Il lodo Moro. Terrorismo e ragion di Stato 1969-1986

di Mario Avagliano

Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, il terrorismo arabo-palestinese, a partire dalle stragi alle Olimpiadi di Monaco del 1972 e all’aeroporto di Fiumicino del 1973, colpì l’Europa a più riprese con attentati, sequestri, dirottamenti di aerei e di navi. Alcuni paesi europei, tra cui l’Italia, per scongiurare atti di violenza nel territorio nazionale strinsero patti segreti con i mandanti dei terroristi arabi, compreso alcuni Stati cosiddetti «canaglia». Patti che prevedevano il transito dei terroristi in Italia, il loro rilascio nel caso di arresto e perfino la vendita e la fornitura di armi alle dittature arabe. Rientra in questi accordi il caso Sigonella, quando il presidente del consiglio socialista Bettino Craxi rifiutò la consegna agli Stati Uniti sia del commando di terroristi palestinesi che tra il 7 e il 10 ottobre 1985 aveva dirottato la nave italiana Achille Lauro prendendo in ostaggio 511 persone e assassinando Leon Klinghoffer, un cittadino statunitense ebreo, sia di Abu Abbas, rappresentante dell’OLP che aveva mediato tra le autorità del Cairo e i terroristi.

È il tema del denso saggio di Valentine Lomellini, dal titolo Il «lodo Moro». Terrorismo e ragion di Stato 1969-1986, appena uscito in libreria per i tipi di Laterza. Il «lodo» non fu definito in un solo documento ma fu piuttosto un processo dinamico di nego­ziazione continua, che si adattò al mutare degli interlocutori coin­volti. Se, nonostante il perpetuo avvicendarsi dei governi della Repubblica, i nomi dei protagonisti italiani furono circoscritti, invece i soggetti terroristici mutarono in modo significativo: dapprima l’Organizza­zione per la liberazione della Palestina di Arafat, in seguito un insieme fra­stagliato di movimenti estremisti e di mercenari, e infine gli Stati che li finanziavano: l’Iraq di Saddam Hussein, la Libia di Gheddafi e poi anche la Siria.

Dalla “prigione del popolo” dove era stato rinchiuso dalle Brigate rosse nel 1978, Aldo Moro chiedeva di trattare per la sua liberazione, svelando che questa era una prassi abituale per i terroristi palestinesi arrestati in Italia. In realtà, benché tale strategia venga attribuita allo statista democristiano, il patto per preservare l’Italia dagli attacchi del ter­rorismo internazionale coinvolse tutto l’apparato dello Stato, dai servizi segreti ai funzionari del Ministero degli Affari Esteri, del Viminale, del Ministero di Grazia e Giustizia, compreso la magistratura; nel 1976 fu implicato anche il presidente della Repubblica Giovanni Leone. All’inizio degli anni Ottanta, i governi Andreotti e Craxi confermarono l’operatività di questo accordo. Tra i pochi ad opporsi, moderatamente, a questa linea fu il repubblicano Giovanni Spadolini, che era più vicino ad Israele.

Perché, si chiede il saggio di Lomellini, esponenti di governo, talvolta di culture po­litiche diverse, scelsero questo compromesso, decidendo di fare ciò che con il terrorismo politico italiano, in particolare con le Brigate Rosse, venne da alcuni ritenuto inconcepibile?

Innanzitutto vi era una questione relativa all’obiettivo per­seguito da queste organizzazioni e dagli Stati sponsor del terro­rismo che, come scrive Lomellini, «esercitando pressioni sull’Italia, in sostanza chiedevano di spingersi un po’ più oltre rispetto ad una politica già in essere, quella filo-araba». La classe dirigente italiana poteva, inoltre, annoverare altre ra­gioni: innanzitutto la questione dell’approvvigionamento del petro­lio (nel 1973 c’era stata la crisi petrolifera). Vi era poi un elemento correlato alla posizione geopolitica del Paese: vi fu, nella classe dirigente italiana, da Rumor a Moro, da Andreotti a Craxi, l’idea che solo il dialogo con quegli interlocutori avrebbe consentito di garantire la pace e so­prattutto la stabilità sul fianco sud del Mediterraneo, oltre al timore che alcuni Paesi, come la Libia, potessero scivo­lare verso l’area di influenza dell’Unione Sovietica.

Nel medio periodo il sostegno all’ala moderata dell’OLP portò al raffor­zamento, anche se altalenante, dei palestinesi disposti al dialogo; e sebbene l’emarginazione dei movimenti estremistici fu in parte compensata dal sostegno a loro offerto da alcuni Paesi arabi, l’a­pertura nei confronti dell’Iraq e soprattutto della Libia preservò la penisola dagli attacchi terroristici fino alla metà degli anni Ot­tanta, quando tale equilibrio si ruppe a causa dell’affermarsi della Siria come sostenitore dei gruppi terroristici mercenari ai margini della galassia palestinese.

Ma, come acutamente rileva Valentine Lomellini, «l’effetto di questo appeaseament nel lungo pe­riodo è ancora da valutare: se e in che misura il terrorismo islamico del XXI secolo abbia appreso la lezione sull’efficacia della violenza politica come strumento di diplomazia della tensione, è un interrogativo che rimane aperto. La ragion di Stato aveva reso necessario il “lodo”, violando tuttavia il diritto dei cittadini italiani alla giustizia».

(Blog di Mario Avagliano, 2022)

  • Pubblicato in Articoli

La sinistra italiana e gli ebrei

di Mario Avagliano

 

Lungotevere di Roma, 25 giugno 1982, nei pressi della Sinagoga. Un corteo di persone di passaggio urla: «Ebrei ai forni! W l'Olp! Morte a Israele» e poi lascia una bara davanti alle lapidi degli ebrei romani morti alle Fosse Ardeatine. Neofascisti o seguaci di Almirante? No, si tratta di militanti della Cgil, Cisl e Uil, nella capitale per i rinnovi contrattuali. Il rabbino Elio Toaff protesta e li definisce antisemiti, ma il segretario della Cgil Luciano Lama, invece che condannare quanto accaduto, giustifica i vergognosi slogan come comprensibili di fronte alla «guerra crudele scatenata dalle armate israeliane in Libano». D’altronde pochi giorni prima lo stesso Pci nella Direzione del 10 giugno 1982 ha accusato Israele di rasentare il «genocidio». È uno dei tanti episodi raccontati nel documentato saggio di Alessandra Tarquini intitolato «La sinistra italiana e gli ebrei. Socialismo, sionismo e antisemitismo dal 1892 al 1992» (Il Mulino, 22 euro), dal quale emerge che l’antisemitismo, a correnti alterne, ha allignato anche nella storia della sinistra italiana e non solo a destra, anche se vi sono stati pure diversi leader che viceversa hanno solidarizzato con gli ebrei.

Il rapporto tra la sinistra e gli ebrei è stato un po’ schizofrenico fin dalla fondazione del Psi nel 1892, data di inizio della indagine storica della Tarquini. I primi socialisti infatti minimizzano l’antisemitismo presente nella società, e questa sottovalutazione sarà una costante in quasi tutti i partiti di sinistra che nasceranno in Italia nei decenni successivi, convinti al pari di Cesare Lombroso, sulla scia del saggio di Karl Marx sulla questione ebraica, che la discriminazione verso gli ebrei sia superabile con l’affermazione di una società socialista.

Quando nel 1894 scoppia in Francia il caso del capitano Alfred Dreyfus, ebreo, accusato di spionaggio a favore dell’impero tedesco e per questo condannato ai lavori forzati, l’«Avanti!» si schiera per la colpevolezza di Dreyfus, addirittura sostenendo che un complotto della «bancocrazia giudaica» tentava di far evadere dall’isola del Diavolo il «capitano traditore». Solo dopo la celebre lettera di accusa alle gerarchie militari del gennaio del 1898 di Émile Zola al presidente della Repubblica Felix Faure il Psi diventa innocentista.

Dopo la nascita del sionismo, che sogna l’edificazione di una società socialista in Israele per gli ebrei, e fino alla Prima guerra mondiale, anche negli anni della direzione di Benito Mussolini, il quotidiano del partito socialista è un’importante voce di denuncia dell’antisemitismo nel mondo. Ad esempio, nell’autunno del 1913, l’«Avanti!» critica il linguaggio «violento» dell’«Osservatore romano» che ha definito il sindaco di Roma Ernesto Nathan «un volgare insultatore della nostra fede e delle nostre memorie», «un amalgama di giudaismo e massoneria».

Con l’ascesa del fascismo la sinistra italiana si occupa sempre meno della questione ebraica. Perfino dopo le leggi razziali varate dal regime di Mussolini, che colpiscono migliaia di persone, si levano poche voci in loro difesa, soprattutto quella del comunista Giuseppe Di Vittorio e del gruppo di Giustizia e Libertà, nel quale però militano numerosi ebrei. 

Anche nel dopoguerra, quando vengono alla luce gli orrori dei lager di sterminio e gli obiettivi della soluzione finale messa in atto dai nazisti con la complicità dei fascisti italiani, per anni a sinistra si ignorano le radici antisemite di queste azioni criminali e la Shoah viene equiparata a una forma di generica e certamente orribile «disumanizzazione», spesso senza far riferimento al genocidio degli ebrei, come nel film Kapò del regista comunista Gillo Pontecorvo. Anche Carlo Levi parla del lager come «il rifiuto dell’uomo da parte dell’uomo», senza soffermarsi sulle deliranti teorie antisemite del nazismo.

Alla loro uscita in libreria, opere simbolo della Shoah come «Il diario di Anna Frank» e «Se questo è un uomo» di Primo Levi (rifiutato per anni da Einaudi), se recensite dai quotidiani di sinistra, dall’Unità a Mondo Operaio, vengono elogiate per i loro aspetti letterari o di umanità, senza o con scarsissimi riferimenti all’antisemitismo e al genocidio di milioni di ebrei.

La Tarquini argomenta che pesa anche la posizione filopalestinese assunta dall’Urss. Anche a sinistra, dopo l’iniziale entusiasmo per la nascita di Israele nel 1948, col passare degli anni piovono critiche inaccettabili verso il governo israeliano, accusato di comportarsi come il nazismo nei confronti dei palestinesi. Durante la guerra dei Sei giorni, nel giugno del 1967, Antonello Trombadori scrive un articolo intitolato Da Anna Frank a Moshe Dayan indicando l’evoluzione di un popolo che è stato perseguitato e si nasconde «dietro l’antico e drammatico simbolo della stella di David». A suo avviso, Israele non è più la patria dei kibbutzim, ma uno Stato teocratico e razziale, che discrimina la minoranza araba e invocava le sofferenze subite per giustificare il proprio comportamento.

In quegli anni nella stampa di sinistra, si legge nel saggio, «i termini israeliano, sionista, ebreo vennero a sovrapporsi». Ancora nel 1974, quando un famoso sceneggiato televisivo su Mosè, interpretato da Burt Lancaster, viene trasmesso dalla Rai, un giornale di estrema sinistra, il «Quotidiano dei lavoratori», organo di Avanguardia operaia, protesta perché la tv pubblica avrebbe propagandato la «supremazia del popolo ebraico», in un certo qual senso giustificando «l’aggressività di Israele contro il popolo palestinese». Un attacco indegno che però non suscita grandi reazioni.

Peraltro anche nel Psi, che fino alla metà degli anni Settanta aveva una linea filoisraeliana, l’ascesa alla segreteria di Bettino Craxi comporta una brusca inversione di tendenza, con l’appoggio incondizionato all’Olp di Arafat. E ci vuole la caduta del muro di Berlino perché il Pci guidato da Achille Occhetto (poi diventato Pds), in particolare per merito di Piero Fassino, muti orientamento su Israele. Ma anche dopo il 1992, anno di conclusione del libro, in certe frange della sinistra estrema continueranno paragoni inaccettabili tra lo stato israeliano e i nazisti.

(Blog Mario Avagliano, 2020)

  • Pubblicato in Articoli

"Stirpe e vergogna" di Michela Marzano

di Mario Avagliano

Gli italiani i conti con la propria storia recente, e in particolare con il fascismo, che abbagliò con la sua luce sinistra la maggior parte della popolazione, ancora non li hanno fatti. Nel nostro Paese non c’è stata un’assunzione di responsabilità di ciò che è accaduto dopo la conquista del potere da parte di Benito Mussolini e il varo delle leggi fascistissime – soppressione delle libertà, caccia agli oppositori, leggi razziali, crimini di guerra - con un processo Norimberga o un processo Tokyo, come avvenuto in Germania e in Giappone. Di più, dopo la liberazione l’Italia fu la prima nazione europea a lanciare un’amnistia generalizzata, già nel giugno 1946, a firma del leader dei comunisti Palmiro Togliatti, all’epoca ministro della Giustizia, anche se frutto di un accordo con il democristiano Alcide De Gasperi, capo del governo.

La conseguenza di questa fretta di voltar pagina è che molti italiani che si erano sporcati le mani con il fascismo, ne hanno bellamente approfittato, celando sotto il tappeto il proprio scomodo passato. Una rimozione collettiva, in qualche modo avallata dallo Stato. E così, scavando nelle storie familiari, può capitare di scoprire, consultando un certificato di battesimo, come accade a Michela Marzano, che il vero nome completo del padre non è solo Ferruccio, bensì Ferruccio Michele Arturo Vittorio Benito. Sì, proprio Benito, come Mussolini. E quando gli chiede il perché, lui risponde con nonchalance che il nonno Arturo era fascista. La scrittrice, ex deputata del Pd, rimane traumatizzata e comincia a porsi degli interrogativi inquietanti. A chiedersi se la propria autorappresentazione di donna di sinistra, proveniente da una famiglia democratica e progressista (il padre è da sempre socialista), non presenti qualche falla.

È il tema dell’intenso romanzo Stirpe e vergogna (pubblicato da Rizzoli), in cui Michela Marzano, con uno stile incalzante e avvincente, compie un’indagine retrospettiva sul nonno magistrato, Arturo Marzano, nato vicino a Lecce nel 1897, sottotenente sul Carso nel 1917. E ricordando che nella casa dove ha trascorso l’infanzia a Campi Salentina passava sempre davanti a una grande teca piena di medaglie, bottoni, nastri e fascette, la cerca nella casa dei genitori a Roma. Vi rinviene la tessera del nonno di iscrizione al movimento di Mussolini risalente addirittura al maggio 1919, poco dopo la fondazione dei Fasci di combattimento, e l’attestazione che ha partecipato alla marcia del 28 ottobre 1922. Tutti lo sapevano eccetto lei.

Nonostante la sorpresa e lo sgomento interiore, Michela Marzano non sfugge al passato e anzi testardamente si avventura a frugare nei cassetti, nei documenti e negli album fotografici di famiglia, divorando nel frattempo libri, articoli di giornale e film o documentari su quegli anni, per ricostruire la parabola umana, politica e sentimentale di Arturo. Dal matrimonio con la nonna Rosa, da cui avrà due figli, all’appassionata relazione extraconiugale con Bice (recuperando il carteggio tra i due amanti), dalla sua adesione al fascismo alla sua partecipazione attiva, in qualità di magistrato, alla commissione di Lecce che stabiliva quali italiani mandare al confino per attività antifascista o semplicemente per una barzelletta sul duce o un insulto, fino al processo per l’epurazione nel 1944, ai silenzi successivi su quella storia, alla sua elezione come deputato del partito monarchico nel 1953 e alla sua morte nel 1976, quando la nipote aveva appena sei anni.

Un’inchiesta intima e familiare, quasi sotto forma di diario, che sfiora anche altre pieghe oscure della vita dell’autrice, come il suo difficile rapporto con la maternità e con il padre Ferruccio. E che però, superando gli inevitabili ostacoli del viaggio interiore (il 25 aprile del 2020 Michela confessa di vivere per la prima volta «il giorno della Liberazione con imbarazzo»), diventa anche un’inchiesta pubblica sulle colpe di quasi tutti gli italiani, visto che gli antifascisti furono un’esigua, seppur coraggiosa, minoranza. Come fu possibile che un intero popolo s’innamorasse del duce? E che anche un uomo capace di tenerezza e di «cuore grande» come il nonno Arturo non abbia capito il male del fascismo? La tesi di Marzano è che Il riscatto, come è intitolata l’ultima parte del romanzo, si realizzi solo con il passaggio dallo stato di amnesia del dopoguerra alla presa di coscienza del carattere dittatoriale del fascismo e dell’ampio consenso degli italiani al duce. L’Italia sarà mai in grado di farlo fino in fondo, senza sconti di sorta e senza infingimenti?

(Blog Mario Avagliano, 2021)

  • Pubblicato in Articoli

“L'Italia tra le grandi potenze” di Elena Aga Rossi

di Mario Avagliano

Ancora oggi molte storie generali e libri di testo per studenti universitari continuano a descrivere l’Italia del dopoguerra come «vassalla» di Washington e totalmente subalterna alla politica americana e sottovalutano l’influenza sovietica sui partiti e sugli intellettuali italiani. Ma il leader democristiano Alcide De Gasperi fu davvero un burattino nelle mani del presidente americano Harry Truman, come lo descrivevano i manifesti di propaganda elettorale del Fronte Popolare alle politiche del 1948? E il segretario comunista Palmiro Togliatti cercò realmente una «via italiana» al socialismo?

A fare chiarezza sulla politica estera italiana è il saggio «L'Italia tra le grandi potenze. Dalla seconda guerra mondiale alla guerra fredda», appena uscito per i tipi del Mulino e opera di Elena Aga Rossi, una delle maggiori studiose della politica e dell'intervento degli Alleati in Europa e dell'influenza dell'Unione Sovietica in Italia nei primi anni della guerra fredda.

Sull'una e l'altra tematica Elena Aga Rossi, lavorando in più archivi, non solo italiani ma anche sovietici, americani e inglesi, ha prodotto alcune ricerche originali che hanno in più casi costituito punti di svolta sulla storia politica del nostro paese e ora trovano qui una sistemazione unitaria, che va dai piani alleati per la divisione dell'Europa, sullo sfondo della Campagna d'Italia, fino al ruolo di De Gasperi nella rottura con le sinistre del maggio 1947 e ai rapporti del Pci e del Psi con l'Unione Sovietica.

In realtà, l’appartenenza dell’Italia alla sfera d’influenza occidentale, data per certa durante la guerra dalle conferenze di Jalta e di Teheran, fu poi messa in discussione alla fine del 1947, non soltanto per l’ipotesi di un possibile colpo di mano comunista, ma soprattutto nel caso di una vittoria elettorale dei partiti di sinistra alle politiche del successivo aprile. La stessa Urss progettava una graduale sovietizzazione d’Europa nell’arco di un paio di generazioni, grazie anche alla prevista crisi del capitalismo.

Elena Aga Rossi con i suoi studi ha contribuito a smontare, sulla base di documenti d’archivio, alcuni miti della storia italiana. La svolta di Salerno di Togliatti, ovvero l’improvvisa apertura di credito del Pci al governo Badoglio, che spiazzò gli altri partiti di sinistra, sarebbe stata un’indicazione di Stalin e non una decisione autonoma del segretario comunista. La presunta autonomia del Pci (e anche del Psi di Pietro Nenni) rispetto all’Urss e la ricerca di una via nazionale sarebbe stata solo di facciata ma non di sostanza, come testimoniano la piena adesione dei comunisti italiani al Cominform e la vicenda di Trieste, sulla quale Togliatti si appiattì sulla linea di Stalin e di Tito. L’apertura degli archivi sovietici, avvenuta solo negli anni Novanta, ha consentito di documentare questi rapporti e di vedere per la prima volta «l’altra faccia della luna».

La longa manus dell’Urss si sarebbe manifestata anche con un condizionamento della politica editoriale di quegli anni in Italia, suggerendo alle principali casi editrici, compreso l’Einaudi e Laterza, la pubblicazione di saggi di chiara impronta filocomunista e antiamericana e di contro ostacolando la diffusione di libri di denuncia dell’oppressione sovietica come «Arcipelago Gulag» di Aleksandr Solzenicyn e «Vita e destino» di Vassilij Grossman.

La stessa decisione di De Gasperi di rompere la coalizione con socialisti e comunisti e di varare un governo moderato, non sarebbe il frutto «avvelenato» del suo viaggio in Usa del gennaio 1947 ma una scelta dello statista democristiano dovuta a fattori interni, quali la sconfitta della Dc ai turni elettorali delle amministrative a Roma e altre città e delle regionali in Sicilia e la scarsa affidabilità dei partiti di sinistra, più di lotta che di governo. Una svolta politica sofferta (sul punto la Dc era divisa) e che è stata vista a lungo come la fine delle speranze di cambiamento generate dalla Resistenza e solo di recente è stata inquadrata come determinante per la ricostruzione del Paese in senso democratico.

Non c’è dubbio, rileva Elena Aga Rossi, che gli Usa (peraltro più teneri e accomodanti verso gli italiani rispetto agli inglesi) esercitarono una pesante influenza, politica ed economica, sull’Italia del dopoguerra, prima con la Commissione alleata di controllo e poi attraverso il Piano Marshall. Ma il nostro Paese era allo stremo delle forze e aveva poche alternative, poiché senza gli aiuti americani non si sarebbe potuta concretizzare la ricostruzione e ogni tentativo di ottenere aiuti da parte dell’Urss non ebbe alcun seguito, anzi i sovietici furono in prima fila nel richiedere all’Italia le riparazioni di guerra. E d’altronde quel piano fu alla base del boom degli anni successivi e consentì all’Italia di entrare nel club delle grandi potenze.

 

(Blog di Mario Avagliano, 2019)

  • Pubblicato in Articoli

Gli irriducibili al fascismo

di Mario Avagliano

 

Negli anni Venti e Trenta il fascismo conquistò il consenso di centinaia di migliaia di giovani con le sue idee di rivoluzione permanente. Benito Mussolini, come scriverà nel primo dopoguerra Elio Vittorini, ex camicia nera poi diventato intellettuale organico al Pci, incarnò agli occhi dei ragazzi dell’epoca, che studiavano o si affacciavano al mondo del lavoro, le aspettative di rivoluzione sociale, di uguaglianza e di contrasto alla povertà contro le élite conservatrici e reazionarie italiane e mondiali.

Ma fu per tutti così? No, vi furono alcuni giovani, utopisti e coraggiosi, che non si fecero irretire dal duce e manifestarono, sin dal primo momento, un’«irriducibile avversione» per il maestro di Predappio dalla mascella volitiva (come scrisse Enzo Sereni, nato nel 1905 e morto a Dachau nel 1944). La loro storia di opposizione ferma è raccontata, con brillante ritmo narrativo, nel libro «Gli irriducibili. I giovani ribelli che sfidarono Mussolini» di Mirella Serri, appena uscito per i tipi di Longanesi.

Tra speranze, persecuzioni, tradimenti e relazioni sentimentali, la Serri ripercorre il percorso di un manipolo di ragazzi e ragazze che non volle rassegnarsi al fascismo trionfante in Italia e che per questo scontò anni di prigionia, di confino e di esilio in Francia, in Palestina e in Tunisia. Erano studenti, intellettuali, pensatori e filosofi alle prime armi e accomunati da una medesima provenienza sociale e culturale. Appartenenti a famiglie borghesi e colte, una parte di loro aveva aderito al Partito comunista d’Italia, altri militavano in Giustizia e Libertà, altri ancora erano socialisti riformisti o repubblicani. In comune avevano una fondamentale convinzione: la sconfitta dei fascisti e poi dei nazisti poteva venire solo da un ampio fronte unitario.

In questa truppa di «soldati senza uniforme» si ritrovarono personaggi poi passati alla storia e protagonisti dimenticati, come Giorgio Amendola, Enzo ed Emilio Sereni, Xeniuska Silberberg, Loris Gallico, Velio Spano, Ferruccio Bensasson, Maurizio Valenzi (poi sindaco di Napoli) e Litza Cittanova. Molte furono le presenze femminili tra questi oppositori della prima ora. Fra loro Nadia Gallico, moglie di Spano, che agì in Tunisia e divenne poi una delle ventuno elette all’Assemblea Costituente, e Ada Ascarelli, la quale a vent’anni convolò a nozze con Enzo Sereni. Ostile al regime fin dalla marcia su Roma, fu una delle prime italiane emigrate in Palestina per sottrarsi alla nefasta politica di Mussolini.

Oltre che Roma, dove soprattutto nei licei diversi ragazzi provarono ad organizzare un’opposizione alla nascente dittatura fascista, un altro centro dove gli irriducibili trovarono seguito fu Napoli, in quel frangente storico città cosmopolita e universitaria, con una vita culturale vivace, piena di studenti ebrei dell’Est Europa socialisti e comunisti e dove viveva Benedetto Croce, punto di riferimento dell’antifascismo di matrice liberal-democratica.

A Napoli, esattamente al Vomero, in quegli anni, dopo l’assassinio del padre, si era trasferito anche Giorgio Amendola, ospite dello zio Mario Salvatore detto zio Totore, e qui aveva ritrovato i fratelli Enrico ed Emilio Sereni. Giorgione (chiamato così dai più intimi per la notevole corporatura), iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, assieme ad Enrico, leader degli studenti e dei docenti napoletani antifascisti, tentò di ridestare dal torpore i colleghi universitari, organizzando riunioni clandestine e dando vita alla rivista «Antifascismo».

Emilio Sereni, detto Mimmo, iscritto all’università di agraria a Portici, invece passò dall’entusiasmo per il sionismo e dal sogno della Palestina all’adesione clandestina alla federazione del partito comunista napoletano, di cui diventò il leader. Dopo il suo arresto da parte della polizia fascista, verrà sostituito proprio dall’amico Giorgio Amendola.

Negli anni successivi, molti di questi ragazzi e ragazze, dopo esperienze di carcere e di confino, si ritroveranno in esilio all’estero, a Parigi o in Tunisia, dove subiranno nuove persecuzioni. Anche da fuoriusciti, con le loro limitate forze, anni prima dell’inizio della Resistenza, si organizzarono e cercarono di colpire una dittatura apparentemente invincibile. Avviarono sabotaggi, attentati e iniziative di propaganda con l’obiettivo di dare un segnale forte: nonostante il massiccio consenso tributato al duce nella Penisola, vi erano anche italiani che avevano scelto di schierarsi sul fronte dell’antifascismo.

Divennero così il volto internazionale della prima opposizione al fascismo. Ma, come scrive Mirella Serri, quando rientreranno in Italia, il racconto della loro avventurosa vita sarà cancellato e il loro durissimo antifascismo di espatriati sarà omologato a quello dei coetanei fascisti che facevano la fronda.

(Blog Mario Avagliano, 2019)

  • Pubblicato in Articoli

Fascismo, non è stato un gioco

di Diego Gabutti

Banalizzare (come si dice) il fascismo è stato sempre uno sport molto praticato in Italia. Mussolini «buonuomo», gli antifascisti «in villeggiatura» alle isole, i gerarchi in pantofole, la dittatura mite e generosa, la bonifica delle paludi, la Treccani, giusto un po' d'antisemitismo (ma indulgente, mica come a Berlino). Non si capiva, in fondo, perché gli oppositori del regime andassero esuli all'estero. Potevano restarsene tranquillamente anche qui, pacifici, indisturbati, persino un po' riveriti.

Coccolati da Primato, cari ai frondisti come Leo Longanesi e Indro Montanelli, e in fondo simpatici anche allo stesso Dux, gli antifascisti avrebbero potuto essere l'ala democratica (diciamo così) del regime se soltanto fossero stati meno cocciuti. Un po' come oggi, sotto la stella cometa del governo meloniano, quando il neofascismo («onore al Msi», commemora la seconda carica dello Stato) è stato trasformato dal voto popolare (il 26% del 55% dell'elettorato) nell'ala littoria della democrazia.

Per lo più il fascismo è caramellato e farcito d'uvetta da storici e memorialisti, che ridacchiano, beffeggianti ma ammirati, del Duce a cavallo che brandisce la Spada dell'Islam, del Duce aviatore e sciatore, del Duce che si molleggia con i pugni sui fianchi nella gabbia Non è bello né sano che oggi, dopo ottant'anni di racconto storico assolutorio e banalizzante, ci tocchi anche un governo banalizzatore che con il fascismo storico c'entrerà magari poco, anzi niente, ma che del neofascismo non è solo una parodia ma l'erede diretto, come Articolo 1 e Sinistra italiana del comunismo del leone, del Duce armato di falce e a torso nudo che partecipa alla battaglia del grano, del Duce giocatore di bocce.

Raccontato così, deriso e rimpianto insieme nei memoir dei giornalisti e dei diplomatici più compromessi, filtrato attraverso le mattane dei legionari fiumani, tutto tele futuriste e telefoni bianchi, il fascismo diventa uno scherzo e gli oppositori degli zucconi che non capiscono la barzelletta. Ci sono libri scanzonati sui rapporti al Duce dell'Ovra, la polizia politica. Si possono leggere libri leggeri e goliardici sulle imprese erotiche di Mascellone nella Sala del Mappamondo. Gli si accreditano opinioni antinaziste ((pando c'era tutt'al più dell'invidia per la bella presenza delle SS, alte e marziali, dalla divisa impeccabile, mentre a lui toccavano militi «brevilinei», sgualciti e pelandroni). Passa per libertario, addirittura per «auto-mormoratore», se non per antifascista occulto: l'idea generale è che il fascismo non sia colpa sua ma degl'italiani, «ingovernabili», «indisciplinati», eterni bambini. Straparlano così, da ottant'anni in qua, intere biblioteche.

Rare se non rarissime le eccezioni: tra i titoli recenti Il caso Mussolini (Neri Pozza 2022) di Maurizio Serra, la biografia di Giovanni Gentile (Il filosofo in camicia nera, Mondadori 2021) di Mimmo Franzinelli, il Mussolini capobanda (Mondadori, 2022) di Aldo Cazzullo e questo Il dissenso al fascismo di Mario Avagliano e Marco Palmieri, storici accurati delle zone in ombra dell'Italia nella prima metà del secolo. Mentre non c'è storia del fascismo, dei suoi Guf, delle sue disfatte militari, dei suoi slogan ridicoli, dei suoi ras, del suo Minculpop, delle sue Opere Balilla, dei suoi gerarchi, dei suoi architetti e trasvolatori, delle sue donne fertili, dei suoi squadristi in orbace o in doppiopetto che non abbia al centro qualche grand'uomo a pancia in dentro e petto in fuori, Avagliano e Palmieri in tutti i loro libri si sono invece sempre occupati di cose che contano e di persone vere.

Negli anni, hanno raccontato la storia delle leggi razziali e dell'antisemitismo fascista, dello sbarco alleato, dei soldati al fronte, della resistenza disarmata dei militari italiani internati nei lager tedeschi per non essersi arruolati nei ranghi di Salò, dei primi anni del secondo dopoguerra, della resistenza allo stalinismo nel 1948. Qui, con Il dissenso al fascismo, si occupano dei dissidenti — gli antifascisti che, tra la proclamazione della dittatura nel 1925 e la caduta del fascismo nel 1943, cercarono d'opporsi al regime e ne furono perseguitati. A fermarli non fu il «consenso» di cui godeva il fascismo, come raccontano gli storici compiacenti, ma il terrore scatenato dal regime contro l'opposizione in qualsiasi forma, dal partito liberale a quello socialcomunista, dai Testimoni di Geova ai boy-scout.

Tutt'altro che caramellosa, niente canditi, zero uvetta, la storia della repressione negli anni del fascismo è la storia d'un regime criminale, assassino, feroce. Non è vero che Hitler e Stalin fossero peggio di Mussolini soltanto perché fecero peggio di lui. Mussolini ha fatto quel che ha potuto coni mezzi e il materiale umano che aveva. Se solo ne avesse avuto i mezzi, il vantaggio e l'occasione, non avrebbe certo indietreggiato di fronte al genocidio, come infatti dimostrarono le leggi razziali del 1938 che gettarono in pasto ai cannibali migliaia d'ebrei. Qualunque cosa se ne legga nei libri così spiritosi di Leo Longanesi, nelle Storie d'Italia di Montanelli o nelle biografie di Filippo Tommaso Marinetti, di Giuseppe Bottai e di Berto Ricci, un antisemita rabbioso che Montanelli definiva «un anarchico» e «un idealista», il fascismo non fu affatto uno scherzo né un intermezzo piacevole: eravamo ragazzi, c'era l'avventura dell'impero, giovinezza, giovinezza.

A decine di migliaia d'italiani (molti dei quali lasciarono clandestinamente il paese poiché anche l'espatrio era diventato un reato, com'era reato raccontare barzellette sull'Uomo della Provvidenza o criticare per una qualsiasi ragione il regime) non era sembrato divertente farsi purgare e randellare dalla feccia della società nazionale. Decine di migliaia d'italiani finirono in galera, al confino, in manicomio, stipati nelle isole che la stampa internazionale descriveva realisticamente come «Siberia e Cayenna italiane». Ci furono centinaia di suicidi, la maggioranza dei quali soltanto tra virgolette: malnutriti, torturati con le tecniche più efferate, talvolta persino violentati (come raccontano Avagliano e Palmieri) dalle stesse guardie carcerarie, gl'internati antifascisti morivano come mosche, assassinati senza che i loro aguzzini fossero chiamati a risponderne.

Avagliano e Palmieri scavano in una vasta costellazione di piccole storie che finiscono male, malissimo, bene, mai benissimo. Storie d'avvocati, d'operai, di calzolai, d'ingegneri espulsi dall'ordine, di studenti e insegnanti, di sacerdoti, di donne e uomini che il fascismo ha imprigionato, torturato, oltraggiato, ucciso. «No, non è terrore, è appena rigore», spiegò Mussolini alla Camera il 26 maggio 1927. «Terrorismo? Nemmeno; è igiene sociale, profilassi nazionale, si levano dalla circolazione questi individui come un medico toglie dalla circolazione un infetto» Erano discorsi da teppista, i soli che gli si addicessero. Stalin e Hitler dicevano esattamente le stesse cose.

Come ci ricordano Avagliano e Palmieri, è di questo che si parla quando si parla di fascismo. Sul dissenso e la resistenza al fascismo è stata fondata la repubblica, che per quanto imperfetta è sempre meglio di qualunque regime. Non è bello né sano che oggi, dopo ottant'anni di racconto storico assolutorio e banalizzante, ci tocchi anche un governo banalizzatore che con il fascismo storico c'entrerà magari poco, anzi niente, ma che del neofascismo non è solo una parodia ma l'erede diretto, come Articolo 1 e Sinistra italiana del comunismo. C'era Mario Draghi a Palazzo Chigi e adesso guardateci. 

(Italia Oggi, 31 dicembre 2022)

  • Pubblicato in Articoli

Le barzellette su Mussolini raccontano il dissenso nascosto

di Mario Avagliano e Marco Palmieri

 

La campagna elettorale per le elezioni politiche che si è appena conclusa ha avuto un nuovo protagonista indiscusso: i meme. Il sarcasmo, infatti, al giorno d’oggi viaggia veloce e senza confini sui social network. E per questo i meme sono diventati una cosa seria, poiché hanno assunto un peso specifico assai rilevante nella ridefinizione della geografia politica del consenso: non c’è candidato, leader o esponente istituzionale che possa sfuggire all’ironia puntuta, irriverente, dissacrante e soprattutto contagiosa delle immagini divertenti che gli utenti della rete producono, anche in modo spontaneo, e che si diffondono con una viralità mai vista prima.

Se lo strumento (la rete e i social) e le potenzialità di circolazione e diffusione sono senza precedenti, ciò che invece non è affatto nuovo è il ruolo della satira e dello sbeffeggiamento che, in presenza di situazioni in cui la libertà d’espressione è limitata o non ammessa del tutto, assumono anche la valenza di potente mezzo di opposizione, di resistenza, di dissenso. Tant’è vero che sono oggetto di feroce di repressione.

In Italia, ad esempio, ci fu una vivace fioritura di meme ante litteram durante il ventennio fascista. Un’ironia sotterranea, che circolava segretamente, strappando un sorriso e aprendo in questo modo qualche crepa nella cappa oppressiva che il regime fece scendere sul paese mettendo fuori legge e punendo severamente qualsiasi forma d’opposizione, ma anche di semplice dissenso non organizzato e non politico, bensì spontaneo.

A una ricostruzione dettagliata di questo fenomeno è dedicato un intero gustoso capitolo del nostro ultimo libro “Il dissenso al fascismo. Gli italiani che si ribellarono a Mussolini 1925-1943”, appena pubblicato da Il Mulino, che - come ha affermato la storica Simona Colarizi - ricostruisce finalmente in modo completo la storia degli oppositori a quel regime, raccontando sia le vicende dei militanti politici noti, come Gramsci, Pertini e Sturzo, sia di quelli sconosciuti: operai, casalinghe, contadini, impiegati protagonisti di scioperi, proteste, scritte murali, atti di critica al fascismo ma anche di barzellette, epigrammi, storielle sarcastiche, motti di spirito, storpiatura degli slogan e parodia delle canzoni fasciste e della retorica ufficiale.

Così, ad esempio, vi si legge la storiella di Mussolini che va in visita a un manicomio e passa in rassegna i malati che applaudono convinti tranne l’ultimo della fila, il quale quando gli viene chiesto perché non batte le mani risponde di essere infermiere e non matto. E ancora: «sulla tomba della madre del Duce hanno messo quattro soldati di guardia. Lo sai perché? Per evitare che risorga e faccia un altro Duce»; «Hai la foto del Duce in tasca? No. Ma allora dove sputi».

La memoria collettiva del fascismo, in effetti, nel dopoguerra prende una strana piega, sedimentando il ricordo di un regime risibile, di rituali e liturgie grottesche e pratiche ridicole, che contribuisce a oscurare il ricordo della pratiche repressive feroci, della brutale privazione della libertà e del soffocamento di ogni forma di dissenso e opposizione. A ben guardare un fondamento di questa incredibile evoluzione si può cercare proprio in questa fioritura di battute e di sarcasmo. Sotto la dittatura, però, il ruolo dell’ironia fu importante, poiché nel quadro della pressoché totale impossibilità di manifestare il dissenso, queste freddure andarono a scalfire la pretesa sacralità del fascismo e del duce, il suo mito e quindi la pretesa dedizione assoluta alla causa e al pensiero unico. Un flusso che la polizia politica, come dimostrano le carte relative alle indagini per ricercare chi le crea o semplicemente le racconta, faticò a contenere e a interrompere.

Fermo restando il fenomeno della diffusione di una comicità e di una ironia fine a sé stessa, mettere in circolo barzellette, storielle e battute e lasciarsi andare a una risata di fronte ad esse rappresentarono uno sfogo e una reazione all’oppressione del regime, alle difficoltà della vita quotidiana e alla povertà della vita intellettuale al di fuori dai canoni consentiti. Tant’è vero che nel 1938 Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione nazionale, annotò nel suo diario che circolavano «barzellette a josa. Fioriscono ai margini della disciplina cieca e muta».

A grandi linee, nel fenomeno si può anche rintracciare una tendenza generale: barzellette, battute e parodie su Mussolini, i gerarchi e il fascismo, tra i ceti popolari, avevano più spesso il retrogusto di una critica sincera e sentita, portata avanti nonostante i rischi di denuncia. Tra i ceti medio-alti, invece, rispondevano più di frequente al mero spirito di divertissement, che non intaccava la sostanziale adesione al fascismo e al mito del duce.

La polizia politica mise sotto torchio coloro i quali venivano sorpresi a raccontare storielle ironiche contro il duce e il regime, nel difficilissimo intento di risalire a chi le aveva create. Così il prefetto di Sassari nel 1932 denunciò un tale che in pubblico chiese: «Sapete quale è la differenza tra il Popolo d’Italia e Mussolini? La differenza è che Mussolini ha i pieni poteri, ed il popolo d’Italia ne ha i coglioni pieni». Quello di Forlì invece nel 1934 diffidò un uomo che in un albergo di Riccione andava raccontando che «Hitler ha i baffi rossi perché Mussolini ha le emorroidi». L’anno seguente una barberia romana attirò l’attenzione delle autorità per essere una sorta di covo di satira antifascista: «Il Duce chiamò a sé un Accademico d’Italia per chiedergli di sostituire nel vocabolario italiano la parola culo. Dopo alcuni giorni l’Accademico tornò a Lui per riferirgli che aveva trovato la nuova parola. Il nuovo vocabolo sarebbe stato comprensione. Il Duce si meravigliò e disse: che c’entra questa parola? L’Accademico rispose: come? Ce lo ha insegnato Lei stesso quando in un discorso disse che il Fascismo era entrato nella comprensione del Popolo Italiano».

Un filone molto gettonato era quello di prendere di mira corruzioni e ruberie che abbondavano tra le gerarchie del regime. Ne è un esempio la barzelletta allusiva riferita da un rapporto del prefetto di Milano a fine 1934, raccontata sempre da un barbiere, ma all’uomo sbagliato, un fiduciario fascista che prontamente sporse denuncia: «Mussolini si recò un giorno da un dentista per farsi estirpare un dente che gli faceva male. Dopo l’operazione chiese quanto doveva ed il dentista pretese la somma di lire mille. Mussolini protestò per il caro prezzo, ma, poi, finì col pagare; però, nel consegnare il denaro, disse: “Queste sono le mille lire, ma guardi che sono rubate”. Il dentista rispose: “Non ne dubito”». «Una volta – recitava un’altra storiella sarcastica – un operaio comprò della frutta, ma essendosi accorto che era stata avvolta in un giornale dove vi era l’effige del Duce, disse di cambiare la carta altrimenti si mangiava anche la frutta».

Anche le sigle, tanto diffuse sotto il regime, erano terra fertile per far proliferare l’ironia: Pnf diventò «Per Necessità Familiare» o anche «Pane Nostro Fatigato» e per i fascisti doc «Per Niente Fare» oppure «Preparazione Nostri Furti», mentre Mvsn venne tradotta in Mai Visto Sudare Nessuno, Gil in Gioventù Incretinita del littorio». E a Roma c’è chi inventa una nuova interpretazione dell’S.P.Q.R. letto per diritto e per rovescio, riferita ai gerarchi fascisti: «-Signori Podestà, Quanto Rubate? E quelli rispondevano con fascistica imperiosità: – Rubiamo Quanto Possiamo. Silenzio!».

Tuttavia, a conferma che barzellette e storielle dietro l’ironia celavano solide verità, si metteva alla berlina anche la mancanza di coraggio del popolo italiano: «In casa: – Accidenti a quel ladro di Mussolini! Morte a tutti quei filibustieri fascisti! Fuori di casa: – Viva il duce! Viva il fascismo». O la sua intelligenza, come nel seguente epigramma: «Povero popolo, / quanto sei bravo! / Farti suo schiavo / può un fanfarone / che da un balcone / ti sa incantare; / se fa il giullare / con le parate, / le smargiassate, / tu corri appresso... / Povero popolo, / quanto sei fesso!»

(Il Domani, 5 novembre 2022)

  • Pubblicato in Articoli

Prefazione alla raccolta di Tommaso Avagliano, "Torna domani, inverno" (Marlin editore, 2022)

Mario Avagliano

Dal terrazzo fiorito della casa di mio padre Tommaso Avagliano, che sorge a Sant’Arcangelo, una frazione di Cava de’ Tirreni incastonata sotto la mole imponente di Monte Finestra, si intravede un lembo di mare della Costiera Amalfitana, che lui amava con ardore. Era la casa di famiglia del padre Mario (di cui porto il nome) e sovrastava la stalla e la bottega citate nei versi di alcune poesie di questa raccolta.

Il comodino accanto al letto di mio padre è ancora ingombro di libri e di fogli. Fino al 21 settembre, giorno della sua morte, c’era anche un volume de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, «odoroso d’inchiostro e di vita», ancora con la copertina nera del V ginnasio, consumata dalla lettura, che lui stesso ha chiesto a mia madre Lia di portare con sé nel suo ultimo viaggio (vedi i versi della poesia Testamento).

Accatastati l’uno sull’altro, trovo La luna e i falò di Cesare Pavese, le poesie di Catullo e diversi quaderni dei tempi in cui insegnava nelle scuole statali, dove scopro con commozione che nel corso degli anni ha pazientemente appuntato a mano liriche di vari poeti, dai classici greci e latini a Ungaretti e D’Annunzio, da Sinisgalli a Puskin, da Emily Dickinson a Rilke, da Salvatore Di Giacomo a Trilussa. Liriche che spesso recitava a memoria.

La poesia batteva nel suo cuore fin dai banchi del ginnasio. Ci raccontava che da ragazzo, non appena racimolava qualche soldo, invece di spenderlo in «cose futili», dalle sigarette alle bibite e ai gelati, come facevano tanti suoi amici, acquistava romanzi e libri di poesia che divorava in notti arse di passione per la letteratura. Era quello il suo «divertimento».

Non che disdegnasse la vita. Aveva una moto Bianchi con la quale faceva allegre scorribande in Costiera, si atteggiava un po’ a James Dean de noantri (era il suo mito), con i capelli tirati indietro e imbrillantinati, adorava Marilyn Monroe, l’abatino Gianni Rivera e i fumetti di Tex Willer, e più tardi i film in bianco e nero dell’America degli anni Quaranta e Cinquanta e quelli del neorealismo e di Totò, Peppino e Aldo Fabrizi (Miseria e nobiltà su tutti), le canzoni napoletane di Salvatore Di Giacomo (Era di maggio la sua preferita, che ha voluto alla cerimonia funebre) e lo sport, in particolare Valentino Rossi, il ciclismo (tifava per Moser e poi per Pantani) e la Ferrari. Ma ciò che più gli faceva perdere la testa erano i versi di un poeta, un romanzo, un dipinto, un’anticaglia.

La sua casa è affollata di queste sue passioni. Ogni centimetro di muro e ogni tavolino, sgabello, comò, scaffale, mensola, vetrina sono occupati da libri, immagini dei familiari o dei poeti o scrittori amati, sculture, oggetti di antiquariato o di ceramica vietrese d’antan, acquerelli, incisioni, dipinti ad olio e ritagli di giornale, in particolare del “Corriere della sera”, che acquistava e leggeva fin da ragazzo. Ogni centimetro della sua casa trasuda di Tommaso Avagliano.

Nel corso della sua vita, oltre ad insegnare (e lo faceva con severità ma soprattutto con grande generosità verso i suoi alunni), ha coltivato il suo amore per le arti. È stato gallerista, giornalista, uomo di cultura, fondatore della prima sezione di Italia Nostra della sua città, fondatore e direttore della casa editrice omonima e poi con mio fratello Sante della casa editrice Marlin, ha scritto o curato una ventina di libri, collaborato a numerosi quotidiani e periodici nazionali e locali.

Ma al di là di questo, mio padre si considerava prima di tutto un poeta. «Ho scritto la mia prima poesia a quattordici o quindici anni» per il giornale della scuola “Caleidoscopio”, ha annotato su un foglio tra le sue carte, risalente al 2014. «Si può immaginare la mia delusione quando mi fu riferito che il comitato di redazione l’aveva cestinata, giudicandola troppo ben fatta per essere farina del mio sacco».

Nelle cartelle conservate nel suo studio le prime poesie sono del 1958, quando aveva appena 18 anni, e ha continuato a scrivere liriche per tutta la sua vita. Non a caso nel testo del manifesto di lutto, che lui stesso ha lasciato ai familiari, la parola «poeta» figura al primo posto, prima di «scrittore» ed «editore». E tra i fogli sparsi sul suo comodino, abbiamo trovato un’ultima versione in dialetto napoletano de L’Infinito di Giacomo Leopardi, datata 6 settembre 2021, tre giorni prima del suo ricovero in ospedale.

Nel suo lascito testamentario ha voluto come epigrafe i versi di un poeta greco anonimo («Piangimi di un pianto breve, nato dal segreto del cuore. Dimmi una tua parola tenera. Di me ricorda, quando con me più non sarà la vita») e ha chiesto alla famiglia di pubblicare la raccolta completa delle sue poesie in lingua italiana, a cui da tempo stava lavorando, ma non in modo organico.

Non è stato un compito facile selezionarle e organizzarle, sia perché alcune sono incomplete, sia perché di qualche lirica (per fortuna poche) l’autore aveva proposto più versioni. Le cartelle di lavoro testimoniano l’intensa attività poetica di Tommaso Avagliano, che un po’ artigiano un po’ musicista cesellava i suoi versi ragionando a lungo sul suono segreto di ogni parola (nelle bozze si trovano minuziosi elenchi di aggettivi e sostantivi), provando varie alternative, anche a distanza di anni. Non di tutte le poesie è stato possibile rintracciare la datazione, ma ovviamente questo poco toglie alla lettura. In qualche caso il testo è stato da lui mutato o integrato anche dopo trenta-quaranta anni, come è avvenuto per Orme, a cui ha lavorato fino alle ultime settimane della sua vita.

Per alcune sezioni della raccolta (come Familiaria, Stagioni ed Epigrammi) Tommaso Avagliano ha lasciato una schema di organizzazione abbastanza definito. Per le altre sezioni, ho seguito discrezionalmente un criterio tematico/emozionale, ad eccezione delle poesie giovanili, che sono in appendice, per le quali ho adottato un criterio cronologico. Per alcune poesie il titolo è il medesimo e in questo caso ho aggiunto un numero progressivo per distinguerle.

Buona parte delle poesie di questa raccolta è inedita, ad eccezione di quelle comprese nei volumi Poesie a Lil (1964) e In un’ora di luce (1990), peraltro stampati fuori commercio e ormai introvabili. Le liriche in dialetto napoletano sono invece raccolte nel volume Tra veglia e suonno del 2005. Una sezione della raccolta è dedicata agli “esercizi di traduzione” di poeti classici greci e latini, tratti in gran parte dal volume Giornale di viaggio del 1987.

Dalle cartelle di lavoro dell’autore sono state tratte anche alcune poesie non rientranti nella sua selezione o perché scritte su fogli volanti ritrovati in mezzo ai suoi appunti, e probabilmente da lui stesso dimenticate, o perché in fase di stesura finale, ma assai potenti per il loro afflato lirico.

Nelle poesie di Tommaso Avagliano emerge con forza l’attaccamento alle sue radici cittadine e familiari. Era innamorato di Cava de’ Tirreni, ma non prigioniero del suo “provincialismo”. I suoi versi infatti trattano i temi universali della formazione adolescenziale, dell’amore per la moglie Lia, i figli, i genitori, i nonni, dell’amicizia, del tradimento, della natura, della bellezza, del paesaggio, dell’arte, toccando anche la storia e l’attualità, dalla Primavera di Praga alla guerra in Afghanistan e all’ascesa di Silvio Berlusconi.

E già ventenne riflette sulla morte, a cui dedicherà svariate liriche. Aveva perso la madre Anna – alla quale, assieme al padre, è dedicata questa raccolta – all’età di 7 anni e soffrirà questo vulnus durante tutta la sua esistenza, come attestano i suoi versi: «Oh madre, dove sei? / Perché tardi tanto a venire? / Eppure / mi sei vicina, lo sento: / non puoi / avermi lasciato per sempre».

«Fresche e leggere di colori come acquerelli sono in gran parte queste poesie brevi – osserva lui stesso in un appunto recentissimo –, scritte in vari periodi della mia vita, accanto ad altre di maggior peso e consistenza, paragonabili, per rimanere in metafora, ai dipinti ad olio nell’opera di un pittore. Non tutte però brillano come gocce di rugiada al sole, e qualcuna tende addirittura al grigio o al fosco. Ma pazienza, non si può essere sempre lieti e sereni quando si mette penna in carta. Mi è sembrato che, tutte assieme, possano dare testimonianza di un lavorio poetico al quale mi applico ormai da un sessantennio – con alti e bassi, s’intende – ma senza mai deviare».

Al Tommaso Avagliano leggero, passionale, nostalgico, malinconico, si accompagna anche un alter ego puntuto, ironico e irriverente, con lo pseudonimo di Masoagro, un «ilare folletto» (parole tratte da una sua nota) i cui versi, per lo più sotto forma di epigrammi, prendono di mira in modo mordace uomini e donne, usi e costumi, o giocano con eleganza su argomenti erotici, solo in parte già pubblicati in una raccolta intitolata Epigrammi di Masoagro (1987). Se ne propone un’ampia selezione, escludendo – per coerenza – quelli in dialetto napoletano (destinati ad altra raccolta) e quelli da lui stesso definiti metelliani, che si riferiscono a personaggi di valenza locale.

«Questi epigrammi – avverte l’autore in un altro appunto – non li ho scritti io. Li ha scritti il mio amico Masoagro, che ancora una volta ha voluto fossi io a firmarli. Lui preferisce così. E non gl’importa di espormi a critiche e pettegolezzi, trattandosi di poesiole che scivolano volentieri nell’erotico e nel “proibito”. Ma proibito da chi? Oggi se ne vedono e se ne leggono di tutti i colori che non ci si scandalizza più di niente. Anzi nei suoi versiccioli c’è una grazia di dettato che non scade mai nel volgare o nel pornografico. Se li gusti perciò, con piacere, il lettore goloso. Il mio amico li ha raccolti proprio per lui».

Mentre mi accingo a concludere la stesura di questa introduzione, continuando a consultare i quaderni di mio padre, spunta fuori un altro foglietto volante da lui appuntato a penna, con la sua calligrafia arrotondata che – confesso, il dettaglio m’impressiona! - assomiglia così tanto alla mia. Vi trascrive una lirica della poetessa Vivian Lamarque, che mi pare riassuma la sua filosofia di vita, e perciò la riporto:

 

Post scriptum

Siamo poeti.

Vogliateci bene da vivi di più.

Da morti di meno.

Che tanto non lo sapremo.

 

  • Pubblicato in Articoli
Sottoscrivi questo feed RSS