Le persecuzioni a Praga in un documento inedito del 1745

di Mario Avagliano

 

Le leggi razziali e la Shoah hanno purtroppo precedenti sanguinari nell’Europa cristiana. Anche prima del secolo buio, il Novecento, la storia degli ebrei nel vecchio continente è stata caratterizzata, com’è noto, da massacri, espulsioni di massa, discriminazioni, umiliazioni, violenze. A testimoniarlo è tra l’altro un eccezionale documento del 1745, inedito, inviato dalla comunità ebraica di Praga ai correligionari della comunità ebraica di Venezia, che è stato ritrovato di recente dal collezionista Gianfranco Moscati (frutto della donazione della signora Nidia Varadi e delle sue figlie) e che sarà versato al futuro Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara. (Pagine Ebraiche, n. 12, dicembre 2011, p. 36)

Il documento, scritto in ebraico, è una drammatica denuncia da parte della comunità di Praga (“Voce di tempesta da una città”) del massacro che avevano compiuto le truppe ungheresi a danno delle inermi popolazioni del ghetto, su ordine della regina Maria Teresa d’Austria. Un appello col quale gli ebrei praghesi chiedevano ai “fratelli” italiani aiuto e “compassione” e di far conoscere al mondo gli avvenimenti di quel terribile inverno del 1745.

“Il giorno 21 kislev u.s. (a metà dicembre del 1744, ndR) vennero schiere ungheresi – si legge nel documento-denuncia – e con loro migliaia di praghesi a cercare in ogni buco delle case ebraiche e persino nel mercato ci assalirono depredando i frutti delle nostre fatiche, rendendo deserti i nostri palazzi. Perirono molte persone tra cui Zaddikim famosi, migliaia furono torturati e percossi per costringerli ad indicare tesori nascosti; depredarono le cose sacre, profanarono la Santa Torah strappando i rotoli nell’Arca Santa, molti templi furono invasi e saccheggiati per cui molti degli esponenti della nostra comunità andarono nudi e pieni di vergogna. Poi venne il peggio. La regina ordinò di scacciare tutti gli Ebrei entro 6 mesi da tutto il territorio sotto la sua sovranità e ai membri della nostra città Praga fu intimato di abbandonare la città entro la fine di febbraio p.v.”.

“Da quel giorno – continua il documento degli ebrei di Praga - noi andiamo raminghi e non sappiamo quale sia il nostro asilo. E che faremo delle donne, dei bambini, dei vecchi ammalati e di tutta la gioia della nostra vita: i libri della Torah, i templi, le scuole, i cimiteri? Non abbiamo  scampo! Già sono state uccise 30 persone tra cui un grande insigne Rabbino e capo di Comunità; molti sono fuggiti abbandonando tutto! Inoltre non ci permettono di portare via con noi nemmeno i pochi mobili e ci hanno imposto di pagare 180.000 monete d’oro oltre che le altre varie imposte. Non ci hanno ascoltato quando abbiamo detto: intanto vi lasciamo tutto, perché ci volete privare di quel poco necessario per il nostro esilio?”.

L’appello finale è commovente: “Esiste un male maggiore al nostro, un dolore più grande? Ci siamo rivolti a destra e a sinistra: non c’è chi ci soccorre. Andiamo con le mani vuote, abbandonati e perseguitati da tutti perché le calunnie ci hanno attorniato di un odio insuperabile. Perciò, fratelli, abbiate voi compassione di noi per la gloria del Grande Nome Benedetto, e chiunque possa far qualcosa per la salvezza del popolo d’Iddio, lo faccia e Dio vi protegga e innalzi in cielo il vostro nome”.

All’epoca la comunità ebraica di Praga era composta da circa 13 mila persone (quasi il 30% dell'intera popolazione praghese), risultando la più grande comunità di ebrei Aschenaziti nel mondo e la seconda comunità ebraica in Europa dopo Salonicco. Negli anni dal 1597 al 1609 il rabbino capo di Praga era stato Judah Loew ben Bezalel, detto Maharal, grande studioso della Torah e figura eminente della storia ebraica, che secondo la leggenda, per proteggere gli ebrei del ghetto di Praga da attacchi antisemiti, aveva creato un essere vivente fatto di argilla, il Golem, utilizzando le sue conoscenze esoteriche riguardo alla creazione di Adamo.

L'espulsione degli ebrei da Praga venne decretata da Maria Teresa d'Austria con la pretestuosa motivazione dalla loro collaborazione con l'esercito prussiano di Federico II, che qualche anno prima aveva invaso la città, poi riconquistata dagli Asburgo. In realtà la persecuzione degli ebrei s’inquadrava nell’ambito dello spirito antisemita che aleggiava in Europa in quel periodo, alimentato anche dalla Chiesa cattolica, che aveva emanato vari editti che limitavano i diritti degli ebrei.

Il documento della collezione Moscati è interessante anche perché costituisce una prova ulteriore del sentimento di solidarietà che fin da allora legava gli ebrei in ogni parte del mondo. Esso infatti venne stampato a cura della comunità ebraica di Venezia con ogni probabilità per essere inviato a tutte le altre comunità italiane, come sembra attestare il terzo lato della lettera, riservato all’indirizzo della comunità ebraica di Correggio, dove la missiva giunse a mezzo posta. Il documento era accompagnato da una lettera (stampata sul retro) firmata da cinque autorevoli rabbini della comunità ebraica di Venezia (Iaakòv Levi, Ishale Foa, Iaakòv Caro, Ishak Uzziel e Moshè Merari), che inizia con questa frase: “E chi udendo tali sciagure i suoi occhi non lacrimino, il suo cuore non si strazi e la sua anima non agonizzi?”.

I cinque ebrei veneziani chiesero ai colleghi rabbini delle altre comunità una precisa “mizvà”: “di scuotere gli animi e svegliare i cuori rendendo noti tutti gli avvenimenti. Che ognuno estenda la mano generoso in aiuto di poveri sfortunati poiché il momento lo impone e il premio delle buone azioni sarà maggiore dal cielo. Ciò possa difenderli da ogni sciagura fino a che il Signore non li guidi verso sorgenti d’acqua e sia avverato lo scritto: ‘ E il mio popolo dimorerà in pace in luoghi sicuri e riposo florido’ e così sia”.

In aiuto degli ebrei praghesi si mobilitarono con una offensiva diplomatica anche  le comunità ebraiche di Olanda, Inghilterra, Danimarca, con interventi pubblici e appelli scritti all’imperatrice d’Austria, ma Maria Teresa non si fece impietosire. Tra febbraio e marzo del 1745 circa 13 mila ebrei furono costretti a lasciare Praga, trasferendosi in Germania o in Olanda e, chi sperava di tornare, in altre località della Cechia. Tra le mura del ghetto ebraico rimasero solo poche dozzine di ebrei anziani o ammalati e qualche donna incinta.

(Pagine Ebraiche, n. 12, dicembre 2011, p. 36)

Gli ebrei e Napoli un legame iniziato duemila anni fa

di Mario Avagliano

«Tu che vieni d’oltralpe a visitar l’Italia meridionale e Napoli, non limitarti al Museo Nazionale, a Pompei, ecc… le tracce del Ghetto di una volta sono ancora visibili. Il fuoco del Rinascimento giudaico, spento in Spagna, venne qui destato a nuova vita, qui venne stampato il primo libro in ebraico, qui visse e operò l’eminente personalità della vita spirituale ebraica, Don Jsak Abrabanel, qui la sua preziosa biblioteca divenne preda dei ladroni».

Così scriveva nel 1939 Ernst Munkácsi, ebreo svizzero, in un libro ormai introvabile, pubblicato a Zurigo col titolo, Der Jude von Neapel (L’Ebreo di Napoli). I monumenti storici e di storia dell’arte dell’ebraismo dell’Italia meridionale (Ed. “Die Liga”), di cui una copia fa parte della straordinaria collezione sull’ebraismo dello svizzero-napoletano Gianfranco Moscati, scomparso l’anno scorso, che ha fatto tradurre l’originale testo in tedesco dalla professoressa Fanny Dessau Steindler.

Il testo di Munkácsi, curiosamente pubblicato nel 1939 (primo anno di applicazione in Italia delle famigerate leggi razziali) costituisce un documento storico e un vademecum ancora oggi eccezionale sulle testimonianze architettoniche ebraiche presenti nella città più importante del Mezzogiorno italiano. Oltre che un implicito invito, anche ai contemporanei, a valorizzarle. All’epoca del viaggio di Munkácsi la comunità ebraica a Napoli contava circa un migliaio di unità, che si ridussero a poco più di 500 dopo il secondo conflitto mondiale, fino alle attuali 160.

La comunità ebraica di Napoli è tra le più antiche d’Italia. I primi insediamenti di ebrei nella città partenopea risalirebbero addirittura al I secolo d.C. Un’interessante lavoro di ricerca di Giancarlo Lacerenza, docente di lingua e letteratura ebraica all’Istituto Orientale di Napoli, dal titolo I quartieri ebraici di Napoli (Libreria Dante & Descartes, 2006), ha tracciato la storia della presenza in questa città degli ebrei, dislocati in particolare nel Vicus Iudaeorum all’Anticaglia, sull’altura di Monterone o di San Marcellino, e nelle zone di Forcella e di Portanova.

A darci ulteriori elementi contribuisce la cronaca di viaggio di Munkácsi, che ripercorre la storia degli ebrei nel cuore di Napoli.  «Da ricerche laboriose nelle biblioteche – scrive lo svizzero – si ricava che nel X sec. nella vicinanza del monastero di San Marcellino vivessero degli ebrei e si trovasse la loro casa di preghiera, cioè tra il Rettifilo e l’Università, nel Vico Duodecim Putea o Spoliamorte, che fu anche chiamato Vicus Iudeorum. Il vicoletto, esistente ancora oggi vicino a Donna Regina, quale vicolo Limoncello, proviene anch’esso da quell’epoca».

In effetti il Vicus Iudaeorum, nominato la prima volta in un documento del 1002, era un cardine dell’antica Neapolis. Esso collegava il decumano superiore alle mura settentrionali in prossimità di Porta San Gennaro. Lo studio di Lacerenza ipotizza che qui molto probabilmente sorgeva una sinagoga e potrebbero esservi stati ebrei già in età romana o tardoromana.

Il racconto di Munkácsi prosegue così: «Nel sec. XII sappiamo già di tre insediamenti di ebrei. Oltre al Vicus Iudeorum essi abitavano accanto alla Chiesa S. Maria Portanova, nelle cui vicinanze un documento menziona nel 1165 una Schola Hebreorum. La piazza davanti si chiamava fino alla fine dell’epoca sveva Piazza Sinoca, che potrebbe essere l’abbreviazione di sinagoga. Un altro documento menziona nel 1329 un Vico Sacannagiudei, che secondo alcuni potrebbe essere l’attuale vicolo Pace. Questo vicoletto si trova nelle immediate vicinanze della stazione, alla sinistra del Rettifilo, dietro il Duomo, nel cosiddetto quartiere Forcella».

Verso la fine del XV secolo gli ebrei si trasferirono nelle vicinanze di S. Maria Portanova, insediandosi in quattro vicoli denominati «Giudecca Grande, Giudecca Piccola, Vico Sinocia e Fondaco Giudeca». Inoltre «si costituì un altro quartiere ebraico vicino alla riva del mare che venne chiamato Giudichella del Porto».

Il tour di Munkácsi parte dalla visita della Giudecca di Portanova, che fu la più importante ed estesa delle giudecche napoletane. Gli ebrei vi impiantarono fin dal periodo svevo diverse attività connesse alla lavorazione ed al commercio dei tessuti.

«Se andiamo sul Rettifilo in direzione di Piazza Municipio e a destra dell’Università e della Borsa in un vicoletto, – scrive nel suo libro – arriviamo ad una piazzetta: la Piazza Portanova. A oriente di questa piazzetta si trova la chiesa S. Maria Portanova con la sua facciata barocca, nelle cui vicinanze si svolse la vita degli ebrei napoletani nel Medio Evo. Essa rimase dopo la loro cacciata la Chiesa dei Battezzati. L’esterno della Chiesa fa un’impressione decisamente barocca, ma di sotto si scoprono forme romaniche (…) La chiesa S. Maria Portanova non è soltanto una testimonianza in pietra di un antico quartiere giudeo, nel suo archivio si trovano documenti preziosi, che illustrano la topografia di questo insediamento. Specialmente il ‘libro dei morti’ offre alcuni dati in proposito. Da esso apprendiamo, che ancora nei secoli 17° e 18°, dunque secoli dopo la cacciata degli ebrei, i viali dei dintorni conservavano il loro ricordo. Troviamo così le seguenti denominazioni: Via Nova della Judeccha, Via Nova della Giodeca Grande, Anticaglia della Giodeca, Via S. Biase della Giodeca, Fundico di Portanova alla Giodeca, Giodeca della Salaria etc.»

Anche dell’antico quartiere ebraico di S. Maria Portanova sono rimaste tracce, continua la cronaca di Munkácsi. «Alcuni passi nei vicoletti che si snodano accanto alla chiesa e ci troviamo in pieno Medio Evo. File di case alte e strette, tipiche stradette del Ghetto, senza aria né luce, mura che si sgretolano, mura che cadono a pezzi (…) A pochi passi dal duomo si trova la Anticaglia (la stradina dei robivecchi), larga appena due metri, con case costruite a diritto e a sghimbescio come nel Medio Evo, e i resti della cinta di una fortezza. Accanto entriamo nel vicolo Limoncello, che una volta si chiamava Vicus Iudeaeorum, e dove per secoli c’era il mercato dei vestiti usati, un commercio, che come a Roma, era considerato tipico degli ebrei».

Nel suo tour Munkácsi individua tracce della presenza ebraica anche nelle vicinanze di Castel Capuano e di via dei Tribunali. «I dintorni di questo Castel Capuano avevano nel Medio Evo il nome di ‘Regione Forcella’ e, quanto dicono le fonti dell’epoca, vi si trovavano nel sec. XIV vicoli di ebrei. E guarda: miracolo! Questi si sono conservati fino ad oggi. Un vicolo laterale della via Tribunali è il vicolo Pace, una sede spesso menzionata degli ebrei medievali. Più volte vi sono passato. Case di cinque-sei piani, con scale, cortili e cortiletti pittoreschi (…) Il vicolo Pace sbocca in una viuzza più larga, direi moderna, il cui nome testimonia che gli ebrei vi hanno vissuto a lungo. È la via Giudecca. In questo vicolo le case vecchie hanno ceduto il posto a case nuove, ma il nome ha conservato la vecchia tradizione».

Dall’altra parte del Rettifilo, il cronista svizzero trova i resti della Giudichella di Porto. «Anche qui – osserva – quasi tutto è caduto per opera del piccone e qui è rimasto un vicoletto antico. All’incrocio c’è una Piazza ‘Largo Mandracchio’. Mandracchio non è che la forma napoletanizzata della parola ebraica ‘midrash’, casa di studio. Sembra che qui sorgesse l’antico ‘betìhamidrash’. Il ricordo della casa di studio degli ebrei cacciati sopravvive ancor oggi, dopo 400 anni, in una denominazione stradale a Napoli! Sentivo la forza della storia! Questa semplice targa stradale, il cui significato oggi più nessuno capisce, risveglia immagini, date e insegnamenti! Non basta saperne, dobbiamo andare sul luogo, perché il ‘genius loci’ ci riempia, ci insegni e ci entusiasmi».

La scoperta che più appassiona Munkácsi è però quella della Sinagoga che ospitò Jsak Abrabanel, il famoso pensatore, politico e filosofo, autore di importanti testi di commento alla Bibbia e padre di Leone Ebreo, desunta da una carta topografica del 1775 del principe Noja, conservata nell’Archivio di Stato della città. Alla fine del XV e al principio del XVI secolo il luogo di culto ebraico era locato nell’edificio che poi ospiterà la chiesa S. Caterina Spinacorona, in piazza Calara, non lontano dalla Giudecca di Portanova. Una individuazione che, peraltro, viene confermata anche dallo studio del professor Lacerenza.

Nel 1939, nonostante i rimaneggiamenti di epoca barocca «per togliere i caratteri di sinagoga», le tracce dell’antica destinazione sono ancora presenti. «Il cornicione della porta esterna di marmo – osserva Munkácsi – ha un carattere tipico rinascimentale, che non lascia dubbi, che essa rappresenti l’antica porta, anzi l’unica conservata dell’epoca sinagogale dell’edificio. (…) Tra la porta della parte anteriore e il vero e proprio ingresso sorgeva un’anticamera, come era l’uso nelle case di preghiera del tempo e come lo troviamo nelle ‘schole’ veneziane e di Padova nel tempo».

La sinagoga napoletana «aveva originariamente forma quadrata, davanti alla parete orientale con una piccola cupola. Alle tre pareti est, ovest e nord si estendeva la galleria del matroneo». Una caratteristica distingueva la sinagoga di Napoli da quelle dell’Italia centro-settentrionale: «l’ingresso si trovava direttamente dalla strada, come abbiamo osservato nella Chiesa di S. Anna di Trani, ma mai a Roma o nell’Italia del Nord. Sembra dunque che gli ebrei dell’Italia meridionale si sentissero più sicuri che i loro correligionari nel Nord».

Non era così. Nel 1541 Carlo V espulse gli ebrei dal regno di Napoli (vi ritorneranno solo due secoli dopo, richiamati dai Borbone). L’emozione per Munkácsi è forte. «Mi sedetti su una poltroncina di vimini e mi guardai attorno. Dunque questa era la sinagoga dei napoletani! Qui pregò Isacco Abrabanel! Qui si riunirono quella triste sera di autunno, prima di lasciare la loro patria e prender commiato dalla loro terra, in cui i loro padri avevano abitato dal tempo della distruzione del Santuario. E un quadro sorge dianzi a me, quando nel VI sec. gli ebrei difesero la città contro le orde di Belisario e fecero scorrere sangue per il mantenimento del dominio dei Germani. Tutto questo non servì a nulla. Invano essi erano i primi abitanti, invano avevano sacrificato alla città i beni e il sangue; nell’anno 1541 dovettero lasciare con i loro beni la loro terra, divenuta loro matrigna».

Parole scritte nel 1939, mentre in Italia e anche a Napoli il regime guidato da Benito Mussolini iniziava a perseguitare gli ebrei. Parole che suonavano come un ammonimento a non ripetere gli errori della storia. Un ammonimento che l’Italia fascista e dei Savoia avrebbe bellamente ignorato.

(una versione più sintetica è stata pubblicata su "Il Mattino" del 21 dicembre 2019)

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'1938. Diversi': ecco il documentario sulle leggi razziste contro gli ebrei

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 20/08/2018, a pag. 32, con il titolo "Quando l’Italia capì di essere razzista", la recensione di Natalia Aspesi.

Prima fuori concorso alla Mostra, poi su Sky Arte, "1938. Diversi" il film di Levi e Treves per non dimenticare la vergogna di quei tragici eventi Quell’anno, il 1938, segnò il tempo del massimo consenso per il Duce: chi si aspettava da lui il riscatto, il predominio, la felicità, riempiva le piazze, persino più dei salviniani di oggi. La minoranza altra si occultava, spaventata, colpevolizzata, ridicolizzata ancor più di adesso, e allora in pericolo di vita. In un clima di tale asservimento entusiasta, bastarono cinque mesi, da luglio a novembre, per dividere gli italiani di serie A di "razza ariana" (in realtà molto miscelata), da quelli di serie B, perché di "razza ebraica". «Sono impressionanti le immagini di Benito Mussolini che nella Trieste del 18 settembre (in agosto era stato pubblicato il "manifesto della razza", ndr) raggiunge il palco da cui instaura l’antisemitismo come un fondamento dell’ideologia di regime».

Lo dice Sergio Luzzatto, storico e saggista, nel documentario di Sky Arte 1938- Diversi (il 4 settembre in anteprima fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia). «Per ricordare, per sapere, per capire, per risvegliare l’interesse dei giovani con un linguaggio diretto», dice il regista Giorgio Treves. «Anche io ne sapevo poco. I miei genitori avevano lasciato l’Italia nel 1940 con l’ultima nave diretta negli Stati Uniti, io sono nato a New York nel 1945. Della vita familiare a Torino mio padre non parlava mai». Il produttore Roberto Levi c’era, nel 1938 aveva 4 anni, ma la sua famiglia riuscì a fuggire in Svizzera prima dell’invasione nazista e l’inizio delle deportazione nel novembre del 1943. La velocissima campagna antiebraica si conclude il 14 novembre ’38 in parlamento dove, ricorda la storica Liliana Picciotto, «l’approvazione di questi decreti-legge avviene in un’atmosfera di consenso furibondo a Mussolini. In pochi minuti si decise la sorte degli ebrei d’Italia». 80 anni fa, uno dei nostri tanti, tragici, vergognosi anniversari. Da un diario, letto dall’attore Roberto Herlitzka: «La maestra chiamò il mio nome, e disse, "Bassi esci dalla classe". Mi ritrovai nel grande cortile assolato della Diaz. Solo, e scoppiai a piangere».

Liliana Segre, senatrice e sopravvissuta ad Auschwitz: «Molto spesso venivano in casa i poliziotti, ci trattavano da nemici della patria, con un atteggiamento di disprezzo, rude, di sospetto, che mi dava vergogna e paura, soprattutto paura». Aldo Zargani, scrittore: «Mi accorsi di essere ebreo, che stava cominciando qualcosa di terribile, il giorno in cui mio padre fu licenziato dall’orchestra dell’Eiar e diventammo una famiglia miserabile». Poco a poco, studenti e insegnanti ebrei vengono allontanati da ogni ordine scolastico: vietati i testi di autori ebrei, via dagli impieghi pubblici, via dall’esercito, via dal partito fascista (anche quelli fascistissimi che avevano partecipato alla marcia su Roma e si erano iscritti ancora prima), proibiti i matrimoni misti, allevare piccioni, avere una cameriera cattolica, affittare le stanze ai non ebrei, poi anche andare al mare. Su certi negozi c’era il cartello "vietato agli ebrei" ricordano senza stupore Luciana Castellina, Picciotto e altri. La minoranza ebraica italiana (uno su mille) era molto integrata soprattutto da quando, nel 1848 lo Statuto di Carlo Alberto di Savoia — lo racconta lo storico Alberto Cavaglion — aveva concesso ogni diritto, compresa la fine dei ghetti, agli ebrei. Allora, si chiede il film, in che modo Mussolini, il fascismo, sono riusciti a "inoculare" negli italiani l’antisemitismo? Con l’incessante propaganda al cinema, alla radio, coi manifesti, con le parate, con le canzonette, con i giornali, con le esibizioni a torso nudo del Capo, persino con la moda e il lusso per i ricchi e la battaglia del grano per i contadini; tutti in divisa, adulti e bambini, libro e moschetto (adesso forse il moschetto, ma non il libro), con il martellamento sulla superiorità fisica e intellettuale degli italiani, anche se allora in parte analfabeti e stroncati dai lavori faticosi. Una festa continua, una festa nel 1935 con la guerra d’Etiopia, spiega lo storico Mario Avagliano, e il razzismo rancoroso contro i "negri", gli africani (che del resto è rimasto una bella eredità). Poi con la guerra di Spagna contro i comunisti, oggi molto dormienti, e Mussolini che dichiara: «Quando finirà la Spagna, inventerò qualcosa d’altro. Il carattere degli italiani si deve creare nel combattimento». E inventa gli ebrei. Il documentario rappresenta la nostra pericolosa acquiescenza e fiducia al capo decisionista, in un tempo in cui non esistevano né tweet né selfie. Sfatata per l’ennesima volta l’idea degli italiani brava gente, perché se ci fu chi nascose e aiutò gli amici ebrei, tanti approfittarono della loro persecuzione o stettero zitti, come molti intellettuali. Non Toscanini, però e neppure papa Pio XI: morì prima che la sua enciclica antirazzista potesse uscire, ma disse «L’antisemitismo è un movimento odioso con cui noi cristiani non dobbiamo aver nulla a che fare. Spiritualmente siamo tutti semiti». Hanno ragione gli autori a definire il film necessario perché «quegli eventi sia pure in modo diverso tornano a minacciare il nostro futuro. Abbiamo il dovere di mobilitarci e impedirlo». Con l’ultima immagine confusa di un carro bestiame verso il nulla, il doc si ferma sull’abisso del Dopo, per raccontare le responsabilità del Prima.

(pubblicato su informazionecorretta.com)

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#Venezia75 – 1938 Diversi, di Giorgio Treves

di Fabio Fulfaro

Oggi il mondo ci è precluso, siamo soli nello spazio che per noi è divenuto freddo e la sua ricca vastità ci è inaccessibile. Siamo terribilmente soli
Espulsi dall’ambiente, accettati nell’incertezza dei senza patria. Siamo soli come due ebrei soltanto possono essere soli.
Enzo Arian

Il 18 settembre 1938 a Trieste, facendosi largo tra due ali di folla in delirio, Benito Mussolini pronunciava uno dei suoi discorsi sulla inferiorità della razza ebraica e sulla necessità di mettere in atto provvedimenti che isolassero gli ebrei italiani in quanto “diversi”. Il 5 settembre e il 17 Novembre dello stesso anno venivano firmati due regi decreti che richiamavano gli odiosi comandamenti del Manifesto della Razza del precedente 14 Luglio: è la promulgazione delle leggi razziali e l’espulsione degli ebrei dalla vita pubblica.
A 80 anni da quell’infame periodo, Giorgio Treves e Luca Scivoletto con la produzione di Roberto e Carolina Levi per la Tangram Film, propongono un toccante documentario che alle interviste di diversi saggisti e storici alterna le dolorose testimonianze di chi quelle leggi le ha vissute sulla propria pelle. Attraverso il fuoco incrociato di racconti e documenti, si riesce a fare luce su uno dei momenti più oscuri della nostra storia. Uscito stremato dal primo conflitto mondiale, il popolo italiano sembra affascinato da una idea di nazione forte militarmente, cosciente della propria superiorità e desiderosa di espandersi in Africa (“libro e moschetto balilla perfetto”). Il colonialismo nostrano, che sfocia nella guerra di Etiopia, è caratterizzato da un razzismo e una intolleranza verso le persone di colore, giudicate inferiori. I discorsi populisti, le canzonette come Faccetta Nera, gli articoli tendenziosi sulla stampa e le vignette satiriche convergono tutte verso l’odio per l’africano, diventato pacco postale o merce di scambio, schiavo sessuale o manodopera da sfruttare. Finita vergognosamente la campagna coloniale africana, fallita miseramente la guerra di Spagna, Mussolini cambia obiettivo. E’ curioso pensare che prima del 1937, gli ebrei erano comunque rispettati per il loro sacrificio durante la I guerra mondiale e alcuni di loro aderivano con convinzione al Partito Nazionale Fascista. Per questioni meramente politiche (l’allineamento con il partito nazionalsocialista tedesco) proprio nel 1937 il Ministero della Cultura Popolare (MinCulPop) aveva organizzato attraverso la stampa, la radio e il mezzo cinematografico una campagna mediatica diffamatoria che discriminava gli ebrei, dipinti come vigliacchi, avidi di denaro, traditori della patria.

Treves fa analizzare le cause di questa follia ideologica attraverso le parole apparentemente asettiche di studiosi ed esperti come Mario Avagliano, Sergio Luzzatto, Liliana Picciotto, Alberto Cavaglion, Luciana Castellina, Michele Sarfatti, Marcello Pezzetti, Edoardo Novelli, Walter Veltroni. I devastanti effetti li ascoltiamo attraverso i terribili ricordi di Rosetta Loy, di Alessandro Treves, di Roberto Bassi, di Bruno e Liliana Segre: le umiliazioni a scuola, l’isolamento dalla vita civile, le fughe precipitose in America o in Svizzera, la deportazione ad Auschwitz da quel maledetto binario 12 della Stazione Centrale di Milano.
Quando il discorso tende a farsi più personale, Treves saggiamente inserisce delle animazioni che fanno da filtro a questo materiale emozionale. Mantenere vivo il ricordo significa prevenire quello che Umberto Eco chiama l’eterno ritorno del fascismo, pronto a manifestarsi quando alla regressione economica si associa una rapida involuzione culturale. Scorre più di un brivido lungo la schiena mentre Roberto Herlitzka declama le parole di Enzo Arian o quando Liliana Segre parla di una linea nera continua che parte dalla firma di Vittorio Emanuele (il regio decreto sui Provvedimenti per la razza italiana) e si ingrossa sui binari di un treno per l’inferno.
Giorgio Treves non si limita a narrare i fatti ma propone una via per risorgere dalle ceneri di questo passato ignobile: dei ragazzi fuori dalla scuola ridono e parlano spensieratamente, forse è da loro che bisogna ripartire, perché le nuove generazioni non possono non sapere. Queste immagini e questa sofferenza devono servire a futura memoria, se la memoria ha un futuro.

(pubblicato su sentieriselvaggi.it)

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“1938. Diversi” di Giorgio Treves è tra i vincitori dei Nastri d’Argento per i Documentari 2019

Il film documentario “1938. Diversi” di Giorgio Treves è stato premiato durante la cerimonia di consegna dei Nastri d'Argento per i Documentari 2019 come "Miglior Documentario - Cinema del reale".

Prodotto da 
Tangram Film in collaborazione con Sky ArteMibactAB Groupee AAMOD, e con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte - Piemonte Doc Film Fund, “1938. Diversi” mostra come articoli, vignette, fumetti e filmati contribuirono a trasformare, in pochi mesi, gli ebrei dapprima in "diversi" e poi in nemici della nazione. La voce di alcuni testimoni diretti, la ricostruzione di episodi realmente accaduti e il contributo di importanti studiosi di storia (tra cui Mario Avagliano, Michele Sarfatti, Sergio Luzzatto e Alberto Cavaglion) aiutano a comprendere il ruolo decisivo che i mezzi di comunicazione di massa ebbero in una delle vicende più tragiche dell'umanità.

Nastri d'Argento sono l’iniziativa più importante nel calendario delle manifestazioni organizzate dal Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani
Riconosciuti dal 
MiBACT Premio di Interesse Culturale Nazionale, sono il più antico riconoscimento per il cinema italiano, secondi nel mondo, per ‘anzianità’, solo agli Academy Awards: i giornalisti cinematografici iscritti al SNGCI li assegnano infatti dal 1946, attraverso un voto con scrutinio notarile, che premia ogni anno i migliori film, autori, interpreti, produttori e tecnici.

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Storie – La menorah di Fiuggi

di Mario Avagliano

   Fiuggi riscopre la sua anima ebraica. Il recente ritrovamento, lo scorso 25 luglio 2012, in via del Macello, a ridosso del Ghetto ebraico di Anticoli (l’antico nome della cittadina laziale, famosa per le sue terme), di una pietra incisa raffigurante una menorah, dovuto ai ricercatori della “Biblioteca della Shoah – Il Novecento e le sue Storie”, istituita a Fiuggi dallo storico Pino Pelloni, ha confermato dal punto di vista storico la presenza in loco di una fiorente comunità ebraica. L’incisione è di fattura catalana, il che fa ipotizzare la sua datazione alla fine del XV secolo.

L’antico Ghetto di Anticoli, denominato più propriamente la Casa degli Ebrei dallo storico Angelo Sacchetti Sassetti, autore di un saggio intitolato Storia di Alatri, si estende nel secolo XII in maniera circoscritta tra via della Portella e via del Macello, occupando nei secoli XV  e XVI anche gli insediamenti compresi tra via della Piazza e via Giordano.
Oggi di quel quartiere sono visibili la Menorah di via del Macello; il Mercato, posto dinanzi la chiesa di San Pietro costruita nel 1617; il Portico e la Corte ebraica in via della Portella; un Forno in via del Macello dove sono stati rinvenuti attrezzi in ferro per la lavorazione del vetro. Nel sottoportico della parte bassa di via della Portella  è stata ipotizzata la presenza di una Sinagoga (con il ritrovamento di due vasche rituali) e  di una sala adibita a scrittura e probabilmente a banco di prestito.
I primi documenti storici che parlano di un insediamento ebraico in Anticoli risalgono al 1183 e tracce della presenza degli ebrei in città si ritrovano anche nei secoli successivi. Poi nel 1555 Paolo IV, al secolo Giovanni Pietro Carafa, emanò la bolla Cum nimis absurdum che creava il Ghetto di Roma e prevedeva una serie di restrizioni per gli ebrei, costringendo anche molti di quelli residenti ad Anticoli a fuggire verso sud, nel Regno di Napoli.
Attraverso carte conservate nell’archivio privato di don Celeste Ludovici, lo storico Pelloni e i suoi collaboratori hanno ricostruito l’aiuto dato alla fine del XVI secolo dagli ebrei di Anticoli alla popolazione e alla Chiesa Anticolana durante i periodi di carestia. La solidarietà della comunità ebraica verso gli anticolani  si manifestò anche durante i terremoti del 12 marzo 1617 e del 24 luglio 1654.
Di contro, a seguito delle leggi razziali fasciste del 1938 e soprattutto dopo la razzia nel Ghetto di Roma del 16 ottobre del 1943, numerose famiglie di ebrei romani  trovarono rifugio ed ospitalità presso famiglie anticolane e dei vicini paesi di Acuto e Trivigliano.
Il rapporto tra Fiuggi e l’ebraismo negli ultimi anni si sta consolidando, grazie all’estro e alla competenza di Pino Pelloni e alla sua attivissima Biblioteca della Shoah, che promuove convegni, incontri e ricerche storiche, spesso aventi ad oggetto la cultura ebraica.
Il 2 settembre anche Fiuggi ha partecipato, insieme a 64 città italiane, alla XIII Giornata Europea della Cultura Ebraica. Molte persone hanno visitato la menorah di via del Macello ed un pubblico attento e curioso ha seguito l'incontro svoltosi nel pomeriggio presso il giardino del Bar Due P, dedicato all'Umorismo Ebraico.
Sempre su iniziativa della Biblioteca della Shoah, ogni venerdì pomeriggio, fino ad ottobre, sono organizzate visite guidate al Ghetto di Anticoli, con l’accensione dei lumi di Shabbat e la degustazione di vino rosso e dolci ebraici. Un modo per riavvicinarsi all’ebraismo.

(L’Unione Informa, 11 settembre 2012)

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Memoria, la Provincia di Roma ricostruisce con documenti inediti le storie dei bambini deportati da Roma ad Auschwitz

di Marco Pasqua

  Rosanna Calò non aveva ancora compiuto tre anni, quando i nazisti rastrellarono il Ghetto di Roma. Era nata il 18 agosto del 1941, ed era la figlia di Eugenio Calò e Ada Spizzichino. Quando, all'alba del 16 ottobre del 1943, i soldati tedeschi, liste di famiglie ebree alla mano, fecero partire una spietata "caccia all'uomo", Rosanna venne arrestata. Fu deportata ad Auschwitz due giorni dopo. Il 23 ottobre, all'arrivo nel campo di sterminio, in Polonia, è stata assassinata.

La sua storia è quella delle centinaia di bambini ebrei romani deportati nei campi di sterminio nazista. Una tragedia poco conosciuta. A raccontarla, per la prima volta, è la Provincia di Roma che ricostruisce le loro storie attraverso gli archivi dell’International Tracing Service di Bad Arolsen, in Germania. Un database che documenta il destino di milioni di persone deportate dalla macchina del terrore nazista da tutta Europa. Le ricerche saranno consegnate alla comunità ebraica di Roma domani, 16 ottobre, nel 69mo anniversario della deportazione del Ghetto, come spiega il presidente della Provincia, Nicola Zingaretti. Si tratta di stralci di lettere in un archivio che coinvolge milioni di persone, fatto di storie individuali, spostamenti di famiglie, modifiche di confini e appartenenze; ricerche che hanno investito gli anni della ricostruzione nell’Europa distrutta dal secondo conflitto mondiale.
La ricerca di Rosanna Calò venne avviata su richiesta del padre, scampato alla deportazione. La madre, invece, morì in data e luogo ignoti dopo essere stata anch’essa deportata da Roma ad Auschwitz il 18 ottobre 1943. Il dossier archivistico di Rossana, fanno notare gli esperti della Provincia impegnati in questo lavoro sulla Memoria, è composto da trentadue pagine. Tra questi reperti, figura una comunicazione del Ministero dell’Interno italiano (direzione generale dell’assistenza pubblica) all’International Tracing Service (Child Search Branch 154 U.S. Army – Germany), datata 4 settembre 1950: “In esito al foglietto suindicato si comunica qui di seguito i dati relativi alla bambina nominata in oggetto, dispersa dal 1943. Calò Rosanna di Eugenio, nata a Roma il 18.6.1941, catturata a Roma il 16.10.1943 per motivi razziali, insieme alla mamma – Spizzichino Ada in Calò – risulta da tale data dispersa. La signora Spizzichino Settimia, sorella della mamma, che è stata la sola a tornare, ha dichiarato di aver lasciato entrambe (perché forzatamente separate) nel campo di Auschwitz il 25.10.1943. Il padre, Calò Eugenio, che ne richiede notizie, risiede a Roma, Via della Reginella 22. Si resta in attesa di conoscere l’esito delle indagine”.
“Il prossimo 16 ottobre, nel 69mo anniversario della deportazione del Ghetto, riconsegneremo alla comunità ebraica di Roma la documentazione relativa alle ricerche compiute dalle famiglie e dalle autorità religiose e civili italiane per rintracciare – dopo la fine della guerra - le centinaia di bambini ebrei romani deportati dai nazisti durante l’occupazione della Capitale e mai più tornati a casa – spiega il presidente della Provincia, Nicola Zingaretti - Fotografie, lettere e corrispondenze rinvenute dai responsabili del Progetto Storia e Memoria della Provincia di Roma presso gli archivi dell’International Tracing Service di Bad Arolsen, in Germania: un’istituzione della Croce Rossa Internazionale nata pochi mesi dopo la fine della guerra per cercare di ricostruire il destino di milioni di persone deportate dalla macchina del terrore nazista da tutta Europa”.
“Questa documentazione, sostanzialmente inedita, ci consente di ripercorrere, a distanza di decenni, la dolorosa e frustrante ricerca che i superstiti della Shoah, sfuggiti alle deportazioni o, in rarissimi casi, ritornati incolumi a casa, hanno compiuto, dopo la fine della guerra, nella speranza di rinvenire notizie dei propri bambini, le vittime più giovani della tragedia del 16 ottobre 1943 – sottolinea il presidente della Provincia - Ora, per la prima volta dall’apertura al pubblico degli archivi nel 2006, una parte decisiva di questo materiale viene raccolto, pubblicato in volume, restituito alle famiglie e alla nostra città”.
Questo, fa notare Zingaretti, “non è l’esito di una semplice inchiesta storica, né si tratta di un gesto simbolico. Ciascuna delle immagini, dei nomi, delle schede relative a quelle centinaia di bambini romani, spesso scomparsi insieme ai loro parenti più cari, rappresenta una riaffermazione di identità, di individualità, di legami umani che la barbarie nazista non è riuscita ad annullare e a cancellare e che, attraverso il tempo, giunge fino a noi”. “È, dunque, un atto di testimonianza e di responsabilità civile, raccogliere ora questo inestimabile tesoro della memoria, conservarlo e tramandarlo come un monito di verità e di umanità contro ogni forma di oblio e contro ogni tentativo di negare le nostre radici o di riscrivere il nostro passato”, conclude Zingaretti.
Sempre domani, intanto, la Fondazione Cdec (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) consegnerà a Gerusalemme all’istituto Yad Vashem i nomi delle vittime italiane della Shoah, perché siano incluse nel Central Data Base of the Shoah Victims su web. La consegna avverrà con una cerimonia alla quale prenderanno parte l’ex rabbino capo d’Israele, Meir Lau, l’ambasciatore d’Italia in Israele, Francesco Talò, autorità locali. Per il CDEC saranno presenti il Presidente, Professor Giorgio Sacerdoti, e la storica Liliana Picciotto.

(L'Huffington Post, 15 ottobre 2012)

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Storie - Ferramonti di Tarsia e la Memoria stile agriturismo

  di Mario Avagliano

   C’era una volta il campo di Ferramonti di Tarsia. Il più grande campo d’internamento italiano realizzato dal regime fascista, destinato in particolare agli ebrei stranieri (vi furono rinchiusi anche gli ebrei del famoso battello fluviale Pentcho), che fu inaugurato il 20 giugno 1940 e fu liberato dagli inglesi nel settembre 1943. Ora la storia e la memoria di quel campo rischiano di essere stravolte. La Fondazione Museo Internazionale della Memoria Ferramonti di Tarsia, diretta dall’avvocato Franco  Panebianco, ex sindaco di Tarsia, a cui è stata affidata la gestione della struttura (estromettendo l’omonima Fondazione Ferramonti guidata dallo storico Spartaco Capogreco, tra i primi in Italia ad occuparsi dei campi di internamento fascisti), sta in pratica procedendo a una de-ebraizzazione di quella vicenda storica.

Basta visitare il sito internet del “MuViF – Museo Virtuale Ferramonti” (http://www.museoferramonti.it) ed esaminare la sezione dei documenti: a parte qualche documento relativo agli ebrei, il resto sono tutte immagini o documenti di antifascisti italiani. Stessa cosa si può rilevare per quanto riguarda la sezione dei protagonisti del campo, che dedica un enorme spazio agli “antifascisti”, con le loro foto e le biografie, mentre per gli “ebrei stranieri” è presente solo un elenco di nomi.
L’impressione è che si tenti di far passare Ferramonti più come un campo antifascista che di reclusione di ebrei. In realtà, lo sparuto gruppo di antifascisti italiani che venne portato a Ferramonti da Manfredonia giunse lì solo tra il 5 e il 16 giugno 1943 (come risulta anche dai documenti citati in Ferramonti, un lager di Mussolini di Francesco Folino), poco prima che il campo chiudesse per sempre, e non nel 1941, come indicato nel sito della Fondazione.
Gli antifascisti rimasero internati a Ferramonti solo per pochi mesi, poiché nel frattempo il 25 luglio Mussolini veniva arrestato su ordine del re.
Insomma, la storia di Ferramonti è legata molto più agli ebrei che agli antifascisti, sia per la durata della loro permanenza in quel campo sia dal punto di vista numerico (gli ebrei furono circa 1.500, su un totale di 2mila internati, tra cui figuravano poi anche jugoslavi, greci e cinesi).
Nella comunità degli storici (vedi Mario Rende e Anna Pizzuti) e nel mondo della cultura e del giornalismo calabrese sono state sollevate forti perplessità sulle modalità di gestione del Museo. Chi visita le sale espositive (lo si può fare anche virtualmente, sul sito internet), può verificare di persona che l’allestimento del Museo, a parte qualche teca con oggetti degli internati, prevede solo numerose foto appese alla rinfusa sui muri, con didascalie scarne e senza un ordine filologico o cronologico. È sorta una polemica pure per l’indebito utilizzo del database sugli internati realizzato dalla studiosa Anna Pizzuti, autrice del libro Vite di carta. Storie di ebrei stranieri internati dal fascismo.
Quanto alle baracche dove vivevano gli internati, sono state restaurate (o ricostruite ex novo) in modo maldestro, con un colore giallino che, come ha denunciato la giornalista Anna Longo della Rai calabrese, le fa assomigliare più ad «anonimi e algidi bungalow in stile agriturismo» che a un campo di internamento. Il confronto con le foto originali dell’epoca è illuminante. Tanto che l’associazione ambientalista Italia Nostra ha definito il Museo «tutt’altro che un luogo di memoria ma piuttosto un’area in cui dilagano smemoratezza e spregiudicatezza».
Il Museo ha migliaia di visitatori all’anno, tra cui molte scolaresche. È questa la “storia” di quel periodo che vogliamo consegnare ai nostri figli?

(L'Unione Informa, 16 ottobre 2012)

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