I combattenti della parte sbagliata

di Raffaele Liucci

Arduo scrivere una storia condivisa della Repubblica Sociale Italiana (1943-45). Eppure Mario Avagliano e Marco Palmieri in L'Italia di Salò (Il Mulino) ci sono forse riusciti, indagando un passato segnato dal «disconoscimento totale e reciproco dell’umanità dell’avversario», come ha osservato Luigi Ganapini, autore nel 1999 di uno dei primi studi scientifici d’insieme sulla Repubblica delle camicie nere. Rispetto alle precedenti, questa nuova sintesi privilegia una ricostruzione dal basso, dando spazio ai diari e alle lettere coeve degli uomini comuni. Una fonte non priva di trabocchetti (i testimoni diretti non sono quasi mai i migliori giudici di se stessi), ma utilissima per aprire uno squarcio su una realtà magmatica, non del tutto riconducile all’ideologia dei capi. Altra peculiarità di questo tomo è lo sguardo esteso anche alle propaggini estere della Rsi, dai «non cooperatori» nei campi di prigionia alleati sino al «fascismo clandestino» operante al Sud, nell’Italia liberata.

Sia chiaro: questi documenti confermano molti tratti distintivi dei combattenti «dalla parte sbagliata». Lo choc del 25 luglio e la vergogna provata per il «tradimento» dell’8 settembre. La volontà di riscatto, anche solo per «perdere una guerra a modo mio». La propensione a considerare il duce vittima di «falsi fascisti» e la rinnovata fiducia nelle sue doti quasi sovrannaturali. L’odio per «la zona grigia degli indifferenti e dei rassegnati». L’ansia di vendetta e il desiderio di combattere non solo al fronte, ma anche contro i «ribelli» (smentendo così la tesi di una certa refrattarietà dei militi di Salò a scontrarsi con altri italiani). Le invettive contro i «negri» e i «porci angloamericani». Una concezione del mondo complottistica e manichea, con «massoni» ed «ebrei» gran burattinai. Del resto, come stupirsene? La Rsi dichiarò di «nazionalità nemica» tutti gli israeliti italiani e collaborò alacremente al genocidio ebraico.

D’altra parte, questa ricognizione svela un quadro assai più variegato dei «gregari di Salò». Non soltanto coscritti entusiasti, ma anche «tiepidi, recalcitranti, renitenti, disertori». Molti di loro, trasferiti in Germania per un periodo di addestramento, scrivono alle famiglie messaggi densi di angoscia per la fame, il freddo, la fatica e la sensazione «di essere agnelli ai comandi di alcuni ufficiali tedeschizzati». C’è poi chi si rifiuta, in Italia, di partecipare a esecuzioni sommarie di partigiani e civili. Per non parlare di quanti passeranno al fronte avverso, come il futuro storico del colonialismo Angelo Del Boca, qui citatissimo. Degne di riflessione anche alcune missive di «repubblichini» in attesa di essere giustiziati, intrise di dignitosa compostezza, tanto che potrebbero essere quasi scambiate per lettere di condannati a morte della Resistenza: «Muoio con l’animo tranquillo perché ho la coscienza di aver fatto tutto con slancio e devozione a quella Patria che ho amato più di me stesso, più della famiglia, forse più di Dio».

Gli autori non trascurano la persecuzione degli ebrei, la «guerra ai civili» e le torture anti-partigiane. Utile corollario a queste pagine è un recente libro di Alberto Mandreoli (Il fascismo della repubblica sociale a processo. Sentenze e amnistia, Il Pozzo di Giacobbe), che ricostruisce in modo capillare i processi celebrati a Bologna nell’immediato dopoguerra contro i fascisti responsabili di stragi e violenze varie, con sentenze di condanna annacquate dall’amnistia di Togliatti (giugno ’46). È il tema della mancata Norimberga italiana.

Ma Avagliano e Palmieri non dimenticano neppure la resa dei conti scattata dopo il 25 aprile ’45: l’ultimo capitolo del libro è infatti riservato alle vendette partigiane e al «sangue dei vinti». Un esito ahimè prevedibile, giacché una guerra civile non può cessare per decreto da un giorno all’altro, e quella italiana era iniziata con il primo squadrismo. Ma è anche vero che la Resistenza permise a molti antifascisti dell’ultima ora di rifarsi una verginità, facendo dei «repubblichini» (spesso giovanissimi) i capri espiatori di una lunga stagione avviatasi nel ’22, non dopo l’8 settembre ’43. Come se il Tribunale Speciale, il patto con Hitler, le leggi razziali e la pugnalata alla schiena della Francia non fossero episodi altrettanto gravi del revival crepuscolare di Mussolini, dall’autunno ’43 a piazzale Loreto.

(Il Sole 24 Ore, Domenicale, 23 aprile 2017)

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