Afeltra l'amalfitano sedotto da Milano e dal "Corriere"

di Mario Avagliano
 
Quel treno sbuffante e carico di sogni che nel 1937 lo trascinò via dalla sua Amalfi per portarlo al Nord, Gaetano Afeltra, uno dei maestri del giornalismo italiano,  non l’ha mai dimenticato. Trapiantato a Milano, Afeltra è diventato uno dei giornalisti di punta del “Corriere della Sera”, ricoprendo anche la carica di vicedirettore. Per quasi mezzo secolo, dalla plancia di via Solferino, ha visto passare il mondo, ha conosciuto direttori, uomini di cultura e politici, ed ha vissuto ogni evento della storia italiana. Seduto alla scrivania del suo ufficio milanese, ci racconta come nacque il suo amore per la carta stampata, ricorda i tempi d’oro di Rossellini e della Magnani sulla costiera amalfitana, da’ ragione a Giovannino Russo quando sostiene che la questione meridionale esiste ancora ma a parlarne oggi purtroppo si passa per “vecchi bacucchi”. E di Salerno dice: “E’ profondamente cambiata. E’ diventata una capitale”.
 
Com’era la Amalfi della sua infanzia?
Condizionata dal fascismo. A modo loro gli amalfitani partecipavano molto alla vita politica del Paese, con la contesa fra due partiti, quello delle "giacchette" (operai e impiegati) e quello delle "sciammeriche" (dal nome dell'abito di riguardo, designava la fazione dell'aristocrazia locale). La mia formazione avrebbe dovuto passare per le tappe obbligate di quegli anni, ma io di fare il piccolo balilla non ne volevo proprio sapere. Mi riuscì di evitarlo con l'aiuto del segretario del Fascio di Amalfi, un uomo dotato di una forte carica di simpatia.
Che vita conduceva a casa?
Una vita semplice, e ricca di valori. Mio padre e mia madre ci avevano insegnato ad essere autonomi e a mettere da parte i soldi. Tutti in famiglia avevamo il libretto di risparmio postale, li teneva la mamma e odoravano di fiori di lavanda perché li metteva nei cassetti del comò sotto la biancheria ricamata del suo corredo nuziale. Il salvadanaio, invece, era nascosto nella libreria dietro la “Divina Commedia” illustrata da Doré, tre volumi col dorso di pergamena. Quando il salvadanaio era pieno, facevamo una gita a Pogerola o a Tovere, due villaggi amalfitani, due angoli di Paradiso. La mamma, la sera prima, preparava un timballo di maccheroni, crocchette di patate, cotolette, e al mattino si partiva.
Chi erano i suoi amici, quali erano i luoghi che frequentava?
Il "Circolo dei combattenti" e il Bar Savoia, perché ero molto amico dei figli di Amatruda, il leggendario personaggio della vita amalfitana.
Come nacque la sua passione per il giornalismo?
Mi sono innamorato del giornalismo seguendo le tracce di mio fratello Cesare, il quale aveva cominciato a scrivere quando era ancora studente su un foglio locale, “L’azione democratica” di Salerno, poi aveva conosciuto ad Amalfi il critico musicale del “Giornale d’Italia Matteo Incagliati e, attraverso questi, Alberto Bergamini, direttore del “Giornale d’Italia”, ed era stato assunto a Roma. Ricordo che chiedevo continuamente a mio padre quando sarei potuto andarlo a trovare.
E ci riuscì?
Fortuna volle che un giorno, da Roma, chiedessero la presenza dei gonfaloni delle quattro repubbliche marinare per una manifestazione fascista in onore dei caduti del mare. A portare lo stendardo di Amalfi fu incaricato il capo dei vigili urbani, Salvatore Barbaro, che frequentava casa mia. Partii con lui, avevo sette anni. Mi portò alla sede del “Giornale d’Italia”, a Palazzo Sciarra. Lì ad accogliermi in maniera festosa c’era Adolfo Tino, che più tardi avrei frequentato a Milano. Mi prese per mano e, insieme con Cesare, mi portò a vedere la tipografia.
Che impressione le fece?
Quel salone immenso di luci e di macchine, l’odore dell’inchiostro, il ronzio della linotype, mi colpirono molto. Mi parve il paradiso! Sebbene fossi ancora bambino, a tanti anni di distanza posso dire che forse fu proprio in quel preciso momento che venni folgorato dalla passione per il giornalismo. Mio fratello fece comporre da un linotipista una riga con il mio nome e me la dette, ancora calda di piombo appena fuso. Ricevendo quella riga, mi parve di ricevere il sigillo di appartenenza a una comunità insieme misteriosa e potente.
Quando cominciò a scrivere?
Da studente. Mia madre era rimasta vedova. E così, per mantenermi in collegio e pagare la retta (eravamo nove figli), tra il 1933 e il 1934 fu costretta a vendere case e pezzi di terra. Con i pochi soldi che mi dava la mamma, mentre i miei compagni comperavano un pacchetto di sigarette Macedonia, io acquistavo giornali. Trovavo i libri di scuola noiosi, mentre i giornali erano dolci come lettere d’amore. Poi conobbi il corrispondente da Amalfi del “Roma” e del “Giornale d’Italia”, Nicola Ingenito, soprannominato “Nicola la stampa”, di professione ricevitore del lotto, e lui mi iniziò al mestiere di giornalista. Scrivevo qualche noterella su avvenimenti locali: un battesimo, un matrimonio, la festa di nomina di un cavaliere della corona d’Italia. Però già vedere quelle righe stampate mi inebriava di gioia.
Poi divenne corrispondente del “Giornale d’Italia”…
Sì, non avevo ancora 18 anni che Ciro Grimaldi, che fungeva da ispettore del “Giornale d’Italia” per la zona di Salerno, mi prese in simpatia e decise di darmi la tessera e l’incarico di corrispondente. “Ma mi raccomando – mi intimò – non dire la tua età”. Finita la scuola, però, tutto questo non mi bastava più. Mettevo in croce mio fratello Cesare perché mi aiutasse a raggiungerlo a Milano, dove si era trasferito.
E infatti nel 1937 partì per Milano, iniziando a collaborare all’Ambrosiano. In quali circostanze avvenne il suo distacco da Amalfi e come lo visse?
All’improvviso arrivò un telegramma di mio fratello che mi invitava a partire. Indossai l’abito nuovo e, carico dei “santini” e delle raccomandazioni di mia madre, presi l’autobus delle cinque e alle sette, alla stazione di Vietri sul Mare, montai sul treno diretto al Nord. Tutto il viaggio, che durava più di dodici ore, lo passai al finestrino. Finalmente vedevo l’Italia. Alla fermata di Firenze, come a quella di Bologna, saltai giù dal treno e, approfittando della sosta, scappai fuori nella piazza, per respirare l’aria di quel mondo nuovo per me. Dopo Bologna, il paesaggio cambiò, scoprii la pianura e mi sembrò di scorgere anche una femminilità differente da quella del Sud. Mi sembrava che bellissime donne senza volto fossero ad aspettarmi, pronte ad aprirmi le braccia. Il mio amore per il Nord è nato sul treno di quella sera, e non è finito più.
Nel 1942 lei fu assunto dal Corriere. Chi la chiamò e come ricorda il suo incontro con il grande quotidiano milanese?
Ricevetti un biglietto da Andrea Marchiori, l’onnipotente segretario di redazione del Corriere. C’era scritto: “Il direttore vuole vederla a mezzanotte”. Entrai nell’ufficio di Aldo Borelli sudando freddo. “Chi siete?”, domandò brusco, con un tono inquisitorio e usando il voi, che era di rigore sotto il regime fascista. Io ero assai emozionato, gli dissi che il cuore mi batteva, e gli chiesi di non giudicarmi dal comportamento di quella sera. Lui mi guardò quasi con tenerezza, si alzò, mi tese la mano e mi assicurò: “Non so se fra una settimana o fra due mesi, ma voi verrete al ‘Corriere’”.
Il suo primo giorno di lavoro al Corriere fu avventuroso…
Ero stato assunto come impaginatore. Per l’occasione, mi ero fatto tagliare i capelli e avevo indossato il mio miglior vestito. Erano le quattro del mattino di una domenica del 1942. Quando arrivò il proto, che si chiamava Croce, mi diede una busta contenente tutto il materiale da impaginare. Dentro trovai gli originali con le foto, ma nessun titolo, nessuna didascalia. Lo stenografo di turno mi consigliò di telefonare in albergo al caporedattore Serra. Ma che figura ci avrei fatto? Così presi la decisione di scriverli io. Quando ebbi finito, non riuscii ad andare a dormire. Mi assalì il timore di aver sbagliato qualcosa. A mezzogiorno entrai al Corriere con il cuore in gola. Serra si scusò con me. Poi arrivò un fattorino a dirmi che mi voleva il direttore. Borelli mi squadrò un momento e mi disse: “Buono il giornale di oggi!”.  E chiese: “Quanto è il vostro stipendio?”. “Duemila lire” riuscii a dire con un filo di voce. “Andate giù, troverete cinquecento lire di più al mese, spendetele con le ragazze!”.
Dopo l’8 settembre del 1943 lasciò il Corriere per partecipare alla resistenza.
Fui io a curare l’edizione straordinaria dell’8 settembre, listata a lutto. Ricordo che feci seguire al comunicato ufficiale un lapidario commento scritto di mio pugno in tipografia: “4 novembre 1918–8 settembre 1943 due date: una gloria e una vergogna”. Poi entrai nel movimento partigiano e mi occupai della stampa clandestina del Cln, collaborando con Parri, Valiani e Lombardo. Dopo la liberazione, nel primo dopoguerra diressi il Corriere Lombardo e Milano Sera. Nel ’46, però, tornai al Corriere, il mio primo amore.
Al Corriere sono anche passati diversi salernitani, da Giovannino Russo a Raffaele Mauri, fino ad Alfonso Gatto. Li frequentava? C’era un senso di solidarietà tra di voi?
Tutti noi ci frequentavamo ed eravamo amici. Parlando di quei tempi, Gatto diceva: "Bella gente, bella umanità, bella anche la città di nebbia e di freddo: tutti riusciremo a fare qualcosa aiutandoci l'un l'altro". Questa era la nostra solidarietà.
Aldo Falivena, da noi intervistato, ricorda ancora le sue celebri lezioni di giornalismo a lui, a Ronchey, ad altri. Ci ha anche citato la definizione di giornalismo secondo Afeltra: plagio, nel senso di ricerca negli archivi, e fantasia. E’ sempre vera?
Sì, ritengo di sì.
Tra il 1972 e il 1980 lei è stato direttore de “Il Giorno”. Come ricorda quella esperienza?
Molto burrascosa, anche perché trascorsa in anni molto difficili. Ci furono parecchi contrasti perché si voleva un giornale fortemente politicizzato, mentre io volevo fare un giornale normale, obiettivo e bene informato. Credo di esserci riuscito solo in parte.
Dalla terza pagina del Corriere, anche negli anni recenti, lei ha raccontato Amalfi, il suo mare, la sua gente, i suoi colori. Che cosa significa per lei nostalgia…
Un ricordo che incide forte nella memoria. Questa è la vera nostalgia.
Comunque per molti anni è venuto ad Amalfi ogni estate.
E ci portavo tanti amici, che impararono ad amare Amalfi e poi vi tornarono anche senza di me. Per esempio in quegli anni Rossellini e la Magnani divennero per me quasi concittadini, anche se erano nati altrove.
Lei ama la sua terra ma ama profondamente anche Milano, la sua città d’adozione. Che differenza c’è tra le due realtà?
Amalfi è la città di nascita e dei ricordi. Milano è la città del lavoro, della maggiore severità di vita e di costume. A Milano nulla è lasciato al caso e alla fortuna, ma tutto è affidato al lavoro, vi sono rapporti semplici e chiari senza preamboli o raggiri, ovunque regna l’ordine e la regolarità, espressione della schiettezza e della generosità dell'animo lombardo.
Ad Amalfi e alla costiera lei ha dedicato alcuni dei suoi più bei libri: da “Desiderare la donna d’altri” a “Spaghetti all’acqua di mare”. Qual è a suo avviso quello che meglio descrive la sua terra?
“Com'era bello nascere nel lettone”.
Dai suoi scritti traspare un grande amore anche per le pietanze della costiera: i cannelloni, i caciocavalli di Agerola, il sanguinaccio, l’”annòlla” (il ventre del maiale avvolto di spezie), la “pezzente” (un insaccato di tutti gli interiori), gli spaghetti al pesce “fuiuto”. Qual è il piatto che le manca di più?
Mi mancano i sapori della cucina di mia madre.
Ha scritto Indro Montanelli che “Afeltra, come tutti i meridionali, tira al patetico. Ma a differenza di tutti i meridionali, lo corregge con l’umorismo”. Si ritrova in questa definizione?
Abbastanza.
In un suo libro si legge che gli amalfitani adoravano Napoli e detestavano Salerno. Perché?
E’ una storia antica. Un tempo Napoli era la Parigi degli amalfitani agiati. Via Toledo era il loro Fauborg St. Honoré, e la Rivieria di Chiaia il rue de Rivoli. Invece per Salerno c’era un’avversione istintiva. Quando vi si recavano, tornavano con il mal di testa. Sostenevano che l’aria di Salerno era pesante. Pura maldicenza. La ragione vera del disturbo era la nafta del piroscafo oppure le curve della costiera. Oggi tutto è cambiato.
E’ stato di recente a Salerno? Che impressione ne ha avuto?
Ottima, però Salerno mi è parsa una città che ormai ha poco della provincia, anche per dimensione: è diventata qualcosa di molto più grande, una capitale.
 
 
(La Città di Salerno, 23 febbraio 2003)
 
 

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