Storie - Il cattivo tedesco e il bravo italiano

di Mario Avagliano

Il nostro Paese fatica a liberarsi dal mito del fascismo buono e del “bravo italiano”. Al di là delle esternazioni dell’ex premier Silvio Berlusconi (convinto peraltro di interpretare il pensiero della maggioranza), quel macigno del passato, che fu analizzato da David Bidussa già nel 1994, continua ad essere il punto di vista di milioni di italiani, dando linfa vitale tra l’altro ai movimenti che si richiamano a quei valori.
L’idea che il fascismo sia stata una dittatura da “operetta”, i cui unici errori furono le leggi razziali e la partecipazione alla guerra, commessi peraltro solo per compiacere l’alleato Hitler, è molto più diffusa di quanto si pensi.
Lo ha ribadito lo storico Fililppo Focardi in un saggio uscito lo scorso mese e intitolato “Il cattivo tedesco e il bravo italiano” (Editori Laterza).

La narrazione nazionale della memoria, osserva Focardi, contrappone il “cattivo tedesco”, violento, antisemita, brutale, al “bravo italiano”, generoso, pronto a prodigarsi nel salvataggio degli ebrei e nel soccorso dei civili. Tacendo, minimizzando o negando il coinvolgimento del popolo italiano nel fascismo e nella persecuzione razziale e le responsabilità del paese nelle guerre fasciste e nei suoi numerosi crimini.
Negli ultimi anni la storiografia ha alzato il velo su diversi aspetti taciuti e rimossi, dalle responsabilità autonome dell’Italia nelle leggi razziali fino all’uso dei gas chimici in Etiopia e alle violenze dei militari italiani in Russia e nei Balcani. Ma i risultati di queste ricerche hanno prodotto, come rileva Focardi, “solo flebili effetti sull’opinione pubblica, toccata alla superficie”. E gli stessi manuali scolastici di storia ignorano il tema o lo trattano con sufficienza.
Manca ancora una riflessione collettiva nazionale sul fascismo e sulle responsabilità e le colpe italiane. Il 17 novembre di quest’anno ricorre il 75° anniversario delle leggi razziali. Può essere l’occasione giusta?

(L'Unione Informa, 5 febbraio 2013)

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Storie - Shoah da riscrivere?

di Mario Avagliano

È da riscrivere, o quanto meno da sottoporre a revisione, la storia dell’universo concentrazionario messo in piedi dai nazisti e dai loro alleati durante la Seconda guerra mondiale? Le cifre dei siti utilizzati per perseguitare e uccidere gli ebrei potrebbero essere notevolmente più alte di quanto finora stimato, addirittura più del doppio. È quanto emerge da un nuovo studio realizzato dall'Holocaust Memorial Museum di Washington, di cui ha dato notizia il quotidiano inglese Independent.

La ricerca, chiamata “the Encyclopedia of Camps and Ghettos”, è ancora in corso e sarà terminata e pubblicata solo nel 2025, ma i ricercatori hanno già catalogato i campi di lavoro forzato, di prigionia e di sterminio (e i ghetti) creati dal regime di Hitler e dai Paesi satellite, arrivando a identificare oltre 42.500 siti, rispetto agli oltre 20mila in precedenza conosciuti.
I ricercatori dell'Holocaust Memorial Museum stimano che siano state tra 15 e 20 milioni le persone che vennero uccise o imprigionate nei centri allestiti dai nazisti o dai governi alleati nei Paesi occupati, dalla Francia alla Romania, compresa l’Italia.
«I risultati della nostra ricerca sono scioccanti - ha dichiarato all'Independent Geoffrey Megargee, direttore dello studio - abbiamo messo insieme i numeri che nessuno aveva registrato finora, anche quelli riguardanti il sistema dei campi che erano stati studiati finora, e molti di questi non risultavano. C'è una tendenza a vedere l'Olocausto solo come Auschwitz e forse qualche altro posto, mentre è importante capire che il sistema era molto grande e complesso, che molte più persone ne erano a conoscenza e vi hanno preso parte, che rivestiva un ruolo centrale nel sistema di potere nazista e inoltre che diversi Paesi avevano una propria rete di campi».
I punti interrogativi sono però molti. Si tratterà di capire i criteri di catalogazione adottati dall'Holocaust Memorial Museum e le categorie di prigionieri e perseguitati inclusi nel database. Insomma, la ricerca continua.

(L'Unione Informa, 12 marzo 2013)

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Monuments Men. Gli eroi che salvarono l'arte da Hitler

di Mario Avagliano

George Clooney, in qualità di produttore, ha già pensato di trarne un film. E chissà, forse si ritaglierà anche un ruolo da protagonista. La storia in realtà è intrigante. Una via di mezzo tra Indiana Jones e Salvate il soldato Ryan. Dal 1943 al 1951, nel pieno della seconda guerra mondiale e anche dopo la fine delle ostilità, un manipolo di militari alleati, reclutati tra direttori di musei, artisti, archivisti, studiosi dell’arte, bibliotecari e architetti, con l’aiuto di francesi, italiani e anche di qualche tedesco illuminato, salvò alcuni dei capolavori dell’Occidente, come la Gioconda di Leonardo e la Madonna di Bruges di Michelangelo, recuperandoli e sottraendoli al saccheggio dei nazisti o alla distruzione.

La seconda guerra mondiale è stato il conflitto più devastante nella storia dell’umanità. Le principali città dell’Europa furono ridotte in macerie dai bombardamenti, con un numero di vittime impressionante. Eppure il museo Louvre a Parigi e la Cappella Sistina a Roma sono ancora lì, intatti. Come hanno fatto così tanti monumenti e opere d’arte a sopravvivere alla guerra e alla furia nazista?
Gli eventi principali del conflitto, Pearl Harbor, lo sbarco in Normandia, l’offensiva delle Ardenne, la battaglia di Stalingrado, la Shoah, la Resistenza al nazifascismo, sono entrati a far parte della nostra coscienza collettiva, così come i libri e i film (da Roma città aperta a Schindler’s List) e gli scrittori, gli attori e i registi (da Hemingway a Spielberg) che ci hanno fatto rivivere quei momenti epici o drammatici.
Ma è poco nota la vicenda di quel gruppo di circa 350 uomini e di donne di tredici nazionalità diverse, quasi tutti di mezza età, che, come afferma lo storico americano Robert Edsel, “hanno letteralmente salvato il mondo come lo conosciamo”. Persone senza mitra o carri armati, che non solo ebbero la lungimiranza di comprendere la gravissima minaccia che incombeva sulle opere d’arte, ma si schierarono anche in prima linea per evitarla.
Questi eroi sconosciuti erano i Monuments Men, come s’intitola il libro dello stesso Edsel, vale a dire «gli uomini della Monumenti», che prestarono servizio nella MFAA (Monuments, Fine Arts, and Archives), la sezione Monumenti, belle arti e archivi dell’esercito anglo-americano. All’inizio la loro responsabilità era limitare i danni al patrimonio artistico dovuti ai combattimenti, soprattutto quelli agli edifici storici: chiese, musei e monumenti. Con l’estendersi del conflitto, quando si varcò il confine tedesco, la loro missione si incentrò principalmente sulla localizzazione di opere d’arte trasportabili e altri beni trafugati dai nazisti o comunque dispersi.
Durante l’occupazione dell’Europa, infatti, i tedeschi avevano messo a segno il più grande furto della storia, confiscando oltre cinque milioni di opere d’arte e trasferendole nel Terzo Reich. Nell’agosto 1942 il feldmaresciallo Hermann Goering (che aveva una vera e propria ossessione per i quadri di Vermeer) dichiarò: “Una volta lo si chiamava saccheggio. Ma oggi le cose devono avere un aspetto più umano. A onta di ciò, io intendo saccheggiare, e intendo farlo in maniera totale”. Il sogno di Adolf Hitler era di edificare a Linz, in Austria, la più grande esposizione permanente d’arte dell’universo, tanto che commissionò al suo architetto Albert Speer il plastico del progetto e se lo portò nel suo bunker a Berlino.
In quegli anni gli uomini e le donne della MFAA condussero la più grande caccia al tesoro della storia, ricca di episodi grotteschi e straordinari. Fu anche una corsa contro il tempo, perché quando il Führer capì di aver perso la guerra, lanciò l’Operazione Nerone, che prevedeva tra l’altro di distruggere con gli esplosivi i tesori confiscati. E, nascosti in luoghi incredibili (castelli inaccessibili sulle Alpi o la miniera di Bernterode in Turingia, cinquecento metri sotto terra), c’erano decine di migliaia dei più importanti capolavori dell’umanità, incluse opere di Leonardo, Vermeer, Rembrandt, Picasso, Michelangelo e Donatello.
A questo libro, che riguarda in particolare le operazioni dei Monuments Men nel Nord Europa (in Francia, Germania, Austria e Paesi Bassi), ne farà seguito un altro, già annunciato da Edsle, in cui si narreranno le peripezie degli ufficiali Deane Keller e Frederick Hartt (americani) e John Bryan Ward-Perkins (inglese) durante il loro difficile incarico in Italia.
Una vicenda, quella della task force “italiana”, già raccontata di recente da Ilaria Dagnini Brey nel libro Salvate Venere! (Mondadori, pp. 328, euro 21). Anche nel nostro Paese, da Palermo a Napoli, da Montecassino alla Toscana e poi al Nord Italia, i Monuments Men percorsero centinaia di chilometri ispezionando chiese, ville e edifici storici, musei e gallerie, localizzando le opere in pericolo e trasferendole al sicuro, talvolta in modo rocambolesco. Una missione per salvare i simboli della civiltà occidentale.

(Il Messaggero, 25 marzo 2013)

In fuga dalla Shoah a bordo di un battello

di Mario Avagliano

Vi sono tante vicende della seconda guerra mondiale e della persecuzione degli ebrei ancora misconosciute o coperte dall’oblio, per i motivi più svariati, dalla reticenza dei protagonisti alla scomparsa o distruzione della documentazione. Una di queste è quella dei 520 ebrei (famiglie, adulti e giovani, compresi circa 30 bambini) appartenenti alla organizzazione sionista Betar, che il 18 maggio 1940 s’imbarcarono dal porto sul Danubio a Bratislava su uno scalcagnato battello fluviale a vapore, con le grandi ruote a mulino, denominato “Pentcho”, nella speranza di raggiungere la Palestina.
Molti dettagli inediti della storia dell’incredibile viaggio del “Pentcho” (descritta nel libro "Odyssey" di John Bierman) e del coraggioso salvataggio dei suoi passeggeri ad opera di una nave italiana e del suo comandante, il tenente napoletano Carlo Orlandi, sono stati ricostruiti di recente grazie allo straordinario collezionista Gianfranco Moscati, che già nel libro “Documenti e immagini dalla persecuzione alla Shoah” aveva proposto diversi documenti originali riferiti all'episodio, e alle ricerche appassionate di un docente di anatomia umana alla facoltà di medicina dell’Università di Perugia, Mario Rende, la cui famiglia è originaria di Tarsia, autore del saggio “Ferramonti di Tarsia. Voci da un campo di concentramento fascista”, edito tre anni fa da Mursia.

Rende si è recato in Israele, incontrando lo scorso 15 febbraio a Netanya i passeggeri e i discendenti del Pentcho presso il monumento che ricorda la nave e raccogliendo una straordinaria documentazione fotografica dei fatti fornita da uno dei sopravvissuti, Karl Schwarz, di cui proponiamo alcuni scatti in questo numero di Pagine Ebraiche.
La vicenda del Pentcho assomiglia per molti versi a quella delle tante carrette del mare cariche di immigrati che oggi dall’Africa tentano di raggiungere le coste italiane. Anche quel trasporto era “illegale”, come racconta l’ebreo tedesco Heinz Wisla, classe 1920, uno dei passeggeri della nave, in una memoria scritta conservata nel fondo Kalk del Cdec. E le analogie non si fermano qui: il battello era fatiscente, il viaggio aveva un costo (“in media circa 100 dollari USA a testa, che dovevano essere depositati in una banca svizzera”) e i passeggeri erano quasi del tutto privi di denaro e di mezzi di sussistenza.
Wisla ricorda così il momento della partenza: “Era uno spettacolo che faceva rizzare i capelli: su un vecchio rimorchiatore danubiano, che forse serviva una volta per il trasporto di bestiame o di grano e che per l'imminente viaggio avventuroso era provvisto di alcuni tavolati ed impalcature addizionali in legno, si pigiavano emigranti disperati dalla Slovacchia, dalla Boemia, dalla Germania, dall'Austria, dall'Ungheria, dalla Polonia, ecc. C'erano, tra di loro, circa 200 giovani idealisti e poi 200 persone adulte (coppie di sposi e persone sole) che non temevano privazioni di sorta, pur di poter rivedere i loro figli in Palestina. Si trovavano, inoltre, sulla nave, cento uomini già detenuti in vari campi di concentramento tedeschi e rilasciati alla condizione di abbandonare immediatamente la Germania”.
Il gruppo era comandato dal sionista Alexander Citron, che era riuscito ad ottenere un visto collettivo di espatrio per il Paraguay (come racconta lui stesso in un libro pubblicato in Israele). Tra i passeggeri vi era anche un ebreo ungherese, tale Imre Emerich Lichtenfeld, noto come Imi, che poi è passato alla storia come fondatore del metodo di combattimento e autodifesa krav maga. Un altro passeggero, invece, Schachun Wald, ebreo polacco, finirà invece assassinato assieme al figlio Paul dalle SS alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944.
Per quattro mesi e mezzo il battello scivolò, “dondolandosi” (parole di Wisla), lungo le acque del Danubio senza che nessuna delle nazioni attraversate (Jugoslavia, Bulgaria e Romania) consentisse ai rifugiati di approdare. Come testimonia Wisla, nessun paese voleva dare loro cibo, acqua e il prezioso olio combustibile necessario alla navigazione. Gli unici aiuti arrivarono dalle comunità ebraiche locali.
Un altro passeggero, Hans Goldberger, ha raccontato che potevano vedere i ristoranti sulle rive ed ascoltare la musica proveniente dai caffè mentre morivano di fame e che dipinsero sulla nave la parola “FAME” in tre lingue, ma nessuno portò loro del cibo (la storia di Hans è descritta nel libro di Ruth Gruber, Haven. The dramatic story of 1000 World War II refugees and how they came to America (Three River Press, New York 2000).
A settembre il Pentcho raggiunse finalmente il mar Nero, passando il Bosforo e raggiungendo Istanbul. Anche i turchi, però, non ebbero pietà dei passeggeri e ordinarono alla nave di proseguire il suo viaggio, nonostante che la sua riserva d'acqua potabile e la sua scorta di viveri stessero per terminare. Nei due giorni successivi, allorquando il "Pentcho" attraverso il Mar di Marmara e i Dardanelli raggiunse il Mar Egeo, “la fame e la sete erano già all'ordine del giorno”, racconta Wisla. Si pensò di puntare verso la Grecia, dove la comunità israelitica locale offerse in dono il giorno 4 ottobre 1940 viveri ed acqua ed anche un po' di olio combustibile, per riprendere il viaggio.
“Dopo tre giorni di navigazione – prosegue il racconto di Wisla - eravamo di nuovo in alto mare e potevamo intravedere sull'orizzonte alcuni piccoli isolotti, all'improvviso il mare si fece burrascoso e ciò determinò il destino della nave. Nei giorni 6, 7, 8, 9 ottobre, dopo un breve viaggio nel mare in tempesta con onde alte come una montagna che sballottolavano la nave come un giocattolo nelle insenature dei vari isolotti greci. Ed era, verso il mezzogiorno del 9 ottobre, allorquando il forte vento si era un po' calmato e la nave poteva di nuovo seguire la rotta sud-est stabilita in principio, avvenne la disgrazia: un guasto al motore ha impedito al "Pentcho" qualsiasi manovra. Si pensò allora di ricorrere alle vele, ottenute con la trasformazione di alcune lenzuola, ma la tempesta diventò sempre più forte. Poiché in lontananza si intravvedevano alcuni isolotti, si puntava verso questi. Il vento, però, diventò sempre più violento e poco dopo la mezzanotte del 10 ottobre il "Pentcho" urtò contro gli scogli dell'isolotto completamente disabitato Kamilonisi (50 Km a nord di Creta e circa 80 Km ad occidente del Dodecaneso italiano) e si fracassò. Per fortuna si è riusciti a gettare sull'isolotto alcune travi e scale, sicché abbiamo potuto, senza badare allo spumeggiare di grosse onde, passare dalla nave ormai fracassata all'isolotto, arrampicandoci sugli scogli e prendendo terra, ormai completamente esauriti”.
L’isolotto era privo di vegetazione e i naufraghi del Pentcho “soffrivano la fame ed erano in preda ad una mortale disperazione” (Wisla). Gli inglesi li avvistarono, ma non andarono in loro soccorso, perché la zona era minata. Per fortuna la loro presenza fu rilevata anche dall’aviazione italiana. Coraggiosamente la nave militare italiana “Camogli” (che era molto più distante dall’isola rispetto agli inglesi), comandata dal tenente Carlo Orlandi, attraversò indenne la zona minata, raggiungendo gli emigrati ebrei.
Nella sua memoria scritta Wisla conferma: “Finalmente è arrivata la salvezza: il giorno 20 ottobre era verso mezzogiorno, alcuni avieri italiani - era già in corso la guerra tra la Grecia e l'Italia - avvistarono il movimento e le segnalazioni di fumo sull'isola. Nella stessa serata accorse una nave italiana ed imbarcò tutti quanti i naufraghi. Dopo un viaggio tempestoso sbarcammo, il 23 ottobre 1940 sull'isola di Rodi nel Dodecaneso italiano dell'Egeo. In un primo tempo fummo internati in un campo di tende, ma successivamente - 24 dicembre 1940 - fummo trasferiti nei locali della caserma San Giovanni”.
A Rodi gli ebrei furono internati fino agli inizi del 1942. Uno di loro, Wisla, l’autore del memoriale conservato al Cdec, riuscì ad ottenere ad ottenere un visto per il Portogallo e a lasciare l’isola greca. Passò da Roma, dove fu ricevuto da Pio XII, al quale riferì la storia dei naufraghi del Pentcho rimasti a Rodi. Il papa si interessò della vicenda e grazie alla sua intercessione una nave della Croce Rossa prelevò i naufraghi e in due riprese (febbraio e marzo 1942) li trasportò in Italia. Un intervento provvidenziale, visto che le autorità italiane avevano chiesto ai nazisti di prendersi carico dell'intero gruppo per trasferirli in Germania. Gli ebrei furono destinati al campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia, in provincia di Cosenza, dove nel settembre 1943 furono liberati dagli alleati, sfuggendo così alla deportazione. I loro correligionari presenti a Rodi, invece, dopo l’occupazione tedesca dell’isola furono catturati, trasportati ad Atene e quindi deportati ad Auschwitz, da dove tornarono solo in 150 su un totale di 1800.
Nelle commemorazioni successive, i sopravvissuti del Pentcho riconobbero il comportamento generoso degli italiani nei loro confronti: “…hanno fatto tutto per soccorrerci nella nostra sventurata situazione. Se noi abbiamo conservato in quei anni la fede nell’umanità, lo dobbiamo al popolo italiano” (stralcio del discorso di Iehoshua Halevi al congresso degli ebrei ex internati a Ferramonti Tarsia e dei naufraghi del battello “Pentcho” tenutosi a Tel Aviv nel 1971, Fondo Kalk).
Fu diversa la sorte del tenente napoletano Carlo Orlandi (1888-1970), che all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre del 1943, fu catturato dai tedeschi e destinato come internato militare in uno Stammlager, come testimoniano i documenti e le fotografie raccolte da Gianfranco Moscati. Non vi sono prove dirette di una misura punitiva collegata al suo gesto di salvataggio degli ebrei. Fatto sta che Orlandi anche in questa situazione, dimostrando ancora una volta il suo coraggio, rifiutò di aderire al costituendo esercito della Repubblica Sociale di Mussolini e per questo fu trattenuto nel Reich fino al termine della guerra, subendo come gli altri IMI un trattamento ben peggiore dei prigionieri di guerra delle altre nazioni. Un eroe dimenticato che, come sostiene il professor Rende, meriterebbe di essere riconosciuto “Giusto fra le Nazioni”.

(Pagine Ebraiche, n. 4, 1° aprile 2013, pp. 30-31)

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Storie – Papa Francesco pronto ad aprire gli archivi vaticani su Pio XII?

di Mario Avagliano

Papa Francesco sarebbe pronto ad aprire gli archivi del Vaticano relativi al pontificato di Pio XII durante la seconda guerra mondiale, cioè per il periodo che va dal 1939 al 1945, mettendo la documentazione a disposizione degli studiosi. Lo ha affermato il rabbino Abraham Skorka, rettore del seminario rabbinico Latino-americano in Argentina e grande amico di Jorge Mario Bergoglio, in un’intervista alla rivista inglese The Tablet (ripresa dal quotidiano The Telegraph). «È una questione terribilmente delicata, ma lui dice che deve essere indagata a fondo», ha detto Skorka, aggiungendo: «Non ho alcun dubbio che egli si muoverà per aprire gli archivi».
Le dichiarazioni di Skorka, rilanciate in Italia dal giornalista Francesco Peloso della rivista on line Linkiesta, sono importanti, anche perché il rabbino è autore insieme all’ex arcivescovo di Buenos Aires di un libro intervista, intitolato “Il cielo e la terra”, nel quale si tocca anche il tema della Shoah e delle responsabilità della Chiesa. In queste pagine, a Skorka che solleva interrogativi sull’operato di Pio XII, Bergoglio risponde difendendo il papa ma anche concordando con il rabbino sulla necessità di aprire gli archivi sulla seconda guerra mondiale: «Quello che lei dice sugli archivi della Shoah mi sembra giustissimo. È giusto che si aprano e si chiarisca tutto. Che si scopra se si sarebbe potuto fare qualcosa e fino a che punto. E se abbiamo sbagliato in qualcosa dovremmo dire: “Abbiamo sbagliato in questo”. Non dobbiamo avere paura di farlo. L’obiettivo deve essere la verità».

(L'Unione Informa, 30 aprile 2013)

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Album di famiglia con nazi-genitori

di Mario Avagliano

Che cosa hanno in comune il fine intellettuale Günter Grass, premio Nobel della letteratura, e l’ispettore di polizia Derrick, alias Horst Tappert, l’attore che lo ha interpretato nelle celebre serie tv andata in onda dal 1974 al 1998? Entrambi avevano un passato nazista. E anche l’alter ego dell’ispettore, al pari di Grass, a venti anni fece parte delle SS, come ha riportato qualche giorno fa il Frankfurter Allgemeine Zeitung.

La notizia non deve aver sorpreso più di tanto i tedeschi, giunta com’è a cavallo dell’inaspettato successo della fiction Unsere Mütter, unsere Väter, ovvero Le nostre madri, i nostri padri, trasmessa sullo Zdf, il secondo canale tv tedesco, che secondo il settimanale Der Spiegel, grazie ad una martellante pubblicità, è già stata vista da più di 20 milioni di telespettatori.
Tre puntate dirette dal giovane regista Philipp Kadelbach, per un totale di 270 minuti, che hanno scosso il pubblico e provocato i commenti di critici cinematografici e di storici, provando a raccontare il passato scomodo e la complicità ai crimini del nazismo da parte dei tanti mamma e papà dei tedeschi di oggi. Sulla scia della serie tv, il popolare giornale berlinese Bz ha pubblicato tre pagine di confessioni di cento cittadini della capitale sotto il titolo “Cosa hai fatto tu”, illustrato da un elmetto con la svastica nazista.
Nel dopoguerra il processo di Norimberga condannò a morte i capi del nazismo, attribuendo le responsabilità essenzialmente ad Adolf Hitler e ai gerarchi del partito e delle SS. E così a lungo la storiografia tedesca ha ignorato le colpe della popolazione e perfino della Wehrmacht, l'esercito.
La correzione di rotta degli storici, che nell’ultimo ventennio hanno approfondito con studi, convegni e mostre il rapporto morboso che legò i tedeschi al nazismo, ora approda anche in tv. Il successo di pubblico della serie televisiva è nell’aver saputo confezionare, con i cliché di una normale fiction, un prodotto che mischia eventi storici reali e vicende private romanzate, narrando gli eccidi di civili compiuti dalla Wehrmacht sul fronte orientale e la complicità dei normali cittadini allo sterminio degli ebrei.
La fiction segue le vicende di cinque giovani berlinesi, tre ragazzi e due ragazze, che si trovano di fronte alle barbarie dei loro connazionali nazisti. Il messaggio di fondo è che le colpe non riguardarono solo i governanti di allora. I cattivi non furono sempre dei mostri riconoscibili, ma in moltissimi casi erano cittadini comuni, come aveva già scritto Hanna Arendt nel suo libro La banalità del male. Così nel film la bella e seducente infermiera, che all’apparenza sembra simpatica e dolce, non esita a denunciare la sua dottoressa perché ebrea, causandone la deportazione ad Auschwitz.
La serie televisiva ha anche provocato una polemica internazionale. I partigiani polacchi, infatti, vi vengono infatti dipinti come antisemiti, permettendo ad esempio che un treno proceda verso i campi di concentramento, nonostante intuiscano la presenza di ebrei sui vagoni. Alcune associazioni polacche hanno rivolto un appello al ministro degli Esteri Radoslaw Sikorski, chiedendo di adottare misure decise contro la diffusione di questa "serie televisiva diffamatoria". E il settimanale Uwazam Rze, in segno di protesta, ha sbattuto in copertina un fotomontaggio irriverente della cancelliera Angela Merkel vestita col pigiama a righe dei deportati nei lager e con il filo spinato sullo sfondo, titolando: "Falsificazione della storia: come i tedeschi si sono resi vittime della seconda guerra mondiale”.
Le polemiche hanno indotto l'ambasciatore polacco in Germania, Jerzy Marganski, a scrivere una lettera alla Zdf in cui spiega che "l'immagine della Polonia e della resistenza polacca agli occupanti tedeschi, così come raccontata dalla serie, è stata percepita dai cittadini polacchi come ingiusta e offensiva" e lamentando l’omissione di qualsiasi riferimento alla rivolta di Varsavia del 1944, in cui duecentomila civili polacchi persero la vita, di cui molti prestarono aiuto agli ebrei.
In Italia, Einaudi propone proprio ora il libro dello storico tedesco Götz Aly Perché i tedeschi? Perché gli ebrei? (pp. 284, euro 32), in cui tira in ballo il passato nazista di suo padre Ernst e dei suoi nonni e zii, spiegando attraverso le proprie vicende familiari come i tedeschi hanno sostenuto fino all’ultimo Hitler ed erano partecipi della Shoah. Da parte sua il settimanale inglese The Economist, in un articolo intitolato “Bentornati al Terzo Reich”, si interroga sullo strano fenomeno della ricomparsa sulla tv tedesca di veterani della seconda guerra mondiale che, dopo il successo di Le nostre madri, i nostri padri, sono invitati sempre più spesso nei talk show per raccontare il loro disagio e come fossero stati “costretti” a uccidere ebrei.

(Il Mattino, 3 maggio 2013)

Storie – Mauthausen e la escalera della morte

di Mario Avagliano

E’ stato celebrato nei giorni scorsi il 68° anniversario della liberazione del lager di Mauthausen, con la partecipazione di una folta delegazione italiana, guidata dall’Aned. La liberazione del campo avvenne il 5 maggio 1945, quando le prime camionette americane entrarono nel cortile di Mauthausen e del sottocampo di Gusen (e il giorno dopo del sottocampo di Ebensee), suscitando la gioia dei deportati sopravvissuti.
A Mauthausen, tra l’agosto del 1938 e il maggio del 1945, vennero deportati circa 200 mila uomini, donne, anziani e bambini provenienti da più di quaranta nazioni: oppositori politici, persone perseguitate per motivi religiosi, omosessuali, ebrei, zingari, prigionieri di guerra e anche detenuti comuni. Almeno la metà di essi fu uccisa o morì a causa delle inumane condizioni di vita e di lavoro.

Gli italiani furono deportati nel lager austriaco dal settembre-ottobre del 1943 con una ventina di “trasporti” per un totale di 6.615 (come risulta da Il libro dei deportati a cura di Brunello Mantelli e Nicola Tranfaglia). I sopravvissuti furono il 45%.
Tra i primi prigionieri del campo di Mauthausen vi furono i repubblicani spagnoli, molti dei quali morirono costretti a trasportare grossi blocchi di pietra per costruire le mura del campo su per una scala della morte di 186 ripidi gradini (che poi sarebbe diventata l’incubo di tutti i deportati), e il cui sacrificio fu immortalato in una canzone di Antonio Resines e Antonio Gòmez, La escalera de Mauthausen: “Ogni gradino la fame / ogni gradino il freddo / ogni gradino ci conficca le unghie nella piaga / Ogni gradino la notte / ogni gradino la pietra / ogni gradino si abbassa il peso della schiena / Ogni gradino frustate / ogni gradino carnefice / ogni gradino colpisce e attanaglia la gola / Ogni gradino più lontano / ogni gradino fatica / ogni gradino un sogno perduto di arance / Ogni gradino pericolo / ogni gradino silenzio / ogni gradino avanza la morte e ci ghermisce”.
Il 16 maggio 1945 si tenne sul piazzale dell'appello del lager una grande manifestazione antinazista, al termine della quale gli ex deportati di tutte le nazionalità approvarono un appello noto come il "Giuramento di Mauthausen", nel quale si leggeva fra l’altro: «Nel ricordo del sangue versato da tutti i popoli, nel ricordo dei milioni di fratelli assassinati dal nazifascismo, giuriamo di non abbandonare mai questa strada. Vogliamo erigere il più bel monumento che si possa dedicare ai soldati caduti per la libertà sulle basi sicure della comunità internazionale: il mondo degli uomini liberi! Ci rivolgiamo al mondo intero, gridando: aiutateci in questa opera! Evviva la solidarietà internazionale! Evviva la libertà!». Un impegno valido ancora oggi.

(L'Unione Informa, 14 maggio 2013)

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Gino Bartali. Il coraggio del campione

di Mario Avagliano

«Oh, quanta strada nei miei sandali / quanta ne avrà fatta Bartali / quel naso triste come una salita», cantava Paolo Conte. Ma è grazie ai suoi meriti extrasportivi, la partecipazione alla Resistenza e il salvataggio di molti ebrei, che Gino Bartali, il campionissimo italiano delle due ruote, è stato celebrato anche oltre Atlantico, con la pubblicazione del saggio Road to Valor dei canadesi Andres e Aili McConnon, fratello e sorella, rispettivamente ricercatore storico e giornalista di varie testate statunitensi (New York Times, Wall Street Journal e Guardian).

Ginettaccio, staffetta partigiana, durante la seconda guerra mondiale contribuì a sottrarre centinaia di ebrei tra Toscana e Umbria dalle grinfie dei nazifascisti, salvando un’intera famiglia dalla deportazione ad Auschwitz. Il libro made in Usa, che ripercorre le sue gesta, ora approda anche in Italia, dove sarà in libreria il 23 maggio col titolo La strada del coraggio – Gino Bartali, eroe silenzioso (edizioni 66thand2nd).
Inediti dettagli su Bartali, classe 1914, originario di Ponte a Ema, frazione di Firenze, che nella sua leggendaria carriera ha vinto tre Giri d’Italia e due Tour de France, erano stati rivelati alcuni mesi fa da Adam Smulevich su «Pagine Ebraiche». In una testimonianza il fiumano Giorgio Goldenberg (che da quando vive in Israele ha cambiato il suo nome in Shlomo Pas) aveva raccontato che il popolare Ginettaccio e il cugino Armandino Sizzi nella primavera-estate del 1944 nascosero per alcuni mesi a Firenze, nella cantina di una casa in via del Bandino, di loro proprietà, i quattro componenti della sua famiglia (padre, madre e due bambini, Giorgio e Tea), impedendone l’arresto da parte dei nazisti.
Il libro americano, ricco di testimonianze e documenti, è diviso in tre parti e ricostruisce l'infanzia e la giovinezza del campione, fino al trionfo al Tour de France del 1938 (e Gino si lamenterà delle ingerenze politiche del regime fascista che gli impedirono di realizzare l'accoppiata Giro-Tour, vietandogli la corsa rosa); il periodo bellico, la sua militanza nell’Azione Cattolica, mal tollerata dal fascismo, e l'attività clandestina nella Resistenza; e poi, dopo la liberazione, il ritorno alle competizioni ciclistiche e la storica rivalità con Fausto Coppi che divise il tifo sportivo dell’Italia repubblicana, nel fervore della ricostruzione, trasformandosi anche in un fenomeno socio-politico: Coppi simil-Peppone, “rosso” e laico, e Bartali-don Camillo, “bianco” e cattolico. Fino alla seconda straordinaria vittoria al Tour del 1948, con gli occhialoni infangati di fango, che in qualche modo allentò la tensione esplosa nel Paese dopo l'attentato al segretario del Pci Palmiro Togliatti, e alla morte avvenuta a Firenze nel maggio del 2000.
Memorabili le sue battute «L'è tutto sbagliato l'è tutto da rifare», il suo spirito bonario, il fumare come una ciminiera e la verve polemica da toscano, che non disdegnava il buon Chianti.
Bartali fu staffetta partigiana a partire dall'autunno 1943 su incarico dell'arcivescovo di Firenze, il cardinale Elia Dalla Costa, e al servizio della rete clandestina Delasem messa in piedi dall’ebreo pisano Giorgio Nissim. Il ciclista toscano fingeva di allenarsi per le grandi corse a tappe che sarebbero riprese dopo il conflitto ma in realtà trasportava documenti falsi, celati in una sorta di cilindro montato sulla canna della bici, simile a una pompa per tubolari, per circa 630 ebrei nascosti in case e conventi tra Toscana e Umbria. Centinaia di km percorsi in bici avanti e indietro, da Firenze ad Assisi (la strada del coraggio), per “consegnare” nuove identità alle famiglie ricercate con feroce determinazione dai fascisti della Rsi e dai nazisti.
Bartali non si vantò mai di questa sua esperienza e non volle raccontarne i dettagli. «Non si specula sulle disgrazie altrui», soleva rispondere a chi gli chiedeva ulteriori ragguagli. Soltanto dopo la sua scomparsa, è stato possibile approfondire questo capitolo della sua esistenza, che potrebbe presto portarlo a essere iscritto nel registro dei Giusti del Museo Yad Vashem di Gerusalemme. E grazie a Ginettaccio, nel 2014 proprio la sua Firenze potrebbe avere l’onore di aprire il Tour De France. Una candidatura appoggiata dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e dal Conseil Représentatif des institutions juives de France. Quell’anno infatti si celebra il centenario dalla nascita di Gino Bartali, campione sulle due ruote e nella vita.

(Il Messaggero, 24 maggio 2013)

 P.S.: apprendiamo proprio oggi che purtroppo la partenza del Tour 2014 sarà da Londra. Firenze a questo punto è in pole position per il 2015!

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