Intervista a Liliana Ferraro, magistrato

di Mario Avagliano

Un magistrato “di ferro”, si potrebbe dire pariodando il titolo di un famoso film di Pasquale Squitieri. E in effetti la salernitana Liliana Ferraro, 59 anni, ha speso gran parte della sua vita al servizio dello Stato e delle istituzioni, prima collaborando con il Generale Dalla Chiesa nella lotta al terrorismo, poi lavorando fianco a fianco con il Pool antimafia di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino nell’inchiesta che portò alla condanna dei boss di Cosa Nostra. Fu lei a fornire ai giudici siciliani i mezzi per combattere la mafia, fu lei a sovrintendere alla costruzione dell’aula bunker nel carcere dell’Ucciardone di Palermo. Dopo l’assassinio di Falcone, fu lei chiamata a sostituirlo alla Direzione Generale degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia. Nel 2001 il sindaco di Roma Veltroni l’ha voluta nella sua giunta, come assessore alla sicurezza della capitale. Un incarico delicato che la Ferraro svolge con determinazione e con successo, come le è stato riconosciuto anche in occasione della recente visita del presidente americano Bush a Roma.

L’infanzia e l’adolescenza hanno il profumo e il colore dei luoghi dove si è vissuti. Com’era la Salerno di Liliana Ferraro?
Era una cittadina bellissima, dall’atmosfera gioiosa e amichevole, con un lungomare di grande fascino.
Era anche una città sicura?
All’epoca sì. Non c’erano problemi di criminalità. Salerno era tranquilla. Ricordo ancora i miei anni al Liceo Tasso e le passeggiate al corso con i miei cugini e le mie amichette.
Tutti ricordi belli?
Nel mio cuore c’è posto anche per il ricordo angoscioso dell’alluvione del 1954. Non potrò mai dimenticare il giorno che ho visto uscire un braccio dal fango...
A 15 anni lei si trasferisce con la famiglia a Napoli e, dopo la maturità, si laurea in Giurisprudenza.
All’Università di Napoli ho avuto la fortuna di avere come docente di diritto penale il professor Remo Pannain. E’ stato per me un incontro importante perché mi ha consentito di fare un percorso di studio a contatto con il mondo carcerario.
Nel 1970 vince il concorso di magistratura e viene assegnata a Lodi. Come fu l’impatto con il profondo Nord?
Non fu per niente facile. Ricordo il mio primo giorno in quei luoghi, quando arrivata alla stazione di Lodi, presi un taxi. Era una giornata in cui la nebbia si tagliava a fette. Dopo un po’ il tassista si fermò e disse: “Siamo arrivati”. “Arrivati dove?”, gli risposi. Il palazzo del Tribunale non si vedeva. A parte il clima, fu un salto non da poco per me. Trovai una mentalità diversa rispetto a quella del Sud, anche se poi mi ambientai bene, stabilendo un rapporto cordiale con gli avvocati, nel reciproco rispetto dei ruoli.
Nel 1973 lei viene chiamata al Ministero di Grazia e Giustizia.
In quegli anni cominciava il terrorismo, e anche nelle carceri si vivevano momenti difficili, caratterizzati da rivolte. Ricordo in particolare il periodo in cui ministro della Giustizia era un gentiluomo meridionale, Francesco Bonifacio, di Castellamare di Stabia. Entrammo subito in sintonia.
Al Ministero conobbe e collaborò con il Generale Dalla Chiesa, che dirigeva il nucleo antiterrorismo.
Iniziai a collaborare con Dalla Chiesa già da prima, quando il ministro lo incaricò di seguire gli istituti carcerari. All’epoca non era ancora generale. Io venivo dalla magistratura, lui dall’Arma dei carabinieri, eravamo di due mondi diversi. All’inizio, dal punto di vista umano, dovetti superare la sua rigidità caratteriale. Poi il nostro rapporto divenne costruttivo e anche amichevole. Lui si mostrò davvero affettuoso con me. Conoscevo la prima moglie, che purtroppo morì d’infarto, e più tardi mi presentò anche Emanuela, che sarebbe diventata la sua seconda moglie.
Nel fortino del Ministero lei visse il periodo terribile della lotta del terrorismo.
Il Paese si trovava in una situazione devastante. Nel giro di qualche anno le Brigate Rosse uccisero magistrati, poliziotti, giornalisti, agenti di polizia penitenziaria. Vivevamo in uno stato di angoscia, unito a una sorta di sgomento perché non sapevamo bene come reagire e quali fossero le forme più adeguate per combattere il terrorismo.
Che cosa ricorda del sequestro Moro?
Furono giorni tremendi. Eravamo al lavoro praticamente 24 ore su 24, per seguire la tragedia che si stava sviluppando. Il ministro Bonifacio era grande amico di Aldo Moro. L’ho visto soffrire molto. E’ stata una lezione di vita, di come a volte il dolore personale debba convivere con il senso del dovere e con la necessità di tutelare l’interesse generale. Bonifacio adottò la decisione di non trattare con le Brigate Rosse con una sofferenza incredibile.
Nel 1983, dopo una parentesi al Corte di Cassazione, torna al Ministero e per lei si apre un altro fronte: quello della lotta alla mafia.
L’anno prima Cosa Nostra aveva ucciso Dalla Chiesa. Ai primi di agosto fu ammazzato anche Chinnici. Allora il ministro Martinazzoli decise di dare il massimo sostegno agli uffici giudiziari di Palermo e io fui inviata in Sicilia per accertare quali fossero le condizioni di lavoro dei magistrati che combattevano la mafia e per far fronte alle loro esigenze.
Che impressione ebbe?
Ho ancora in mente il giorno in cui sono entrata per la prima volta nell'ufficio di Giovanni Falcone. Era seduto su una sedia quasi sgangherata, appoggiato a un tavolo traballante dove c'erano fascicoli che cadevano da tutte le parti. Ho detto: “Iniziamo dalle cose più elementari; prendiamo una sedia comoda, un tavolo stabile”. Così abbiamo cominciato: prima la sedia, poi il tavolo, l'archivio, un sistema informatico per la gestione dei dati. Poi la sede per il gruppo della finanza, che era sommerso di carte provenienti dalle banche, il computer per i finanzieri, la microfilmatura delle carte, perché ormai i fogli erano tanti che non si trovavano più. Quindi affrontammo il problema della sicurezza.
La sicurezza?
Nino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli altri magistrati del Pool non erano sicuri in quegli uffici. Li feci trasferire in un piano ammezzato tutto blindato, al quale si poteva accedere soltanto bussando a un citofono sorvegliato.
Un’intesa immediata.
Sì, li ho conosciuti nel 1983 e ho subito cominciato a lavorare per loro e con loro. Nel 1984, quando ci fu il pentimento di Tommaso Buscetta, abbiamo sognato la vittoria. Nell’agosto del 1985 abbiamo pianto gli amici Cassarà e Montana uccisi dalla mafia, ma non ci siamo fermati. Falcone, Borsellino e gli altri facevano indagini e scrivevano l'ordinanza, io procuravo i mezzi materiali e facevo costruire l'aula-bunker.
Ha detto Caponnetto: senza la Ferraro non saremmo mai arrivati al maxiprocesso.
Credo che abbia detto queste parole perché tra di noi c’è stata sintonia assoluta. Mi coinvolsero totalmente nella loro battaglia e credo di aver dato un piccolo contributo a creare il consenso dello Stato intorno alla loro attività.
Che tipo era Caponnetto?
Nino Caponnetto è stato un personaggio eccezionale, di una carica umana incredibile e di una grande bontà d’animo, pari al suo rigore morale. Un uomo capace di essere dolce e fermo al tempo stesso. In un caldo pomeriggio di agosto del 1985, gli chiesi di lasciare Palermo, insieme a Giovanni e Paolo, perché non vi era certezza di difendere la loro vita. "Mai - disse Caponnetto -. Porta all'Asinara Giovanni, Paolo e le loro famiglie. Così potranno continuare a scrivere l'ordinanza tranquilli e sicuri. Io resto qui, perché non si dovrà mai dire che lo Stato fugge davanti al nemico. Nessuno di noi può interrompere il proprio lavoro".
Falcone fu oggetto di pesanti attacchi, anche da parte di colleghi magistrati. Specialmente quando decise di accettare la proposta del ministro Martelli di lavorare al Ministero di Grazia e Giustizia. Come se lo spiega?
Credo che abbia contato molto anche l’invidia, quella più becera, più stupida, determinata da sciocche ambizioni.
Il 31 gennaio 1992, la sera in cui fu resa nota la sentenza del maxiprocesso contro la mafia, lei si trovava con Falcone.
Falcone fece comperare una bottiglia di champagne, e nonostante fosse calda, brindammo. Non era allegro, anzi era attraversato da una vena di malinconia. Fu una serata di soddisfazione enorme, ma sobria. Non c’è mai stato sentimento di vendetta in noi. Brindavamo perché con quella sentenza si era affermato che lo Stato era più forte della mafia. Ma sapevamo che Cosa Nostra ce l'avrebbe fatta pagare. E il primo obiettivo era Falcone, il motore di tutta quella vicenda.
E infatti il 23 maggio del 1992 Falcone muore nella strage di Capaci.
E’ stato uno degli eventi più squassanti della mia vita. Dal punto di vista umano, era la perdita dell’amico, del collega, della persona con la quale lavoravo e vivevo gomito a gomito, condividevo battaglie, idee, ma anche pranzi, cene, giornate a tempo pieno. Dal punto di vista dello Stato, era il pagamento di un pedaggio atroce per aver difeso le istituzioni e combattuto la mafia. Gli stessi sentimenti che ho provato 59 giorni dopo, quando hanno assassinato Paolo Borsellino.
Borsellino sapeva che rischiava più di chiunque altro, eppure non si tirò indietro.
Dopo l’assassinio di Falcone, la moglie Agnese, in una sera di fine giugno del 1992, in una saletta dell'aeroporto di Roma, lo pregò di «lasciare», preoccupata per la vita del suo uomo, del padre dei suoi figli. Ma lui rispose che non era possibile. Paolo aveva con Falcone un legame che non era solo professionale e di amicizia, ma anche di fortissima stima. Essendo procuratore aggiunto a Palermo, spettavano a lui le indagini sulla morte di Giovanni, e decise che doveva trovare i responsabili.
In quegli anni le è capitato di temere per la sua vita?
Molte volte. La paura è un fatto umano.
Nell’agosto del 1992 il ministro Martelli le chiese di prendere il posto di Falcone alla Direzione Generale degli Affari Penali.
Mi cercò al telefono personalmente. Per me fu un’emozione enorme, anche se sostituire Giovanni mi sembrava impossibile. Nessuno può rapportarsi a Falcone. E’ stato un personaggio straordinario, che mi ha arricchito sotto ogni punto di vista, e difficilmente il confronto potrebbe reggere.
Lei ora è Segretario generale della Fondazione Falcone. Quale è il lascito morale di Falcone e di Borsellino alle nuove generazioni?
Penso che sia indispensabile che i giovani conoscano questo pezzo di storia del nostro Paese e comprendano quale forza morale avessero uomini come Falcone e Borsellino, il cui obiettivo primario era la difesa dello Stato e delle istituzioni, nell’interesse del sistema democratico. Oggi troppo spesso si agisce in nome di interessi personali.
Dopo il sacrificio di Falcone e Borsellino, la lotta alla mafia ha fatto progressi?
L’organizzazione criminale ha subito grossi colpi. Questo non significa che la mafia sia sconfitta e che Cosa Nostra sia sparita.
Parliamo del suo incarico attuale. E’ complicato gestire le politiche della sicurezza di una grande città come Roma?
Non è semplice. Devo dire che la polizia, i carabinieri e la guardia di finanza e anche la polizia municipale fanno un lavoro eccezionale. La cosa importante è che tra i romani sta crescendo il sentimento di sicurezza.
Nonostante l’11 settembre?
Da quel giorno anche a Roma il livello di attenzione è più alto, come accade in tutte le metropoli del mondo. Ma in occasione della visita recente di Bush, abbiamo dato una prova di grande maturità.
Torna mai a Salerno?
Certo che ci torno! Mio fratello e un mio nipote vivono a Salerno. La città è molto cambiata. Negli anni Ottanta era confusa, caotica, adesso invece è tornata ad essere bella, a dimensione d’uomo, con una vita culturale vivace.
Lei ha lasciato la Campania da oltre trent’anni. Che cosa le è rimasto dentro di salernitano?
Moltissimo. Io ritengo che le radici siano la parte più importante di una persona. Io sono meridionale e credo nel Sud, nei valori della famiglia, delle tradizioni, dell’amicizia, nella concezione della tavola. A volte però sono triste ed amareggiata perché la gente del Mezzogiorno non riesce ad avere lo scatto di orgoglio che pure ci appartiene.

(La Città di Salerno, 13 giugno 2004)

Scheda biografica

Liliana Ferraro nasce a Lustra Cilento (Salerno) il 22 giugno del 1944. Laureata in Giurisprudenza all’Università di Napoli, nel 1970 vince il concorso di magistratura e viene assegnata al Tribunale di Lodi. Nel 1973 è chiamata al Ministero di Grazia e Giustizia, dove segue la riforma dell’ordinamento penitenziario e del codice di procedura penale. Tra il 1974 e il 1980 riveste l’incarico di responsabile del coordinamento tra il Ministero di Grazia e Giustizia ed il Nucleo Antiterrorismo del Generale Dalla Chiesa, occupandosi di tale tematica anche sotto il profilo normativo, per gli accordi internazionali e presso il Consiglio d’Europa per la Convenzione per la lotta al terrorismo. Dal 1980 al 1983 lavora presso la Corte Suprema di Cassazione. Rientrata al Ministero di Grazia e Giustizia, collabora con il pool antimafia di Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, fornendo mezzi e strutture per la lotta alla criminalità. Sovrintende tra l’altro alla costruzione dell’aula bunker nella quale fu celebrato il primo processo contro “cosa nostra” istruito da Giovanni Falcone. Nel 1991 è nominata Vice Direttore Generale del Ministero di Grazia e Giustizia, al fianco dello stesso Falcone. Dopo l’assassinio del magistrato siciliano, nell’agosto del 1992 è nominata Direttore Generale degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia. Quello stesso anno riceve il premio quale “Europeo dell’anno”, per l’attività svolta in Europa. Nel 1994 diventa Coordinatore Nazionale per la preparazione e l’organizzazione della Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità organizzata transnazionale. Dal 1996 al 2003 è Consigliere di Stato. E’ socio fondatore e Segretario Generale della Fondazione “Giovanni e Francesca Falcone”. Nel 2001 è nominata Assessore alle Politiche per la Sicurezza, alla Polizia Municipale ed Avvocatura del Comune di Roma.

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