Torna domani, inverno. Poesie di una vita (1959-2021) di Tommaso Avagliano

Torna domani, inverno. Poesie di una vita (1959-2021) di Tommaso Avagliano inaugura la collana La ginestra, dal titolo della famosa poesia scritta da Giacomo Leopardi nel suo periodo “napoletano”, che sarà diretta da Rosa Giulio e Alberto Granese, ordinari di Letteratura italiana all’Università di Salerno.

Il libro (pp. 336, € 15.00) raccoglie per la prima volta tutta la produzione poetica dell’editore, poeta e scrittore scomparso nel settembre 2021, con quarta di copertina firmata dal poeta Elio Pecora e introduzione del giornalista e storico Mario Avagliano.

La raccolta è suddivisa in sezioni con versi di volta in volta nostalgici, leggeri, puntuti, passionali, ironici, erotici. Poesie che toccano i temi universali della formazione adolescenziale, dell’amore, della famiglia, dell’amicizia, del tradimento, della natura, della bellezza, dell’arte, della politica e della guerra, con molte poesie dedicata alla sua amata Cava, con versi su Mamma Lucia, Sant’Arcangelo, Monte Finestra, la Badia e la Pietrasanta, l’Epitaffio, Marina di Vietri e Raito.

«Se un’opera di poesia, per essere tale, deve commuovere chi legge, nel senso di muoverlo dentro, di attrarlo nelle sue musiche, di condurlo dove la vita si mostra libera e vera, a questo libro va riconosciuto un così vasto esito», commenta nella quarta di copertina Elio Pecora, uno dei più grandi poeti italiani contemporanei. «Queste di Tommaso Avagliano sono poesie che traversano tutta un’esistenza e i più diversi umori: dallo stupore alla malinconia, dal pensiero che apre porte alla nostalgia che inserra il passato e lo abita. Ma dominante è qui la necessità di esprimersi con le parole e le cadenze della poesia, una poesia amata come il maggiore lascito e il bene più prezioso. Sono numerosi i poeti chiamati in questo libro, dagli antichi ai contemporanei, da Saffo a Verlaine, da Leopardi a Sinisgalli. E tanti i luoghi e le persone, tanti i momenti e le anse colorate della memoria e i guizzi della mente vigilante e inquieta che si consegnano per nitore espressivo e sentimento trepido», continua Pecora.

 

L’autore

Tommaso Avagliano (Cava de’ Tirreni 1940-2021) è stato un poeta, scrittore, editore, fondando le case editrici Avagliano e Marlin. Ha esordito nel 1964 con Poesie a Lil, a cui sono seguite pubblicazioni di vario argomento, tra cui: I soavi starnuti (1966), Incontro con Carotenuto (1972), Profilo del Marchese Genoino (1982), Marco Polo, il viaggiatore meraviglioso (1983), Aria di Cava (1984), Epigrammi di Masoagro (1987), Giornale di viaggio (1987), In un’ora di luce (1990), Una città chiamata La Cava (1999), Un poeta tra le rose (2002), Tra veglia e suonno (2005); Erano tutti suoi figli. Mamma Lucia tra storia e leggenda (2020). Ha curato: A. Genoino, Le Sicilie al tempo di Francesco I (1982), F. Marcellino, A tempo pierzo (1983), A. Genoino, Scritti di storia cavese (1985), Principessa di Villa, Passeggiate nei dintorni di Cava (1994), S. Calvanese, Amico di pittori (2003), Dalla storia alle storie. Pagine di vita cavese 1915-1945 (2013), P. Craven, Tra i monti della Cava. Gente, credenze e usanze in un villaggio dell’800 (2014).

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Tommaso Avagliano, un’esistenza dedicata alla poesia

Mario Avagliano

Oggi non siamo qui solo per una commemorazione. È vero, per i familiari e per gli amici intimi è ancora vivo il dolore e quindi in noi albergano sentimenti quali il ricordo e la commozione. Ma vorrei sottolineare che l’uscita di questo libro vale molto di più del ricordo. È soprattutto la celebrazione dell’estro, del talento e della poesia di Tommaso Avagliano, i cui versi travalicano il tempo e lo spazio, come solo i grandi poeti sanno fare.

Nell’introduzione a questa raccolta ho scritto che la poesia attraversa tutta l’esistenza di Tommaso. Ci raccontava che da ragazzo, non appena racimolava qualche soldo, invece di spenderlo in «cose futili», dalle sigarette alle bibite e ai gelati, come facevano tanti suoi amici, acquistava romanzi e libri di poesia che divorava in notti arse di passione per la letteratura. Era quello il suo «divertimento».

Scrisse la sua prima poesia a quattordici o quindici anni per il giornale della scuola “Caleidoscopio”, come ho trovato annotato su un foglio tra le sue carte, datato 2014. Si può immaginare la sua delusione quando gli fu riferito che il comitato di redazione l’aveva cestinata, giudicandola troppo ben fatta per essere farina del suo sacco.

Nelle numerose cartelle di lavoro conservate nel suo studio le prime poesie sono del 1958, quando aveva appena 18 anni, e ha continuato a scrivere liriche per tutta la sua vita. Non a caso nel testo del manifesto di lutto, che lui stesso ha lasciato ai familiari, la parola «poeta» figura al primo posto, prima di «scrittore» ed «editore». E tra i fogli sparsi sul suo comodino, abbiamo trovato un’ultima versione in dialetto napoletano de L’Infinito di Giacomo Leopardi, datata 6 settembre 2021, tre giorni prima del suo ricovero in ospedale.

Ho curato io questa raccolta di poesie, tra cui diverse dedicate alla nostra Cava, e a cui lui stava lavorando da tempo. Non è stato un compito facile selezionarle e organizzarle, sia perché alcune sono incomplete, sia perché di qualche lirica (per fortuna poche) aveva proposto più versioni. Le cartelle di lavoro testimoniano l’intensa attività poetica di Tommaso Avagliano, che un po’ artigiano un po’ musicista cesellava i suoi versi ragionando a lungo sul suono segreto di ogni parola (nelle bozze si trovano minuziosi elenchi di aggettivi e sostantivi), provando varie alternative, anche a distanza di anni.

Buona parte delle poesie di questa raccolta è inedita, ad eccezione di quelle comprese nei volumi Poesie a Lil (1964) e In un'ora di luce (1990), peraltro stampati fuori commercio e ormai introvabili. Le liriche in dialetto napoletano sono invece raccolte nel volume Tra veglia e suonno del 2005.

Una sezione della raccolta è dedicata agli “esercizi di traduzione” di poeti classici greci e latini, tratti dal volume Giornale di viaggio del 1987.

Dalle cartelle di lavoro dell’autore ho tratto anche alcune poesie non rientranti nella sua selezione o perché scritte su fogli volanti ritrovati in mezzo ai suoi appunti, e probabilmente da lui stesso dimenticate, o perché in fase di stesura finale, ma assai potenti per il loro afflato lirico.

Studiando la storia contemporanea, so quanto sia importante la poesia, l’arte, la letteratura per resistere alle brutture della guerra e alla violenza: vi ricorrevano ad esempio i deportati e i prigionieri militari.

Anche Tommaso in alcune liriche che abbiamo ascoltato ne ha parlato. Quella su Praga sembra quasi attuale, purtroppo. Vi risuonano gli echi di quello che sta accadendo in Ucraina.

Astraendomi dal fatto di essere figlio di Tommaso Avagliano, devo dire che anche come curatore e lettore mi sono ritrovato negli splendidi interventi di Rosa Giulio e di Alberto Granese, che hanno spiegato con grande competenza l’alto valore della sua poetica. Alla sua memoria e al suo amato Giacomo Leopardi abbiamo dedicato la collana di poesie che viene inaugurata proprio con questa raccolta, significativamente intitolata “La ginestra”.

Rivestendo i panni di figlio, ho anche io varie poesie del cuore. Una voglio leggerla io e s’intitola “Buongiorno”, e fu scritta nel 1966 anno della mia nascita:

 

Sembra un sogno vederti

splendere sulla soglia

tra le braccia di mamma

come un raggio di sole

improvviso fra i rami

d’una giovane pianta.

Ed il babbo sorride

accogliendoti a volo

d’angelo sul suo petto.

 

Tommaso Avagliano voglio ricordarlo e celebrarlo così.

Ciao Papà.

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Tommaso Avagliano, le Poesie di una vita

Presentata la raccolta poetica dell’illustre personaggio cavese, scomparso nel settembre 2021

 

Una sera di emozioni, di poesia e di musica. Sabato 26 marzo, al Social Club Tennis di Cava de’ Tirreni, è stata presentata la raccolta poetica di Tommaso Avagliano, intitolata Torna domani, inverno. Poesie di una vita (1959-2021), un evento organizzato dal Comune di Cava, il Social Tennis Club, il Centro Studi Storia di Cava, l’Associazione Giornalisti e l’Associazione Talenti.

Il sindaco Vincenzo Servalli, in un messaggio, ha definito Tommaso Avagliano “uno dei figli migliori di Cava”, promettendo assieme all’assessore alla Cultura Armando Lamberti, che ha portato i saluti dell’amministrazione comunale, che in tempi brevi la sua città troverà il modo di ricordarlo degnamente e in modo perenne. Il presidente del Social Tennis Club Luca Ricciardelli si è detto onorato di poter ricordare una figura cavese così rilevante.

Sotto la sapiente guida di Franco Bruno Vitolo e la regia tecnica di Gerardo Ardito, si sono succeduti gli interventi, davanti a un pubblico foltissimo, partecipe e attento. Rosa Giulio, ordinario di Letteratura italiana all’Università di Salerno, ha spiegato che «questa raccolta poetica, così intensa e così toccante, è il libro perfetto per inaugurare la collana di poesia della Marlin, un’operazione coraggiosa in questi tempi». Alberto Granese, uno dei maggiori critici letterari italiani, ha sottolineato che «Avagliano era un intellettuale completo dalla grande preparazione classica, che si rivelava nelle traduzioni dei lirici greci e latini, e poeta attento alla musicalità del verso e alla raffinata limatura. Sensibilità, vena introspettiva, ironia, argutezza, motti di spirito e sensualità caratterizzano la sua vena creativa».

La serata è stata impreziosita dalle letture di Renata Fusco che con la sua voce straordinaria ha interpretato in modo mirabile le liriche di Tommaso Avagliano, con un omaggio musicale a cura della brava Camilla Paoletti, che ha cantato due canzoni di Salvatore Di Giacomo, autore molto amato da Avagliano. Erano presenti la moglie dell’autore, Lia Redi, e i figli Mario, Sante e Luciano Avagliano. Pubblichiamo uno stralcio dell’intervento del nostro direttore, Mario Avagliano.

(Cavanotizie.it, aprile 2022)

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L'Italia senza camicia nera. Aldo Cazzullo: la prima ricostruzione completa del dissenso al regime

di Aldo Cazzullo

«Mussolini visita un manicomio. I ricoverati messi in fila applaudono freneticamente. Uno solo non batte le mani. Un uomo della scoria lo interroga: e voi non applaudite? Non sono mica matto, io sono un infermiere». E' una delle tante barzellette che vengono raccontate sotto la dittatura di Benito Mussolini. Un'ironia sotterranea e amara, che circola segretamente tra gli italiani nei primi anni Trenta. Il regime fascista, del resto, dopo aver neutralizzato ogni forma d'opposizione, ha fatto scendere la sua cappa oppressiva sul Paese. La macchina della repressione, con l'occhio vigile della polizia e delle spie, e quella del consenso, con la propaganda, le organizzazioni paramilitari e le adunate oceaniche, funzionano a pieni giri. Non essere allineati è un rischio troppo alto da correre e non sono solo gli oppositori veri e propri a rischiare, ma anche i semplici mormoratori, cioè chi si lascia sfuggire mere imprecazioni o battute di spirito contro Mussolini e il fascismo o sulla situazione in generale.

E' quanto racconta il nuovo libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri, intitolato II dissenso al fascismo. Gli italiani che si ribellarono a Mussolini 1925-1943 (il Mulino). Da anni Avagliano e Palmieri portano avanti una loro peculiare ricerca storica, basata su un enorme lavoro sulla corrispondenza e sulle carte private e familiari degli italiani. Questa è la prima ricostruzione completa del dissenso al regime. A conferma del fatto che non tutti gli italiani sono stati fascisti.

Le spedizioni punitive, le ritorsioni, le condanne del Tribunale speciale al carcere e al confino e la vigilanza onnipresente e asfissiante della polizia politica, la famigerata Ovra, riducono al silenzio, all'inattività o alla fuga all'estero buona parte degli oppositori e anche chi semplicemente si lamenta o ironizza sul Duce e l'operato del regime. Le uniche opinioni consentite sono quelle autorizzate, cioè allineate. Ogni ambito della vita pubblica e privata è presidiato. «L'Italia — spiegherà nel 1944 l'antifascista di Albano Umberto Di Fazio — era divenuta per gli italiani un terreno così infido che bisognava bene esaminare davanti a sé prima di avventurarsi a muovere un piede. Si giunse all'assurdo che qualche volta persino tra le pareti domestiche si dubitava». E il periodico satirico «Il becco giallo» da Parigi, nel 1931, in un articolo intitolato Il mito dell'Ovra osserva che «c'è chi vede il fantasma dell'Ovra in ogni ombra; chi abbrividisce ad ogni palpito di tenda; chi suda freddo per lo scricchiolio di un mobile o per il gemito di una porta».

Eppure negli anni della dittatura il dissenso non viene soffocato del tutto. Una minoranza di italiani ha il coraggio di continuare a esprimerlo, pagando un prezzo altissimo in termini di emarginazione e isolamento sociale, controllo poliziesco, violenze e condanne severe. Accanto a figure note come Gramsci, Gobetti, Matteotti, don Minzoni e ai tanti esuli costretti alla fuga all'estero fin dai primi anni del regime, il libro prende in esame anche l'opposizione spontanea, popolare, spesso politicamente inconsapevole e finora poco indagata, che forma un terreno fertile su cui poi attecchirà la partecipazione di molti italiani alla guerra di Liberazione.

Il dissenso trova varie forme, pubbliche e private, eclatanti o sotterranee, esplicite o camuffate, organizzate o spontanee, per continuare ad essere manifestato. Si tratta di spazi residuali e limitati, pericolosissimi da occupare, che però persistono durante tutta la dittatura in modo non omogeneo nel tempo e nelle diverse zone del Paese. Con varie forme di espressione che spaziano dalla semplice indifferenza, alla non adesione intima e privata, fino all'antifascismo militante, con espressioni che vanno dai comportamenti privati alle iniziative individuali, fino all'impegno più organizzato. È il caso del giovane «di 25 anni, scarno, di statura media, colorito roseo, capelli castani con maglietta da ciclista color bigio» che, come riferisce una relazione della polizia, in un mattino della fine del 1927 scende da Albano lungo l'Appia a tutta velocità con la sua bicicletta lanciando manifestini che invitano a lottare contro il fascismo. O quello del fornaio Giuseppe Sciuto, di Catania, non iscritto a nessun partito ma che tra il 1939 e il 1941 scrive ben 118 lettere anonime in stampatello a personalità italiane, gerarchi fascisti e giornalisti italiani e stranieri con frasi come: «Il fascismo tiene gli operai schiavi e sacrificati; il fascismo, banditismo nero, assassino, micidiale e nemico dell'umanità». Decine di agenti vengono impiegati nella caccia all'uomo, anche prendendo il posto dei postini di Catania e sorvegliando le buche delle poste, ma ci vogliono due anni per stanare Sciuto, arrestato il 5 maggio 1941 mentre sta per imbustare altre missive alla cassetta postale.

Spesso si tratta di un «antifascismo da osteria», in quanto i presunti dissidenti pronunciano le loro invettive sotto i fumi dell'alcol, nel corso di litigi o per eccessi di rabbia dovuti alla disperazione e alla miseria, incappando nelle denunce di delatori di passaggio, colleghi, conoscenti o perfino parenti, talora ritrattandole per evitare la condanna o alleviare le pene. Non mancano però filoni di dissenso sociale più profondi e meno estemporanei, che arrivano anche a proteste popolari come cortei davanti alle sedi istituzionali e tumulti e scioperi nelle fabbriche e nelle campagne, soprattutto nei momenti più gravi della crisi economico-sociale, che vedono protagoniste anche tantissime donne: dopo la rivalutazione della lira del 1926-27, nei primi anni Trenta con l'arrivo in Italia degli effetti della Grande Depressione e durante la guerra, specie tra il 1942 e i primi mesi del 1943. 

Esercitare il dissenso sotto il fascismo ha un costo. Tra il 1926 e il 1943 ogni settimana, come ha calcolato Altiero Spinelli, il regime infligge l'ammonizione o la vigilanza speciale a 181 cittadini, ne invia 11 al confino, ne denuncia 24 al Tribunale speciale e ne condanna 6 al carcere con pene fino a trent'anni. La maggior parte degli antifascisti trascorre buona parte della giovinezza tra il carcere e il confino. «Cara Fiorella — osserva sempre Spinelli in una lettera de11942 — ecco oggi, tre giugno, son quindici anni che son prigioniero, il 43% della mia vita totale, o, se si conta la vita effettiva dai 15 anni in su, il 75%. Con un certo senso di orrore sto scrivendo queste cifre. Non credo che ci sia molta gente al mondo che abbia battuto questi record».

E' un dissenso che ha tanti volti e tante forme. Lo esprimono uomini e donne legati ad antiche fedeltà ideali e politiche maturate prima dell'avvento del regime, in famiglia o nelle comunità cittadine o di quartiere. Ci sono anche antifascisti «dormienti», che sono rimasti in Italia e hanno abbandonato l'attività politica attiva, ma di cui è nota la contrarietà al Duce. Così come sono i più vari i luoghi del dissenso: per strada, nelle trattorie, nei bar, sui tram, nei posti di lavoro, nel privato delle proprie case. E lo stesso vale per le sue forme, tra cui quelle cosiddette «povere»: barzellette, filastrocche, caricature, parodie di canzoni o di poesie, insulti e imprecazioni contro Mussolini e i gerarchi, statue parlanti (come nel caso di Roma), scritte murali che spesso compaiono in occasione di date simbolo come il primo maggio, ritocchi sarcastici di cartoline propagandistiche, volantini artigianali, intonazione di canti politici, culto e ricordo degli oppositori morti per mano fascista e funerali sovversivi.

(Corriere della Sera, 9 ottobre 2022)

Paisà, sciuscià e segnorine

di Andrea Manzella

 

1. Questa di Avagliano e Palmieri (Paisà, sciuscià e segnorine. Il Sud e Roma dallo sbarco in Sicilia al 25 aprile, Il Mulino) è una narrazione puntiforme della tempesta perfetta che si abbattè sul Mezzogiorno d’Italia nei venti mesi tra il 1943 e il 1945. Da essa si possono ricavare - intrecciate tra loro nel tempo, ma autonome nella loro sostanza - tre storie: una storia politica, una storia militare, una storia sociale. La storia politica è quella della “King’s Italy” - come la chiamarono gli Alleati - del Regno del Sud (secondo la formula del libro pioneristico di Agostino degli Espinosa, 1946). Comincia, come molte vicende di quel tempo, a Radio Bari, da dove l’11 settembre parlò il Re, fuggito da Roma: «per la salvezza della Capitale e per potere pienamente assolvere i miei doveri di Re, col Governo e con le Autorità militari, mi sono trasferito in altro punto del sacro e libero suolo nazionale». Il territorio “nazionale” era ridotto alle province di Bari, Lecce, Brindisi, Taranto : lasciate formalmente “libere” dagli Alleati. La gran parte dei ministri del governo Badoglio era rimasta a Roma. I superstiti si riunirono in Vaticano, per l’ultimo Consiglio dei ministri : per autosciogliersi. A Brindisi e sparpagliato tra varie località pugliesi, vi era, in sostituzione, un “governo di sottosegretari” (p. 155). Le condizioni operative sono più che precarie. Mancano perfino i dattilografi. Badoglio è costretto a scrivere a mano le comunicazioni ufficiali da consegnare agli Alleati. Eppure non è una “parvenza” di Stato. È il punto simbolico di legittimità a cui guarderanno le poche forze armate che non si sono arrese, i 600 mila prigionieri avviati in Germania, la flotta che amarissimamente si consegna a Malta (dopo la perdita della corazzata “Roma”), ma anche i cadetti dell’Accademia di Marina che fuggono su un mercantile da Venezia per raggiungere fortunosamente Brindisi. È anche il “territorio” statuale in cui sarà possibile che nuovi partiti politici potranno cominciare a pensare a come rinnovare lo Stato. Paradossalmente quella precaria “continuità” dello Stato è la premessa della sua ri-costituzione. Il Congresso di Bari del 28-29 gennaio 1944 è giustamente salutato dalla Gazzetta del Mezzogiorno come il «primo congresso antifascista dell’Europa liberata» (p. 146). Nel discorso di Michele Cifarelli che l’introdusse, come in quello di Benedetto Croce che avviò il dibattito vi è questa consapevolezza “europea”. «All’Italia prima terra d’Europa liberata» - dirà Croce - «gli altri paesi europei guarderanno come il saggio della loro nuova vita». Ma soprattutto nel Congresso si pongono le premesse delle “Costituzioni provvisorie” che - nella dialettica continuità/rinnovamento - si susseguiranno sino al 2 giugno 1946. Senza interruzioni della legalità vigente, si arrivò alla “rivoluzione” dello Stato repubblicano. Queste premesse costituzionali si trovano ancora una volta nella denuncia di Croce a quel Congresso: fino a che il Re rimane «noi sentiamo che il fascismo non è finito, che ci rimane attaccato addosso». Eppure quel Congresso fondativo era stato all’inizio proibito dai “governatori” occupanti. Ma una significativa mobilitazione internazionale, dei laburisti nel Regno Uniti e dei democratici negli Stati Uniti, avevano superato le resistenze dei militari. Questi riusciranno però ad impedirne la radiocronaca. Una registrazione arrivò però ugualmente alla BBC e a Radio Londra. Quel Congresso italiano d’avanguardia fu così conosciuto in tutto il mondo. Dopo il regime del “partito unico” - e ancora nell’ “anello di ferro” in cui era mantenuta quella parte d’Italia (è il lamento di Badoglio a Roosevelt, p. 173) - nasce lo “Stato pluralistico dei partiti”. La prima a riconoscerlo è la Russia sovietica. Dopo un incontro di Badoglio con Vyšinskij, l’URSS è la prima nazione a ristabilire le relazioni diplomatiche con l’Italia, già il 13 marzo 1944. Il primo ambasciatore italiano a Mosca è Pietro Quaroni. Per un suo articolo “non ortodosso” sulla politica etiopica fascista, era stato inviato per punizione in Afghanistan. Nel caos del mondo si trova così ad essere il diplomatico, leale allo Stato monarchico, più vicino al confine russo, lungo il fiume Amur. Due settimane dopo, ritorna Togliatti da Mosca. È il punto preciso del tempo in cui veramente rinasce il Partito comunista italiano fino allora una «galassia di corpuscoli divisi tra loro» (p. 160). Un acutissimo scrittore inviato di guerra, Norman Lewis, annota subito profeticamente: «ci sono tutte le premesse perché il partito diventi il più forte partito comunista al di fuori dell’URSS», proprio perché «annovera un’alta percentuale di intellettuali borghesi». Gli inglesi e gli americani, invece, ci faranno aprire le ambasciate a Londra e Washington solo il 28 settembre, sei mesi dopo dell’URSS (p. 201). Eppure l’Italia è “cobelligerante” dal 13 ottobre 1943. Da quando ha dichiarato la guerra alla Germania. Ma all’apertura sovietica, all’atteggiamento tutto sommato amichevole degli USA, corrisponde una tenace resistenza di Winston Churchill per il mantenimento dell’immobilismo nella situazione italiana. «Sono certo - dirà con il suo consueto realismo - che il Re e Badoglio sarebbero in grado di fare per noi più di qualsiasi governo italiano formato da esuli e avversari del regime fascista». E poi, il 22 febbraio 1944, nel “discorso della caffettiera” andrà oltre: sostenendo che l’unico governo possibile era quello di Badoglio perché «quando occorre tenere in mano una caffettiera bollente è meglio non rompere il manico finché non si è sicuri di averne un altro ugualmente comodo e pratico». La furibonda reazione a queste parole da parte dei partiti italiani - pur repressa nelle intenzioni di sciopero generale - è però tale da attestare che anche il manico della caffettiera di Churchill è divenuto incandescente. Il 24 aprile 1944, infatti, è la «svolta di Salerno». Il Re Vittorio Emanuele ha accettato di ritirarsi appena liberata Roma. Ma intanto è lui, a Ravello, che riceverà nelle sue mani il giuramento del II governo Badoglio: con Croce, Togliatti, Gullo, Aldisio, e perfino il repubblicano conte Sforza. Dopo la liberazione di Roma (con la ritirata tedesca ordinata da Hitler: per preservare il “centro di civiltà più antico del mondo”, p.187) il tempo di Badoglio sarà però anch’esso scaduto. Nasce il governo Bonomi con tutti i partiti antifascisti. Ma il maresciallo esautorato avrà modo di “cantarla” duramente ai “nuovi venuti”: «mentre voi eravate nascosti o chiusi nei conventi, chi ha lavorato, assumendo le più gravi responsabilità, è quel militare che non appartiene a nessun partito». La protesta più rabbiosa è però quella, coerente, di Winston Churchill che in un telegramma a Roosevelt, accusa gli alleati di aver sostituito Badoglio con un «gruppo di anziani e affamati politicanti» (p. 200). La macchina della politica nazionale si era però ormai messa in moto. L’Italia procedeva verso la riunificazione proprio mentre in Sicilia iniziava la gravissima crisi del separatismo. La “questione regionale” si apriva, in un certo senso distorto, non solo in Sicilia: e non sarà veramente risolta fino ai giorni nostri.

2. Lo stesso assetto costituzionale del nuovo Stato sarà infatti condizionato dalla storia sociale del Regno del Sud. I moti siciliani che hanno il loro epicentro nella “strage del pane di Palermo” (repressa nel sangue dai militari della divisione Sabauda, comandata dal generale Castellano, lo stesso dell’armistizio di Cassibile); e i moti sardi scoppiati a Sassari (con protagonista il giovanissimo Enrico Berlinguer, imprigionato per cento giorni) (pp. 319-321) sfoceranno alla fine nei due Statuti speciali, anteriori alla Costituzione repubblicana. Nel retroscena siciliano, poi, vi era stata quella che sembra la prima “trattativa Stato-mafia”, condotta proprio dal generale Castellano, che, con i suoi “buoni” rapporti, riuscì ad ottenere l’appoggio dell’“alta mafia” contro il dilagante fenomeno del banditismo (l’ «ora basta!» di don Calogero Vizzini, p. 337). Si “riconosceva” dunque l’egemonia di di un “potere altro”: anche se dai loro rapporti risulta che la mafia fu più un problema per gli Alleati (la cui origine era attribuita agli “interpreti” italo-americani che si erano portati dietro) che non la risorsa che favorì l’invasione militare, di cui a lungo si favoleggiò (p. 329). L’epilogo istituzionale del regionalismo “speciale” rappresenta, almeno da questo angolo visuale, quasi un attestato della singolare esperienza meridionale, segnata da tragedie individuali e collettive, provocate dalle due successive occupazioni militari. Avagliano e Palmieri ne fanno un resoconto minuto, localizzato e spesso personalizzato. Emergono i misfatti tedeschi: con la loro cieca applicazione di una sorta di diritto di guerra in rappresaglie e rastrellamenti di lavoratori coatti per la loro macchina bellica, affamata di uomini. Emergono i misfatti degli Alleati, originati piuttosto da criminalità comune nelle loro fila: ma anche con barbare uccisioni di gruppi di prigionieri di guerra italiani nei primi giorni dell’invasione siciliana e anche -e sopratutto- con quel generale diritto di stupro e di vendetta che i comandanti francesi consentirono alle loro truppe africane. Il dramma delle donne “marocchinate” provocò la protesta ufficiale del pur flebile governo Bonomi. E fu un enorme contributo alla efficacia della propaganda fascista dal Nord.

3. La storia militare di quegli anni è indistricabile da questa scia di profondo perturbamento sociale, così come dagli sforzi di ricostruzione politica. Quando alle 18.15 del 18 agosto 1943 Badoglio ed un redivivo Vittorio Emanuele Orlando si rivolgono da Radio Roma ai “fratelli siciliani” invasi, dalle loro parole traspare già la rassegnazione all’inevitabile-sconfitta. L’evacuazione dell’isola è avvenuta perfettamente il giorno prima: è stato uno stupefacente capolavoro militare tedesco. Nello stretto di Messina, grazie a un efficacissimo fuoco antiaereo dalle due sponde, si sono ritirati in Calabria più di centomila uomini (60mila italiani, 40mila tedeschi) e migliaia di tonnellate di materiale bellico. Ma i tedeschi già apprestano le loro successive linee difensive nella Penisola: l’ “ordine” militare contro il disordine dell’impotenza . Tuttavia, quando Badoglio e il Re si ritroveranno nel “ridotto” delle quattro province pugliesi, il loro primo sforzo è quello di riorganizzare un primo nucleo militare che attestasse - nell’unico modo concreto consentito in quelle condizioni - una continuità simbolica dello Stato monarchico. Già il 24 settembre (mentre il Re proclama da Radio Bari la lotta contro «l’inumano nemico della nostra razza e della nostra civiltà»: parole surreali in quanto riservate ad un alleato di appena 16 giorni prima) si costituisce una unità motorizzata di 5 mila uomini (p. 346). È l’inizio della “cobelligeranza”: accolta con estrema freddezza dagli Alleati (nonostante gli sforzi ripetuti di Badoglio, che scrive ad Eisenhower: «abbiamo chiesto l’armistizio perché deboli ma non siamo dei poltroni» ed arriverà ad offrire le sue dimissioni nel caso che l’ostacolo al riarmo fosse stata la sua persona, p. 354). Il “battesimo del fuoco” sarà a Montelungo il 26 novembre: una piccola vittoria, dal grande significato, pagato a carissimo prezzo, 82 caduti e 160 dispersi. È a Scapoli, paesino del Molise, che le unità militari del Regno del Sud, assumeranno il nome di Corpo italiano di liberazione. Gli Alleati faranno tornare dalla onorevole prigionia in Tunisia il maresciallo Messe, non compromesso dunque con il disastro della dissoluzione militare dopo l’armistizio. Sarà il nuovo capo di Stato maggiore. Alla fine del conflitto il Corpo - che opererà sul versante adriatico con i polacchi del generale Anders - avrà 200 mila uomini e conterà 8100 caduti (p. 356). Accanto alla ricostituzione di una entità militare “regolare”, il Regno del Sud vedrà tentativi di volontariato, in un certo senso politico: tentativi nettamente stroncati dagli Alleati. Sarà Benedetto Croce a redigere e firmare, già l’11 ottobre 1943, un “manifesto per la chiamata di volontari” (p. 349). Ci sarà anche, più tardi, nel luglio 1944, un appello di Togliatti. In realtà i volontari, nonostante tutto, affluiscono in buon numero in un campo allestito a Cesano. Non troveranno né equipaggiamento né inquadramento. Rabbia e ribellione accoglieranno, invece, soprattutto in Sicilia, i bandi militari di leva del governo Badoglio. «Non vogliamo andare contro i nostri fratelli del Nord»: il movimento “Non si parte” vedrà uniti separatisti e neofascisti. A Comiso questo eterogeneo connubio fonda addirittura una sedicente repubblica indipendente. Durerà una settimana: sotto minaccia militare la “repubblica” si arrende. Trecento rivoltosi saranno confinati. Ad essi Mussolini conferirà la medaglia d’argento della sua Repubblica sociale. In via più generale, il libro sottolinea che l’attenzione riservata ai “clandestini” neo-fascisti operanti dietro le linee alleate, era già risuonata nel famoso ultimo discorso di Mussolini al Lirico di Milano: troveremo al Sud «più fascismo di quanto ne abbiamo lasciato». A questa "resistenza" fascista aveva dato un formidabile contributo ideale la distruzione del secolare monastero di Montecassino: avvenuto - per inesistenti necessità belliche degli Alleati - nonostante che i loro Monuments Officers fossero già operanti per tentare di preservare il nostro patrimonio artistico dalle offese di guerra. Dopo quella devastazione che provocò fortissima emozione nel mondo cattolico degli stessi Paesi alleati, la Repubblica Sociale Italiana emetterà una serie di francobolli con i danni arrecati dai bombardamenti a vari nostri monumenti, con la scritta hostium rabies diruit. Eventi e fermenti della tragedia nazionale, poco conosciuti: la storia del Sud sarà oscurata dagli eventi fondativi della Resistenza al Nord e della resa tedesca. Quasi a segnare funestamente l’inizio e la fine della guerra al Sud, ci saranno due catastrofi che colpiranno il porto di Bari, la prima “capitale” di quel Regno. Il bombardamento aereo tedesco del 2 dicembre 1943: considerato il maggior successo della Luftwaffe in tutta la guerra (venti grandi navi affondate e fra esse la nave alleata esplosa con un suo carico di iprite, coperto da disumano “segreto militare” che condusse alla morte “sconosciuta” centinaia di lavoratori portuali: mille vittime italiane, mille le alleate). E lo scoppio del piroscafo Henderson saltato in aria provocando quasi 400 vittime, ancora nella luttuosa prima linea i lavoratori portuali baresi: era il 9 aprile del 1945. Erano passati 19 mesi dall’8 settembre; mancavano 16 giorni al 25 aprile.

4. Per molti ragazzini del Regno del Sud il segno che la guerra fosse veramente finita e l’Italia riunificata, fu quando la Mondadori riprese, come se nulla fosse successo, il loro abbonamento a “Topolino” (anche se erano stati nel frattempo compensati dagli splendidi settimanali nati a Roma: “Il Vittorioso”, con i geniali fumetti di Jacovitti, e “L’Intrepido”). Già Fausto Coppi, reduce della prigionia, su una bicicletta regalatagli da un falegname di Somma Vesuviana, aveva fatto in tre giorni gli 800 chilometri che lo separavano da Napoli alla sua casa di Castellania. Riprendeva il campionato di calcio: ancora in due gironi con un turno finale unificato che vide le squadre del Nord largamente dominanti. A Napoli due creazioni artistiche erano state come il sigillo filosofico di una grande tragedia: Napoli milionaria di Eduardo de Filippo («Ha da passa’ a’ nuttata») e Simmo ‘e Napule paisà di Peppino Fiorelli («chi ha avuto, ha avuto, ha avuto /chi ha dato, ha dato, ha dato…scurdammoce ‘o passato»). Sembrava che con quelle parole di speranza e di pacificazione, il Sud volesse dare all’Italia intera il segnale di una Ricostruzione morale e materiale che cominciasse proprio lì, da Roma in giù. In fondo, le tante, dettagliate notizie contenute in questo libro ricordano che la politica, nella sua forma più alta, era rinata proprio lì. A Bari, prima, a Napoli e Salerno poi, una nuova concezione dell’Italia aveva preso forma. Erano tutti lì: da Benedetto Croce ad Aldo Moro, da Carlo Azeglio Ciampi a Michele Cifarelli, da Alcide De Gasperi a Palmiro Togliatti, da Tommaso Fiore a Corrado Alvaro, alla vivacissima Alba de Cespedes. Perfino la prima effervescenza dell’endemico populismo italiano era apparsa lì : con il grande successo dell’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini. Ma c’era stato anche Giuseppe Di Vittorio, che con le lotte contadine, aveva offerto il primo esempio di un “sindacalismo” radicale e nazionale. Con responsabilità e pazienza, che oggi appaiono leggendarie, si erano gradualmente escogitate soluzioni istituzionali, che avrebbero assicurato la transizione legale dallo Stato monarchico a quello repubblicano. Nel Regno del Sud si era formato-come si è visto- il Corpo italiano di liberazione: l’unico punto di riferimento di quadri militari dopo l’armistizio che conferiva una qualche concretezza alla “cobelligeranza” contro il nazifascismo. Il mantenimento in vita di una certa idea di Patria. Radio Bari («qui parla Radio Bari, libera voce del governo d’Italia») e la Gazzetta del Mezzogiorno (l’unico giornale d’Italia a non sospendere le pubblicazioni neppure per un solo giorno in tutti gli anni di guerra, p. 379) furono le voci che attestarono che non tutto lo Stato era scomparso nella voragine delle invasioni. E che uno Stato c’era, con la sua legittimazione, di fronte alla Repubblica Sociale che sembrava attestare solo una reviviscenza del fascismo. Poi ci fu il “vento del Nord” che portò la grande ansia di rinnovamento di un Resistenza italiana connessa a quella europea. Certo, il Sud non fu dimenticato: anche se passarono 5 anni prima della creazione della Cassa per il Mezzogiorno di De Gasperi e Pasquale Saraceno (1950). Ma, anche dopo aver letto il libro di Avagliano e Palmieri, con il suo caleidoscopio di multiformi vicende, si ha la sensazione che poco o nulla fu fatto per mantenere al Meridione del Paese il ruolo “protagonista” con cui aveva affrontato le vicende belliche in cui fu tanto duramente coinvolto. E che avevano fatto constatare, con la vista lunga di Ugo La Malfa, proprio mentre la “politica” si spostava a Roma: «la guerra passata con violenza estrema ha disarticolato completamente un territorio povero, in alcune zone poverissimo» (p. 209). Certo, tante cose sono mutate da quei giorni lontani: ma di quel “protagonismo” non più ritrovato è forse un simbolo La Gazzetta del Mezzogiorno. Non aveva mai chiuso negli anni più bui. Ha chiuso il 1° agosto 2021.

(Rivista Giuridica del Mezzogiorno, 20 dicembre 2021)

Il dopoguerra anticipato del Sud: quando il popolo scrive la Storia

di Pasquale Chessa

Furono tante le guerre che si combatterono in Italia dopo la caduta del fascismo: fra guerra civile e di liberazione, partigiana o di classe, c'è chi ne ha contate almeno sette, insieme a quella mondiale. Di conseguenza non ci fu un solo dopoguerra. Il primo è "scoppiato" almeno due anni prima del 1945, con lo sbarco degli Alleati in Sicilia. Un'asimmetria tutta italiana che rimanda alla frattura geografica e antropologica fra Nord e Sud, per lungo tempo trascurata dalla storiografia, che ha lasciato tracce indelebili non solo nella storia politica ma anche nella mentalità di tutta la nazione.
 
LA RICERCA
Tracce ancora leggibili, come possiamo constatare seguendo la ricostruzione di Mario Avagliano e Marco Palmieri, frutto di una ricerca del tutto inedita sui modi affatto peculiari messi in atto dall'Italia postfascista per uscire dalla Seconda guerra mondiale. Paisà, sciuscià e segnorine. Il Sud e Roma dallo sbarco in Sicilia al 25 aprile (Il Mulino) infatti, non è solo un libro di storia ma piuttosto un racconto di storie che si ramificano nel tempo e nello spazio della geografia. Con una polifonia di voci, che promuove le memorie popolari a fonte storiografica, insieme alle testimonianze giornalistiche e letterarie, compresi romanzi e Sofia Loren nel film del 1960 "La Ciociara" di Vittorio De Sica, dal romanzo di Alberto Moravia film, Avagliano e Palmieri riescono a farci entrare nel vissuto della storia colta nel momento in cui si radica nei comportamenti collettivi. Sapiente è l'equilibrio fra la grande storia, dalla caduta del fascismo alla liberazione di Roma, e i suoi riflessi sul sentimento popolare, dalle "segnorine" che si prostituiscono per salvarsi dalla fame, alle rivolte contadine e ai moti del pane.
 
LA DEFINIZIONE
È stato Enzo Forcella, giornalista politico di primo rango del secondo Novecento, molto sensibile al vissuto collettivo del Paese, a coniare l'innovativa definizione di "altro dopoguerra" in un libro del 1976. Fu infatti un periodo eccezionale, una specie di laboratorio storico-politico, spesso funestato da forme feroci di repressione militare come risposta alle inevitabili rivolte popolari. A Canicattì, il 14 luglio, due giorni dopo la strage perpetrata dai tedeschi in ritirata, gli americani fucilarono almeno una ventina di civili arrestati per aver rubato del sapone... Nella Guida del soldato, la Sicilia è descritta come «un buco infernale [...]abitato da gente troppo povera per andarsene o troppo ignorante per sapere che esistono posti migliori».
 
LA TRAGEDIA
Il romanzo di Alberto Moravia, La ciociara, che Vittorio De Sica tradusse in un film toccante magistralmente interpreto da Sofia Loren, trova la sua ispirazione originaria nella tragedia che travolse la Ciociaria invasa dalle truppe marocchine sbarcate a Napoli nel novembre del 1943 con licenza di saccheggio, fino allo stupro. «1 napoletani non sanno più chi odiare» scriveva Leo Longanesi. Eppure quei due anni «vissuti sotto l'occupazione alleata - riconoscono Avagliano e Palmieri - consolidano il mito della potenza americana collocando definitivamente e stabilmente l'Italia del dopoguerra nella sfera americana e occidentale, nel nuovo scenario della guerra fredda contro la sfera sovietica e comunista».
 
(Il Messaggero, 4 dicembre 2021)

 

Il 7 dicembre presentazione a Roma di "Paisà, sciuscià e segnorine"

Martedì 7 dicembre, alle ore 17.00, presso la sede e sul canale Facebook della Biblioteca di storia moderna e contemporanea, in collaborazione con ANPI, INSMLI e IRSIFAR, sarà presentato il volume Paisà, sciuscià e segnorine. Il Sud e Roma dallo sbarco in Sicilia al 25 aprile di Mario Avagliano e Marco Palmieri. (Il Mulino, 2021). Intervengono: Anna Balzarro, Isabella Insolvibile, Giancarlo Governi,  Gianfranco Pagliarulo. Coordina: Maria Corbi. Saranno presenti gli autori.

È stato chiamato «l'altro dopoguerra» il periodo vissuto dall'Italia meridionale e Roma tra il luglio del 1943, quando gli alleati sbarcano in Sicilia, e il maggio del 1945, quando la guerra finisce. Un lungo periodo, segnato dal procedere lento della linea del fronte verso nord, con combattimenti accaniti, violenze, stragi tedesche e alleate e atti di resistenza, spesso misconosciuti (non solo la battaglia per la difesa di Roma e le Quattro giornate di Napoli). Ma anche un vitale, caotico, difficile ritorno alla pace e alla libertà, con il primo confronto con la democrazia dopo il ventennio fascista. I problemi economici e sociali sono aggravati dall’atteggiamento dei militari alleati, intorno ai quali, come avviene ad esempio a Napoli e a Roma, proliferano fenomeni come segnorine, sciuscià e traffici del mercato nero che portano a un certo decadimento dei costumi morali. Esaurita l’euforia della libertà riconquistata ed emersa la consapevolezza del carattere illusorio dell’aspettativa che l’arrivo degli anglo-americani, simbolizzato dal pane bianco, dalle caramelle e dalle chewing-gum, porti miracolosamente alla fine della miseria, le truppe “salvatrici” nella penisola diventano sempre meno gradite. La presenza degli alleati, il ritorno dei partiti, delle radio, della stampa libera, la voglia di normalità e di divertimento, la rinascita del cinema e del teatro, con Anna Magnani, Totò, i fratelli de Filippo, De Sica e Rossellini, e poi la fame, il banditismo, le marocchinate, la criminalità. Attingendo a lettere, diari, corrispondenza censurata, relazioni delle autorità italiane e alleate, giornali, canzoni, film, il libro compone un racconto corale, curioso e inedito di quell'Italia del dopoguerra.


Mario Avagliano
è un giornalista e storico, collabora alle pagine culturali de “Il Messaggero” e de “Il Mattino”. E’ autore di numerosi saggi su fascismo, seconda guerra mondiale, deportazioni e dopoguerra.

Marco Palmieri è giornalista e storico, ha lavorato per diverse testate e ha pubblicato numerosi saggi sulla deportazione, la resistenza e il dopoguerra.

 

Anna Balzarro è direttrice dell’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza (IRSIFAR) 

Maria Corbi è una giornalista, inviata de La Stampa.

Giancarlo Governi è un autore televisivo, sceneggiatore e scrittore.

Isabella Insolvibile è una storica specializzata nella Resistenza italiana.

Gianfranco Pagliarulo è presidente nazionale dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI)                                                            

Patrizia Rusciani è direttrice Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea.



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Libri, Avagliano “Raccontiamo altro dopoguerra, pesò su formazione Sud”

ROMA (ITALPRESS) – “Il cosiddetto ‘altro dopoguerrà, il periodo vissuto dal Sud e Roma tra il luglio del 1943, quando gli alleati sbarcano in Sicilia, e il maggio del 1945 ha inciso tantissimo nella formazione del meridione perchè ci furono i primi episodi di resistenza”. Lo dice, in un’intervista all’Italpress,
Mario Avagliano, giornalista e storico, coautore, insieme a Marco Palmieri, di “Paisà, sciuscià e segnorine – Il Sud e Roma dallo sbarco degli alleati al 25 aprile”, edizioni “Il Mulino”.
“Vittorio Foa – aggiunge – raccontò che gli stessi settentrionali considerarono con superficialità quel momento e se ne pentì perchè al contrario andava valorizzato. Il Mezzogiorno è stato protagonista di tanti episodi che non sono solo le 4 Giornate di Napoli”. Attraverso diari, lettere, appunti, Avagliano fa un racconto di questi eventi basandosi direttamente sulle testimonianze dei diretti interessati: “Ci sono episodi che riguardano la Puglia, la Campania, gli Abruzzi dove si formarono anche bande partigiane. Una ricostruzione fatta attraverso le parole dei protagonisti”.
“Accanto alle violenze dei tedeschi, ci furono anche le stragi commesse degli alleati soprattutto dopo i primi giorni dello sbarco in Sicilia” ha spiegato lo scrittore aggiungendo: “Si parla anche del rapporto difficile, a tratti negativo, con gli stessi alleati che sono sì portatori di libertà e nuovi costumi ma anche di degrado morale e sociale. Quindi il fenomeno degli sciuscià, delle signorine, cioè le prostitute, insieme a quello dell’avanzata sociale e del progresso della democrazia”. Una lettura non edulcorata, indulgente o macchiettistica, ma cruda della realtà. Avagliano, infatti, sottolinea: “Un volto a due facce dove c’è un’Italia che rinasce”. Senza dimenticare il rinnovato spirito artistico, il fermento grazie agli spettacoli teatrali di Totò e Anna Magnani come ha ricordato l’autore del libro: “Totò e Magnani hanno il coraggio di fare battute e allusioni durante l’occupazione tedesca a Roma. Per questo Totò viene messo all’indice dai tedeschi che vogliono catturarlo insieme a Edoardo e Peppino De Filippo. Vengono avvisati, riescono a fuggire e quando tornano a Roma organizzano un grande spettacolo dove mettono alla berlina Mussolini e Hitler”.
Per Avagliano, gli anni successivi al secondo conflitto mondiale sono fondamentali: “Con il ritorno della democrazia e della libertà in Europa abbiamo avuto un lungo periodo di pace che perdura ancora. E’ il frutto del coraggio, della lotta e del sacrificio di tanti italiani che, o come partigiani o come deportati, riuscirono a costruire mattone dopo mattone la nostra Repubblica”.


(ITALPRESS, 8 novembre 2021).

 

Link al video dell'intervista: https://www.italpress.com/libri-avagliano-raccontiamo-laltro-dopoguerra-a-roma-e-al-sud/

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