 16, 18 e 20. Ma in una società così imbottita di campioni, conquistare la prima squadra era complicato. E così, per farmi le ossa, nella stagione 1997-1998 sono stato ceduto in prestito alla Com Cavi Multimedia Napoli, in A1.

L’anno dopo passa alla Caffè Motta Salerno, in A2, sempre con la formula del prestito.

Quella è stata un’esperienza bellissima per me. Giocare titolare in A2, ad appena vent’anni, mi ha fatto crescere molto. Era una squadra giovanissima, ricca di talenti. Per esempio c’era Simeonov, che ora è uno dei più forti attaccanti del campionato. Peccato che la società, che pure era organizzata bene, non avesse molto seguito in città. Così, ahimè, siamo retrocessi. D’altra parte era l’anno della Salernitana in serie A e tutta l’attenzione dei salernitani era rivolta al calcio.

Nel ’99 rientra a Treviso, in A1, e in due stagioni vince praticamente tutto.

In due anni vincemmo lo scudetto, la coppa Italia, la supercoppa europea e quella italiana. Ricordo in particolare la stagione 1999-2000. Il titolare nel ruolo di palleggiatore era Nicola Girbic, io ero secondo, ma quell’anno lui ebbe diversi problemi fisici, così io giocai moltissimo e mi tolsi parecchie soddisfazioni. La stagione successiva, invece, fu ingaggiato un grande campione come Fabio Vullo, e gli spazi per me si dimezzarono. Devo dire però che ho imparato tanto da lui, mi è servito per assimilare una grande esperienza visiva.

Nell’estate del 2001 viene acquistato dalla Yahoo Ferrara.

Volevo giocare da titolare e quindi la decisione di andare via da Treviso fu inevitabile. La società ferrarese e l’allenatore Prandi hanno scommesso su di me, e credo sia andata bene. Abbiamo raggiunto la semifinale dei play-off, il ct Anastasi mi ha convocato in nazionale e nel 2002 ho giocato la world league.

Quest’anno ci sono le Olimpiadi. Spera in una convocazione?

Francamente è poco probabile. L’attuale ct Gian Paolo Montali ha deciso di puntare sul gruppo che ha vinto gli europei. Comunque la speranza è l’ultima a morire, in agosto sono stato convocato agli allenamenti della nazionale e quindi non si sa mai…. E poi gli alzatori hanno una vita sportiva assai longeva, che dura quasi fino ai 40 anni di età, quindi ho ancora molte frecce nel mio arco.

Il fatto di militare in una squadra che è penultima in classifica non l’aiuta.

L’anno scorso abbiamo conquistato il 5° posto. Ora la squadra è completamente cambiata, dei “vecchi” siamo rimasti in tre. Speriamo di recuperare strada, il campionato è difficile ma è ancora lungo, e la società di Ferrara è solida.

Chi è il campione a cui si ispira?

Sicuramente Paolo Tofoli. Magari poter fare la sua carriera: ha vinto mondiali ed europei e a 37 anni sta ancora lottando per lo scudetto!

Intanto a settembre è convolato a nozze.

E ora io e Marika siamo in trepidante attesa di un bambino. Nascerà a giugno.

Com’è nel privato Dante Boninfante?

Sono un tipo molto tranquillo, forse anche troppo, e disponibile con tutti. Difetti? Sono un perfezionista e sono anche un po’ permaloso. Ho un cane labrador, adoro il cinema e i videogiochi, mi piace ascoltare i Pearl Jam e gli U2, e i miei piatti preferiti sono la carne alla griglia e le mozzarelle di bufala. Quando capito a Battipaglia, ne prendo sempre alcuni chili per me e per gli amici di Treviso e di Ferrara, che ne vanno matti.

Torna spesso a Battipaglia?

Ci sono stato durante le vacanze di Natale. La mia famiglia è tutta lì, i miei genitori, mio fratello Fabio e mia sorella Carmen, i miei zii, i miei cugini. Ho notato con piacere che negli ultimi anni la città è migliorata, sia sotto il profilo urbanistico sia per la qualità della vita che offre. Anche se, per un giovane, le opportunità di sfondare sono ancora inferiori rispetto al Nord.

Anche nello sport?

Purtroppo sì. E questo vale ancora di più per la pallavolo. La stagione d’oro di Salerno e Battipaglia nella serie A del volley è alle spalle, è finita. In provincia di Salerno la pallavolo continua solo grazie all’impegno e al sacrificio di pochi appassionati, senza sostegni né da parte degli imprenditori né delle istituzioni. Penso al gruppo di miei amici che ha costituito una società a Battipaglia che, partendo dalle promozioni, ora ha raggiunto la serie C. E’ chiaro che nel vuoto assoluto, non possono emergere nuovi talenti. Risultato? Io e Cosimo Gallotta siamo gli unici due salernitani che giocano in A1.

Dopo tanti anni al Nord, si sente ancora salernitano?

Sono orgoglioso di essere salernitano e meridionale. Le origini non si cancellano. La mia educazione e l’attaccamento alla famiglia sono valori importanti per me.

A proposito di Salerno, esprima un giudizio spassionato sui cambiamenti degli ultimi anni.

Salerno è cresciuta in modo straordinario e negli ultimi anni è stata abbellita tantissimo. Per organizzazione e qualità della vita, assomiglia ad alcune città del Nord. L’unico neo è lo stato di abbandono in cui versa la litoranea.

Parliamone.

La fascia costiera da Salerno a Battipaglia potrebbe essere sfruttata molto meglio. Se fosse ripulita e dotata di strutture adeguate, non avrebbe nulla da invidiare alla riviera romagnola e ne trarrebbe vantaggio tutta la città. E’ una zona dal potenziale elevato. Peccato!

 

(pubblicato su “La Città” di Salerno nel febbraio 2004)

 

 

 

 

Scheda biografica

 

Dante Boninfante nasce a Battipaglia (Sa) il 7 marzo del 1977. E’ alto 1.88 cm ed ha un peso forma di 90 chili. Ha iniziato a giocare pallavolo nelle giovanili della Battipaglia, come palleggiatore. Nel ’94 è stato ingaggiato dalla Sisley Treviso, dove ha fatto tutta la trafila delle giovanili, vincendo i campionati nazionali Under 16, Under 18 e Under 20. Ha debuttato in serie A1 nella stagione 1996-1997, nelle file della Sisley Treviso. L’anno dopo è andato in prestito alla Com Cavi Multimedia Napoli, sempre in A1. Nel 1998-1999 ha giocato come titolare nel Caffè Motta Salerno, in serie A2. Nel 1999 è rientrato alla Sisley Treviso e in due anni ha vinto una Supercoppa Europea (1999), una Coppa dei Campioni (2000), una Coppa Italia (2000), una Supercoppa Italiana (2000) e il suo primo Scudetto (2001). Dalla stagione 2001-2002 gioca come palleggiatore titolare a Ferrara, in serie A1. Con la squadra di Ferrara ha vinto una Supercoppa Italiana (2001) e l’anno scorso ha partecipato ai play-off. E’ entrato nel giro della nazionale A nel 2002. Con la nazionale B ha vinto la medaglia d’oro ai Giochi del Mediterraneo 2001.

Intervista a Elisabetta Barletta, fumettista

di Mario Avagliano

 

La giovane promessa del fumetto italiano è una salernitana dagli occhi scuri e il viso pulito. Si chiama Elisabetta Barletta, ha 27 anni, ed è la fidanzata del grande fumettaro Bruno Brindisi. Il 7 febbraio le edicole di tutta Italia metteranno in vendita il nuovo albo di John Doe, una sorte di Tom Cruise colpito dall’ingrato destino di essere il braccio destro della morte, che è stato interamente disegnato da lei. Intervistata da la Città, Elisabetta racconta che la sua passione per il disegno è nata sui banchi della scuola materna. E dopo il contratto con la casa editrice romana Eura, che pubblica anche le riviste Lanciostory e Skorpio, giura “di non fermarsi più”.

Lei è nata in Basilicata, ma vive dall’età di otto anni a Salerno.

Sì, mi sento salernitana. Ho frequentato la scuola media Quagliariello di Torrione, praticamente sotto casa, ed anche gli amici più cari sono della zona. Spesso ci incrociamo per strada e sembra che gli anni non siano passati dal momento che  sono stati degli anni molto divertenti per noi, il solo incontrarci ci mette di buon umore! Poi alle superiori ho cambiato zona, il Carmine, al liceo scientifico G. Da Procida, anni abbastanza movimentati (considerando anche l’età critica della crescita!). Qui i ricordi spaziano tra i compagni, i prof, le gite, le occupazioni, i cortei, gli scioperi ed il ritrovo in piazza S.Francesco…

Com'è nata la sua passione per il disegno e per il fumetto?

Ho iniziato a disegnare alla scuola materna, conservo ancora qualcosa che non si discosta molto dai disegni di adesso! Il disegno mi ha sempre accompagnata, ma anche se ho scoperto i fumetti in tenera età, mi ci sono dedicata completamente solo dopo la maturità scientifica.

Quali soggetti o personaggi disegnava da bambina?

Beh, copiavo i personaggi dei fumetti o dei cartoni animati (e questi sono tanti…ancora ricordo le sigle!). Al liceo, invece, mi dedicavo alle caricature dei prof. Ma poi ho smesso il giorno in cui è capitata tra le mani del professore di filosofia! E’ finita che me l’ha chiesta in regalo autografata…

Di quali fumetti era appassionata da adolescente?

Leggevo un po’ di tutto, come adesso: ovviamente John Doe, la rivista Skorpio, alcune testate bonelliane come Dylan Dog, Dampyr, Magico Vento, Napoleone, Gea, poi qualche albo americano (decido in base al disegnatore), la rivista Vertigo, anche qualcosa della Disney come Witch e Monster Allergy. Mi piace collezionare alcune serie cartonate… da bambina il Giornalino ed il Corriere dei Piccoli.

Dopo la maturità si è iscritta alla scuola internazionale di Comics di Roma. Che tipo di esperienza è stata?

L’ho frequentata per tre anni, facendo la pendolare dal ‘95 al ’98.  È stata sicuramente un’esperienza stancante ma molto stimolante. Ho conosciuto molti ragazzi che venivano da tutta Italia. La scuola in questi casi è importante soprattutto perché ti da’ la possibilità di confrontarti con altri ragazzi con la stessa passione.

Come ha vissuto il distacco da Salerno?

Non è stato un vero e proprio distacco, praticamente metà settimana ero a Roma e il resto a Salerno. L’aspetto negativo è stato di non poter vivere a pieno l’ambiente romano e l’allontanamento dai compagni di scuola di Salerno… Però ho molti ricordi legati ai viaggi in treno, facevo parte di un gruppo di pendolari. Era come una classe, ma con persone di età diversa!

Chi sono stati i suoi maestri?

Riguardo la mia formazione non ho dei riferimenti precisi, perché a fasi alterne sono stata affascinata da moltissimi disegnatori. I maestri dai quali ho imparato il metodo di lavoro sono principalmente gli esponenti della “scuola salernitana di fumetto”.

Quando ha esordito nel mondo dei fumetti?

Per un paio di anni mi sono dedicata ai concorsi di fumetti, ho realizzato disegni per magliette, adesivi, loghi, striscioni ed illustrazioni per libri di vario genere. L’esordio nei fumetti è recente… circa tre anni fa: ho pubblicato un paio di episodi fantasy per l’Edizioni Orione (una casa editrice di Torino), ed ho inchiostrato il n.1 della serie Laura Melies (edita dalle Edizioni Saviolo di Vercelli).

In che momento la carriera di fumettista è cominciata a diventare per lei una cosa seria?

Lo è sempre stata, nel senso che l’ho deciso e ho lavorato molto per realizzare il sogno. Diciamo che da circa un anno l’impegno è diventato costante e spero di non fermarmi mai!

Qual è il lavoro di cui va più fiera?

Sicuramente è il mio primo albo di John Doe, per una questione affettiva perché rappresenta il primo lavoro importante. Graficamente non posso rispondere perché se sono soddisfatta della mia tavola giornaliera il giorno dopo non lo sono più… ma questo è un male comune a quasi tutti i disegnatori!

Quali sono i personaggi che predilige?

Beh…sicuramente quelli che disegno, oltre John Doe, che è un tipo molto fascinoso dal momento che ha il volto di Tom Cruise, ci sono una serie di personaggi altrettanto importanti nella serie: Morte, Guerra, Fame, Pestilenza (i cavalieri dell’apocalisse per chi non conoscesse la storia), Tempo, ed altri comprimari molto ben caratterizzati.

Qual è l'autore di sceneggiature che preferisce?

Attualmente Brian Azzarello, in coppia col mio disegnatore preferito Eduardo Risso.

Se dovesse scegliere i tre mostri sacri del fumetto italiano...

Questa è facile, però mi allargo: Bruno Brindisi, Andrea Pazienza, Tanino Liberatore, Corrado Mastantuono, Mayo, Pasquale Frisenda… e ce ne sono ancora…

Qual è la sua tecnica di disegno?

E’ abbastanza semplice nel senso che lavoro molto sulle matite che tento di fare il più precise possibili e poi la china è poco più che un ripasso, aggiungo i neri pieni senza sfumature..mi piace molto il contrasto bianco nero netto.

E il suo metodo di lavoro?

Dunque, leggo tutta la sceneggiatura, faccio delle bozze in piccolo delle tavole, cerco materiale fotografico da riviste o internet, faccio gli studi dei personaggi se necessario, disegno la tavola a matita e poi inchiostro.

Conta il fatto di essere una donna nel mondo dei comics? Oppure il sesso non ha importanza?

Considerando che la stragrande maggioranza dei disegnatori sono uomini, il fatto di essere donna può avere dei vantaggi… per esempio gli editori sono meno feroci nel dirti “non va bene”! Nello staff di John Doe attualmente sono l’unica disegnatrice e mi sento un po’ la mascotte del gruppo, ed in effetti i miei colleghi hanno un tono sicuramente più gentile nei miei confronti… Un po’ mi dispiace, perché in fondo resto un maschiaccio!

Si parla di scuola salernitana dei fumetti. Esiste davvero e chi ne sono gli esponenti più interessanti?

Non esiste una scuola, diciamo che esiste un gruppo di disegnatori salernitani (cresciuti assieme confrontandosi) che hanno fatto scuola nel senso che hanno influenzato la nuova generazione di fumettari. Citerei Bruno Brindisi, Luigi Coppola, Roberto De Angelis, Luigi Siniscalchi, Raffaele Della Monica.

A parte lei, ci sono nuovi talenti emergenti?

C’è un giovane salernitano già emerso, Luca Raimondo, che collabora con la Bonelli per la testata Jonathan Steele.

Salerno negli ultimi anni è cambiata molto. In meglio o in peggio?

Di sicuro esteticamente è migliorata, per il resto ho notato più iniziative legate all’arte.

Ha mai disegnato Salerno nelle sue tavole? Ha progetti legati alla città?

No, non mi è mai capitato, ma mi piacerebbe. Perché no?

Si può vivere di fumetti?

Direi di sì, almeno io ci spero!

Oltre ai fumetti, che hobby o passioni coltiva?

Nel tempo libero mi piace viaggiare, andare in giro con gli amici, vado spessissimo al cinema. Ho anche praticato kick boxing, anche se ho dovuto smettere per mancanza di tempo. La mia vera passione sono però i Nativi Americani, leggo il più possibile sull’argomento e ogni tanto realizzo illustrazioni sul tema.

Come si lavora al fianco di Bruno Brindisi? Il rapporto di coppia è un vantaggio o uno svantaggio?

Molti affermano che non è un bene stare sempre in contatto, soprattutto nel lavoro, ma noi forse rappresentiamo l’eccezione. Dipenderà dal fatto che non lo consideriamo proprio un lavoro, siamo fortunati, facciamo quello che ci piace e ci divertiamo. I nostri tavoli sono divisi dallo stereo che è perennemente acceso, alterniamo ore di silenzio nelle quali siamo concentrati a disegnare a altre in cui cantiamo o ci prendiamo delle pause,per questo siamo attrezzati: tra macchina per il caffè, frigobar, videoregistratore, computer, play station e le visite degli amici…

Una curiosità: come vi siete conosciuti?

Ovviamente per lavoro, ma siamo legati sentimentalmente da poco più di due anni.

Che tipo è Bruno Brindisi, come carattere?

Direi che è proprio un bel tipo! È una persona estremamente interessante, curioso, gli piace informarsi in generale, è un piacere parlare con lui, è stimolante intellettualmente… ma ha anche qualche difettuccio. Ha dei modi brutali nel criticare i disegni, non potrebbe mai insegnare, la pazienza non è una sua dote!

Che sta facendo adesso Elisabetta Barletta? Lavori attuali, progetti...

Attualmente sto lavorando al numero 17 di John Doe, poi mi toccherà il numero 24 e poi altri progetti, che non rivelo per scaramanzia. In più sarò docente a Potenza per un corso di fumetto finanziato dalla provincia in collaborazione con la scuola italiana del fumetto di Napoli.

 

 (pubblicato su "La Città" di Salerno nel gennaio 2004)

 

Scheda biografica

 

Elisabetta Barletta nasce il 30 luglio del 1976  a Policoro ( PZ) , in Basilicata. Vive i primi anni dell’infanzia in Calabria per poi trasferirsi definitivamente a Salerno, nel 1984. Diplomatasi al liceo scientifico “Da Procida”, dal 1995 al 1998 frequenta la Scuola Internazionale di Comics di Roma. Entrata in contatto con alcuni esponenti della Scuola Salernitana di Fumetto, esordisce come fumettista con il n. 8 della prima serie di Ares per Ed. Orione, per cui disegna anche il n. 3 di "Klaus, il principe dei non Morti". Per Edizioni Saviolo inchiostra le matite di Daniele Statella nel n. 1 di "Laura Melies" . Il 7 febbraio uscirà in edicola il suo nuovo albo, il numero nove della serie John Doe, edito dalla casa editrice romana Eura (che pubblica anche le riviste Lanciostory e Skorpio).

 

Intervista a Enrico Pinto, oncologo

di Mario Avagliano

 

“L’istituzione della Facoltà di Medicina a Salerno non è più un sogno. Se il Ministro Moratti sbloccherà i fondi necessari, sarà cosa fatta”. A parlare è il professor Enrico Pinto, originario di Pisciotta, cresciuto e formatosi a Salerno, oncologo di fama internazionale, Direttore del Dipartimento di Chirurgia Generale e Oncologica e dell’Unità operativa di Chirurgia Oncologica del Policlinico di Siena, da sempre sostenitore della necessità di introdurre lo studio della medicina nell’ateneo salernitano. Figlio del senatore repubblicano Biagio Pinto, per cinque legislature parlamentare eletto nel Cilento, il professor Pinto è uno dei massimi esperti europei di cancro gastrico e, anche se vive dalla metà degli anni Sessanta lontano dalla sua città, ha forti legami con la sua terra.

Lei ha vissuto a Salerno fino ai 18 anni di età.

Sì. Ho fatto le medie e il liceo al Tasso e i miei ricordi sono legati a Piazza San Francesco, al lungomare, al Bar Nettuno. Alcuni amici di allora li frequento e li vedo tuttora. Penso a Pasquale Marangone, ordinario di ingegneria a Napoli, oppure a Gianfranco Baldi, già direttore del Banco di Napoli. Salerno negli anni Cinquanta e Sessanta era un po’ più tranquilla di adesso, ma egualmente bella. Io andavo al mare a Mercatello, al Lido Azzurro, oppure agli stabilimenti della zona del Porto.

Poi d’estate si trasferiva con la sua famiglia a Pisciotta...

La maggior parte della stagione estiva la passavamo tra Pisciotta e Palinuro. Quando ero ragazzo, Palinuro era un paese bellissimo. E’ cambiato in peggio.

Perché?

La fortuna e la rovina di Palinuro è stato il Club Méditerranée. E’ stata la fortuna di Palinuro perché l’ha lanciata economicamente. E’ stata la sua rovina perché ha distrutto molte sue bellezze. I francesi hanno fatto razzia dei reperti archeologici delle navi greche e romane antiche che erano sepolte nella baia. Ricordo per esempio com’era una volta la Grotta delle Ossa, una specie di montagna di ossa scalfite e disegnate dal mare. Ebbene, ora ne resta soltanto il nome. Le ossa sono state portate via dai turisti come souvenir. Anche dal punto di vista paesaggistico sono stati fatti danni rilevanti. La costa si è salvata, ma verso l’interno l’ambiente è stato in parte devastato, anche per colpa della costruzione della strada che porta da Palinuro a Camerota, che pure fu voluta da mio padre.

Anche Pisciotta è cambiata rispetto ai tempi della sua infanzia?

No, Pisciotta non è cambiata granché. Ha conservato la sua immagine, anche perché storicamente il pisciottano è geloso delle sue cose, non ha mai venduto niente.

Prima ha accennato a suo padre, il senatore Biagio Pinto. Com’era dal punto di vista umano?  

Apparentemente era assai burbero, in realtà era generoso, buono, benvoluto da tutti. Grazie a lui, ho avuto la fortuna di conoscere personaggi straordinari. Ricordo le serate romane con il ghota del giornalismo italiano, da Giovanni Spadolini ad Alberto Ronchey, che finivano immancabilmente con una cena da Fortunato al Pantheon. Ricordo le lunghe passeggiate con Spadolini, che amava raccontare barzellette e pretendeva che uno ridesse anche se non erano molto spiritose. Ricordo il rigore intellettuale e morale di un politico come Ugo La Malfa.

Che tipo di politico era suo padre?

Un politico vicino alla gente. Pensi che alla fine della sua carriera politica, dopo 5 legislature e venti anni da parlamentare, donò la casa dove sono nato al Comune di Pisciotta. E’ il Palazzo Marchesale, il più bello di Pisciotta: tutti lo conoscono come il Castello e dalle sue finestre si vede Palinuro e il golfo di Policastro. Peccato che sia un po’ abbandonato. Speriamo che il Comune mantenga le sue promesse e lo metta a disposizione dei cittadini, come voleva mio padre.

Condivideva le idee politiche di suo padre?

Sì, ero anche io repubblicano e laico. Tra l’altro devo a mio padre anche la scelta di fare medicina. Io volevo iscrivermi a giurisprudenza e magari diventare notaio. Fu lui a consigliarmi la facoltà di medicina e l’università di Siena.

Soffrì il distacco da Salerno?

All’inizio sì. Studiavo per tornare a casa. Poi pian piano Siena mi ha conquistato, anche perché ho conosciuto mia moglie Donata, che è senese.

Chi è stato il suo maestro?

Il caso ha voluto che fosse un salernitano, il professor Bernardino Rocco, originario di Tortorella, nell’entroterra di Sapri, a sua volta allievo del grande professor Gallone. Devo a lui la mia carriera universitaria, e devo ad un altro grosso docente, Piero Tosi, attuale presidente della Conferenza dei rettori, la nomina a professore ordinario e la direzione del Dipartimento di Chirurgia e dell’unità complessa di Chirurgia Oncologica di Siena.

Lei è anche impegnato sul fronte della ricerca.

Assieme al professor Corrado Cordiano di Verona, abbiamo costituito nel 1998 il Gruppo Italiano Ricerca Cancro Gastrico. Siena è una zona endemica per il cancro gastrico, così come Ferrara e Forlì. La ricerca genetica ci sta dando grosse soddisfazioni. Abbiamo creato una banca dati genetica tra le più importanti del mondo, che ci ha consentito di collaborare a progetti di ricerca internazionali di straordinaria rilevanza scientifica, come quello del professor Caldas dell’Università di Cambridge sulle mutazioni genetiche.

Molti suoi colleghi sostengono che in Italia si investe troppo poco in ricerca scientifica.

E’ vero, ci sono pochi fondi. Ma quel che è ancora più grave, è che questi fondi sono spesi male, senza alcun controllo. E’ necessaria e urgente una riforma in materia che faccia chiarezza sulla destinazione dei fondi e che regolamenti i controlli sulla ricerca.

A proposito di ricerca, Veronesi afferma che la vittoria dell’astensione al referendum sulla procreazione rischia di bloccare le sperimentazioni relative agli embrioni.

Io ritengo che la ricerca non si possa indirizzare o bloccare con un referendum. Non ci può riuscire neppure la Chiesa. Non vorrei però che in Italia si faccia la stessa fine del nucleare, e cioè che mentre noi siamo fermi e vietiamo la ricerca sugli embrioni, gli altri Paesi vadano avanti nei loro progetti.

Da oncologo affermato a livello internazionale, qual è il suo giudizio sui medici professionisti salernitani?

Conosco tanti professionisti salernitani bravissimi che lavorano fuori Salerno. I problemi della sanità salernitana non sono dovuti alla scarsa competenza dei medici ma alla carenza delle strutture e alla mancanza della facoltà universitaria di Medicina.

Nonostante la Schola Medica Salernitana...

La Schola Medica Salernitana oramai è diventata un ritornello. Bisogna passare dalle parole ai fatti. L’istituzione della facoltà di Medicina potrebbe dare una mano seria alla sanità a Salerno. Pensi che solo in Provincia di Salerno si spendono oltre 250 miliardi di vecchie lire per cure fatte fuori dalla regione.

Della facoltà di Medicina a Salerno se ne parla ormai da decenni.

Conosco bene la storia e ho seguito da vicino le vicissitudini di questa proposta. In passato erano i politici e l’ordine dei medici ad opporsi, ma negli anni recenti bisogna ammettere che è stato lo stesso vertice universitario salernitano ad impedire l’istituzione della facoltà, per questioni di interesse baronale. Ora però le cose sono cambiate. L’attuale rettore Pasquino mi sembra ben intenzionato. Ne abbiamo parlato a lungo. Sono stati attuati tutti i passaggi burocratici previsti dalla legge, compresa la delibera del senato accademico. Anche la Regione Campania è favorevole. Il pallino è nelle mani della Moratti, alla quale sono stati già richiesti i fondi aggiuntivi per attivare la facoltà.

E se la Moratti sblocca i fondi, che succede?

Salerno potrà tornare ad essere un centro nazionale e internazionale di medicina, come nell’antichità, e anche i cittadini salernitani ne trarranno benefici. Spero che il mio sogno si realizzi. Mi piacerebbe chiudere la carriera nella mia città...

 

(pubblicata su La Città di Salerno, giugno 2005)

 

 

Scheda biografica

 

Il professor Enrico Pinto è nato a Pisciotta il 31 maggio del 1945 ed è cresciuto a Salerno, dove ha frequentato le scuole elementari, medie e superiori. Si è laureato in Medicina preso l’Università degli studi di Siena. Nel 1970 è stato nominato Assistente Universitario Incaricato, presso la cattedra di Igiene, Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Siena, e nel 1972 Assistente Universitario Ordinario, presso la cattedra di Patologia Speciale Chirurgica e Propedeutica Clinica. Nel 1980 è stato incaricato Professore Associato di "Chirurgia Traumato­logica della Strada" presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia e nel 1993 Professore Associato di Chirurgia II. Nel 2004 è stato nominato Professore Ordinario presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia. Impegnato fin dal 1988 sul fronte della ricerca scientifica sul cancro, nel 1998 ha fondato il Gruppo Italiano Ricerca Cancro Gastrico, che ha nove protocolli di studio in corso. Attualmente è Direttore del Dipartimento di Chirurgia Generale e Oncologica e dell’Unità operativa di Chirurgia Oncologica del Policlinico di Siena. E’ autore di ben 255 pubblicazioni su riviste italiane ed internazionali.

 

On the Italian road. Intervista a Mario Avagliano (Prima Comunicazione)

di Daniela Scalise

Novant’anni sono un bel traguardo. Per Anas – l’Azienda nazionale autonoma per le strade da poche settimane integrata nel gruppo Ferrovie dello Stato, presieduta e diretta da Gianni Vittorio Armani – lo sono di sicuro. Al di là dell’ovvia ritualità che accompagna i compleanni con la seconda cifra zero, l’occasione per spiegare (ma anche spiegarsi) la funzione di un’azienda sopravvissuta al secolo breve e con ambizioni moderne sembra essere stata curata con molto impegno.

A pensarci è Mario Avagliano, cinquantaduenne giornalista e storico nato a Cava de’ Tirreni che, con precisione e risolutezza, vuole comunicare la realtà di uno degli elementi costitutivi del nostro Paese, quell’infrastruttura viaria che, come ricorda il claim della nuova campagna istituzionale, da novant’anni unisce l’Italia. Sarà forse perché Avagliano è un appassionato studioso e scrittore di storia, ma dietro a ogni mossa si intravede un pensiero riflessivo che interroga continuamente la cultura, la visione temporale e la funzione sociale della strada, simbolo di incontro e di scontro, luogo in cui scorrono tanto la storia ufficiale quanto le storie quotidiane di tutti noi, viaggiatori per diletto o pendolari per dovere.

Da giornalista, Avagliano ne ha viste molte di redazioni: da quella del Messaggero a quella del Mattino di Padova, dal Giornale di Sicilia all’Informazione di Mario Pendinelli. Presto si è appassionato di storia del Novecento ricavando da quella passione una sfilza di titoli, il primo dei quali – ‘Il partigiano Tevere’ – risvegliò l’interesse di un uomo schivo come Vittorio Foa che, cosa per lui inusuale, ci tenne a scriverne la prefazione. L’ultimo lavoro di Avagliano, firmato insieme a Marco Palmieri, è edito dal Mulino e ha per titolo una data cruciale: ‘1948’. Fu infatti in quell’anno che il nostro Paese scelse di appartenere al campo occidentale, fu in quell’anno che si sfiorò la guerra civile con l’attentato a Togliatti, fu in quell’anno che si assistette alla partecipazione massiccia al voto e soprattutto alla nascita di “un certo modo di fare politica: la contrapposizione di bene e male”, come spiega Avagliano, che ha anche un passato nei palazzi della politica, essendo stato nel comitato referendario di Mario Segni e poi chiamato da Ricardo Franco Levi all’ufficio stampa di Romano Prodi, allora presidente del Consiglio. In quella sede incontra il sottosegretario Enrico Micheli, “gentiluomo di altri tempi e figura centrale del governo, come sempre sono i sottosegretari”, che lo chiama a capo del suo ufficio stampa al ministero dei Lavori pubblici dove ‘incrocia’ il soggetto Anas. Sarà l’allora presidente, Giuseppe D’Angiolino, a portarselo in casa.

E così eccolo alla guida della comunicazione di un gigante delle infrastrutture che gestisce la progettazione e il controllo per le nuove opere stradali, segue gli interventi dalla fattibilità all’appalto per la realizzazione e si occupa anche della verifica post realizzazione.

Prima - Quest’anno Anas festeggia i suoi primi novant’an­ni e il suo ingresso in Ferrovie dello Stato dopo aver ot­tenuto tutti i crismi dell’Antitrust. E dire che fino a ieri strada e ferrovia sono state due parallele che non si incon­travano mai.

Mario Avagliano - È vero, si è trattato spesso di due mondi che non si sono parlati. Eppure pensi che una parte notevole della rete stradale e ferroviaria ha una vicinanza misurabile attorno al chilometro mentre per ben 10mila chilometri di rete la vicinanza si riduce fino a duecento, trecento metri di distanza.

Prima - Si sfiorano ignorandosi.

  1. Avagliano - Il che ha comportato aspetti negativi del­la mobilità, perché ci sono stati dei nodi logistici che, come ripete spesso il nostro Amministratore delegato Gianni Vittorio Armani, non essendo stati pianificati in modo coordinato non hanno i collegamenti stradali adeguati. Tanto per dirne due, pen­so all’aeroporto di Malpensa e alla stazione bellissima di Afragola. Ne consegue che pianificare le opere in modo più coerente è già un vantaggio enorme per il sistema Paese. Aggiungo: la nascita di una grande società che metta a fat­tor comune le varie modalità di trasporto rende possibile all’Italia di avere un player più competitivo a livello inter­nazionale e competere con aziende simili – e spesso più grandi – di Francia, Germania e altre nazioni europee.

Prima - Ci racconti quali sono i problemi reali e più im­minenti che dovrà affrontare questa integrazione.

  1. Avagliano - La mobilità, italiana e mondiale, ha come leitmotiv quello iscritto nel segno della sostenibilità am­bientale e sociale. Come può avvenire tutto questo? Da un lato pianificando i progetti, integrando, con una diversa distribuzione, le modalità di trasporto e dall’altro scommet­tendo sull’innovazione, sulla tecnologia e sul minor impat­to ambientale. Ma anche per la comunicazione l’integrazione può avere effetti molto positivi; infatti la collaborazione e il coordinamento con la Direzione Brand Strategy del Gruppo, guidata da Carlotta Ventura, stanno già stimolando e aiutando il nostro lavoro. Mettere insieme le esperienze, i know how, le competenze, le sperimentazioni tecnologiche significa anche far fare un passo in avanti sostanziale alla mobilità.

Prima - Mi faccia un esempio.

  1. Avagliano - Ad esempio, adottare per le strade le tecnologie che si utilizzano sulle ferrovie e prendendo a modello la Svezia dove vi sono corsie dedicate al trasporto elettrificato delle merci. Ma anche guardare alla frontiera della smart road, strade che dialogano con le autovetture, che possano in futuro favorire la guida autonoma e che nel frattempo incrementino il monitoraggio e il controllo sia del traffico e sia della infrastruttura.

Prima - Non dimentichiamoci che viviamo su un territo­rio dalla storia autenticamente antica. Appena fai una buca corri il ‘rischio’ di incappare in un prestigioso e intoccabile reperto archeologico che blocca tutto. In questi casi che fate?

  1. Avagliano - Fino a ieri l’archeologia era considerata un intralcio ai lavori, mentre in realtà Anas è uno dei prin­cipali archeologi d’Italia perché scava nel territorio e sco­pre straordinari reperti in un momento in cui l’archeologia ha pochissimi fondi e poche possibilità di fare scavi. Il pun­to è allora se considerare il ritrovamento di reperti storici una scocciatura o invece una possibilità per una azienda come Anas di offrire un contributo culturale.

Prima - Se così è, come agite in concreto?

  1. Avagliano - Abbiamo firmato un protocollo con il ministero dei Beni culturali per “arruolare” archeologi nei nostri cantieri che ci aiutino nel caso di scoperte e nella ge­stione delle medesime per trattare questi rinvenimenti nel miglior modo possibile. Dall’altro lato, per non continuare a lasciare questi reperti dimenticati in qualche magazzino, abbiamo dato vita a una collana con la casa editrice Rub­bettino sui ritrovamenti effettuati durante i lavori stradali. Abbiamo anche creato l’associazione Archeolog, una onlus che raccoglie fondi tramite l’art bonus, per poter restaurare questi reperti archeolo­gici.

Prima - Le celebrazioni del novantesimo compleanno sono anche un modo per leggere la storia sociale ed econo­mica.

  1. Avagliano - Il nostro tentativo è presentare l’oggetto strada come un vettore non solo del trasporto delle persone e delle merci ma come un luogo scenario della storia italia­na. Quindi tutto il percorso del novantesimo è un tentativo di raccontare quanto le strade siano fondamentali per la nostra vita, nel bene e nel male.

Prima - Che intende quando dice “nel bene e nel male”?

  1. Avagliano - Sulle strade sono fuggite le truppe naziste dopo l’avanzata degli Alleati e le strade sono state teatro delle imprese epiche di Coppi e Bartali e delle MilleMiglia, ma anche testimoni del tragico attentato a Giovanni Falcone, dell’omicidio del magistrato Rosario Livatino… Insomma, la strada è stata e continua a essere scenario, ma anche protagonista della storia italiana, e con il program­ma nel novantesimo cercheremo di raccontare esattamente questo.

Prima - In che modo?

  1. Avagliano - L’8 marzo, alla Triennale di Milano, pre­sentiamo alcune iniziative come ‘Congiunzioni’, un tour a tappe a bordo di un truck che partirà da Trieste ad aprile, attraverserà la penisola e la Sardegna e giungerà a Catania il 17 maggio, giorno in cui, nove decenni fa, venne pubblicato il decre­to di istituzione della Aass, l’azienda autonoma della strada stata­le e nostra antenata. L’obiettivo è quello di ‘congiungere’ la stra­da con altri mondi come quello della cultura, dell’architettura, dell’arte, dell’economia. Sempre in quell’occasione inaugureremo la mostra ‘Mi ricordo la strada’ e presenteremo il volume fotogra­fico realizzato insieme all’Ansa dal titolo ‘La strada racconta’.

Prima - Insomma, volete dare l’immagine della trasformazione delle rotte polverose e piene di sassi in autostrade.

  1. Avagliano - Lei lo sa chi ha inventato l’autostrada?

Prima - Gli americani?

  1. Avagliano - Nient’affatto! È stato un italiano. Un grandis­simo ingegnere, Piero Puricelli, conte di Lomnago, che nel 1924 pensò appunto a una strada solo per automobili senza carri, car­rozze, biciclette e pedoni e con tanto di pedaggio, che ripagasse la messa in opera e la gestione. Il concetto fu copiato da tutti e la parola tradotta alla lettera: highway o motorway in inglese, auto­route in francese, Autobahn in tedesco. Puricelli fu anche colui che propose di creare un’azienda preposta alla cura, alla manu­tenzione e alla gestione di tutta la rete stradale nazionale. Nacque così la Aass che in una decina di anni costruì la rete stradale mo­derna.

Prima - Come verrà organizzato il tour? E con quale missione?

  1. Avagliano - Ogni tappa coinciderà con l’apertura di uno spazio al pubblico, con la presenza di un pullman della Polizia di Stato e un mini villaggio dedicato all’educazione stradale. Ma sarà anche possibile accedere a una serie di contenuti, come il filmato che Rai Storia sta realizzando su Anas, un museo virtuale Anas (MuViAs) sul portale web, realizzato con il Cnr e con il contributo di tanti archivi come quello dell’Aci, delle Ferrovie dello Stato e di altri. A Catania, ultima tappa, stiamo or­ganizzando l’‘Innovations Day’ proprio per ricordare che Anas, en­trata nel gruppo Fs, è proiettata verso il futuro. Si tratterà di una fiera convegno concentrata sulle innovazioni, che non riguardano solo il mondo della strada ma il complesso delle infrastrutture.

Prima - Vedo che vi state muovendo anche sul piano editoriale.

  1. Avagliano - Dopo l’esperienza molto positiva della cam­pagna dell’autostrada del Mediterraneo con il testimonial Giancarlo Giannini e la guida allegata a La Repubblica, abbiamo pensato a una nuova guida – ‘Le strade del cuore’ – sugli itinerari più fascinosi raggiungibili attraverso le strade più paesaggistiche di Anas, dall’Amalfitana allo Stelvio.

Prima - Se capisco bene il raggio di azione della vostra comuni­cazione è vasto e comprende i diversi media: tv, stampa, cinema, fotografia, web.

  1. Avagliano - Oltre al documentario di Rai Storia, dove viene raccontato come, dall’inizio del Novecento a oggi, il nostro Paese si sia modernizzato e industrializzato anche attraverso video sto­rici e interviste a professionisti ed esperti, stiamo realizzando, in collaborazione con Sky Sport, ‘Le strade della passione’, sei pun­tate che andranno in onda sulla piattaforma Sky Sport Hd all’in­terno del magazine ‘Icarus 2.0’ dedicato a chi ama l’out­door. Questo per valorizzare le strade come le vie migliori per seguire la propria passione, il collegamento tra uomo e sport, tra mare e montagna.

Prima - Nel vostro menu leggo che avete intenzione di proseguire anche nell’impegno sul master di giornalismo ‘Connettere l’Italia’, che ha avuto già due appuntamenti: a metà novembre dello scorso anno e il 10 gennaio di questo a Roma.

  1. Avagliano - In collaborazione con il Centro di docu­mentazione giornalistica e con il patrocinio del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti abbiamo infatti organiz­zato ‘Connettere l’Italia’, un corso di specializzazione per i giornalisti. A marzo e a maggio affronteremo temi specifici ma essenziali, come il codice degli appalti e l’iter di appro­vazione di un’infrastruttura e, infine, il futuro della mobili­tà. Vede, io sono giornalista di formazione, e credo che nei giornali ci sia una forte attenzione al mondo della finanza e della Borsa, ma molto meno a quello degli investimenti in­frastrutturali, che pur incidono in maniera rilevante sul Pil e sulla competitività delle imprese e sulla vita dei cittadini.

Prima - Mi dia qualche numero tanto per averne una di­mensione tridimensionale.

  1. Avagliano - Intanto le annuncio una novità impor­tante avvenuta anche grazie all’ingresso in Fs e cioè che abbiamo un contratto di programma che per la prima volta è completamente finanziato.

Prima - Qual è la novità?

  1. Avagliano - Prima, pur avendo un piano quinquen­nale, lo avevamo finanziato solo per un anno, per cui ogni anno dovevi sperare nella conferma con le leggi di bilancio.

Prima - In soldoni?

  1. Avagliano - Il quinquennio finanziato – fra finanzia­mento del contratto di programma, finanziamento della legge di bilancio, investimenti in corso – ammonta a 33 mi­liardi di euro. Un orizzonte di programmazione importante che si tradurrà immediatamente in bandi e cantieri. Già l’anno scorso ci sia­mo impegnati nella progettazione di cantieri e opere crean­do occupazione e migliorando la viabilità. Si sta inoltre verificando un processo inverso al passato: alla fine degli anni novanta e all’inizio del duemila abbiamo assistito a un processo di federalismo stradale, di passaggio delle stra­de da Anas alle regioni. Quando Regioni e Province si sono rese conto che per alcuni itinerari sarebbe stato preferibile avere una società efficiente e strutturata per gestire le complessi­tà, a quel punto ad Anas sono tornate alcune migliaia di chilometri e dai 26mila che abbiamo ora, arriveremo presto ai 30mila. Si tratta di un processo molto importante che vede Anas partner di alcune regioni, come, ad esempio, la Lombardia nella nascita della società Lombardia Mobilità.

Prima - Qual è il rapporto tra voi e le regioni?

  1. Avagliano - In alcune regioni costituiremo società in cui noi siamo il partner tecnico che gestisce le strade, ne cura lo svi­luppo e la manutenzione, mentre la regione è partner istituzionale.

Prima - Il lavoro di comunicazione che lei guida richiede non solo una visione complessa, ma anche una struttura efficiente e ben oleata.

  1. Avagliano - Per quanto possibile, cerchiamo di sfruttare la nostra struttura di comunicazione, secondo gli indirizzi strategici del Gruppo FS. Ma, come è ovvio, non è pen­sabile né sarebbe sensato produrre tutto internamente. Abbiamo quindi aperto una gara per individuare una società che ci facesse da cabina di regia di tutte le attività del novantesimo. Gara che è stata vinta dalla società Alphaomega, che è il nostro consulente per tutte le attività del novantesimo.

Prima - Chi è il vostro responsabile di queste attività?

  1. Avagliano - La project manager del novantesimo è Laura Perna. Possiamo contare anche su gruppi di lavoro che si divi­dono vari aspetti: quelli logistici, gli eventi, le relazioni esterne e comunicazione interna, l’ufficio stampa, diretto da Lorenzo Falciai, l’editoria, il web.

Prima - La vostra campagna istituzionale ha come claim ‘Da 90 anni uniamo l’Italia’. Come è nata questa campagna, da chi è sta­ta lavorata e da chi è gestita?

  1. Avagliano - La società Alphaomega, in qualità di consulen­te, si è occupata di pianificazione e parte creativa. Dal punto di vista iconografico abbiamo scelto di veicolare il novantesimo con un logo che sia un po’ il leitmotiv dell’anniversario, per cui tutti i documenti ufficiali dell’azienda lo riportano perché rimanga nel­la memoria storica.

(Prima Comunicazione, Febbraio 2018)

 

 

 

A colloquio con Bentivegna: "Roma occupata scelse la Resistenza"

di Mario Avagliano

  Rosario Bentivegna, detto Sasà, classe 1922, l’anno della marcia su Roma, è da tutti conosciuto come il partigiano travestito da spazzino che il 23 marzo 1944 fece “esplodere una bomba” in via Rasella. Ma la sua vita è stata molto di più. Studente universitario antifascista negli ultimi anni del regime mussoliniano, combatté nel 1944-1945 nella Divisione partigiana Italiana Garibaldi in Jugoslavia e nel dopoguerra fu redattore de “l’Unità”, medico-legale dell’Inca-Cgil nelle vertenze a tutela della prevenzione della salute nei luoghi di lavoro, libero docente in Medicina del Lavoro alla Sapienza, fino all'impegno internazionale a fianco della Resistenza greca durante il “regime dei colonnelli” e alla lunga militanza nel Pci, che lasciò nel 1986.
Bentivegna, in un confronto serrato con la storica Michela Ponzani, ha ripercorso per la prima volta le tappe della sua vicenda umana e politica nel volume Senza fare di necessità virtù. Memorie di un antifascista (Einaudi, 422 pagine, euro 20), uscito oggi in libreria. Un’autobiografia appassionata, in cui affronta anche i nodi e gli aspetti più intimi e privati.

Da ragazzo lei era un “balilla” entusiasta e pensava che “il Duce ha sempre ragione”, com’era scritto sui muri in tutta Italia. Come è diventato antifascista?
Già quando avevo 13-14 anni ero colpito dalla corruzione e dal clientelismo del regime e dalle differenze sociali esistenti, per cui l’”amante” del portiere era considerata una puttana e l’”amica” del capo della polizia una gran dama. Quando scoppiò la guerra di Spagna, non capivo perché il fascismo, che era lo Stato, appoggiava l’insurrezione di Francisco Franco contro il legittimo Stato spagnolo. Anche la politica antisemita di Mussolini mi risultava incomprensibile. All’epoca frequentavo il liceo Vigilio, che si trovava al Ghetto, e avevo diversi compagni di scuola di religione ebraica, tutti bravi “balilla”. Ricordo che la mia famiglia frequentava  Renato Sacerdoti, allora presidente della Roma e grand commis della borsa romana, poiché mio zio Giulio Burali d’Arezzo era il suo avvocato. Poi, quand’ero liceale, un amico, Luciano Vella, commentando le schifezze della società, mi chiese se ero fascista. Io gli risposi: “Certo. Queste cose il duce non le sa”. In quel momento esatto, la lampadina mi si accese e capii che non ero più fascista. Successivamente approfondii la questione dal punto di vista storico e filosofico e assieme ad altri ragazzi e ragazze, fondammo il GUM, il gruppo di unificazione marxista, d’ispirazione trotskista. Eravamo tutti iscritti al Guf e al dopolavoro fascista. Usavamo il ciclostile del Guf per stampare il nostro bollettino quindicinale con gli scritti di Lenin e di Trotsky, che poi diffondevamo in zona Trionfale.
Settant'anni fa, il 20 settembre 1941, il suo primo arresto, a seguito di una manifestazione antifascista contro la guerra e dell’occupazione dell’Università di Roma. Un episodio ignorato dalla storiografia.
Quella mattina del 23 giugno 1941 la città universitaria di Roma fu invasa da 3-4mila giovani in divisa dei GUF e in camicia nera, fascisti e antifascisti, che protestavano contro la norma che aboliva il congedo militare provvisorio per gli studenti universitari in regola con gli esami e istituiva la loro chiamata alle armi come “volontari universitari”. Ad un certo punto noi studenti antifascisti, con l’aiuto di alcuni operai, lanciammo in mezzo alla folla manifestini e stelle filanti con su scritto  “Abbasso il Duce”, “No alla guerra”, “Viva la Pace”, “Abbasso la Germania”. Gli studenti fascisti, preoccupati dalla nostra iniziativa, si dissociarono e andarono in marcia verso Piazza Venezia per manifestare in favore della guerra, ma la Questura, pensando che fosse un corteo antifascista, pestò e arrestò alcuni di loro. I nostri colleghi fascisti tornarono in Università e noi li aiutammo a rifugiarsi nella cittadella, occupando l’Università e impedendo l’ingresso della polizia. Più tardi la Questura comprese il clamoroso errore e rilasciò gli arrestati. Il giorno dopo i giornali ignorarono la notizia. Nelle settimane successive, però, la polizia fece indagini a tappeto. Anche io fui arrestato il 20 settembre, con l’accusa di “manifestazioni di propaganda sovversiva”, anche se dopo pochi giorni mi rilasciarono con diffida di polizia.
Dopo l’8 settembre del ‘43, lei aderì al Pci ed entrò nella Resistenza, con lo pseudonimo di “Paolo”. I nazifascisti la temevano tanto che le misero una taglia sulla testa di un milione e ottocentocinquantamila lire: una somma gigantesca all’epoca. La rilevanza del movimento resistenziale romano è stata sempre un po’ sottovalutata dagli storici. E’ d’accordo?
Roma ha fatto veramente la resistenza. Purtroppo c’è stata sempre una riserva “leghista” nel valutare quel periodo, di antipatia nei confronti della capitale. Un po’ come è accaduto per la Repubblica romana del 1849. Invece i romani nei nove mesi di occupazione tedesca, tra il settembre del ’43 e il giugno del ’44, sono stati straordinari. Lo stesso Renzo De Felice, che non è certo uno storico di sinistra, ha riconosciuto che, dopo l’8 settembre, Roma è stata “l’unica città in cui si era tentata la resistenza armata contro i tedeschi”, con il coinvolgimento della popolazione, e che “fu la città con il maggior numero di renitenti” alle leve militari e del lavoro. A seguito dell’occupazione tedesca, le porte di tutta Roma si aprirono per nascondere i soldati italiani. Nel mio libro racconto numerosi episodi in cui noi gappisti fummo aiutati dai civili, soprattutto dalle donne. E fu importante anche la partecipazione dei sacerdoti e delle suore. Sono note le vicende di don Morosini e di don Pappagallo, uccisi dai tedeschi, ma nessuno cita mai Monsignor Benigno Migliorini, vescovo di Rieti, il quale scrisse una lettera pubblica di protesta contro i tedeschi e poi ordinò pubblicamente ai suoi diocesani di seppellire le salme dei civili assassinati sulle montagne della Sabina nell’aprile 1944, nonostante la minaccia nazista di condanna a morte per chi avesse osato inumare quelle povere salme.
Quando si parla di Resistenza romana, il riferimento a via Rasella è inevitabile.
Spesso mi viene da pensare che a quell’operazione io non avrei dovuto nemmeno prendere parte, perché quando l’obiettivo fu indicato da Giorgio Amendola, mi trovavo ancora a Centocelle, al comando di una formazione partigiana. Al mio ritorno a Roma, il comandante dei Gap Carlo Salinari propose me per l’azione. Oggi, per una strana ironia della sorte, sono rimasto il solo, tra tutti i compagni che vi parteciparono, a poterla raccontare. Non rinnego affatto quell’atto “di guerra”, anzi ne sono orgoglioso. Ritengo tuttavia che sia un grosso errore storico limitare la Resistenza romana a via Rasella, che non fu un’azione isolata. Dentro Roma occupata si nascondevano circa 18 mila uomini armati pronti a dare battaglia, di tutti gli orientamenti politici, dai comunisti ai monarchici, come il valoroso colonnello Montezemolo. Potrei citare un elenco infinito di attacchi che vennero condotti contro tedeschi o fascisti, di giorno, di sera, di notte, per strada, al cinema, all’osteria, ovunque se ne presentasse l’occasione. Applicammo alla lettera le direttive del Cln e degli Alleati: “Rendere impossibile la vita all’occupatore”.
Chi è oggi Rosario Bentivegna?
Sono ancora comunista perché credo nel superamento dello stato di cose presenti. Ma sono un comunista libertario, contro tutti i tiranni, contro tutti gli integralismi, anche quello dei comunisti. Nel ’56 ho condannato l’invasione in Ungheria e adesso sono contro la sharia, i kamikaze, i talebani. E  fin dal 1948 sono dalla parte d’Israele e ci sto ancora.
L’ex presidente Ciampi ha scritto un libro per dire che l’Italia “non è il Paese” che sognava. In Francia l’ex partigiano Hessel incita i giovani a ribellarsi, in nome degli ideali traditi della Resistenza. E lei?
Sono d’accordo con Ciampi. Soprattutto in riferimento agli ultimi dieci-quindici anni. Così male in questo Paese non mi ci sono mai sentito. Ma io sono contro le ribellioni. Non siamo ai tempi del nazifascismo. La ribellione è un fatto sentimentale. Ci vorrebbe una reazione collettiva di tipo politico, democratico, per restituire la parola al popolo. Ho sempre rifiutato la violenza nella politica. Per questo motivo negli anni Settanta fui minacciato dagli estremisti sia neri che rossi. Ai tempi delle Br, rifiutai la scorta e la Digos mi consigliò di prendere il porto d’armi e di girare con una pistola per difendermi. Ma io lo feci per pochi giorni: quell’affare in tasca mi pesava. Ho sempre pagato di persona la mia coerenza. E ho sempre creduto alla libertà e alla democrazia.
Nel periodo della Resistenza romana lei conobbe Carla Capponi, che poi avrebbe sposato. Nelle sue memorie racconta il primo bacio.
Fu la sera del 7 novembre 1943. Avevamo organizzato un’azione politica per celebrare la Rivoluzione d’Ottobre. Tappezzammo di vernice rossa il centro di Roma, da piazza del Popolo a piazza Venezia, compresa piazza Montecitorio, dove scrivemmo “W il Parlamento” e “Morte al fascismo”. Carla, con grande coraggio e prontezza, con il pennello tracciò una grande falce e martello anche su una camionetta tedesca. Tornandocene verso casa sua, entrammo nel portone e in quella strana atmosfera gioiosa la accompagnai alla porta e fu lì che, soli nella penombra, ci scambiammo il primo bacio.

(Il Messaggero, 24 settembre 2011)

Intervista a Renzo Gattegna: «Non è un gesto isolato, l'antisemitismo seme malato dell'Europa»

di Mario Avagliano

“L’antisemitismo è un virus che è duro a morire, anche in Italia. La strage di Tolosa deve farci riflettere”. L’avvocato Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, al termine di una giornata di sdegno, sbigottimento e dolore, non nasconde la sua preoccupazione.

Presidente Gattegna, qual è stata la sua prima reazione alle notizie provenienti da Tolosa?
Di orrore e sgomento. Una strage così non avveniva da molti anni in Europa. Purtroppo non è un caso isolato. Qualche giorno fa è stato scoperto a Milano un signore che stava pianificando un attentato alla sinagoga di via Guastalla. In entrambi i casi le indagini dovranno stabilire se si tratta di iniziative individuali o di organizzazioni terroristiche internazionali. Ovviamente non è un dettaglio trascurabile. A me che sono un ebreo romano, è tornato alla memoria l'attentato alla sinagoga di Roma del 1982, che ebbe ugualmente come obiettivo i bambini. A Tolosa c’è stata la stessa spietatezza verso vittime innocenti.
C'è un ritorno di fiamma dell’antisemitismo in Europa?
L’antisemitismo non è mai del tutto scomparso nel nostro continente. Nei primi anni del dopoguerra sembrava che vi fosse stato un generale rigetto delle teorie razziste di Hitler e di Mussolini, anche per l’orrore del genocidio. E invece quel seme malato continua ad infettare persone e gruppi.
Siete preoccupati?
Guardi, se una strage come quella di Tolosa è potuta accadere con tanta facilità e tanta efferatezza, significa che oramai tutta l’Europa è minacciata da gruppi e da individui che iniziano a colpire e ad uccidere gli appartenenti a minoranze, ma che evidentemente stanno progettando la distruzione della libertà, della democrazia e della pacifica convivenza.
Anche in Italia si moltiplicano i gruppi estremisti d'ispirazione fascista e antisemita. Come se lo spiega?
In Italia le leggi del 1938 volute dal fascismo inocularono un germe nuovo che il nostro Paese non conosceva fino ad allora: il razzismo genetico, rivolto contro il popolo ebraico. Nei secoli precedenti l’antisemitismo aveva radici religiose. Purtroppo il virus delle leggi razziali del 1938 è ancora presente ed è duro a morire. Il razzismo è qualcosa che cova in fondo all'animo di tante persone e che a un certo punto esplode ed esce allo scoperto, soprattutto in periodi difficili e destabilizzanti come quello attuale.
L’antisemitismo si alimenta anche dell’odio verso Israele?
Ahimé la risposta è sì. C’è chi artatamente cerca di sovrapporre antisemitismo e antisionismo e di dipingere gli israeliani di oggi con gli stessi stereotipi del passato. Una parte consistente degli antisemiti ha come obiettivo di porre in discussione la stessa legittimità dello Stato di Israele, basandosi su queste teorie razziste.
Come si fa a vaccinare la nostra società da questo germe? E quanto pesa il negazionismo della Shoah e il mito del fascismo buono?
Molto. L’ignoranza e il negazionismo sono l’humus in cui si sviluppano questi gruppuscoli, che nascono proprio dalla mancanza di cultura, dalla non conoscenza della storia e della filosofia. E quindi è su questo terreno che vanno combattuti, a partire dalle scuole. Ci stiamo allontanando dal periodo della seconda guerra mondiale e della Shoah e le nuove generazioni non hanno una conoscenza diretta di quello che ha potuto significare l'applicazione delle teorie razziste e antisemite, che sono state alla base del genocidio di milioni di ebrei. Siamo in un'epoca più a rischio di quella dei decenni precedenti, anche perché per ragioni anagrafiche i testimoni stanno scomparendo. C’è una collaborazione stretta con il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, con il quale abbiamo sottoscritto di recente un protocollo d’intesa per approfondire nell’ambito delle scuole italiane questo periodo storico.
Tornando alla strage di Tolosa, qual è l’auspicio dell’Unione delle comunità ebraiche italiane?
Intanto vorrei esprimere agli ebrei francesi la nostra fraterna vicinanza e condivisione del dolore. Poi ritengo sia urgente fare luce sull’identità e sui programmi di tutti coloro che in Francia come in Italia e nel resto d’Europa, seminando odio e compiendo gravissimi crimini nel totale disprezzo della vita umana, si pongono al di fuori di qualsiasi consenso civile.

(Il Mattino, 20 marzo 2012)

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