Le persecuzioni a Praga in un documento inedito del 1745

di Mario Avagliano

 

Le leggi razziali e la Shoah hanno purtroppo precedenti sanguinari nell’Europa cristiana. Anche prima del secolo buio, il Novecento, la storia degli ebrei nel vecchio continente è stata caratterizzata, com’è noto, da massacri, espulsioni di massa, discriminazioni, umiliazioni, violenze. A testimoniarlo è tra l’altro un eccezionale documento del 1745, inedito, inviato dalla comunità ebraica di Praga ai correligionari della comunità ebraica di Venezia, che è stato ritrovato di recente dal collezionista Gianfranco Moscati (frutto della donazione della signora Nidia Varadi e delle sue figlie) e che sarà versato al futuro Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara. (Pagine Ebraiche, n. 12, dicembre 2011, p. 36)

Il documento, scritto in ebraico, è una drammatica denuncia da parte della comunità di Praga (“Voce di tempesta da una città”) del massacro che avevano compiuto le truppe ungheresi a danno delle inermi popolazioni del ghetto, su ordine della regina Maria Teresa d’Austria. Un appello col quale gli ebrei praghesi chiedevano ai “fratelli” italiani aiuto e “compassione” e di far conoscere al mondo gli avvenimenti di quel terribile inverno del 1745.

“Il giorno 21 kislev u.s. (a metà dicembre del 1744, ndR) vennero schiere ungheresi – si legge nel documento-denuncia – e con loro migliaia di praghesi a cercare in ogni buco delle case ebraiche e persino nel mercato ci assalirono depredando i frutti delle nostre fatiche, rendendo deserti i nostri palazzi. Perirono molte persone tra cui Zaddikim famosi, migliaia furono torturati e percossi per costringerli ad indicare tesori nascosti; depredarono le cose sacre, profanarono la Santa Torah strappando i rotoli nell’Arca Santa, molti templi furono invasi e saccheggiati per cui molti degli esponenti della nostra comunità andarono nudi e pieni di vergogna. Poi venne il peggio. La regina ordinò di scacciare tutti gli Ebrei entro 6 mesi da tutto il territorio sotto la sua sovranità e ai membri della nostra città Praga fu intimato di abbandonare la città entro la fine di febbraio p.v.”.

“Da quel giorno – continua il documento degli ebrei di Praga - noi andiamo raminghi e non sappiamo quale sia il nostro asilo. E che faremo delle donne, dei bambini, dei vecchi ammalati e di tutta la gioia della nostra vita: i libri della Torah, i templi, le scuole, i cimiteri? Non abbiamo  scampo! Già sono state uccise 30 persone tra cui un grande insigne Rabbino e capo di Comunità; molti sono fuggiti abbandonando tutto! Inoltre non ci permettono di portare via con noi nemmeno i pochi mobili e ci hanno imposto di pagare 180.000 monete d’oro oltre che le altre varie imposte. Non ci hanno ascoltato quando abbiamo detto: intanto vi lasciamo tutto, perché ci volete privare di quel poco necessario per il nostro esilio?”.

L’appello finale è commovente: “Esiste un male maggiore al nostro, un dolore più grande? Ci siamo rivolti a destra e a sinistra: non c’è chi ci soccorre. Andiamo con le mani vuote, abbandonati e perseguitati da tutti perché le calunnie ci hanno attorniato di un odio insuperabile. Perciò, fratelli, abbiate voi compassione di noi per la gloria del Grande Nome Benedetto, e chiunque possa far qualcosa per la salvezza del popolo d’Iddio, lo faccia e Dio vi protegga e innalzi in cielo il vostro nome”.

All’epoca la comunità ebraica di Praga era composta da circa 13 mila persone (quasi il 30% dell'intera popolazione praghese), risultando la più grande comunità di ebrei Aschenaziti nel mondo e la seconda comunità ebraica in Europa dopo Salonicco. Negli anni dal 1597 al 1609 il rabbino capo di Praga era stato Judah Loew ben Bezalel, detto Maharal, grande studioso della Torah e figura eminente della storia ebraica, che secondo la leggenda, per proteggere gli ebrei del ghetto di Praga da attacchi antisemiti, aveva creato un essere vivente fatto di argilla, il Golem, utilizzando le sue conoscenze esoteriche riguardo alla creazione di Adamo.

L'espulsione degli ebrei da Praga venne decretata da Maria Teresa d'Austria con la pretestuosa motivazione dalla loro collaborazione con l'esercito prussiano di Federico II, che qualche anno prima aveva invaso la città, poi riconquistata dagli Asburgo. In realtà la persecuzione degli ebrei s’inquadrava nell’ambito dello spirito antisemita che aleggiava in Europa in quel periodo, alimentato anche dalla Chiesa cattolica, che aveva emanato vari editti che limitavano i diritti degli ebrei.

Il documento della collezione Moscati è interessante anche perché costituisce una prova ulteriore del sentimento di solidarietà che fin da allora legava gli ebrei in ogni parte del mondo. Esso infatti venne stampato a cura della comunità ebraica di Venezia con ogni probabilità per essere inviato a tutte le altre comunità italiane, come sembra attestare il terzo lato della lettera, riservato all’indirizzo della comunità ebraica di Correggio, dove la missiva giunse a mezzo posta. Il documento era accompagnato da una lettera (stampata sul retro) firmata da cinque autorevoli rabbini della comunità ebraica di Venezia (Iaakòv Levi, Ishale Foa, Iaakòv Caro, Ishak Uzziel e Moshè Merari), che inizia con questa frase: “E chi udendo tali sciagure i suoi occhi non lacrimino, il suo cuore non si strazi e la sua anima non agonizzi?”.

I cinque ebrei veneziani chiesero ai colleghi rabbini delle altre comunità una precisa “mizvà”: “di scuotere gli animi e svegliare i cuori rendendo noti tutti gli avvenimenti. Che ognuno estenda la mano generoso in aiuto di poveri sfortunati poiché il momento lo impone e il premio delle buone azioni sarà maggiore dal cielo. Ciò possa difenderli da ogni sciagura fino a che il Signore non li guidi verso sorgenti d’acqua e sia avverato lo scritto: ‘ E il mio popolo dimorerà in pace in luoghi sicuri e riposo florido’ e così sia”.

In aiuto degli ebrei praghesi si mobilitarono con una offensiva diplomatica anche  le comunità ebraiche di Olanda, Inghilterra, Danimarca, con interventi pubblici e appelli scritti all’imperatrice d’Austria, ma Maria Teresa non si fece impietosire. Tra febbraio e marzo del 1745 circa 13 mila ebrei furono costretti a lasciare Praga, trasferendosi in Germania o in Olanda e, chi sperava di tornare, in altre località della Cechia. Tra le mura del ghetto ebraico rimasero solo poche dozzine di ebrei anziani o ammalati e qualche donna incinta.

(Pagine Ebraiche, n. 12, dicembre 2011, p. 36)

Gli ebrei italiani e quel 16 ottobre

di Mario Avagliano

Il 16 ottobre è la vera “giornata della memoria” per gli ebrei italiani. Quel tragico sabato di ottobre del 1943 vennero rastrellati nel Ghetto di Roma 1259 ebrei. Le SS di Kappler li andarono a prelevare casa per casa. Due giorni dopo 1023 di essi furono deportati nel lager di Auschwitz (compreso un bambino nato dopo l’arresto della madre). Solo 17 sopravvissero. Fu la prima e la più imponente retata dei tedeschi in Italia nei confronti degli ebrei, messa in atto con il silenzio (e la complicità) delle autorità italiane della neonata Repubblica Sociale guidata da Benito Mussolini, e segnò l’inizio di una fase ancora più violenta della persecuzione razziale nel nostro Paese.

A distanza di 56 anni, l’Italia non ha ancora fatto i conti con questo lato oscuro della sua storia. La persecuzione degli ebrei del 1938-45 è stata vista e giudicata dai più come un fatto estemporaneo, quasi un corpo estraneo, indotto dall’esterno (Hitler) nelle nostre vicende nazionali.

La verità dei fatti fu ben diversa: a partire delle infauste leggi razziali del 1938 il governo di allora e gli italiani (che, pur nell’ambito della dittatura, espressero un vasto consenso di massa al fascismo e alle sue politiche, anche di discriminazione) intrapresero autonomamente la persecuzione degli ebrei, sia pure nel quadro di un avvicinamento politico-militare oltre che ideologico con la Germania nazista, e la perseguirono con sistematicità, determinazione e - purtroppo - efficacia.

Il prezzo pagato dagli ebrei in Italia fu altissimo. E se la persecuzione delle vite umane tra la fine del 1943 e la primavera del 1945 fa parte della storia più generale della Shoah (secondo gli studi di Liliana Picciotto provocò la morte di almeno 7.241 ebrei, pari a oltre il 22% della popolazione ebraica italiana), la persecuzione dei diritti subita dagli ebrei tra il 1937-38 e il 1943, costituita di umiliazioni, separazione dagli altri, segregazione, perdita di uguaglianza, cacciata dalle scuole e dai posti di lavoro, razzia di beni e proprietà, sofferenze e suicidi, resta una macchia specifica sulla coscienza e sulla storia italiana, su cui troppo spesso e troppo a lungo si è preferito soprassedere.

Il sistema persecutorio italiano fu il più articolato d’Europa dopo quello tedesco e in quegli anni alcune misure furono addirittura più gravose e vessatorie di quelle attuate dai nazisti. L’apparato amministrativo e burocratico statale si impegnò a fondo e con accanimento nell’applicare le leggi razziali. E così migliaia di professori, maestri, studenti, dipendenti pubblici, militari, impiegati privati, professionisti, da un giorno all’altro furono espulsi dalle scuole, dalle università, dagli uffici pubblici, dalle aziende, dalle forze armate, per il semplice fatto di essere ebrei.

Ma la responsabilità dell’Italia non riguarda solo le leggi razziali e la persecuzioni dei diritti. L’Ordine di Polizia della RSI numero 5, emanato il 30 novembre 1943 e trasmesso il giorno seguente alla radio, annunciò che tutti gli ebrei – «a qualunque nazionalità appartengano» - sarebbero stati arrestati e inviati ai campi di concentramento, fatta eccezione per quelli gravemente malati o di età superiore ai settant’anni. Di conseguenza, la maggior parte degli ebrei che poi trovarono la morte nei lager nazisti, come ha rilevato Michele Sarfatti, fu arrestata dalle autorità italiane e consegnata ai tedeschi. Alcune prefetture e comandi – ha scritto Renzo De Felice – ci misero «uno zelo veramente incredibile, fatto al tempo stesso di fanatismo, di sete di violenza, di rapacità». Tutto l’apparato burocratico italiano fu coinvolto. La «caccia» durò fino alla fine: il 25 aprile 1945, un gruppo di militi fascisti in fuga verso la Francia, si fermò a Cuneo per prelevare sei ebrei stranieri e ucciderli, gettando i loro corpi sotto un ponte. Come dimenticare questo capitolo della nostra storia?

 

(E Polis, 17 ottobre  2009)

 

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Storie – Scampato a Dachau e ucciso dai titini

di Mario Avagliano

   La violenza delle dittature non ha pietà di nessuno. Quattro giorni fa in Italia si è celebrato il Giorno del Ricordo, per ricordare le foibe e il dramma dell’espulsione dei nostri connazionali dall’Istria e dalla Dalmazia, eventi terminali della lunga contrapposizione tra italiani e slavi che aveva visto prima l’italianizzazione forzata di quei territori e poi l’occupazione da parte delle nostre truppe, con corollario di repressione, eccidi e persecuzioni.
Una delle vicende più paradossali è quella ricordata da Riccardo Ghezzi su «L’Informale»: la storia del meccanico Angelo Adam, ebreo sopravvissuto a Dachau ma ucciso dalle truppe di Tito.
Ebreo, italiano di Fiume, già legionario con Gabriele d'Annunzio, poi antifascista confinato a Ventotene, dopo la caduta del fascismo e l’armistizio Angelo a 45 anni entra nella Resistenza, diventando membro del Cln cittadino.
Catturato dai tedeschi e deportato a Dachau il 2 dicembre 1943, con il numero di matricola 59001, riesce miracolosamente a sopravvivere al lager.
Tornato a Fiume, trova una città occupata dalle truppe di Tito, con un clima di terrore e una comunità ebraica ormai dispersa. In nome dei suoi ideali autonomisti, Adam prova a riannodare il contatto con gli amici partigiani, antifascisti e sindacalisti, tentando di mantenere un filo diretto con il vertice del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia.
All’inizio di dicembre del 1945, gli sgherri di Tito si recano a casa sua e lo prelevano con la forza assieme alla moglie Ernesta Stefancich, per la colpa di essere italiano e autonomista e quindi un potenziale oppositore del partito comunista jugoslavo, come tale da eliminare.
Quando la figlia diciassettenne Zulema chiede alle autorità notizie sui genitori, sparisce nel nulla anche lei. I tre corpi non sono mai stati trovati. Probabilmente sono finiti in una foiba.

(L’Unione Informa e Moked.it del 14 febbraio 2017)

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Storie – Il campo di concentramento di Casoli in Abruzzo

di Mario Avagliano

  La realtà dei campi di concentramento fascisti che furono istituiti in tutta la penisola dopo l’ingresso in guerra dell’Italia nel giugno del 1940 è ancora poco conosciuta.
Uno di questi campi si trovava a Casoli, in provincia di Chieti, in Abruzzo, e fu attivo dal 1940 al 1944, internando ebrei stranieri (fino a maggio del 1942) e successivamente "ex jugoslavi" (considerati sudditi nemici).
Meritoriamente Giuseppe Lorentini, lettore di italiano all'Università tedesca di Bielefeld (Nord Westfalia), ha realizzato di recente un sito, www.campocasoli.org, che è il frutto di un lavoro di tre anni di ricerca studiando, scansionando e rendendo consultabili 3.711 documenti contenuti in 212 fascicoli conservati presso l'Archivio storico del Comune di Casoli, dalla cui amministrazione ha avuto collaborazione e patrocinio.
Il sito propone l’intero fondo archivistico dedicato al campo, conservato nell’Archivio storico del Comune e riordinato nell'anno 2000, che - grazie al notevole numero di documenti - costituisce una fonte interessante per ricostruire quale fosse il modello di amministrazione di un campo di concentramento fascista.
Allo stato attuale della ricerca in Italia, sono pochi, i comuni italiani sede di campi di concentramento o di località di internamento civile durante il fascismo, ad aver conservato i fascicoli personali degli internati.
L’obiettivo del progetto è raccogliere documenti, testimonianze, fotografie e altro materiale in modo da realizzare una documentazione il più completa possibile sul Campo di Concentramento di Casoli.
Nella sezione documenti vi sono alcune foto e si leggono alcune lettere personali degli internati, in molti passi davvero toccanti, e attraverso questo sito è anche possibile dare un volto al nome di diversi ebrei stranieri internati in questo Campo dal 10 luglio 1940, provenienti dal carcere di Trieste.
Dopo l'8 settembre 1943, nove di questi internati ebrei stranieri furono arrestati e deportati nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, dove trovarono la morte. Un altro, invece, venne assassinato nel campo di Risiera San Sabba, un altro ancora deportato nel campo di concentramento di Bergen-Belsen e sopravvissuto alla liberazione, avvenuta il 4 marzo 1945. Una foto di gruppo riprodotta nel sito, per molti di loro, rappresenta, forse, l'ultima immagine-testimonianza. Per altri 14 ebrei internati stranieri il Campo di Casoli risulta essere l'ultima località di internamento nota.

Chi vuole partecipare alla ricerca attraverso la propria testimonianza o contribuire con documenti e altri materiali, può rivolgersi a: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..

(L’Unione Informa e Moked.it del 28 febbraio 2017)

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Storie – Il Museo delle penultime cose

di Mario Avagliano

 Cosa accadrà quando tutti i testimoni della Shoah saranno scomparsi? Quel momento, purtroppo, non è lontano, e Massimiliano Boni, scrittore e consigliere della Corte Costituzionale, nel romanzo «Il Museo delle penultime cose» (66thand2nd, pp. 352) ha provato a raccontarlo, immaginando un’Italia futura - che speriamo non si realizzi mai - scossa da un rigurgito antisemita, in cui al governo viene eletto un certo Cacciani, promotore di un “Piano nazionale della Felicità” (il cui acronimo, Pnf, ricorda quello di partito nazionale fascista), mentre tutt’intorno il clima sociale peggiora e molti ebrei italiani sono costretti a rifugiarsi in Israele.
In questo quadro fosco, Pacifico Lattes, vicedirettore del museo della Shoah di Roma, sito in villa Torlonia, prepara un’importante mostra sugli ultimi superstiti ai campi di concentramento. È arrivato quasi alla fine del suo minuzioso lavoro, quando riceve da un parroco la notizia di un sopravvissuto ancora in vita: tra le mura di una casa di riposo di Tor Sapienza, infatti, c’è Attilio Amati, novantottenne aspro e taciturno custode di un segreto.
Dall’incontro tra Attilio e Pacifico, dapprima scettico nei confronti di un vecchio il cui nome non compare sulle liste dei deportati, inizia una ricerca difficile e ostinata, un confronto serrato che porterà entrambi a riconoscersi nella dolorosa esperienza dell’altro.
Un romanzo che s’interroga sull’importanza dei testimoni e ci interroga sul come preservare la memoria di ciò che è stato e creare anticorpi contro il ritorno all’antisemitismo.

(L’Unione Informa e Moked.it del 28 febbraio 2017)

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Nolte, primo dei revisionisti

di Mario Avagliano

  Il principe della corrente revisionista della storia del Novecento o uno storico coraggioso che ha rotto il muro del conformismo su quel periodo così controverso? Il tedesco Ernst Nolte, scomparso ieri  Berlino all’età di 93 anni, è stato almeno fino a un certo punto sia l’uno sia l’altro, in modo a volte contraddittorio e fuori dai canoni, strizzando però troppo l’occhio al negazionismo nella fase discendente della sua parabola di studioso.
Originario di Witten, nel Nord Reno-Westfalia, nel gennaio 1923, Nolte nasce filosofo, laureandosi a Friburgo e avendo maestri del calibro di Martin Heiddeger e Eugen Fink, con il quale nel 1952 consegue il dottorato con una tesi sull’idealismo tedesco e Marx. Ma ben presto si dedica alla ricerca storica, diventando professore emerito di storia contemporanea all’università di Marburgo e alla Freie Universitat di Berlino.
Il suo primo saggio, intitolato “Il fascismo nella sua epoca” (tradotto in italiano in “I tre volti del fascismo”), esce nel 1963 e viene ben accolto dall'opinione pubblica di matrice progressista, che condivide la riabilitazione della categoria di “fascismo” come concetto storiografico a sé stante rispetto al totalitarismo, nelle tre versioni del “pre-fascismo” dell'Action francaise di Charles Maurras, del fascismo di Mussolini e del “fascismo radicale” di Hitler.
Nei due decenni successivi Nolte approfondisce e radicalizza la sua tesi sulle origini del fascismo, anticipandola a grandi linee il 3 giugno 1986 sul quotidiano “Frankfurter allgemeine zeitung”, con un articolo intitolato “Il passato che non passa” e illustrandola l'anno successivo nel volume “La guerra civile europea 1917-1945”.
Rifiutandosi giustamente di considerare il nazismo come “il male assoluto” e ritenendo necessario analizzarlo come qualsiasi altro fenomeno storico, Nolte sostiene però che il fascismo e il nazismo costituiscono la reazione alla minaccia esistenziale rappresentata dal bolscevismo, proponendo quindi un nesso causale tra le due grandi ideologie totalitarie del Novecento: il comunismo e il nazionalsocialismo.
Per lo storico tedesco, la rivoluzione di ottobre del 1917 è la condizione necessaria per l’affermazione del fascismo, sia nella sua versione italiana, sia in quella “radicale” di  Adolf Hitler. Il successo e il seguito del fascismo si spiegherebbero in quanto esso si oppone come controrivoluzione militante alla rivoluzione bolscevica, che dall'ex impero di Russia minaccia di diffondersi in tutta Europa.
Nella visione di Nolte, il nazismo sarebbe andato a scuola dal bolscevismo, perché ne adotta i metodi e le pratiche brutali. In questo quadro i gulag e lo sterminio di classe di milioni di kulaki da parte di Stalin precederebbero Auschwitz e la Shoah degli ebrei e ne costituirebbero anche, in un certo senso, la premessa indispensabile.
La tesi  di Nolte provoca un acceso dibattito in Germania denominato Historikerstreit , “controversia degli storici”, i quali si dividono in due tronconi. Il principale critico di Nolte è il celebre filosofo tedesco Jurgen Habermas, che lo accusa di “giustificazionismo” nei confronti delle responsabilità della Germania e del popolo tedesco e di relativizzare l’Olocausto.
Da quel momento Ernst Nolte è considerato il capofila del “revisionismo”, subendo spesso attacchi, minacce fisiche (gli viene incendiata un'auto) e contestazioni, come avviene ad esempio nel 2009 a Trieste, dove il Comune lo aveva invitato a tenere una conferenza per il ventennale della caduta del Muro. E quando nel 2000 la fondazione dei cristiano-democratici tedeschi, la Konrad-Adenauer-Stiftung, gli assegna un premio per la letteratura, Angela Merkel, allora a capo del partito, si rifiuta di tenere la laudatio.
I limiti delle tesi di Nolte sono noti. Non convince la ricostruzione delle origini della guerra civile che ha coinvolto l'Europa fino al 1945 e la centralità attribuita alla rivoluzione russa del 1917, senza considerare la crisi del liberalismo, lo stravolgimento provocato dalla Grande Guerra e la precedente incubazione ideologica del nazionalismo, del pensiero antidemocratico e del mito biologista e della razza.
Inoltre Nolte, pur non negando l’Olocausto, derubrica e in qualche modo minimizza l’antisemitismo e il razzismo biologico di Hitler, inquadrando lo sterminio degli ebrei nell’ambito della reazione al bolscevismo. Una tesi resa ancor più discutibile dalle posizioni anti-israeliane dell’autore, che in interviste ed interventi pubblici non aveva esitato a porre in relazione, in modo poco ortodosso, bolscevismo, nazismo e sionismo. Un revisionismo che partendo da basi giuste (la necessità di studiare il nazismo e di non ignorare gli altri stermini e gli altri totalitarismi, a partire dal comunismo sovietico) era però pian piano scivolato verso il negazionismo.
 
(Il Messaggero del 19 agosto 2016)

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Storie – Il magistrato Bauer che fece arrestare Eichmann

di Mario Avagliano
 
   La cattura di Adolf Eichmann, uno dei principali responsabili della soluzione finale, non fu opera solo del Mossad. Un altro protagonista misconosciuto di quell’arresto clamoroso fu il procuratore generale Fritz Bauer, ebreo tedesco fuggito in Danimarca durante le persecuzioni e tornato in Germania, a Francoforte, dopo la guerra.  Fu lui a scoprire che Eichmann si nascondeva a Buenos Aires.
Lo racconta il film uscito nei giorni scorsi in Italia intitolato “Lo Stato contro Fritz Bauer”, del regista tedesco Lars Kraume, co-sceneggiato dallo scrittore francese Olivier Guez, che si era già occupato della vicenda nel libro “L’impossibile ritorno, storia degli ebrei in Germania dopo il 1945”.
La storia del tenace e coraggioso Bauer, omosessuale dichiarato, che sin dal suo ritorno dall'esilio in Danimarca cercò di portare in tribunale gli autori dei crimini di guerra perpetrati durante il Terzo Reich, è di grande interesse.
Per vincere le resistenze dello Stato tedesco, assai restio negli anni Cinquanta a fare chiarezza sul suo terribile passato, il magistrato fu costretto a contattare il Mossad, il servizio segreto israeliano, venendo imputato così del reato di alto tradimento.
Un assurdo giuridico, perché venne considerato traditore chi aveva fatto catturare un criminale. Il motivo? Non si era arreso alla ragion di Stato, rivolgendosi a un altro Paese, Israele, per avere giustizia.
 
(L’Unione Informa e Moked.it del 10 maggio 2016)

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Eichmann, il boia nazista chiese la grazia a Gerusalemme

di Mario Avagliano
 
   Fino all’ultimo momento il criminale nazista Adolf Eichmann provò a negare le sue responsabilità nella Shoah, affermando di essere stato un «semplice strumento» di Adolf Hitler. È quanto risulta dalla lettera manoscritta dello stesso Eichmann, datata 29 maggio 1962, che oggi, in occasione della Giornata della Memoria, il presidente israeliano Reuven Rivlin ha deciso per la prima volta di rendere pubblica. Una missiva di quattro pagine, indirizzata all'allora presidente d’Israele Yitzhak Ben-Zvi, di cui già si conosceva l’esistenza (ne aveva parlato tra gli altri Hannah Arendt nel suo libro La banalità del male), ma non il contenuto.
Nella lettera Eichmann sosteneva che il tribunale israeliano avesse esagerato il suo ruolo nell'organizzazione della logistica della «soluzione finale», vale a dire nello sterminio degli ebrei. «Bisogna distinguere i responsabili dalle persone che come me sono state semplici strumenti nelle loro mani», scrisse l'ex ufficiale delle SS. «Io non ero un responsabile e non mi sento quindi colpevole» (...) «pertanto non ritengo giusto il giudizio della corte e vi chiedo, signor presidente, di esercitare il vostro diritto a concedermi la grazia, così che la condanna a morte non venga eseguita».
In realtà il funzionario tedesco, classe 1906, era stato uno dei protagonisti della persecuzione degli ebrei in Europa. Già all’età di ventotto anni venne incaricato dalla Gestapo di occuparsi della questione ebraica. Segretario della conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942 che decise la «soluzione finale», curò in prima persona il meticoloso piano dei trasporti ferroviari di deportazione degli ebrei, contribuendo al perfetto funzionamento della macchina di morte nei lager di Auschwitz e della Polonia orientale (Belzec, Sobibor, Treblinka).
Nel 1945 Eichmann, al pari di altri gerarchi nazisti, riuscì a far perdere le proprie tracce, imbarcandosi nel 1950 a Genova per l’Argentina, con un passaporto falso intestato a Ricardo Klement. Il funzionario nazista lavorava in uno stabilimento della Mercedes a Buenos Aires quando venne individuato dagli agenti del Mossad, i servizi segreti israeliani. Rapito l’11 maggio 1960, fu trasportato a bordo di un aereo in Israele, dove venne processato e condannato a morte nel 1961.
La lettera – insieme a quella con cui Ben-Zvi respinse la richiesta di grazia – è stata esposta nella residenza dell’attuale presidente israeliano Reuven Rivlin, nell’ambito di una mostra inaugurata ieri e dedicata al celebre processo del 1961, che riaccese l’attenzione sulla Shoah, mandato in onda in diretta tv mondiale e svoltosi presso il Beit Haam, la Casa del Popolo di Gerusalemme.
Proprio in questi giorni è uscito in numerose sale cinematografiche italiane, come evento speciale per la Giornata della Memoria, The Eichmann Show, film di produzione britannica, diretto da Paul Andrew Williams, che ripercorre tutte le tappe produttive della diretta televisiva delle 121 udienze del processo, narrando fra l’altro, grazie a videocamere nascoste, le reazioni di Eichmann di fronte alle testimonianze dei sopravvissuti.
Eichmann venne impiccato poco prima di mezzanotte del 31 maggio 1962 in una prigione a Ramia. Come prescriveva il verdetto, il suo cadavere venne cremato e le sue ceneri disperse da una motovedetta israeliana nel Mediterraneo, al di fuori delle acque territoriali d’Israele. Il suo processo venne seguito per la rivista New Yorker da Hannah Arendt, che lo descrisse come «un esangue burocrate» che si limitava ad eseguire gli ordini e ad obbedire alle leggi. Una tesi poi messa in discussione da vari studiosi e che è stata di recente demolita da un saggio della filosofa tedesca Bettina Stangneth, intitolato Eichmann prima di Gerusalemme. La vita non verificata di un assassino di massa, che lo ha identificato come un carrierista rampante e ambizioso e un nazista fanatico e cinico, che agì con incondizionato impegno per difendere la purezza del sangue tedesco dalla «contaminazione ebraica».

(Il Messaggero e Il Mattino, 28 gennaio 2016)

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