Intervista al Prof. Angelo D’Orsi, storico

di Mario Avagliano
  
Quando emigrò con la famiglia a Torino, nel lontano 1957, erano anni in cui, nella capitale dell’automobilismo made in Italy, si attaccavano ai portoni  cartelli con la scritta: “Non si affittano case ai meridionali”. Oggi il professor Angelo D’Orsi, 57 anni, salernitano doc, anche se nativo di Pontecagnano, è uno dei più apprezzati storici italiani. Allievo di Norberto Bobbio, autore di studi sul fascismo, su Gramsci e sugli intellettuali piemontesi, scrive saggi per prestigiose case editrici del Nord, come l’Einaudi, la Feltrinelli e Bollati Boringhieri, e ha messo in cantiere anche un romanzo, che viaggia tra eros ed emarginazione. D’Orsi non ha mai rinnegato le sue origini meridionali, ama il mare di Salerno, dove torna spesso, ed è ghiotto di mozzarelle di bufala. E confessa: “Il compito che mi sono dato per la vecchiaia, è di analizzare alcuni aspetti e figure della storia politica del Sud”.
 
Professore, si sente più salernitano o piemontese?
Salernitano, non vi è dubbio. Mio padre Francesco era originario di un meraviglioso paesino del Cilento interno, Valle dell’Angelo, in mezzo ai lupi, dove abbiamo ancora la casa dei nonni. Mia madre aveva una piccola proprietà terriera a Salerno. Io sono cresciuto nella piana del Sele, tra Battipaglia, Paestum e Eboli. Le mie radici sono lì.
Immagini, odori, emozioni. Che cosa si porta nella valigia dei ricordi?  
L’infanzia per me è stato il mare, che a Torino è la cosa che mi è mancata di più. Ho anche un bellissimo ricordo degli odori della campagna, di quando salivo sugli alberi a raccogliere le mele acerbe, della raccolta dei pomodori, dell’allegro rito della trebbiatura, che coinvolgeva tutta la famiglia, dai vecchi ai bambini. Io ero un ragazzo macilento, mi chiamavano passaguai, già allora ero poco avvezzo alle cose pratiche e più predisposto agli studi e alla cultura, ma partecipavo a quelle giornate con entusiasmo e mi divertivo molto, cercando di rendermi utile.
Come mai la sua famiglia emigrò a Torino?
I miei genitori esercitavano un lavoro legato alla cultura napoletana dei Totò e dei De Filippo, i ricevitori del lotto, che a quel tempo erano pubblici funzionari. Si accedeva al lotto attraverso pubblici concorsi, come nei ministeri o nelle scuole. In base all’esito degli esami e agli avanzamenti di carriera, si veniva destinati ad altre sedi. Mio padre fu assegnato prima a Salerno, poi a Lagonegro, e infine a Oristano, in Sardegna. Mia madre Teresa non volle saperne di trasferirsi lì, allora venne fuori la possibilità di recarsi a Torino. Mio padre, che aveva il mito del Risorgimento, non ebbe dubbi, e ci convinse tutti.
Il suo impatto con Torino fu buono?
Fu traumatico. Era una domenica di inizio ottobre del 1957. Il giorno prima ero stato al mare e avevo fatto il bagno. Quando arrivammo a Torino, trovammo un’aria lugubre. Pioveva, faceva freddo, e la città ci sembrò grigia e cupa. Nella nostra nuova casa non c’era riscaldamento, ed eravamo stretti: sei persone in tre stanze. Fu uno shock. Io poi mi ero immaginato Torino come una città piena di luce, e l’appartamento grande e bello. Rimasi deluso. Anche mio padre era imbarazzato. Anni dopo, mia madre mi ha raccontato che, dopo il mio arrivo a Torino, cambiai carattere: da allegro e scherzoso che ero, diventai timido e introverso.
Torino era tanto terribile?
Guardi, i primi tre anni per me furono un inferno. Mi sentivo estraneo ed estraniato. Anche a scuola, c’era un razzismo strisciante. I miei compagni mi chiedevano di dov’ero, e quando rispondevo Salerno, replicavano: “Ah, Salerno, dalle parti di Palermo”, oppure: “Da Firenze in giù, siete tutti di Napuli”. Io non ho mai parlato in dialetto, ma avevo l’accento, e le prese in giro degli altri ragazzi erano feroci. Ricordo che, per reazione, comprai un dizionario di pronuncia e nel giro di 15 giorni, a forza di esercitarmi fino a notte, avevo già perso l’accento e toccava a me prenderli in castagna.
Erano anni difficili per i meridionali che lavoravano al Nord?
Ai portoni non di rado trovavi affissi cartelli con la scritta “Non si affittano case ai meridionali”. Il razzismo verso la gente del Sud era palpabile. C’è un episodio della mia vita che non dimenticherò mai. Un giorno l’insegnante di matematica, facendo l’appello, chiese se c’era qualche meridionale in classe. Io ero l’unico, rimasi in silenzio, rosso di vergogna, abbassando la testa. I miei compagni si voltarono tutti verso di me, guardandomi fisso. E la professoressa disse: “Ah D’Orsi, volevo ben dire, sei il più stupido!”. Ovviamente quell’anno fui rimandato in matematica.
Come nacque la sua passione per la filosofia e per la storia?
La passione per la cultura e per l’arte me l’ha trasmessa mio padre, che era musicista e poeta dilettante anche se – suo malgrado - era autodidatta e non aveva completato gli studi. Un giorno aveva marinato la scuola e aveva nascosto la cartella con i libri sotto a un albero. Qualcuno gliel’aveva rubata e mio nonno, che era severissimo, per punirlo lo aveva ritirato dalla scuola. Mio padre non glielo perdonò mai, ma appena cominciò a lavorare, nel corso degli anni costituì a casa sua una biblioteca fornitissima. I libri li divorava, aveva una curiosità onnivora, un po’ come il personaggio de La Peste di Camus, che leggeva le enciclopedie in ordine alfabetico. 
A parte suo padre, ha avuto qualche maestro?
Io ho frequentato il Liceo Gioberti, dove sono passati personaggi come Piero Gobetti e Piero Sraffa, e che è sempre stato un istituto di “sinistra”. Lì ho avuto due insegnanti che mi sono rimaste nel cuore: Giuliana Tedeschi Fiorentini, reduce dal lager di Auschwitz, e Lidia De Federicis. Sono loro ad avermi fatto amare la letteratura. Poi ho avuto la fortuna di avere come docente di storia e filosofia Alpino Galvano, pittore, filosofo, critico d’arte, un liberale tendenzialmente conservatore, ma di grande fascino intellettuale e signorilità. E’ stato lui, credo, a comunicarmi l’amore per la Storia e la e Filosofia. Infine, come non citare Norberto Bobbio? A differenza di altri, io non ho mai avuto il culto di Bobbio, ma sono stato uno dei suoi allievi, mi sono laureato con lui, l’ho frequentato a lungo, nella vita accademica e nella vita privata, e le sue opere sono state per me una fonte continua di stimolo, anche critico. 
Com’era Bobbio dal punto di vista umano?
Non era granché caloroso, anche se sapeva essere davvero arguto nelle sue conversazioni. Ogni tanto si scioglieva, ad un certo punto mi costrinse a dargli del tu, ma m’incuteva sempre soggezione. E poi era circondato da una coorte di persone in cui si esercitava una piaggeria che non mi piaceva.
Dopo la laurea in filosofia, lei ha cominciato ad occuparsi della storia del pensiero politico, diventando uno dei massimi esperti in questo settore.
Io ho avuto fin da piccolo una particolare attenzione ai temi della politica. Sembrerà assurdo, ma ricordo che a Salerno, ancora bambino ero invitato alle cene dei “grandi” ed ero richiesto del mio parere sui fatti della politica interna ed estera. Ad un certo punto è stato quindi naturale per me ancorare gli studi alla concretezza della vita reale.
Lei ha scritto diversi saggi sul fascismo e si è occupato anche di Resistenza.
Quello del fascismo è un discorso che ancora fa male, perché la generazione cresciuta sotto Mussolini non ha mai fatto una seria autocritica. Non aver fatto i conti con il fascismo, ha come conseguenza che anche la Resistenza è un tema incandescente. Questo deficit di riflessione autocritica, porta a trasmissioni come quella di qualche giorno fa condotta da Bruno Vespa e a interventi come quello di Petacco, che resuscita vecchi stereotipi come il Mussolini buonuomo finché non si alleò con Hitler e fece la guerra, che sono un esempio di come non si fa storia. Se poi questi stereotipi sono ripetuti anche dal Presidente del Consiglio... stiamo messi male. D’altra parte che cosa ci si poteva attendere da un governo dove trovano posto gli eredi del fascimo. Direbbe Eduardo, adda’ passà ‘a nuttata. 
Angelo D’Orsi sarebbe diventato uno storico di fama anche a Salerno?
A volte me lo chiedo. Non so se avrei fatto strada al Sud. Torino è una città difficile, a circoli chiusi, feudale, che è passata dalla Monarchia alla Signoria, e dove contano soprattutto i cognomi e le appartenenze familiari. Una città dove non mi sono mai veramente integrato. Allo stesso tempo Torino è anche un formidabile crocevia di culture, dove sono passati tanti intellettuali, a partire da Antonio Gramsci, ed  è sede di case editrici storiche, di un giornale importante come La Stampa.  
Come le sembra la Salerno di oggi?
Negli ultimi anni l’ho trovata gradevolmente trasformata, più vivibile, più bella. Quando vengo, mi piace passeggiare per il corso o al lungomare. E poi Salerno, e più in generale la Campania, è un vero laboratorio politico del buongoverno del centrosinistra nel Meridione. Un ciclo inaugurato da Bassolino e che dura da anni, e che mi sembra destinato a durare ancora.
Da storico della politica, come se lo spiega?
Un po’ ha giocato l’effetto Bassolino, ma non c’è dubbio che ci sono anche profonde ragioni strutturali. Dopo il terremoto del 1980, si era arrivati a un degrado morale talmente forte che la società civile ha avuto un positivo moto di reazione e di cambiamento. E’ successo un po’ come quando uno si tuffa in mare e tocca il fondo, e dopo ha una spinta verso l’alto. Francamente  avevo perso le speranze sulla possibilità di un nuovo corso in Campania, ma gli esempi di Napoli e di Salerno, dimostrano che il cambiamento c’è stato ed è reale. 
Quali sono i suoi prossimi progetti?
Ho quasi terminato la biografia di Leone Ginzburg, uno straordinario intellettuale che ha testimoniato la verità anche a prezzo della vita. In queste settimane sono impegnato nella scrittura di un romanzo che s’intitola “Fumo e piango”, una storia di eros, di dolore e di morte, una sorta di raccolta di esperienze border-line tra la vita della città e il mondo dei reietti. Inoltre sto dedicando le mie energie più intense ad Antonio Gramsci, una figura che oggi viene riscoperta in tutto il mondo, tranne forse in Italia, dove soffre il fatto di essere considerato, in modo riduttivo, il fondatore del Pci.
Chi è il professor D’Orsi nel privato?
A volte mi sento come un personaggio di Joseph Roth in “Fuga senza fine”: “Superfluo come lui al mondo non c’era nessuno”.    
 
 (La Città di Salerno, 31 ottobre 2004)
 
Scheda biografica
 
Angelo D’Orsi è nato a Pontecagnano (Sa) il 1° gennaio del 1947. Laureato in Lettere e Filosofia all'Università di Torino, con Norberto Bobbio, è professore associato di storia del pensiero politico contemporaneo nella Facoltà di Scienze Politiche dell'ateneo torinese, dove insegna anche storia della storiografia contemporanea, e nella Facoltà di Lettere e Filosofia, dove insegna metodologia della ricerca storica. Dopo aver esordito con studi su militarismo e pacifismo, si è occupato prevalentemente di nazionalismo e di fascismo (I nazionalisti, Feltrinelli, Milano 1981; La rivoluzione antibolscevica, Angeli, Milano 1985; Le dottrine politiche del nazionalfascismo, WR Editoriale, Alessandria 1988). Da tempo, suo terreno privilegiato di lavoro, oltre che la storia delle idee politiche (Alla ricerca della politica, Bollati Boringhieri, Torino 1995), sono le questioni di metodologia della ricerca e la storia della storiografia (Guida alla storia del pensiero politico, Il Segnalibro, Torino 1990; nuova ed. completamente rifatta La Nuova Italia, Firenze 1995; Alla ricerca della storia, Paravia/Scriptorium, Torino 1996; 2a ed. riv. e corr., ivi, 1999).  L'altro suo ambito di studi è rappresentato dalla storia della cultura e degli intellettuali (tra i numerosi contributi, si ricorda il volume L'ideologia politica del futurismo, Il Segnalibro, Torino 1992). Sempre da Einaudi è uscito recentemente La cultura tra le due guerre (2000), un saggio che ha suscitato un vivacissimo dibattito non soltanto storiografico. Di poco precedente è l'edizione del Carteggio tra Gioele Solari e Norberto Bobbio, che reca un ampio saggio introduttivo (La vita degli studi, Angeli, Milano 2000). I suoi ultimi saggi sono Intellettuali nel Novecento italiano (Einaudi 2001); Piccolo manuale di storiografia (Mondadori 2002); Allievi e maestri. L’Università di Torino nell’Otto-Novecento (CELID 2002); (a cura di) Guerre globali. Capire i conflitti del XXI secolo (Carocci 2003). Ha appena curato e introdotto una raccolta di scritti di Gramsci, La nostra città futura (Carocci, 2004). Collabora con il quotidiano “La Stampa”.

 

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