Il dopoguerra anticipato del Sud: quando il popolo scrive la Storia

di Pasquale Chessa

Furono tante le guerre che si combatterono in Italia dopo la caduta del fascismo: fra guerra civile e di liberazione, partigiana o di classe, c'è chi ne ha contate almeno sette, insieme a quella mondiale. Di conseguenza non ci fu un solo dopoguerra. Il primo è "scoppiato" almeno due anni prima del 1945, con lo sbarco degli Alleati in Sicilia. Un'asimmetria tutta italiana che rimanda alla frattura geografica e antropologica fra Nord e Sud, per lungo tempo trascurata dalla storiografia, che ha lasciato tracce indelebili non solo nella storia politica ma anche nella mentalità di tutta la nazione.
 
LA RICERCA
Tracce ancora leggibili, come possiamo constatare seguendo la ricostruzione di Mario Avagliano e Marco Palmieri, frutto di una ricerca del tutto inedita sui modi affatto peculiari messi in atto dall'Italia postfascista per uscire dalla Seconda guerra mondiale. Paisà, sciuscià e segnorine. Il Sud e Roma dallo sbarco in Sicilia al 25 aprile (Il Mulino) infatti, non è solo un libro di storia ma piuttosto un racconto di storie che si ramificano nel tempo e nello spazio della geografia. Con una polifonia di voci, che promuove le memorie popolari a fonte storiografica, insieme alle testimonianze giornalistiche e letterarie, compresi romanzi e Sofia Loren nel film del 1960 "La Ciociara" di Vittorio De Sica, dal romanzo di Alberto Moravia film, Avagliano e Palmieri riescono a farci entrare nel vissuto della storia colta nel momento in cui si radica nei comportamenti collettivi. Sapiente è l'equilibrio fra la grande storia, dalla caduta del fascismo alla liberazione di Roma, e i suoi riflessi sul sentimento popolare, dalle "segnorine" che si prostituiscono per salvarsi dalla fame, alle rivolte contadine e ai moti del pane.
 
LA DEFINIZIONE
È stato Enzo Forcella, giornalista politico di primo rango del secondo Novecento, molto sensibile al vissuto collettivo del Paese, a coniare l'innovativa definizione di "altro dopoguerra" in un libro del 1976. Fu infatti un periodo eccezionale, una specie di laboratorio storico-politico, spesso funestato da forme feroci di repressione militare come risposta alle inevitabili rivolte popolari. A Canicattì, il 14 luglio, due giorni dopo la strage perpetrata dai tedeschi in ritirata, gli americani fucilarono almeno una ventina di civili arrestati per aver rubato del sapone... Nella Guida del soldato, la Sicilia è descritta come «un buco infernale [...]abitato da gente troppo povera per andarsene o troppo ignorante per sapere che esistono posti migliori».
 
LA TRAGEDIA
Il romanzo di Alberto Moravia, La ciociara, che Vittorio De Sica tradusse in un film toccante magistralmente interpreto da Sofia Loren, trova la sua ispirazione originaria nella tragedia che travolse la Ciociaria invasa dalle truppe marocchine sbarcate a Napoli nel novembre del 1943 con licenza di saccheggio, fino allo stupro. «1 napoletani non sanno più chi odiare» scriveva Leo Longanesi. Eppure quei due anni «vissuti sotto l'occupazione alleata - riconoscono Avagliano e Palmieri - consolidano il mito della potenza americana collocando definitivamente e stabilmente l'Italia del dopoguerra nella sfera americana e occidentale, nel nuovo scenario della guerra fredda contro la sfera sovietica e comunista».
 
(Il Messaggero, 4 dicembre 2021)

 

Il 7 dicembre presentazione a Roma di "Paisà, sciuscià e segnorine"

Martedì 7 dicembre, alle ore 17.00, presso la sede e sul canale Facebook della Biblioteca di storia moderna e contemporanea, in collaborazione con ANPI, INSMLI e IRSIFAR, sarà presentato il volume Paisà, sciuscià e segnorine. Il Sud e Roma dallo sbarco in Sicilia al 25 aprile di Mario Avagliano e Marco Palmieri. (Il Mulino, 2021). Intervengono: Anna Balzarro, Isabella Insolvibile, Giancarlo Governi,  Gianfranco Pagliarulo. Coordina: Maria Corbi. Saranno presenti gli autori.

È stato chiamato «l'altro dopoguerra» il periodo vissuto dall'Italia meridionale e Roma tra il luglio del 1943, quando gli alleati sbarcano in Sicilia, e il maggio del 1945, quando la guerra finisce. Un lungo periodo, segnato dal procedere lento della linea del fronte verso nord, con combattimenti accaniti, violenze, stragi tedesche e alleate e atti di resistenza, spesso misconosciuti (non solo la battaglia per la difesa di Roma e le Quattro giornate di Napoli). Ma anche un vitale, caotico, difficile ritorno alla pace e alla libertà, con il primo confronto con la democrazia dopo il ventennio fascista. I problemi economici e sociali sono aggravati dall’atteggiamento dei militari alleati, intorno ai quali, come avviene ad esempio a Napoli e a Roma, proliferano fenomeni come segnorine, sciuscià e traffici del mercato nero che portano a un certo decadimento dei costumi morali. Esaurita l’euforia della libertà riconquistata ed emersa la consapevolezza del carattere illusorio dell’aspettativa che l’arrivo degli anglo-americani, simbolizzato dal pane bianco, dalle caramelle e dalle chewing-gum, porti miracolosamente alla fine della miseria, le truppe “salvatrici” nella penisola diventano sempre meno gradite. La presenza degli alleati, il ritorno dei partiti, delle radio, della stampa libera, la voglia di normalità e di divertimento, la rinascita del cinema e del teatro, con Anna Magnani, Totò, i fratelli de Filippo, De Sica e Rossellini, e poi la fame, il banditismo, le marocchinate, la criminalità. Attingendo a lettere, diari, corrispondenza censurata, relazioni delle autorità italiane e alleate, giornali, canzoni, film, il libro compone un racconto corale, curioso e inedito di quell'Italia del dopoguerra.


Mario Avagliano
è un giornalista e storico, collabora alle pagine culturali de “Il Messaggero” e de “Il Mattino”. E’ autore di numerosi saggi su fascismo, seconda guerra mondiale, deportazioni e dopoguerra.

Marco Palmieri è giornalista e storico, ha lavorato per diverse testate e ha pubblicato numerosi saggi sulla deportazione, la resistenza e il dopoguerra.

 

Anna Balzarro è direttrice dell’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza (IRSIFAR) 

Maria Corbi è una giornalista, inviata de La Stampa.

Giancarlo Governi è un autore televisivo, sceneggiatore e scrittore.

Isabella Insolvibile è una storica specializzata nella Resistenza italiana.

Gianfranco Pagliarulo è presidente nazionale dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI)                                                            

Patrizia Rusciani è direttrice Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea.



Diretta sul canale FB della Biblioteca
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E nei giorni successivi sul canale youtube della Biblioteca

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Mata Hari e le altre: 007 è donna

Nel '900 rovesciato il modello maschile dell'agente segreto oggi nell'intelligence più responsabilità alle figure femminili

di Mario Avagliano 

Il mio nome è Bond... James Bond Ian Fleming, quando ideò la figura del agente segreto britannico 007, non pensò mai che potesse essere di sesso femminile o tanto meno agli ordini di una donna, come accade invece negli ultimi film della fortunata saga cinematografica, in cui Bond è alle dipendenze di M, interpretata sullo schermo dalla brava Judi Dench. E in effetti nello spionaggio l'impiego delle donne per molto tempo è stato limitato da pregiudizi etabù.Tuteal più il gentil sesso veniva utilizzato nel campo della seduzione, per carpire segreti all'inconsapevolevittima di tumoo ricattare l'imprudente partner con la minaccia di uno scandalo familiare o politico. Ma a partire dal Novecento, come ci racconta il bel libro Le dieci donne spia che hanno fatto la storia (Edizioni Il Capricorno) di Domenico Vecchioni, il paradigma si è rovesciato. E in occasione della prima guerra mondiale anche le donne sono entrate di prepotenza nell'affascinante mondo delle spie. Tanto che oggi le figurefemminli esercitano nell'intelligence ruoli di sempre maggiore responsabilità, finoad anivareall'apice con Gina Haspel, da poco nominata capo della Cia.
La donna spia più esaltata e mitizzata dalla storiografia e dal cinema è sicuramente Mata Hari, che iniziò come ballerina e diventò spia sfruttando i contatti che intratteneva nel bel mondo della capitale francese nel cui ambito sfarfallava, scivolando poi sul terreno del doppio gioco tra Francia e Germania. Ma, come ci racconta Vecchioni, la bella olandese Margaretha Geertruida Zelle, alias Mata Hari, alias agente H2t alta 1.75metri, un po' forte di fianchi, bruna di chioma e di carnagione, tanto da fingere di essere nativa dell'isola di Giava, fu in realtà un agente segreto dai risultati abbastanza insignificanti. Le informazioni che riuscì a passare, in effetti, furono poche e del tutto ininfluenti sul corso della prima guerra mondiale.
Destino paradossale il suo: travolta dagli eventi e dai suoi sentimenti, fu giustiziata in Francia dopo essere stata abbandonata da quegli stessi uomini ai quali aveva dato spesso momenti d'intenso piacere. Destino anche cinico: dopo l'esecuzione, il cadavere di Mata Hari non fu reclamato da alcun parente o amico. Così quel corpo che aveva fatto fremere le platee maschili dei teatri parigini e non solo (si era esibita anche alla Scala di Milano), che aveva fatto perdere la testa a presidenti del Consiglio, ministri, generali, intellettuali e uomini facoltosi (compresi l'italiano Giacomo Puccini e il miliardario di origini ebraiche barone Henri de Rothschild), finì messo a disposizione della facoltà di Medicina di Parigi come cavia per le esercitazioni degli studenti. 
Ben altro spessore, il libro di Vecchioni attribuisce alla spia Gertude Bell, che insieme a Lawrence d'Arabia operò in Medio Oriente e contribuì alla «creazione» dell'Iraq. II loro compito era quello di promuovere la rivolta araba contro la dominazione della Turchia, alleata della Germania. I due si capirono, simpatizzarono e si manifestarono stima reciproca. Avevano tante cose in comune. Entrambi erano archeologi di formazione, entrambi avevano studiato Storia a Oxford, entrambi soffrivano del «mal d'Arabia»esubivano fascine il mistero del Medio Oriente. Entrambi poi avevano alle spalle storie personali «complicate>: Lawrence alle prese con la sua omosessualità latente; Gertrude, dal canto suo, prigioniera del ricordo delsuoamoreperduto. Una delle spie più temibili emisteriose fu certamente la tedesca Fräulein Doktor (a cui Alberto Lattuada dedicherà un film nel 1969), al secolo Elsbeth Schragmüller, implacabile istruttrice di spie ad Anversa per conto della Germania pre-nazista. II capitano Georges Ladoux, capo del controspionaggio francese, il suo diretto avversario, colui che aveva messo in trappola Mata Hari, l'aveva soprannom inala Tigresse d'Anvers.
Altre figure mitiche sono la principessa indiana Noor Inayat Kahn, che nella Francia occupata dai nazisti lavorò come operatore radio dei servizi segreti britannici in supporto alla Resistenza e l'affascinante Venere nera Joséphine Baker, che allo scoppio della seconda guerra mondialesi miseal servizio della Francia, la sua patria di adozione. Virginia Hall, la «signora che zoppica», spia perla Gran Bretagna e poi per gli Usa, divenne l'ossessione di Klaus Barbie (il famigerato boia di Lione), che non riusciva a capire come una donna, per di più con una gamba di legno, potesse tenere in scacco i servizi di sicurezza nazisti. Christine Granville, contessa polacca, era invece la spia preferita di Winston Churchill.
Avvicinandosi ai giorni nostri, una delle storie più sorprendenti è quella di Ana Belén Montes, che per ben sedici anni dal suo ufficio nel cuore dell'intelligence statunitense svolse attività di spionaggio perla Cuba di Fidel Castro. Così come colpisce la vicenda della seducente Anna Kushchenko Chapman, conosciuta come Anna la Rossa, spia a New York per conto di Putin, che nel suo ufficio al grattacielo 20 Exchange Place riceveva i suoi clienti per aiutarli nelle loro scelte, mostrandosi all'occorrenza disponibile anche per altri tipi di assistenza. Scoperta e arrestata, è stata rimpatriata in Russia, dov'è ora una vera e propria star dei rotocalchi. Donne tenaci, intelligenti, astute, che hanno ispirato film e romanzi ma che, ci racconta il libro di Vecchioni, a volte anche grazie al loro fascino hanno saputo servire il loro Paese al pari di un James Bond. E nella realtà, non nella finzione cinematografica. 
 
(pubblicato su Il Mattino, 24 luglio 2019)
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Storie - L'Atlante delle stragi

di Mario Avagliano

Un lavoro di ricerca durato anni che, dopo il portale web e il convegno internazionale svoltosi a settembre 2016, finalmente approda in libreria, con un corposo saggio intitolato Zone di guerra, geografie di sangue. Le stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), per i tipi del Mulino, a cura di Paolo Pezzino e Gianluca Fulvetti.

È la conclusione del progetto di ricerca promosso da Anpi e Insmli e finanziato dal Governo tedesco, che ha coinvolto 130 ricercatori e ha portato a censire tutte le stragi compiute sul suolo italiano durante il periodo della Repubblica di Salò e dell’occupazione tedesca: un totale di 5.616 episodi di violenza con ben 23.720 vittime

Oltre agli eccidi tragicamente noti, come quelli di Monte Sole e di Sant’Anna di Stazzema, il periodo compreso fra l’8 settembre del ’43 e la fine della lotta di liberazione ha visto cadere sotto il fuoco tedesco e fascista un numero spaventoso di italiani, tutti cittadini inermi e molti del tutto estranei alla lotta partigiana, vittime di rastrellamenti o uccisi senza motivi apparenti. Questo volume fornisce una mappa delle stragi che hanno insanguinato l’Italia, analizzandole dal punto di vista storiografico, interpretativo e geografico, avvalendosi di un apparato cartografico che illustra le fasi principali del conflitto in relazione alla cronologia delle stragi.

Da questo lavoro emergono la caratteristica di “guerra ai civili” del conflitto scatenato nell’Italia occupata (vedi il saggio di Carlo Gentile) e la responsabilità autonoma del restaurato regime fascista di Mussolini in molte delle stragi dei civili (vedi il saggio di Toni Rovatti “La violenza dei fascisti repubblicani), come evidenziato anche nel libro “L’Italia di Salò” (Il Mulino) pubblicato a marzo da me e Marco Palmieri.

L'atlante è disponibile online e accessibile all'indirizzo http://www.straginazifasciste.it e si compone di una banca dati e dei materiali di corredo (documentari, iconografici, video) correlati agli episodi censiti, ospitati all’interno del sito web. Nella banca dati sono state catalogate e analizzate tutte le stragi e le uccisioni singole di civili e partigiani uccisi al di fuori dello scontro armato, commesse da reparti tedeschi e della Repubblica Sociale Italiana in Italia dopo l’8 settembre 1943, a partire dalle prime uccisioni nel Meridione fino alle stragi della ritirata eseguite in Piemonte, Lombardia e Trentino Alto Adige nei giorni successivi alla Liberazione. L’elaborazione su base cronologica e geografica dell’insieme dei dati censiti ha consentito la definizione di una "cronografia della guerra nazista in Italia", che mette in correlazione modalità, autori, tempi e luoghi dei fatti.

La ricerca, come ha sottolineato l’ambasciatore tedesco Susanne Wasum-Rainer, è stata finanziata dal governo della Repubblica Federale di Germania, che attraverso il Fondo italo-tedesco per il futuro ha finanziato anche un altro grande progetto, l’Albo dei Caduti Imi, gli internati militari italiani. Sarebbe bello che anche il governo italiano si facesse promotore di un analogo lavoro di ricerca su pagine nere della nostra storia. Un esempio? Il censimento degli atti di persecuzione agli ebrei perpetrati a seguito dell’entrata in vigore delle leggi razziste del 1938.

(L'Unione Informa e Moked.it del 25 aprile 2017)

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L'Italia di Salò, la recensione di Paolo Mieli sul Corriere della Sera

Ragazzi di Salò anche in Sicilia

Un saggio di Mario Avagliano e Marco Palmieri sulla Rsi. Alla repubblica fascista aderirono molti futuri attori: Walter Chiari, Raimondo Vianello, Giorgio Albertazzi

di Paolo Mieli

La repubblica fascista che Benito Mussolini guidò, per volontà di Adolf Hitler, negli ultimi venti mesi della Seconda guerra mondiale è stata ben analizzata in molti volumi tra i quali sono da menzionare la prima Storia della Repubblica di Salò di William Deakin (Einaudi), L’amministrazione tedesca nell’Italia occupata di Enzo Collotti (Lerici), La guerra civile, ultimo volume della biografia mussoliniana di Renzo De Felice (Einaudi), La storia della Repubblica di Mussolini di Aurelio Lepre (Mondadori), L’occupazione tedesca in Italia di Lutz Klinkhammer (Bollati Boringhieri ), La repubblica delle camicie nere di Luigi Ganapini (Garzanti), Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza di Claudio Pavone (Bollati Boringhieri), L’ultimo fascismo di Roberto Chiarini (Marsilio). Oltre a quelli assai ben scritti di Indro Montanelli e Mario Cervi, Giampaolo Pansa, Giorgio Bocca, Silvio Bertoldi e, sul versante reducistico, Giorgio Pisanò. Eppure ci sono ancora infiniti aspetti che meritano di essere approfonditi, tante questioni apparentemente marginali su cui è utile entrare nel merito, come dimostra un documentatissimo libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri, L’Italia di Salò 1943-1945, che sta per essere pubblicato dal Mulino.

Roberto Chiarini ha scritto che la riduzione dell’ultimo fascismo alla semplice e unica categoria interpretativa della «barbarie consumata da un manipolo di sanguinari», prima ancora di essere una forzatura intellettuale, è stata a lungo un «artificio retorico» che doveva servire alla autoassoluzione in blocco degli italiani e all’occultamento delle responsabilità collettive per quel che accadde davvero ai tempi Salò. Ed è sottile l’analisi di Avagliano e Palmieri delle due memorie contrapposte in merito a quel che si verificò nel Nord Italia tra il 1943 e il 1945, là dove vengono identificati i limiti della storiografia che ha teso a negare ogni dignità a coloro i quali militarono dalla «parte sbagliata» (cosa che del resto durante la guerra civile avevano fatto gli stessi fascisti con i partigiani, chiamandoli «banditi, fuorilegge, animali»). Ciò che Luigi Ganapini ha definito il «disconoscimento totale e reciproco, non solo politico, dell’umanità dell’avversario». Per non parlare della memoria degli ex repubblichini fortemente condizionata — persino nei testi meno autoindulgenti come quelli di Giose Rimanelli e Carlo Mazzantini — dall’umiliazione della sconfitta.

La scelta di Salò, scrivono Avagliano e Palmieri, fu per molti giovani e perfino adolescenti «una sorta di rivolta generazionale contro il vecchio sistema, rappresentato dalla monarchia, dalle forze della borghesia che avevano voltato le spalle a Mussolini e dai quadri dirigenziali del regime», nella speranza, condivisa anche da diversi squadristi della prima ora, che la Repubblica recuperasse le parole d’ordine del fascismo delle origini e segnasse una «pagina nuova». Ma attenzione: «L’immagine dei combattenti di Salò come avventurieri, idealisti o poveri illusi tutto sommato in buona fede, non è stata solo frutto di una distorsione dovuta alle propensioni giustificative della memoria a posteriori; è servita piuttosto a relegare un tema arduo e scomodo in una zona d’ombra dove non fosse più di tanto necessario e richiesto fare i conti con una pagina importante del proprio passato e della propria storia nazionale».

Un dato interessante è la grande quantità di futuri personaggi dello spettacolo (oltre a Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, che erano già molto famosi ed ebbero un ruolo attivo nella lotta ai partigiani) che tra il 1943 e il 1945 in un modo o nell’altro militarono dalla parte di Mussolini e dei tedeschi: Giorgio Albertazzi, Enrico Maria Salerno, Dario Fo, Mario Castellacci, Leonardo Valente, Ugo Tognazzi, Mario Carotenuto, Walter Chiari, Raimondo Vianello, Marco Ferreri, Fede Arnaud Pocek (più moltissimi altri che ebbero ruoli marginali). Tra le giustificazioni addotte — molti anni dopo la fine della guerra — è prevalsa la presa di distanza da questa giovanile adesione alla repubblica di Mussolini. Disse Dario Fo: «Aderii alla Rsi per ragioni pratiche, cercare di imboscarmi, portare a casa la pelle». E Giorgio Albertazzi: «Non sono mai stato fascista; la mia scelta, sbagliata che fosse, nacque per orgoglio nazionale». Forse la spiegazione più articolata fu quella di Raimondo Vianello, che raccontò di aver deciso d’impulso di andare volontario nella Rsi «per ribellione verso il colonnello comandante che il 12 settembre del 1943, con un piede già sulla macchina carica di roba, mi chiamò per dirmi a bassa voce come fosse una confidenza: “Vianello, si salvi chi può!”». I giovani che «andarono a Salò», proseguì Vianello, «erano spinti dall’idea di non abbandonare la battaglia». Pur se consapevoli d’essere «destinati a perdere». Per cui, concluse l’attore, «condannare in toto questo capitolo storico non mi sembra giusto».

Il libro dedica pagine particolarmente interessanti al «primo fascismo clandestino» dei giorni successivi al 25 luglio del 1943; alla «resa dei conti» interna al fascismo; ai prigionieri degli Alleati «non cooperanti», in particolare quelli del campo texano di Hereford; ai «tormenti e ai cambi di fronte» nella Repubblica sociale; al confronto generazionale tra coloro che aderirono alla Rsi; ai loro ultimi scritti e «testamenti ideologici»; al difficile rapporto con i «camerati tedeschi»; al razzismo e all’odio contro gli Alleati; all’illusione finale di un «colpo di coda» mussoliniano. Ricco di particolari inediti è il capitolo dedicato al fascismo clandestino nell’Italia liberata. Si trattò di una consistente «rete dietro le linee nemiche», che si appoggiò a movimenti spontanei ai quali presero parte soprattutto giovani che non accettavano il cambio di alleanze del governo Badoglio. Movimenti spontanei che hanno inizio in Sicilia, nel luglio del 1943, subito dopo lo sbarco e le prime vittorie dell’esercito alleato. Prima cioè della notte del Gran Consiglio in cui il Duce fu messo in minoranza o comunque a ridosso della caduta di Mussolini (25 luglio). La prima formazione censita è «Fedelissimi del Fascismo - Movimento per l’italianità della Sicilia» fondata a Trapani da Dino Grammatico (futuro deputato regionale del Msi) e Salvatore Bramante il 27 luglio, appena quattro giorni dopo l’ingresso in città delle truppe angloamericane. Pochi mesi dopo il gruppo viene scoperto, arrestato e processato da una corte alleata: tra i giovanissimi portati alla sbarra, Maria D’Alì, figlia dell’ultimo vicefederale di Trapani che i giornali di Salò definiscono «la Giovanna d’Arco della Sicilia». Qualcuno li considera, più che dei nostalgici, come ragazzi che reagiscono contro il fenomeno non marginale dei loro concittadini (tra breve connazionali) che si mettono in fila per salire sul carro del vincitore. Non sopportavamo, racconterà Salvatore Claudio Ruta, leader del gruppo dei giovani fascisti di Messina, «che l’italiano fosse additato come il tipico voltagabbana, mandolinista e mangia spaghetti». «Si è trovato un gruppo di fascisti in Sicilia — esulta il 20 dicembre 1943 nel suo diario Giuseppe Prezzolini — meritano un monumento! Un fascista che ha tenuto a dichiarare la sua fede è grande quanto un democratico che non cambiò bandiera sotto il fascismo». Tra i loro avvocati difensori, notano Avagliano e Palmieri, «spicca il nome di Bernardo Mattarella». Il processo, a Palermo, si concluderà con pene severissime e addirittura una condanna a morte: per Bramante, accusato di «sabotaggio» (ma il generale Alexander commuterà immediatamente la pena a vent’anni di carcere).

In concomitanza con questo processo nasce a Palermo il «gruppo Costarini» (dal nome di uno dei primi caduti della Rsi) — fondato da Angelo Nicosia, Lorenzo Purpari, Aristide Metler e Nicola Denaro — che pubblica il giornale ciclostilato «A noi!». Copie di «A noi!» vengono gettate, nel gennaio 1944, dal loggione del teatro Biondo nel corso di una proiezione del Grande dittatore, il film satirico su Hitler (e Mussolini) di Charlie Chaplin, che più volte e in più parti dell’Italia liberata verrà interrotto da questo genere di manifestazioni. A Cisternino, in provincia di Brindisi, quando in un cinegiornale vengono proiettate le immagini della liberazione di Mussolini sul Gran Sasso, un militare dice ad alta voce: «Sì è un po’ sciupato ma è sempre lui! Battiamogli le mani». Molti spettatori si alzano, applaudono e intonano Giovinezza. A Milazzo vengono lanciati manifestini che promettono il ritorno in Sicilia di Mussolini con i tedeschi i quali «faranno vendetta»: «Ci sarà il Vespro Siciliano!», annunciano. A Ficarra fa proseliti l’ex segretario federale fascista Giuseppe Catalano. A Caltanissetta viene fondata la «Lega Italica» alla quale aderiranno Faustino La Ferla e Francesco Paolo Ayala (padre del magistrato Giuseppe). In sostanza la prima regione italiana ad essere liberata, la Sicilia, sarà anche quella in cui si verrà a creare la più forte, motivata e duratura, componente neofascista.

Sempre in Sicilia, nella fase finale della guerra si sviluppa una protesta contro la leva a cui aderiscono insieme elementi neofascisti, anarchici, cattolici, separatisti e comunisti. Strane alleanze destinate a ripresentarsi nella storia siciliana. Ci si batteva — con lo slogan «Non si parte» — per bloccare il reclutamento di soldati che dovevano andare a combattere contro la Rsi, negli ultimi, decisivi mesi del conflitto. Episodio simbolo della rivolta è quello del 4 gennaio 1945, a Ragusa, dove una giovane incinta di cinque mesi, Maria Occhipinti, si sdraia davanti a un camion che si accinge a trasportare nel continente alcuni reclutati. Un consistente gruppo di ragusani si unisce alla protesta. L’esercito spara sulla folla, uccide un ragazzo e il sacrestano Giovanni Criscione. Nel dopoguerra, la Occhipinti sarà eletta deputata del Pci. A Comiso i neofascisti del «Non si parte» creano addirittura una «Repubblica indipendente» (per ottenere lo sgombero gli Alleati minacceranno un bombardamento aereo). A Vittoria occupano le caserme dei carabinieri e della guardia di finanza, così come avevano già fatto, guidati da Vittorio Dell’Agli, a Giarratana, dove erano state date alle fiamme le carte dell’ufficio di leva. A Modica il municipio viene dato alle fiamme.

Qualcosa si muoverà anche in Sardegna. Il 3 dicembre 1943 viene fermato al largo dell’arcipelago della Maddalena un motoscafo partito da Olbia e diretto a Orbetello. Alcuni carabinieri infiltrati nell’equipaggio arrestano su quel natante l’ex console generale della Milizia Giovanni Martini, che porta con sé il verbale della costituzione del Partito fascista repubblicano sardo, che si propone di staccare l’isola dalla madrepatria per sottometterla al regime di Salò. Nel marzo del 1944 ad Olbia vengono tratti in arresto i componenti del gruppo che fa capo ad Antonio Pigliaru, Gavino Pinna, Giuseppe Cardi Giua e al sottotenente Ugo Mattone, che riuscirà a fuggire. Il Tribunale militare territoriale di guerra — pubblico ministero è Francesco Coco (il giudice che nel 1976 sarà ucciso a Genova dalle Brigate rosse) — li farà condannare tutti e la pena più alta, undici anni, sarà per il latitante Mattone. Che però cambierà nome, diventerà un apprezzato sceneggiatore e da quel momento in poi simpatizzerà per il Pci: da questo momento si chiamerà Ugo Pirro e il primo film al quale darà il proprio apporto sarà (nel 1951) Achtung! Banditi! di Carlo Lizzani dedicato all’epopea della lotta partigiana.

In Calabria e a Napoli sarà assai attivo il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara, comandante degli arditi nella Grande guerra, rivoluzionario in Messico, capo di una formazione di russi bianchi impegnati a combattere i bolscevichi, presente nella guerra di Etiopia e in quella civile spagnola. Tra i suoi progetti, il rapimento a Sorrento di Benedetto Croce che avrebbe dovuto essere portato a Genova da un sommergibile tedesco, per essere poi trasferito a Milano dove sarebbe stato costretto a commemorare Giovanni Gentile ucciso dai partigiani. In seguito Croce avrebbe dovuto assumere la presidenza dell’Accademia d’Italia. Ma il 27 aprile del 1944 Pignatelli, dopo che sua moglie aveva attraversato le linee per parlare direttamente con Mussolini e il feldmaresciallo Kesserling, viene arrestato. Sarà Bartolo Gallitto a raccogliere la sua eredità operativa. Ma del progetto di sequestro del filosofo non si parlerà più.

A Roma, poco dopo la liberazione, il 10 giugno 1944 comincia a trasmettere Radio Tevere, che in realtà ha sede al Nord. Direttore è Mario Ferretti, futuro radiocronista sportivo, collaborano attivamente Gorni Kramer e il Quartetto Cetra. Sigla di apertura è l’Inno a Roma di Puccini, in chiusura la canzone Tornerai, con un’evidente allusione/invocazione a Mussolini. A fine 1944 nasce il giornale clandestino «Onore», al quale fa capo un gruppo di cui fanno parte anche commercianti, operai e persino contadini. Non sono moltissimi, ma è una rete clandestina assai insidiosa, che viene sgominata grazie ad un giovane tenente che riesce ad inserire un infiltrato: Carlo Alberto dalla Chiesa. Il quale sperimentò contro i neofascisti di «Onore» tecniche che avrebbe riproposto, alcuni decenni dopo, per sgominare terroristi rossi che si proclamavano eredi dei partigiani.

(Corriere della Sera, 7 marzo 2017)

 

La nuova tappa di un itinerario nelle tragedie del Novecento

Esce in libreria il 16 marzo L’Italia di Salò di Mario Avagliano e Marco Palmieri (il Mulino, pagine 496, e 28). Si tratta di una nuova tappa del viaggio che i due autori hanno intrapreso nella storia italiana con diversi volumi: Gli internati militari italiani (Einaudi, 2009); Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia (Einaudi, 2011); Voci dal lager (Einaudi, 2012); Di pura razza italiana (Baldini & Castoldi, 2013), Vincere e vinceremo! (il Mulino, 2014). A Salò sono stati dedicati molti libri, come La repubblica delle camicie nere di Luigi Ganapini (Garzanti, 1999) e La storia della Repubblica di Mussolini di Aurelio Lepre (Mondadori, 1999). Tratta della Rsi l’ultimo volume, incompiuto, della biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice, La guerra civile (Einaudi, 1997), Se ne occupava anche Claudio Pavone nel suo libro sulla Resistenza Una guerra civile (Bollati Boringhieri, 1991).

 

La colpa di chiamarsi Mengele. Così vissero i figli dei nazisti

di Mario Avagliano

  Le colpe dei padri ricadono sui figli? La risposta, in linea teorica, è no. Ma è difficile se non impossibile evitare di fare i conti col passato oscuro del nazismo, tanto più se ti chiami Himmler, Göring, Hess, Frank, Bormann, Höss, Speer o Mengele e sei figlia o figlio di un gerarca criminale del cerchio magico di Adolf Hitler.

È quanto racconta Tania Crasnianski, avvocato penalista franco-tedesca ma con origini russe, nel suo saggio «I figli dei nazisti» (Bompiani, pp. 268, € 18), in libreria in Italia dal 27 gennaio e già in corso di stampa in tutto il mondo, frutto di una lunga ricerca negli archivi pubblici e privati e dello spoglio di carte giudiziarie, lettere, libri, articoli e interviste sulla vita privata dei gerarchi del Terzo Reich e dei loro discendenti.

Otto storie esemplari, narrate con una scrittura rigorosa ma incalzante, sui figli dei fedelissimi di Hitler, nati tra il 1927 e il 1944, cresciuti in un’infanzia dorata, lontana dai clamori della guerra e dalle violenze del nazismo, garantita loro da padri in genere tanto crudeli e cinici nella loro attività di governo, di amministrazione o di polizia quanto affettuosi e amorevoli in famiglia. «La mia famiglia fu l’altro mio santuario. Il mio legame con essa fu saldissimo», ebbe modo di dire Rudolf Höss, comandante del campo di sterminio di Auschwitz. Una doppia personalità, quasi schizofrenica, che in qualche modo veniva fuori già dal ritratto di Eichmann che aveva tracciato Hannah Arendt ne «La banalità del male».

«Ciò che il padre ha taciuto – annotava Nietzsche in «Così parlò Zarathustra» – prende parola nel figlio; e spesso ho trovato che il figlio altro non era, se non il segreto denudato del padre». E infatti molti di questi rampolli dei gerarchi nazisti hanno scoperto la verità sui propri genitori e sul loro ruolo nella macchina di distruzione di massa del nazismo e di sterminio degli ebrei solo dopo la fine del conflitto. Ma le reazioni sono state differenti, a volte completamente opposte.

Giudicare i propri genitori è un’impresa difficilissima. «Come guardare in modo spassionato e imparziale alle persone che ci hanno messo al mondo? Maggiore è la prossimità affettiva, più problematico risulta prendere partito», scrive la Crasnianski. Anche in Italia, personaggi illustri hanno dovuto affrontare il dramma del confronto con il passato fascista dei genitori, dai giornalisti Pierluigi Battista e Giampiero Mughini al comico Paolo Rossi e agli scrittori Marco Lodoli e Margaret Mazzantini.

Le soluzioni adottate dai figli dei gerarchi nazisti si sono polarizzate in modo netto: alcuni si sono allineati alle posizioni dei genitori, altri le hanno condannato fermamente, rarissimo l’atteggiamento di neutralità.

Sono soprattutto le figlie uniche a non aver rinnegato i padri: Gudrun Himmler (chiamata dal padre Püppi, bambolina), sola discendente legittima di Himmler, l’architetto della Soluzione Finale, sempre in giro con una spilla d’argento con una svastica formata da quattro teste di cavallo disposte in cerchio; Edda Göring, figlia del maresciallo del Reich, considerato il Nerone nazista; e Irene Rosenberg, il cui padre era Alfred Rosenberg, l’ideologo del nazismo, nonché ministro dei territori occupati sul fronte orientale. Divenute donne, hanno finito per vivere nel culto del genitore, dedicando la propria vita alla sua riabilitazione.

Anche Hans-Jürgen, il secondogenito di Höss, il comandante di Auschwitz, è rimasto fedele ai vecchi ideali del proprio genitore. Il figlio Rainer lo ha descritto come un uomo violento, dittatoriale e antisemita.

Sull’altro versante, ci sono figli che non se la sono sentita di amare il padre “mostro” e hanno preso le distanze da lui. Niklas Frank, il figlio di Hans Frank, detto il «boia di Cracovia», considera il padre un «assassino», giudicandolo «debole», «fatuo», «ipocrita», «vile», oltre che un patetico «leccaculo». Insieme alle fotografie dei suoi cari, porta con sé anche un’immagine del cadavere del genitore. «Mi piace come è venuto in quella fotografia: è morto», risponde a chi gli domanda chiarimenti.

Rolf Mengele, il figlio di Josef, il medico della morte, ha voluto cambiare il proprio cognome per non tramandare ai figli la vergogna familiare. E non è mancato chi ha cercato di espiare le colpe dei padri scegliendo la via della fede, come Martin Adolf Borman, figlio del potente segretario di Hitler e figlioccio del Führer, diventato missionario cattolico. Addirittura c’è chi si è convertito all’ebraismo, come Aharon Shear-Yashuv, all’anagrafe Wolfgang Schmidt, diventato rabbino dell’esercito israeliano, e la nipote di Magda Göbbels, cioè la figlia del figlio che Magda ebbe dal primo marito Günther Quandt.

E Hitler? Era contento di non avere discendenti: «Che problemaccio se avessi dei figli! Magari si cercherebbe di fare di mio figlio il mio successore! E non è tutto! Per uno come me non c’è speranza che gli nasca un ragazzo in gamba. È la regola. Si veda il figlio di Goethe: un individuo che non servì assolutamente a nulla!».

(Pubblicato in versione più sintetica su Il Messaggero del 26 gennaio 2017)

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Libri. Hitler, ecco gli ultimi scritti del leader nazista - Così Hitler costruiva menzogne

di Mario Avagliano

  Adolf Hitler è morto da settant’anni, ma mai come oggi si registra tanto interesse attorno alla sua figura. È di pochi giorni fa la notizia, non proprio tranquillizzante, che diverse scuole italiane hanno adottato come libro di testo il suo delirante manifesto politico e ideologico, il Mein Kampf, con conseguente coda polemica da parte dell’Unione delle Comunità Ebraiche. Nel frattempo in libreria arrivano nuovi saggi su Hitler, che svelano nuovi dettagli del suo pensiero e della sua vita.
Ultima tra le pubblicazioni del Führer è la nuova edizione delle sue ultime riflessioni, pubblicata da Rizzoli col titolo Il mio testamento politico (pp. 162, euro 13), arricchita da una prefazione del politologo Giorgio Galli, il maggior studioso italiano dei rapporti tra nazionalsocialismo e cultura esoterica.
Si tratta degli appunti affidati da Hitler, in una serie di conversazioni a tavola, al suo segretario personale Martin Bormann nel bunker della Cancelleria, in una Berlino distrutta dai bombardamenti e assediata dai sovietici, tra il febbraio e l’aprile del 1945. Poche settimane dopo Hitler avrebbe nominato Bormann suo esecutore testamentario e suo successore come capo del partito. Hitler fa un bilancio della sua vita e s’interroga sui motivi della guerra e sul perché l'ha persa. Dove aveva sbagliato?
Il suo testamento, pubblicato negli anni Cinquanta e poi divenuto praticamente introvabile per decenni (in Italia venne edito solo nel '61), getta nuova luce sulle motivazioni che guidarono le scelte di Hitler. Si tratta dell’«ultima finestra che doveva aprirsi su quella buia stanza, così infetta, laida e stregata, e ciononostante così satura di autentica anche se terribile forza esplosiva, ch’era la sua mente», come scrive Trevor-Roper nell’introduzione.
Il Fũhrer afferma di essere stato «l’ultima speranza dell’Europa» contro il pericolo della Russia e contro «il veleno mortale dell’ebraismo» e sostiene che in realtà non voleva la guerra, che gli sarebbe stata imposta dagli Alleati, rifiutando le richieste della Germania, e dagli odiati ebrei che volevano dominare il mondo. Ciò non toglie che egli continuasse a paragonarsi a Napoleone, che, come lui, era stato costretto a fare la guerra anche se voleva la pace.
Quanto a Mussolini, il dittatore nazista afferma di riporre in lui personalmente «assoluta fiducia», ma di averlo tenuto all’oscuro di alcune sue iniziative militari a causa di Ciano «il quale, naturalmente, non aveva segreti per le belle donne che gli svolazzavano intorno come farfalle».

L’altro saggio da poco arrivato in libreria è Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf (Rizzoli, pp. 356, euro 22), opera del giornalista e storico tedesco Sven Felix Kellerhoff, che ha ricostruito la genesi dell'opera di Hitler, vera e propria bibbia del nazismo, il suo percorso editoriale e la fortuna che ebbe da parte dei lettori (ne furono stampate 12 milioni di copie), fino al divieto di pubblicazione nel dopoguerra da parte della Baviera, caduto solo di recente, con il via libera a un’edizione ufficiale commentata.
Hitler concepisce la sua opera nel 1924, mentre è rinchiuso nel carcere di Landsberg, per alto tradimento dopo il putsch fallito. In cella sente l’esigenza di mettere nero su bianco la sua visione del mondo e della Germania.
La ricerca di Kellerhoff stabilisce sulla base di documenti (5 pagine originali del volume e ben 18 scalette ritrovate nel 2006 e provenienti dalla macchina da scrivere personale del futuro dittatore) che il libro sarebbe stato scritto integralmente da Hitler e anzi in gran parte da lui battuto direttamente a macchina, su una Meteor da viaggio. Rudolf Hess collaborò solo alla correzione delle bozze, con la collaborazione della futura moglie Ilse Pröhl.
Interessante anche la ricostruzione delle fonti del Mein Kampf, raramente citate da Hitler: dall'Ebreo internazionale di Henry Ford ai saggi dell'esperto di eugenetica svedese Herman Lundborg e del teorico razzista tedesco Hans F.K. Günther. Anche la teoria dello «spazio vitale» non fu opera del futuro Fũhrer che la copiò dalle idee di uno dei professori di Rudolf Hess: Karl Haushofer.
Non mancano le bugie costruite ad arte da Hitler. Ad esempio le informazioni autobiografiche non sono affidabili: il padre non era un oppositore della monarchia austroungarica, ma un funzionario doganale ripetutamente promosso per i suoi servigi e la sua lealtà.

Quanto all'antisemitismo di Hitler, che rappresenta il fulcro della Weltanschauung nazista, questi nel suo libro lo fa risalire già alla sua giovinezza a Vienna. Una tesi che, rileva Kellerhoff, contrasta con la sua vicenda biografica e con i suoi buoni rapporti con famiglie ebree del luogo, come gli Jahonda. Anzi, probabilmente fu il suo tenente ebreo Hugo Gutmann ad adoperarsi per fargli assegnare la Croce di ferro di prima classe il 4 agosto del 1918. Secondo lo storico tedesco la conversione ideologica di Hitler sarebbe avvenuta dopo la guerra. Un’altra bugia del futuro Führer del Terzo Reich.

(Il Messaggero, 29 dicembre 2016)

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Storie – La difficile giustizia sui crimini di guerra

 di Mario Avagliano

   Al termine del secondo conflitto mondiale, l’individuazione dei responsabili dei gravi crimini commessi durante l’occupazione tedesca in Italia contro le popolazioni civili rimase circoscritta a pochi casi eclatanti. Anche per ragioni di politica internazionale (l’incipiente guerra fredda e la necessità di “tutelare” l’avamposto della Germania dell’Ovest dall’espansione sovietica), ben presto gli Alleati abbandonarono il progetto di fare giustizia delle stragi compiute dai tedeschi durante la campagna d’Italia, e gli italiani, a parte poche condanne (Kappler per le Fosse Ardeatine, Reder per Marzabotto e altri eccidi), ben presto posero fine a quella stagione processuale.

La caccia ai criminali nazisti -  come racconta l’interessante  libro “La difficile di giustizia. I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-2013” (Viella editore), scritto a quattro mani da uno dei protagonisti della nuova stagione, il procuratore Marco De Paolis, pubblico ministero nei processi per le stragi di Sant’Anna di Stazzema, Civitella Val di Chiana, Monte Sole-Marzabotto e per l’eccidio di Cefalonia, e  dallo storico Paolo Pezzino - riprese il suo corso solo molti anni dopo, nel 1994,  a seguito della scoperta del cosiddetto “armadio della vergogna”, come fu definito da Franco Giustolisi. Si trattava di una stanza murata a Palazzo Cesi, a Roma, sede della Procura generale militare, in cui erano conservati centinaia di fascicoli giudiziari sui crimini di guerra commessi sulla popolazione italiana tra il 1943 e il 1945, illegalmente archiviati dal procuratore generale militare nel 1960.

Un saggio ricco di dati e di informazioni, che fa il punto e il bilancio sui risultati dei nuovi processi sulle stragi nazifasciste, svoltisi tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila. Processi che, come scrive De Paolis, anche se tardivi e a volte parziali, “si presentano a noi come una specie di ‘porta della verità’, attraverso la quale, anche mediante la ricostruzione e l’accertamento dei fatti nella loro materialità e nell’individualità delle singole condotte, si afferma l’ingiustizia del fatto, la sua illiceità e la responsabilità penale di chi quel crimine ha commesso; e così si giunge alla verità”. Da ciò discende l’attualità dei processi e “l’importanza di continuare ad adempiere al proprio dovere giudiziario, che è quello di perseguire e punire questi crimini finché sia in vita anche solo uno dei criminali che ne sono stati responsabili”.

(L'Unione Informa e Moked.it del 22 novembre 2016) 

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