Intervista a Giuseppe Acocella, giurista

di Mario Avagliano
 
“Le vicende giudiziarie di questi giorni sono la spia di quello che è accaduto negli ultimi dieci anni a Salerno. E’ mancata una politica di sviluppo economico. Non si crea sviluppo con la movida, i marciapiedi e le fontanelle. Si creano soltanto movimenti di denaro, con tutti i pericoli che questo comporta…”. A lanciare il J’accuse nei confronti dell’era De Luca, è il professore Pino Acocella, classe 1948, nato ad Andretta, in Alta Irpinia (“nel collegio elettorale del grande De Sanctis”), ma cresciuto e formatosi a Salerno, dall’ottobre scorso vicepresidente nazionale del CNEL, docente universitario a Napoli, già esponente di spicco della Cisl e del Ppi. Acocella, che nel ’93 sfidò De Luca in rappresentanza del centro e fu sconfitto al ballottaggio, ricorda ancora quella campagna elettorale e afferma: “Già allora denunciai le strane relazioni del mio avversario con i costruttori salernitani”. Poi aggiunge: “Il tempo è galantuomo”.
 
Salerno per lei ha inizio nel quartiere del Carmine.
Vivo da sempre al Carmine e ci sto benissimo, anche se è cambiato molto. Negli anni Cinquanta il Carmine era un quartiere nuovo, di espansione del centro, anche se aveva già una sua identità. Ricordo ancora i pomeriggi e le domeniche all’oratorio dei salesiani, che ha costituito per tante generazioni di giovani salernitani, da Ravera in poi, l’unico vero luogo di aggregazione sociale della città.
Lei è stato anche uno dei primi alunni del Liceo classico “De Sanctis”.
E’ vero, ho frequentato il ginnasio al “Tasso”. Poi la mia sezione fu trasferita nel nuovo liceo, sito in località Calcedonia. Eravamo una bella classe, composta da ragazzi che poi hanno fatto carriera, come Pasquale Andria, il cardiologo Marchionne, l’avvocato Gammardella, il professore Di Marco dell’Università di Napoli, il dottor Piscione del Policlinico, il professore De Simone che ora insegna alla facoltà di Ingegneria. Anche i docenti erano di prim’ordine. Penso al professore Esposito di latino e greco e all’indimenticabile professoressa Marsilia Cantarella di matematica e fisica.
Com’era Salerno in quegli anni?
Era una città che attraversava un periodo di grandi trasformazioni, politiche e sociali. Io ho vissuto questa fase nell’avamposto dell’associazionismo cattolico, che era fortissimo a Salerno. Sono stato dirigente dell’Azione Cattolica e consigliere nazionale delle Acli, che costituiva la punta di diamante dello schieramento popolare-sociale.
A Palazzo di Città c’era un sindaco che si chiamava Alfonso Menna… 
Menna era un personaggio straordinario, che esercitava una governance molto accentuata su Salerno, nonostante i limiti legislativi sui poteri dei primi cittadini, che oggi hanno più margini di intervento. Menna fu un sindaco capace di andare oltre l’ordinaria di amministrazione e di pensare al progetto, allo sviluppo economico di Salerno. Fu lui ad inventare il disegno della “Grande Salerno”. Fu Menna, alla guida dell’Isveimer, a rendere possibili a Salerno i grandi insediamenti industriali della Marzotto, della Ideal Standard e così via, e a capire l’importanza della portualità.
Dopo la laurea in Giurisprudenza, nel ’71 cominciò la sua carriera accademica.
Mi sono laureato all’Università di Napoli con il professor Antonio Villani, anche se la mia tesi fu seguita dal professor Tessitore, che è stato il mio maestro. Con lui ho fatto poi tutta la mia carriera universitaria. Il mio primo incarico l’ho avuto all’ateneo di Salerno, alla cattedra di  Storia dei movimenti sindacali. Sempre nel ‘71 ho iniziato l’avventura nel sindacato e sono stato tra i fondatori a livello nazionale della Cisl Università. Nella mia vita ho avuto la fortuna di poter accompagnare l’attività di docente all’impegno sociale, come insegnava il grande De Sanctis.
A proposito di impegno sociale, negli anni Ottanta lei è stato uno dei promotori dell’Osservatorio sulla camorra.
Sì, prima diedi un contribuito a costituire la Fondazione Colasanto e poi, in quell’ambito, nel 1982 fui tra i promotori dell’Osservatorio sulla camorra, assieme ad Amato Lamberti. L’Osservatorio fu il primo a registrare la trasformazione della camorra in organizzazione imprenditoriale e a comprendere e ad analizzare come e perché la gestione della ricostruzione dopo il terremoto fosse stata purtroppo un’occasione di infiltrazione della criminalità nel tessuto politico, sociale ed economico della Campania. 
Nel frattempo entrava a far parte della segreteria regionale della Cisl…
E’ stato per me un periodo assai interessante e stimolante, nel quale ho potuto dare un contributo alle politiche di decentramento territoriale. E’ in quegli anni che è nata la spinta al federalismo che poi ha trovato attuazione nelle leggi Bassanini e nell’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di Regione e provincia e che ora vede la sua fine ingloriosa nel processo di devolution.
Arriviamo così al ’93, anno in cui lei scende in campo come candidato a sindaco di Salerno.
Persi al ballottaggio con De Luca, alla guida di un’aggregazione di centro. Salerno è una città estremista: o va a destra o a sinistra.  E poi io non avevo partiti organizzati alle spalle. Tangentopoli aveva frantumato le vecchie formazioni politiche. Tuttavia ho un bel ricordo di quella campagna elettorale, stressante e sfiancante ma anche esaltante. Ebbi l’appoggio entusiasta e incredibile di tantissimi giovani. La sera del ballottaggio, nonostante la sconfitta, tagliammo la torta e io mi commossi vedendo i miei sostenitori che piangevano. Comunque sul risultato delle elezioni pesarono anche altri fattori.
Tipo?
Già allora denunciai le strane relazioni del mio avversario con i costruttori salernitani. E lanciai l’idea delle circoscrizioni come elemento di controllo da parte dei cittadini sul Palazzo di città. Il mio slogan era “la forza della trasparenza”. I fatti di questi giorni dimostrano che avevo ragione.
Lei fu poi capogruppo del Ppi in consiglio comunale.
Fino al 1997. Nel gruppo consiliare c’erano politici di valore, come Manzione, Iannuzzi e Pinto. Ricordo che in più occasioni misi in guardia in consiglio comunale la città e l’opinione pubblica sulla mancanza di progettualità della classe politica di governo, sull’eccessiva attenzione all’arredo urbano e sul conseguente indebitamento delle casse comunali. Espressi anche tutte le mie perplessità sul Piano regolatore.
Ce le ricorda?
Beh, mi opposi duramente e dissi che così si lasciava troppe porte aperte a continue varianti urbanistiche, con un forte incremento dei costi. Ma l’inchiesta giudiziaria di questi giorni dimostra che probabilmente questo era il preciso intento politico, come si legge nelle intercettazioni dell’ex assessore Martino. Nel merito, spiegai anche che era sbagliato il disegno di fare di Salerno una città tutta proiettata sul commercio e sul terziario pubblico. E infatti quel piano si è rivelato fallimentare.
La sua è un’analisi impietosa.
E’ un’analisi realistica. Non si creano sviluppo e occupazione con le società miste dei parcheggi o assumendo i propri figli o i parenti nelle società del gas e dell’acqua. In questi anni non si è fatto altro che gonfiare l’apparato pubblico e anche il sogno del polo scientifico e tecnologico si è rivelato effimero. Il risultato è che oggi Salerno è una città invecchiata, senza prospettive, nonostante la presenza di una grande università, con 45 mila studenti. Vedo con preoccupazione che le migliori intelligenze vanno via dalla città. Salerno è una città in crisi.
Come mai?
Manca una guida politica. Manca una strategia economica. Mancano politiche per i giovani. Quando una classe dirigente s’impegna di più a promuovere la movida e a rilasciare licenze commerciali che a sviluppare l’economia e a creare opportunità di lavoro, le conseguenze non possono essere che queste. Con i locali pubblici non si costruisce l’avvenire. Si creano solo movimenti di denaro con tutti i pericoli che questo comporta…
Lei si riferisce all’inchiesta giudiziaria. Che idea si è fatto di questa vicenda?
Mi pare che il difetto maggiore sia stato la costituzione di un ceto politico interessato soprattutto a sopravvivere e a consolidarsi, piuttosto che a servire la comunità. Un ceto politico che, attraverso una rete di rapporti che ha coinvolto vasti settori economici e sociali, ha costruito le proprie fortune  e non le fortune della città, avvalendosi di una specie di consenso unanime per una pratica amministrativa che si alimentava soltanto di panchine e di marciapiedi, a copertura di un progetto di sviluppo che in realtà non esisteva. 
Vuole dire che non c’è stata opposizione e che sono mancate le voci critiche.
Esattamente. A causa di questo consenso unanime, è mancato un vero dibattito sulle scelte strategiche da seguire, sulle politiche economiche da intraprendere, in altre parole su che cosa doveva essere la Salerno del Duemila. Una situazione di questo tipo a lungo andare diventa patologica. Questo è un problema non solo di Salerno ma di tutti i sistemi democratici.  Quando la democrazia degenera, e non c’è altra possibilità, intervengono gli altri poteri dello Stato. In questo caso è intervenuta la magistratura. E questo, se la magistratura è indipendente, sottolineo indipendente, è comunque un vantaggio per Salerno.
Come se ne esce? E può essere ancora il centrosinistra a guidare il timone della città? 
Occorrono politiche formative e di occupazione. Il lavoro futuro è solo il lavoro qualificato. 
 
 (La Città di Salerno, 15 gennaio 2006)
 
Scheda biografica
 
Pino Acocella è nato il 10 agosto 1948 ad Andretta (AV). 
Vive a Salerno.
Istruzione: laureato in Giurisprudenza nell'Università degli studi di Napoli "Federico II"
Incarico pubblico: Il 13 ottobre 2005 è stato eletto Vice Presidente del CNEL per la Consiliatura 2005-2010 (VIII).
Attività: è Professore Ordinario di Etica sociale e Presidente del Corso di laurea in Scienze del servizio sociale e del Corso di laurea specialistica in Progettazione e gestione delle politiche e dei servizi sociali dell'Università degli studi di Napoli "Federico II"
 
Carriera: Dal 1974 al 1978 ha diretto l'Ufficio studi della Unione Sindacale regionale della CISL- Campania, della cui Segreteria ha fatto parte dal 1987 al 1993. Dal 1978 al 1981 è stato condirettore della Scuola sindacale CISL per il Mezzogiorno , e, successivamente, Presidente della Fondazione "D. Colasanto" (con la quale promosse il primo "Osservatorio sulla camorra" nel 1982) dal 1981 al 1990. E' stato Consigliere comunale di Salerno dal 1993 al 1997. Iscritto alla CISL Università dal 1971, dal momento della sua fondazione, ne è stato Segretario generale dal 1997 al 2001, per poi assumere l'incarico di Direttore del Centro studi nazionale della CISL dal 2001 al 2005. 
 
Autore di monografie e saggi sui problemi dello Stato contemporaneo, sulla crisi del diritto, sulla storia delle idee economiche e sociali e del pensiero etico-politico, sulla storia della cultura e dei movimenti sociali, ha negli ultimi anni pubblicato numerosi saggi in materia di etica applicata (etica della economia e della impresa, della comunicazione, bioetica sociale). Tra gli ultimi volumi pubblicati: Elementi di bioetica sociale (1998); Storia della Cisl, (III ed. 2000); Le tavole della legge. Educazione, società, Stato nell'etica civile di Aristide Gabelli (II ed. 2005), Etica sociale (2003), Per una filosofia politica dell'Italia civile (2004). 

 

Intervista al Cav. Giuseppe Amato, industriale

di Mario Avagliano
 
Il segreto di mezzo secolo di successi del Pastificio Amato? “Curare la qualità della pasta in tutti i cicli di produzione, dalla selezione dei grani nel molino fino alla distribuzione nelle catene dei supermercati”. A ottant’anni di età il Cavaliere Giuseppe Amato, originario di San Cipriano Picentino, non ha perso l’entusiasmo di quel lontano 1951 quando, assieme allo zio Antonio, rilevò la più antica casa di pastai salernitani, la “Rinaldo & C. S.A.”, fondata nel 1868, e si lanciò nell’avventura imprenditoriale, abbandonando la tradizione centenaria di famiglia del commercio e costruendo l’azienda leader in Italia nella produzione di pasta e derivati del grano tenero e duro. Amato, intervistato da la Città, racconta se stesso e rivela che - tra i tanti riconoscimenti ricevuti - quello a cui tiene di più è il Cavalierato del Lavoro, perché ha premiato una “vita di lavoro fatto con diligenza, onestà e abnegazione”. 
 
Lei viene da una famiglia di commercianti.
Mio nonno, mio bisnonno e mio padre Emiliano erano commercianti di generi alimentari. Tutta la mia famiglia, sia dal lato di mio padre che da quello di mia madre, Nicoletta D’Ascoli, era di San Cipriano Picentino. Dai miei genitori e dai miei parenti ho ricevuto un grande insegnamento: agire correttamente nella vita e nel lavoro. 
Da San Cipriano Picentino ai vertici del settore alimentare italiano...
San Cipriano è un paesino tranquillo, gradevole, con un panorama mozzafiato, ma è anche un centro che nel corso degli anni ha dato i natali a tante persone che si sono affermate a livello nazionale e che ha prodotto molti cervelli effervescenti. Non per niente era un luogo frequentato da grandi intellettuali, come Matilde Serao.
Anche lei ha iniziato a lavorare nel commercio.
Ho cominciato prestissimo, alternando gli studi al lavoro nell’azienda commerciale di famiglia. Erano gli anni difficili del dopoguerra. Per necessità di cose, erano gli Alleati a provvedere all’alimentazione della popolazione, in sostituzione del governo italiano, facendo arrivare navi cariche di grano dagli Stati Uniti. Ebbene, gli Alleati diedero a noi l’incarico di distribuire le derrate, con il sistema del tesseramento.
Come e quando è nato il Pastificio Amato?
Nel 1951. Ricordo che avevo 25 anni quando, assieme a zio Antonio, intraprendemmo l’attività industriale nel settore dei Molini e Pastifici, partecipando al riammordernamento di due antiche case di pastai che erano in crisi, il Molino Pastificio Rinaldo e Il Molino Pastificio Scaramella. Fu una vera e propria sfida. Il nostro punto di forza fu la capacità di unire il fattore industriale a quello della distribuzione. Con l’esperienza secolare nel settore commerciale e con un patrimonio di clienti nel settore alimentare, fu più facile intraprendere l’attività industriale e  successivamente diventare un’azienda di rilevanza prima provinciale e poi nazionale. E così una delle due case, la “Rinaldo & C. S.A.”, divenne “Rinaldo & Amato”, per essere poi assorbita, nel 1958, nella Antonio Amato & C. – Molini e Pastifici in  Salerno SPA, l’odierno polo industriale. 
Negli anni Cinquanta e Sessanta, quando il Pastificio Amato ha costruito la sua fortuna, a Salerno c’era un sindaco forte come Alfonso Menna.
Menna è stato il sindaco che ha fatto uscire Salerno dagli anni bui della guerra. E’ stato un grande amministratore ed ha saputo affrontare una situazione non facile. Nel dopoguerra ci sono state vere e proprie onde di immigrati, mezzo Cilento si è trasferito a Salerno, e la città è stata costretta a subire uno sviluppo urbanistico troppo veloce. C’era fame di case, di lavoro, di tutto. Menna ha dato una risposta a questi problemi. Non si poteva pretendere di più da lui.
Fatto sta che dopo Menna, Salerno ha vissuto una lunga fase di degrado.
Quando non c’è stabilità politica, quando le amministrazioni cadono dopo poco tempo e non hanno la possibilità di impostare un progetto per la città, è normale che le cose vadano male. E’ quello che è accaduto a Salerno negli anni Ottanta.
E ora?
Nell’ultimo decennio Salerno si è trasformata. Il volto della città è cambiato, il centro storico è stato ristrutturato, i servizi sono migliorati, l’assetto urbanistico è soddisfacente. Ora qui c’è tutto, si vive e si lavora senza eccessive preoccupazioni. Ci troviamo per fortuna in una situazione assai diversa da quella di Napoli, dove c’è più confusione e più criminalità. Onore al merito al sindaco De Luca e al sindaco De Biase che ha continuato l’opera. Bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare.
Come si fa ad essere competitivi e a resistere ad alto livello per oltre cinquant’anni nell’epoca del mercato globale?
Il segreto è avere entusiasmo, intuizione nella programmazione e soprattutto dedizione al lavoro, e svolgerlo con oculatezza, onestà e rispetto delle regole. E poi bisogna saper rischiare, certo senza mai fare avventure. 
Conta anche la dimensione familiare?
La dimensione familiare è importante, perché per gestire un’azienda ci vuole accordo, sintonia, condivisione del lavoro, e tutto questo tra familiari è più facile. Non a caso i miei collaboratori diretti sono mio figlio Antonio e mio nipote Giuseppe, detto Peppino.
Giuseppe e Antonio, come lei e suo zio...
Sono nomi che ritornano nella nostra famiglia. Per noi le tradizioni sono importanti. Il mio bisnonno si chiamava Antonio e mio nonno Giuseppe. Così è stato e così sarà anche per il futuro.
Quanto è difficile svolgere un’attività imprenditoriale nel Mezzogiorno?
Già fare l’imprenditore in generale è una cosa difficile. Farlo nel Mezzogiorno e in particolare in provincia di Salerno è una corsa ad ostacoli. Partiamo con un handicap rispetto ai concorrenti del centro e nord Italia. Dobbiamo superare una montagna di difficoltà, che vanno dal sistema dei trasporti alla fornitura di energia elettrica. Prenda il nostro caso. Ci troviamo nella zona industriale e ciò nonostante non abbiamo la certezza di avere una fornitura continua. Un’assurdità! Anche il rapporto con la pubblica amministrazione non è sempre facilitato. Altrove l’attività industriale viene favorita, qui dobbiamo essere noi a provvedere a tutto. Non c’è collaborazione da parte delle istituzioni nazionali e locali. Eppure la nostra azienda da’ lavoro a centinaia di persone, ha anche una funzione sociale.
In cinquant’anni di onorata carriera, qual è il momento più bello e quello più brutto che ricorda?
Il momento più bello quando negli anni Sessanta abbiamo costruito il nuovo stabilimento, che costituì un vero e proprio modello organizzativo e industriale in Italia, studiato e preso ad esempio dagli altri imprenditori, e quando negli anni Ottanta ci siamo trasferiti nella zona industriale, affrontando una nuova sfida. Il momento più triste, quando ho perduto mio figlio Domenico, all’età di appena 37 anni.
Qual è il rapporto di una grande azienda come la vostra con la città di Salerno?
Ottimo. Di solito si dice che nemo propheta in patria, invece noi abbiamo un rapporto straordinario con il territorio e con la popolazione. Anche perché siamo sempre vicini e attenti alle esigenze della città, culturali, sociali e di solidarietà...
E’ per questo motivo che lei è stato insignito della medaglia d’oro del Capo dello Stato per i meriti nel campo dell’istruzione infantile?
No, è perché io e la mia famiglia, fin dal 1949, a San Cipriano Picentino, sosteniamo e finanziamo la scuola dell’Infanzia “Domenico Amato”, intitolata a un mio cugino prematuramente scomparso. In quel bell’edificio, in mezzo al verde, vengono educati ed assistiti 90 bambini, istruiti dalle Suore del Buono e Perpetuo Soccorso di Roma, integrate da personale laico, insegnante ed ausiliario.
Lei è stato anche presidente di Assindustria.
Ho una lunga militanza nell’associazione degli industriali. Nel 1969 sono stato il primo Presidente della neonata Unione Industriali Pastai Italiani (UN.I.P.I.). Inoltre ho più volte ricoperto la carica di Presidente di Assindustria Salerno, oltre ad essere stato Presidente della Federindustria Campana e membro della Giunta di Confindustria. Tra l’altro mi sono trovato a ricoprire questi ruoli in un periodo nero per l’economia italiana, dovendo gestire il blocco dei prezzi, che penalizzava più di tutti proprio il settore alimentare.
Anche ora l’economia italiana sta vivendo un periodo difficile. La crisi ha effetti anche sul Pastificio Amato?
La crisi è reale. Pensi che per la prima volta nella storia italiana i consumi nel settore alimentare sono calati. Non si era mai verificato. Ciò è dovuto a fattori internazionali e nazionali. Per fortuna c’è un risveglio delle esportazioni. Questo compensa almeno in parte la mancanza di assorbimento dei prodotti in Italia.  
Infatti il Pastificio Amato è un’azienda riconosciuta a livello internazionale.
Esportiamo i nostri prodotti negli altri Paesi dell’Unione Europea, negli Stati Uniti d’America e perfino in Giappone, in Libano e negli Emirati Arabi. Negli ultimi anni ci stiamo affacciando anche sui mercati dell’Europa dell’Est.
La vostra azienda è anche sponsor della Nazionale di calcio. Un abbinamento che funziona?
Siamo molto fieri di questa sponsorizzazione, che durerà fino ai prossimi mondiali di calcio. Ci ha dato molte soddisfazioni, ha premiato il nostro ruolo di grande azienda “nazionale” e speriamo che porti fortuna anche agli azzurri...
 
 (La Città di Salerno, 6 novembre 2005)
 
Carta d’identità
 
Luogo e data di nascita: S. Cipriano Picentino (SA)  il 21 settembre 1925
Vedovo dal febbraio 2002 
Figli:  un figlio maschio e due femmine. E’ nonno, complessivamente, di 12 nipoti.
 
Cariche sociali
Presidente ed Amministratore Delegato della ANTONIO AMATO & C. – MOLINI E PASTIFICI IN SALERNO SPA

Intervista a Luigi Centola, architetto

di Mario Avagliano
 
Nella nouvelle vague dell’architettura internazionale, un posto di rilievo è occupato dal salernitano Luigi Centola, classe 1968. Il suo studio Centola & Associati ha vinto concorsi e premi internazionali per il recupero turistico-culturale della Valle dei Mulini di Amalfi e Scala, per il Museo di arte e architettura contemporanea a Castelmola (Messina), per un Centro Culturale presso l’ex mattatoio a Roma, per la sistemazione paesaggistica della Banca Europea a Lussemburgo e per la nuova stazione turistica e il parco vulcanico Etna Nord a Linguaglossa. I progetti di Centola sono stati esposti in mostre a Londra, Madrid, Stoccolma, Copenaghen, Los Angeles, Auckland, Roma, Venezia, Milano, e lui è invitato di frequente a tenere conferenze presso il KTH di Stoccolma, l’Architectural Association di Londra, l’American Academy di Roma e in varie università americane e italiane. Centola è professore a contratto di progettazione architettonica e architettura degli interni presso la facoltà di architettura ‘Valle Giulia’ dell’Università La Sapienza di Roma e vive tra la capitale e Salerno, città che ama profondamente e al cui sviluppo urbanistico vorrebbe offrire il suo contributo di idee, a partire dalla realizzazione del nuovo porto commerciale nella zona tra Pontecagnano e Battipaglia. 
 
Com’è diventato architetto?
Sono un architetto per caso.
Per caso?
Dopo il diploma al Liceo Scientifico “Da Vinci”, ero indeciso tra Ingegneria ed Economia e Commercio. Cullandomi nell’incertezza, feci passare il termine ultimo di iscrizione e così, per ripiego, fui costretto ad optare per la facoltà di Architettura del Federico II di Napoli.
Pentito?
No, per niente.
Insomma, strada facendo si è innamorato del mestiere di architetto.
Guardi, io non credo all’innamoramento. Io ho una visione dell’architettura come scienza al servizio del territorio e di un modello di vita più adeguato. L’architettura per me non è un processo puramente artistico, ma si costruisce attraverso lo studio, la tecnica, gli approfondimenti. Certo, occorre anche la passione, ma deve essere una passione ragionevole, ammantata di razionalità.
Lei ha studiato e ha lavorato diversi anni all’estero.
Sì, dopo essermi laureato con lode a Napoli nel 1993, ho fatto un master a Londra, ricevendo nel 1996 il Graduate Design Diploma dall’Architectural Association, una delle più antiche e prestigiose scuole di architettura del mondo, fondata nel 1850, e nel 1998 la Fulbright in architettura e arti visive. Per quanto riguarda le esperienze lavorative, sono stato borsista presso l’American Academy di Roma, e ho lavorato presso lo studio professionale SOM di Chicago.
Quando è nato lo Studio Centola & Associati?
Tra il 2000 e il 2001, con due sedi, una a Roma e una a Salerno. Ora lo studio vanta una squadra di sette professionisti validissimi e di grande qualità. Basti citare i premi internazionali che abbiamo vinto… 
L’ultimo riguarda il progetto territoriale per il recupero turistico-culturale della Valle dei Mulini di Amalfi e Scala.
Il progetto Waterpower è piaciuto molto a livello internazionale. Dopo la vittoria a Ginevra del primo premio agli Holcim European Awards,  abbiamo ottenuto anche il secondo premio di 250.000 dollari ai Global Awards di Bangkok.
Ci parla di questo progetto?
Il Masterplan è realizzato in un sito Unesco, si sviluppa lungo una superficie di circa 10 kmq  e recupera oltre 20.000 mq di spazi coperti distribuiti su quindici antiche cartiere che costituiscono un importante patrimonio storico in stato di abbandono e degrado. Il progetto fa rivivere il sistema di captazione delle acque del torrente Canneto - di origine araba - per riutilizzare la potenza idrica, come già avveniva in passato; sin dal XIII secolo, infatti, più di 2 km di canali fornivano l’acqua che serviva ad attivare il movimento delle macchine che producevano la carta di Amalfi. Le antiche cartiere saranno recuperate e rese attuali nell’utilizzo come alberghi, centri benessere, ostelli, musei, ristoranti, negozi e parcheggi, attraverso l’architettura e i materiali contemporanei. A sostegno del messaggio di auto-sostenibilità energetica della Valle,  il sistema di produzione di energia idroelettrica (integrata con sistemi di fotovoltaico, solare, geotermico e idrogeno) è realizzato con una serie di microturbine che sfruttano i salti di quota principali e rendono energeticamente autosufficiente il complesso degli edifici e degli spazi pubblici.
E’ un progetto destinato ad essere attuato?
Sono in atto le procedure per realizzarlo. Si è costituito un comitato promotore composto dalla provincia di Salerno, dai comuni di Scala e di Amalfi e dalla Comunità montana. Io sono fiducioso.
Come definirebbe il suo modo di fare architettura?
Io mi considero un architetto ecologista, nel senso costruttivo del termine. Credo cioè in un’architettura integrata nel paesaggio, che non abbia timore di trasformare gli edifici storici, di “manipolare” la realtà, ma rispettandola, arricchendola, ponendo le costruzioni al servizio della collettività. La sostenibilità è il tema del futuro; di oggi, di domani e di dopodomani. Penso ad esempio al tema del recupero dei manufatti dell’archeologia industriale, presenti in tutte le città, anche a Salerno. Oppure al tema delle periferie degradate. O, ancora, al tema della riqualificazione dei paesaggi distrutti o abbandonati del Mezzogiorno, a causa dell’abusivismo o dell’industria che sta scomparendo. Prima di consumare nuove porzioni di territorio, occorre recuperare e riqualificare l’esistente.
Negli ultimi anni l’architettura vive in Italia un periodo d’oro di fermenti, di idee, di dinamismo.
C’è una nuova generazione di architetti che è meno ingessata del passato e più aperta al mondo. Per cinquant’anni in Italia l’architettura ha ignorato le categorie del bello e dell’utile. A partire dagli inizi degli anni Novanta, anche grazie alla stagione dei sindaci eletti direttamente dal popolo, e quindi depositari di un potere politico più forte, finalmente molte città hanno avviato un percorso di riscatto dalle brutture architettoniche del dopoguerra. Parlo non solo di Roma e di Milano, ma anche di città del nostro Meridione, come Cosenza, Reggio Calabria, in parte Bari, adesso anche Palermo, e ovviamente Salerno.
Che differenza c’è tra la Salerno della sua fanciullezza e quella di oggi?
Non riesco a vedere grosse differenze. La vivibilità della città è più o meno la stessa di allora. Si sono solo spostati i luoghi della socializzazione, passando dal lungomare al corso e al centro storico.
Nessuna differenza neppure dal punto di vista urbanistico?
Beh, dal punto di vista urbanistico una parte del territorio effettivamente è cambiata in modo radicale. Mi riferisco alla zona dell’espansione verso est, della tangenziale e oltre, che si è sviluppata in maniera disordinata sul finire degli anni Settanta e dopo il terremoto. Ma parlo anche della zona del nuovo stadio. Per me quella è la Salerno difficile, la Salerno più problematica ma anche più interessante a livello di sviluppo urbanistico.
Ha qualche idea al riguardo?
Sì. Penso che quell’area dovrebbe essere completata con un sistema fieristico. Questo progetto è stato purtroppo accantonato, spero che sia ripreso presto. 
Quali altre zone di Salerno avrebbero bisogno di una risistemazione urbanistica?
La parte alta del centro storico. Nel ’98 fu bandito un concorso internazionale denominato “edifici-mondo”, che fu uno dei primi a svolgersi a Salerno e fu vinto da una bravissima architetta giapponese, che propose un progetto di grande fascino, di recupero intelligente degli edifici e degli spazi pubblici. Peccato che finora non abbia avuto seguito. 
Come s’immagina la Salerno del futuro?
Molto dipenderà dalle grandi opere in costruzione. Penso in particolare alla Stazione Marittima, che costituirà la porta del mare della città, proiettandola anche verso la Costiera amalfitana. Anche il nuovo Palazzo di Giustizia è destinato a cambiare profondamente e a riqualificare un quartiere “brutto” come quello di via Luigi Quercio e del Lungoirno.
C’è poi la zona della costa del Sele, da Pontecagnano a Battipaglia.
Lì è necessario un ripensamento globale del programma di sviluppo. Io credo che quella zona non abbia una vocazione turistica paragonabile a quella del Cilento o della Costiera amalfitana, e quindi bisognerebbe puntare su altro. Per esempio sulla delocalizzazione del porto commerciale di Salerno, che nell’area del Sele potrebbe godere di maggiori spazi e di collegamenti efficaci con il sistema ferroviario e autostradale, diventando più competitivo rispetto agli altri porti del Tirreno e contribuendo fortemente al rilancio dell’economia salernitana. La delocalizzazione consentirebbe anche di recuperare la zona del porto di Salerno, riqualificandolo come porto turistico.  
Sembra quasi che ci stia lavorando…
E’ vero. Stiamo pensando di partecipare alla Biennale di Architettura del settembre 2006 a Venezia con un progetto di idee per il nuovo porto commerciale di Salerno. E’ una provocazione, mi rendo conto, ma noi architetti siamo abituato a costruire sogni che possono diventare realtà...
 
 (La Città di Salerno, 14 maggio 2006)
 
Carta d’identità
 
L’architetto Luigi Centola è nato a Salerno il 15 novembre 1968.
Titoli di studio: Laurea in Architettura all’Università di Napoli; Graduate Design Diploma dell’Architectural Association di Londra; Fulbright in architettura e arti visive
Hobby: il mare, la pesca, il golf, i viaggi.
L’ultimo libro: “Dalla culla alla culla”, di William McDonough, un designer di fama internazionale e un sostenitore di quella che lui e i suoi collaboratori chiamano la "nuova rivoluzione ecologica".
I film: tutte le pellicole di fantascienza o che parlano del futuro. 
Pubblicazioni: tra i vari saggi di Centola, segnaliamo: “Salerno, guida alla città del futuro”, sul nuovo PRG di Oriol Bohigas e la trasformazione della città attraverso i concorsi.
Ultimo progetto: la realizzazione di uno show room italiano di 800 mq in Estonia, a Tallin, con slow food, punti di accoglienza, negozi, ristorazione. 

Intervista a Mario Carotenuto, pittore

di Mario Avagliano
  
“Salerno e la Costiera Amalfitana sono la mia Musa ispiratrice”. A 83 anni di età, Mario Carotenuto non ha perso la verve e l’entusiasmo di un tempo. Nel suo studio di via San Benedetto, ingombro di pennelli e di tele ad olio, dichiara amore eterno alla sua terra, lavora a nuovi dipinti e ceramiche, e progetta una mostra dedicata al tema affascinante del mare. Non nascondendo un forte rimpianto per la straordinaria stagione degli anni Settanta, quando Salerno fu una delle capitale italiane dell’arte. 
 
Dov’è cresciuto Mario Carotenuto?
Sono nato a Tramonti ma la mia fanciullezza l’ho trascorsa ad Angri, dove mia madre, Rosa Mosca, era insegnante elementare. Allora Angri era un paese bellissimo, alle falde del Vesuvio, con forti tradizioni contadine e religiose. Era una terra di lavoro e di prosperità. Sembrava una cittadina della Provenza francese, come Arles, il paese del sud della Francia dove si stabilirono Cezanne e Van Gogh. 
E’ stato un periodo felice della sua vita?
La mia infanzia è stata povera ma felice. Eravamo cinque fratelli. Mia madre era maestra e mio padre musicista, e quindi non vivevamo nell’agiatezza. Tuttavia, ci accontentavamo di poco. Per esempio ricordo con tenerezza i tempi straordinari del cinema muto. Mio padre Amedeo suonava il pianoforte alle proiezioni cinematografiche, nella piazza di Angri, e mi portava spesso con sé. Sono cresciuto guardando le pellicole in bianco e nero di Rodolfo Valentino, di Ridolini e di Charlot, a volte un po’ mosse o un po’ sfocate, ma ricche di arte e di poesia…
Quando ha scoperto il fascino della pittura?
Fin da quando ero bambino sentivo il bisogno di disegnare. Ricordo che quando frequentavo il Ginnasio a Cava, riempivo i fogli bianchi di paesaggi e di ritratti. Forse solo negli anni del Liceo Giovan Battista Vico a Nocera mi dedicai di meno alla pittura, perché avevo timore che mi distogliesse dallo studio del latino e dell’italiano, materie in cui eccellevo. Pensi che componevo direttamente in latino.
Lei quindi è un latinista mancato?
Vinsi un concorso nazionale di prosa in latino, risultando terzo in tutta Italia. Ero destinato a diventare professore di latino. Poi però prevalse l’amore per l’arte… Volevo dipingere e lasciai la facoltà di Lettere dell’Università di Napoli. Sarà un fatto genetico, nella mia famiglia sono tutti artisti: mio padre e mio fratello musicisti, come mio nonno e mio zio. Un fratello di papà, Francesco Carotenuto, era direttore della Banda Presidiaria di Napoli e autore di marce militari. Anche mio nipote, Raffaele Ternullo, suona nei Club Mediterranèe. E così presi il diploma di maturità al Liceo Artistico come privatista e poi mi iscrissi all’Accademia di Belle Arti di Napoli.
Chi furono i suoi maestri?
All’Accademia ho avuto la fortuna di avere come maestri due grandi artisti del Novecento italiano. Il futurista Emilio Notte, pittore colto e cosmopolita, mi insegnò il disegno classico tout court. Invece Vincenzo Ciardo, grande paesaggista sul solco della scuola di Posillipo, poi esponente di rilievo del post-impressionismo, mi iniziò all’uso della tavolozza e della pittura ad olio. 
Come ha costruito la sua carriera artistica?
Non ho potuto completare l’Accademia, perché avevo bisogno di insegnare per poter… mangiare. Così ho continuato a studiare da solo, seguendo due indirizzi: cercare di trovare uno stile tutto mio, personale, non influenzato dalla scuola pittorica, e non accodarmi alle mode e alle tendenze del tempo. Questo è stato il mio pregio e il mio difetto.
Lei ha insegnato anche in Cilento?
Nel dopoguerra i primi anni di insegnamento li ho trascorsi in Cilento, a Padula, presso la Certosa, e poi a Laurino. La mia formazione pittorica è iniziata lì. La pace e la tranquillità di quei luoghi, hanno costituito per me un buon viatico.
Nel suo percorso di artista, quanto è stato importante l’incontro con Alfonso Gatto?
Gatto è stata una figura fondamentale nella mia vita, al pari di Notte e di Ciardo. Grazie a lui, ho affinato la mia visione del mondo e certe mie sensibilità. Gatto era un grande poeta e un fine intenditore di arte, oltre che pittore lui stesso. Era un amico vero, una persona perbene, che non si dava arie e che era capace di farsi sentire, di suggerire, ma anche di ascoltare. Le critiche più acute sulla mia pittura, le ha scritte lui.
Qual è la mostra alla quale affettivamente è più legato?
Senza dubbio la mia prima mostra, a Salerno, nel 1953, nella saletta del Turismo a Castel Terracena, in via dei Mercanti. Ricordo ancora la mia emozione nel vedere per la prima volta i miei quadri incorniciati e appesi al muro.
Tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Settanta i suoi quadri sono stati esposti in alcune delle più importanti gallerie di Roma e di Milano, dalla Borgognona alla Galleria Levi. 
In quegli anni ho avuto un successo enorme, di pubblico e di critica, e ho anche venduto tantissimi  quadri. Hanno scritto di me alcuni tra i principali critici italiani, come Alberico Sala, Munari e Dino Buzzati. Ho conosciuto e frequentato artisti come Guttuso, Mafai, Omiccioli, Vespignani, Attardi, Tomea. Ad un certo punto, però, sono uscito dal grande giro, perché non mi sono piegato alle regole del business milanese. Mi hanno proposto contratti in esclusiva che comportavano una limitazione della mia libertà creativa. Volevano che io disegnassi soltanto lune, finestre, farfalle e mari notturni… Altri colleghi hanno accettato il compromesso ma, francamente, io non me la sono sentita. 
Oltre a disegnare e a dipingere su tela, lei è anche un’artista della ceramica.
Ho iniziato a fare ceramica negli anni Cinquanta a Salerno, con Teodoro Cossa. In quel periodo conobbi anche il grande Gambone. Poi negli anni Settanta e Ottanta ho lavorato a Vietri, con Romolo Apicella. Adesso mi servo di una piccola fornace a Ravello. Sono molto contento del mio lavoro attuale, credo che siano le mie opere di ceramica più “raggiunte”, anche perché ho maggiore padronanza degli smalti e dei colori. 
Come tutti gli artisti, anche lei ha avuto periodi diversi di espressione pittorica…
Sì, è vero. Il primo periodo io lo definisco intimista. Prediligevo i ritratti e le piccole nature morte. Nel ’64 è iniziato il periodo del collage. Ho capovolto tutte le mie regole, e ho abbandonato temporaneamente la pittura, sulla scorta della pop art americana. Sul finire degli anni Sessanta, la mia pittura è diventata quasi surrealista. In seguito ho messo insieme tutte queste esperienze.
E oggi Mario Carotenuto che tipo di pittore è?
Sono un pittore figurativo, realista, un po’ nostalgico, non catalogabile in nessuna scuola. Sono un cane sciolto, senza padroni, un artista che crede ancora che la figura possa dire tutto e che ama i colori e i pennelli.
E dal punto di vista caratteriale, come si definisce?
Sono del segno della Vergine, e quindi sono pignolo e fantasioso. La cosa strana è che sono emotivo, a volte un po’ violento, ma anche lento, riflessivo. Un contrasto che mi meraviglia sempre.
Che cos’è la pittura per lei?
Io da giovane ero molto timido, complessato. Quindi la pittura per me è stata una forma di rivalsa. Grazie alla pittura ho scoperto il mio modus vivendi e ho acquisito sicurezza e serenità.
C’è una sua opera che non venderebbe mai?
Il ritratto di mia madre, che risale al 1941, quando avevo appena 19 anni. E non solo perché si tratta di un ricordo di mia madre. E’ un quadro che considero uno dei più riusciti anche dal punto di vista artistico.
Carotenuto e Salerno. Una storia d’amore?
Senz’altro. Mi piace tutto di Salerno: la luce, l’aria, la temperatura, il paesaggio e soprattutto la gente. Ho avuto l’affetto dei salernitani e ne sono fiero. La città è assai cambiata rispetto al dopoguerra, e in meglio. Detto questo, bisogna aggiungere che rispetto agli anni Settanta, a livello culturale Salerno è scaduta.
Cioè?
Veda, la mia generazione ha tentato, con successo, l’innesto nel filone culturale italiano. Negli anni Settanta, grazie a personaggi come Filiberto Menna, Alfonso Gatto, Achille Bonito Oliva, Rino Mele, Edoardo Sanguineti, Salerno aveva un suo posto a livello nazionale ed era frequentata dai migliori artisti del Paese. Oggi è tutto finito. Anche Lelio Schiavone tiene aperta la galleria Il Catalogo per puro dovere di testimonianza, come lui stesso ha detto.  
Si è mai pentito di non essere andato via da Salerno?
No. Io sono figlio della mia terra, con l'orgoglio di essere provinciale. Ho sempre pensato che deve essere il valore di quello che fai che non deve essere provinciale. E poi la mia pittura ha bisogno di radici: Salerno e la Costiera Amalfitana rappresentano per me quello che erano l’Oceania e la Paupasia per Gauguin.
Tra gli artisti salernitani, quali stima di più?
Stimo molto Pietro Lista, per il suo estro e anche perché mi diverte il fatto che artisticamente è l’esatto contrario di me. Ho poi avuto un lungo sodalizio con Paolo Signorino, un buon pittore realista, delicato e perspicace.
Lei è entrato nell’immaginario popolare della città di Salerno. Il suo Presepe dipinto è un appuntamento fisso per i salernitani. Come nacque l’idea?
L’idea nacque per caso, per merito di un mio ex alunno, il professor Peppe Natella, che nella seconda metà degli anni Ottanta mi chiese di disegnare un bozzetto per un presepe. Fu subito uno straordinario successo. E così abbiamo continuato, riempiendo tutta la Chiesa. Ora l’opera si compone di centotrenta pezzi, tutti sagomati e dipinti a grandezza naturale, raccogliendo decine e decine di volti della Salerno popolare. Sono venuti a visitare il Presepe anche personaggi come Vittorio Sgarbi e Franco Zeffirelli.
Lei ha un rapporto speciale anche con la Costiera Amalfitana.
L’ho scoperta tardi, all’inizio degli anni Sessanta, ma me ne sono subito innamorato. Da molti anni ho casa a Minori e passo lì ogni estate. La Costiera è entrata nel mio mondo artistico, con i suoi colori, i suoi paesaggi, la sua poesia.  
A quale progetto sta lavorando adesso?
Sto preparando una mostra di ceramica che si terrà a luglio e ad agosto a Ravello. E poi ho un grande sogno: realizzare una mostra sul mare, sulle spiagge delle mie estati a Minori, fatta di disegni e di quadri… Un atto d’amore verso la Costiera amalfitana, per tutto quello che mi ha dato nella mia vita di uomo e di artista.
 
 (La Città di Salerno, 12 marzo 2006)
 
Carta d’identità
 
Mario Carotenuto, pittore, è nato a Tramonti (SA) il 4 settembre 1922.
Hobby: colleziona statuette votive di creta
Libro preferito: I classici della letteratura mondiale, in particolare Madame Bovary e L’educazione sentimentale di Flaubert, L’idiota di Dostoevskij a Anna Karenina di Tolstoj. Tra i libri più recenti, L’imitazione di Cristo.
Film preferito: La Regina Cristina, con Greta Garbo; La vita è una cosa meravigliosa di Frank Capra; i film del neorealismo italiano, in particolare Roma città aperta di Roberto Rossellini (“non so quante volte l’ho visto”).
 
 
 

Intervista a Pasquale Falcone, attore e regista

di Mario Avagliano
 
 
Il suo prossimo film s’intitolerà “Io non ci casco”, racconterà il dramma di un ragazzo in coma e dei suoi amici, vedrà come protagonisti Maria Grazia Cucinotta ed Alessandro Haber, e sarà girato ancora una volta a Cava de’ Tirreni. Pasquale Falcone, 49 anni, cavese doc, attore, cabarettista, regista, ora anche produttore cinematografico, è uno dei cineasti emergenti della scuola comica campana, al pari di Vincenzo Salemme. Intervistato da la Città, ci parla del suo nuovo lavoro in gestazione, ripercorre le tappe della sua carriera e critica duramente la classe politica cavese di destra e di sinistra, accusandola di aver fatto perdere a Cava la leadership culturale e commerciale della provincia. 
 
Com’è stata la sua infanzia?
Ho avuto un’infanzia molto felice. Fino all’età di 12-13 anni ho vissuto con i miei genitori e i miei nonni paterni a San Pietro, una frazione di Cava immersa nel verde, dove tutta la vita di noi ragazzi girava intorno alla parrocchia e al campetto sportivo. Ricordo ancora il prete e le partite di calcio, con le magliette gialle e rosse e bianche e verdi. Ne ho parlato anche nel film Amore con la "S" maiuscola.
Quando si è avvicinato al mondo dello spettacolo?
Penso di essere nato per fare questo lavoro. Già da piccolo, ai tempi della scuola, mi divertivo a dire battute e ad interpretare personaggi. 
A quando risale il suo debutto? 
Fu nel 1975, a 19 anni di età, quando iniziai a fare cabaret nella mitica Radio Cava Centrale, la terza radio libera nata in Italia, dopo Radio Milano International (che poi cambiò nome in Radio 101) e Radio Salerno 1. Conducevo un varietà radiofonico che si chiamava “Collage”, assieme ad Angelo Di Domenico e Peppe Castillo. Era un programma che ancora ricordano a Cava e a Salerno, tipo “Alto Gradimento” di Renzo Arbore oppure “Viva Radio2” di Fiorello, con sfottò, quiz, canzoni dal vivo…
Poi dalla radio è passato alla televisione.
Sì, tra il 1977 e il 1980 ho lavorato prima a Quarta Rete Tv e poi a Tele Alfa, per la quale ho scritto, prodotto e condotto il programma “Scusi lei… di Sabato cosa fa?”, con il gruppo teatro cabaret “La Briscola”, composto, oltre che da me, da Luciano Vatore e Teodoro Petti.  Ricordo che fu nostro ospite anche Enzo Avallone, detto “Truciolo”. Incidemmo pure un disco, intitolato come la trasmissione; io scrissi le parole, mentre le musiche erano di Fausto Mesolella, poi chitarrista degli Avion Travel.
Fu così che approdò alla Rai.
Sull’onda dei successi locali, nel 1984 il regista televisivo Salvatore Baldazzi ci chiamò a Tandem, la trasmissione su Rai2 condotta da Roberta Manfredi e Antonio Sorrentino. In quel periodo conobbi Fabrizio Frizzi, che era agli inizi e conduceva “Pane e marmellata”. Sono stato più volte a casa sua. Ricordo che allora guadagnava appena 700 mila lire al mese… L’anno dopo, ho partecipato, sempre con il gruppo di cabaret “La Briscola”, a cinque puntate della trasmissione “Stiffelius”, su Rai3, che era una sorta di “Striscia la notizia” di adesso, con servizi curiosi, candid camera ecc., solo che non c’erano conduttori.
L’esperienza alla Rai è finita nel 1985. Come mai?
Enzo Trapani ci voleva scritturare per la sua trasmissione “Prossimamente non stop”. Purtroppo a Luciano Vatore, che era impiegato in banca, non fu concessa l’aspettativa dal lavoro, e così fu costretto a rinunciare. Per la delusione il gruppo si sciolse.
E lei, come Fiorello, fece l’esperienza dell’animatore nei villaggi.
Ero capo animatore dell’agenzia “E’ qui l’Estate”. E’ stata un’esperienza davvero formativa per me. Il successo del “Porky’s Music Hall”, che ho fondato nel 1992, sta proprio nell’aver travasato nel mio locale la formula del villaggio, e cioè il mix di musica, danza e cabaret. Una formula che è stata imitata in tutta la Campania e anche oltre. Prima del “Porky’s” esistevano solo due tipi di locali: la discoteca e il piano bar. Siamo stati noi a lanciare il live show. Il mio locale è stato il primo in Italia a proporre il karaoke e il gioco “Porcellandia”, ovvero “Mi spoglio per gioco”, dove le ragazze del pubblico si danno battaglia a suon di indumenti… tolti. Un gioco che è diventato un caso nazionale. Tanto è vero che sono stato invitato come ospite a tutte le più importanti trasmissioni televisive di costume, dal “Maurizio Costanzo Show” a “La vita in diretta”.
Ci ha scritto anche un libro.
Ho venduto 15 mila copie solo tra Salerno e Napoli.
Ci dica la verità, com’è nata l’idea di questo gioco?
E’ nata per caso, in un villaggio turistico. Avevo organizzato una gara di karaoke ed erano rimaste in lizza alcune ragazze. Quella sera non si riusciva a stabilire la vincitrice in base all’applauso del pubblico, perché erano tutte brave e belle. Allora chiesi per scherzo se gli spettatori intendevano premiare quella che aveva il coraggio di spogliarsi di più… 
E al cinema, invece, com’è arrivato?
Da buon cabarettista, io non amavo né il cinema né il teatro. Prediligendo l’improvvisazione, non mi piaceva essere prigioniero di una parte. Nel 1998, però, è venuta fuori l’idea di tradurre in film la storia di Amore con la "S" maiuscola. Ho scritto una lettera a Leonardo Pieraccioni, gli ho detto del mio progetto e gli ho chiesto di incontrarlo. Stranamente lui mi ha risposto, e così sono andato a trovarlo sul set de “Il mio West”, in Garfagnana. Lui mi ha incoraggiato ad insistere e mi ha fatto conoscere Cecchi Gori. La sfortuna ha voluto che lo beccassi nel periodo più nero della sua carriera di produttore…
Com’è riuscito a realizzare il suo progetto?
Non mi arresi. Comprai una pagina di pubblicità su due numeri della rivista di cinema “Ciak” e scimmiottando la grafica delle loro locandine sul film del mese, presentai il mio progetto. Un giornale di Milano riprese la notizia, titolando “Incredibile, si pubblicizza un film fantasma”, e un bel giorno mi telefonò Marco Risi, il figlio di Dino, ed eccomi qui. Sono stati lui e Maurizio Tedesco, con la loro società “Sorpasso film”, a produrre il mio film, assieme a Rai Cinema.
La sceneggiatura l’ha scritta assieme ad Anna Maria Pavignano e a Enzo De Caro…
Sì, la Pavignano era la sceneggiatrice dei film di Massimo Troisi ed Enzo De Caro, lo conoscete tutti, era un componente del gruppo “La Smorfia” e ora è un attore televisivo di successo. 
Amore con la "S" maiuscola è anche un atto di amore verso la sua città, Cava de’ Tirreni.
Non c’è dubbio. Io amo Cava, e la ritengo un set naturale per il cinema. Credo che la mia città ricambi tanto amore. Pensi che per il nuovo film che sto preparando, ho già trovato tutte le location a Cava e sono tutte gratuite…
E’ soddisfatto della risposta del pubblico al suo primo film?
Come tutte le cose della mia vita, il mio primo film è stato in parte un grande successo e in parte una delusione. Quando uscì in Campania, il 14 marzo del 2002, in 52 sale cinematografiche, la prima settimana fu campione d’incassi e in due settimane incassò quasi 500 mila euro. Nel resto d’Italia, però, la prima uscita fu programmata il 30 di maggio. Ricordo ancora che era un caldo week end estivo, la gente andò al mare e così incassò solo 79 mila euro…
Nel giugno scorso Amore con la "S" maiuscola è andato in onda su Rai Uno.
Ha fatto registrare il 18,70 per cento di share in seconda serata. E’ stato il miglior risultato della Rai in tutta l’estate 2005.
Il co-protagonista del film era Biagio Izzo. Lo conosceva già da prima?
No, ci siamo conosciuti sul set. E’ una persona e un attore straordinario e ha dimostrato di saper interpretare anche ruoli diversi da quelli che è chiamato a svolgere nei film natalizi e nelle pellicole di Vincenzo Salemme.
Nel suo primo film ha recitato anche l’attore salernitano Angelo Di Gennaro.
Angelo è un altro attore che stimo molto. E’ una forza della natura. Purtroppo le regole del cinema sono un po’ ferree e lui, come tutti i cabarettisti, fatica ad entrarci dentro. 
Il titolo del suo secondo film era "Lista civica di provocazione (San Gennaro votaci tu)". Quest’anno a Cava si tengono le elezioni del nuovo sindaco.
Speriamo che con queste nuove elezioni Cava torni ad essere un centro di cultura e di fermento commerciale. Ci sarebbe bisogno di una svolta. Cava non è più la città principe della provincia di Salerno, come qualche anno fa. Gli ultimi governi di centrosinistra e di centrodestra sono stati deludenti. I personaggi politici che si sono alternati non erano all’altezza della situazione. Cava aveva la leadership del commercio e l’ha persa, era la regina della notte e ora invece vanno tutti a Salerno. A livello culturale, poi, zero assoluto.
S’immagini a Palazzo di Città. Di che cosa avrebbe bisogno Cava?
Di un sindaco forte, che si ponga pochi obiettivi e sia in grado di dare un’identità alla città, come ha fatto De Luca a Salerno. Un esempio su tutti: la Festa storica di Monte Castello, che ha un grande fascino ed enormi potenzialità. Ebbene, negli anni Settanta era trasmessa in diretta televisiva alle ore 19 su Rai Uno, nella famosa trasmissione “Cronache Italiane”. Ora è diventata una festa di paese, nelle mani di un comitato che manovra un pacchetto di voti, li sposta da una parte all’altra e resta sempre al suo posto. Invece bisognerebbe pensare in grande, affidare l’organizzazione di questo evento ad una grossa società di marketing e legarlo ad una lotteria nazionale, uscendo da un tipo di gestione a livello locale, da cortile. 
Parliamo del nuovo film che ha in gestazione: “Io non ci casco”.
Questa volta non si tratta di un film  brillante, ma è una commedia generazionale dai forti sentimenti. La storia parte da un ragazzo di 17 anni che ha un grave incidente ed entra in coma, e racconta come reagiscono i suoi amici a questo dramma. 
Lei di solito come autore prende spunto da episodi veri. Anche in questo caso?
Anch’io vengo da un coma. Quando avevo sei anni, venni investito da una moto e stetti dieci giorni in coma profondo. Ho vissuto questa esperienza sulla mia pelle: il tunnel, la luce, e anche la sensazione che la mia anima uscisse fuori dal corpo, sospesa tra la vita e la morte. A volte ancora oggi ho dei flash back: rivedo mia madre che mi porta in ospedale e me stesso sul lettino prima dell’operazione. Il film sfiora anche il tema dell’eutanasia. Però non è un film cupo e drammatico. Vi sono anche momenti divertenti, di spensieratezza, e anche il dolore è raccontato con garbo, senza tinte forti. Se “Notte prima degli esami” racconta la generazione degli anni Ottanta, con la musica di quegli anni, “Io non ci casco” è una sorta di indagine sulla generazione di oggi. I ragazzi degli anni Duemila non sono più una generazione “invisibile”, come i loro coetanei degli anni Ottanta e Novanta. La scuola è diventata di nuovo un luogo di formazione e di critica e i giovani di adesso sono dotati di una forza incredibile di comunicazione, anche grazie ad Internet, ai telefonini, agli sms.    
Il cast è di prim’ordine.
Beh, accanto a me ci sono la bellissima Maria Grazia Cucinotta, che tra l’altro produce anche il film, con la sua società Italian Dream Factor, e poi Alessandro Haber, Rosario De Cicco e Claudio Coccoluto, il famoso dj di musica house, che interpreta… se stesso. Inoltre in queste settimane sto tenendo provini a Cava, Salerno e Roma per cercare dieci ragazzi tra i 18 e i 19 anni.
Il film sarà co-prodotto anche da Rai Cinema?
Mi auguro di sì. Entro il 30 aprile dovremo avere la risposta. E anche questa volta il film sarà girato a Cava.
Come si descrive Pasquale Falcone?
Sono istrionico ed esuberante, come tutti i comici. Sul lavoro sono pignolo, meticoloso, preciso. 
Quest’anno lei compie 50 anni di età. E’ il momento dei bilanci…
Sto già organizzando la festa. Sul biglietto d’invito scriverò che i miei primi 50 anni sono stati “eccezionali e deludenti”.
Perché?
Eccezionali perché ho una famiglia splendida, quest’anno festeggio 25 anni di matrimonio, ho un lavoro che mi gratifica e ho realizzato due film partendo da zero. Deludenti perché avrei potuto fare ancora di più.
Per esempio?
Per esempio penso che ormai sia tardi per vincere l’Oscar. Ma magari, chi sa, forse sono ancora in tempo per vincere un David di Donatello…
  
 (La Città di Salerno, 5 marzo 2006)
 
Carta d’identità
 
Pasquale Falcone, cabarettista, attore, regista, autore e produttore, è nato a Cava dei Tirreni (SA) il 13 settembre 1956
Sposato con Vincenza Bisogno
Ha due figli: Oriana (24 anni) e Vincenzo (18 anni)
Hobby: tennis
Ultimo libro letto: Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire di Melissa P.
Film preferito: Ricomincio da tre di Massimo Troisi; Le fate ignoranti di Ferzan Ozpetek; le pellicole di Stanley Kubrick
Filmografia: "Amore con la "S" maiuscola" (2002); "Lista civica di provocazione (San Gennaro votaci tu)" (2005).

 

Intervista a Ugo Picarelli, manager

di Mario Avagliano
 
Dove c’è un grande evento, lì c’è Ugo Picarelli, il top manager della società Leader. Quarantaquattrenne in carriera, vestiti di sartoria sempre impeccabili, capelli radi, sorriso simpatico, Picarelli dal 1990 ad oggi, non si è persa l’organizzazione di una sola visita di un Presidente della Repubblica o di un Pontefice a Salerno o in provincia. “Ho seguito di persona tre visite del Presidente Ciampi, due visite del Presidente Scalfaro e due visite di Papa Giovanni Paolo II”, racconta orgoglioso. In appena quindici anni, l'impresa da lui fondata è diventata una società di consulenza, organizzazione e comunicazione apprezzata a livello nazionale, curando ogni anno per RAI Trade “Cartoons on the bay”, il Festival Internazionale dell’Animazione Televisiva che si tiene a Positano, e per Confindustria il Convegno Nazionale dei Giovani Imprenditori di Capri.
 
Lei è cresciuto nel Centro Storico di Salerno.
Ho frequentato le scuole elementari al “Barra” e le medie a Largo Campo. Prima del terremoto del 1980, Via dei Mercanti e il centro storico non erano il gioiello di adesso. Il quartiere era degradato e impazzava la microcriminalità, anche in collegamento con la camorra. Era un po’ come i Quartieri Spagnoli a Napoli. Devo dire, però, che il confronto con la realtà di strada è stato un’esperienza formativa.
Salerno era diversa anche nell’offerta di servizi e di cultura?
Fino ai diciotto anni d’età, la mia generazione ha vissuto all’insegna di una quotidianità senza sbocchi e senza diversivi. Negli anni Settanta e Ottanta i servizi a Salerno non erano efficienti e la città non offriva i divertimenti di oggi. Certo, le occasioni di svago non mancavano, con la Costiera Amalfitana a due passi… A dirla tutta, eravamo un po’ apatici, c’era anche una componente di pigrizia che ci accomunava e non ci faceva crescere, in una sorta di provincialismo chiuso in se stesso. 
Come nasce il Picarelli uomo-evento?
Vengo anch’io dalla scuola del Valtour. La stessa “scuola” di Rosario Fiorello e di Peppe Quintale, tanto per fare due nomi di miei compagni di lavoro nei villaggi turistici. Dal 1985 al 1989 ho curato la direzione delle scuole di tennis della Valtour. E’ stato il mio servizio militare, perché mi ha permesso di entrare in contatto con centinaia di persone e di sperimentare la mia voglia di svolgere un’attività dinamica di relazioni. Tra l’altro ho conosciuto personaggi del mondo dello sport come Walter Novellino e l’arbitro Paolo Bergamo, amici che ancora frequento, a distanza di trent’anni. 
Dopo il Valtour, sono arrivati i Mondiali di calcio del ’90.
L’incarico di responsabile organizzativo, della logistica e dell'accoglienza per il COL ITALIA '90 presso il Centro Stampa di Castel dell'Ovo di Napoli è stata la mia vera Università. All’epoca io ero iscritto alla facoltà di Medicina, volevo fare il medico ed avevo già superato i primi quattro anni del corso di laurea. L’esperienza dei Mondiali e l’organizzazione, sempre nel 1990, della visita pastorale di Papa Woytila ad Aversa. mi hanno convinto a cambiare strada, trovando il coraggio di rischiare in proprio e di fondare una società di comunicazione.
Perché l’ha chiamata Leader?
Potrebbe sembrare un nome presuntuoso. In realtà voleva solo attestare che la mia società si candidava ad offrire servizi di consulenza e di organizzazione a standard elevati, con un grado di affidabilità tale da soddisfare anche i clienti istituzionali o privati più esigenti. 
In quindici anni di attività lei ha organizzato centinaia di eventi. Qual è quello di cui va più fiero?
Me segnalerei almeno due:  l’inaugurazione da parte di Papa Giovanni Paolo II del Seminario metropolitano di Salerno nel 1999, affidatomi dall’Arcivescovo Gerardo Pierro, e il Premio della Fondazione Liberal a Simon Peres. Due grandi eventi organizzati con alta professionalità ma soprattutto occasioni straordinarie per conoscere da vicino due personalità della storia mondiale. Il Papa mi impressionò per l’incredibile carica di umanità e la forza interiore. Quanto a Peres, la passeggiata con lui a via Caracciolo a Napoli resta un ricordo incancellabile. Tra le manifestazioni a carattere internazionale, vorrei ricordare invece il coordinamento del G8 dei Ministri della Ricerca a Ravello.
Quanto è difficile essere imprenditori nel Mezzogiorno e in particolare a Salerno?
E’ una sfida continua e quotidiana, ma che vale la pena di intraprendere. Vede, dopo le esperienze del Valtour e dei Mondiali del ’90, per me sarebbe stato facile lavorare altrove. Invece c’è stata da parte mia la determinazione e la volontà di crescere assieme al territorio. Certo, capita a volte che mi demoralizzo e penso “chi me l’ha fatto fare”, ma tutto sommato ritengo che la mia scelta sia stata giusta. 
Ma il “territorio”, come lo chiama lei, è cresciuto in questo quindicennio?
Salerno è sulla buona strada. All’inizio degli anni Novanta era poco più che un paesone, oggi è una città vivibile e attrezzata che può confrontarsi con le altre città del Mediterraneo, per la sua storia, le sue tradizioni e il suo patrimonio culturale e paesaggistico. Però…
Però?
Il problema di noi salernitani è l’individualismo, che condiziona sia il settore pubblico che quello privato. Uno dei principali limiti dello sviluppo di questo territorio è l’incapacità di camminare assieme e di realizzare un’unità di intenti per il bene collettivo. L’individualismo ostacola e rende più faticoso il raggiungimento degli obiettivi.
Lei è anche presidente del Gruppo Turismo della Confindustria salernitana, oltre che promotore della manifestazione “Fare Turismo”. Qual è lo stato del turismo a Salerno?
Purtroppo Salerno è il capoluogo di una provincia turistica, ma non è ancora una città turistica. La situazione non è affatto brillante, anche perché persino le realtà più mature della provincia, sono fuori dai circuiti del turismo internazionale. 
Come mai?
Essenzialmente per quattro motivi: la mancanza di infrastrutture (vedi aeroporto e strade), la bassa qualità o l’assenza di strutture ricettive e di contenitori congressuali e fieristici, la scarsa competenza degli operatori turistici e la dimensione familiare delle imprese del settore. Oggi più che mai c’è bisogno di managerialità, di formazione, di strategie di marketing e di qualità dell’offerta per intercettare la domanda di turismo. Io penso che ci troviamo di fronte a un momento epocale della storia di Salerno. Dobbiamo decidere il futuro della città di qui al 2050.
Lei che idee ha?
E’ fondamentale potenziare la portualità turistica, decentrando il porto commerciale nella zona a ridosso tra Eboli e Capaccio-Paestum. Inoltre occorre rafforzare le strutture ricettive del Cilento secondo un modello di sviluppo sostenibile e trovare una prospettiva di crescita per il Parco Nazionale del Cilento, che rappresenta un grosso serbatoio di offerta turistica e di occupazione.
Lei è anche promotore della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico. Anche in questo settore siamo messi male?
In questo settore si paga una confusione che ha origini nazionali e non locali su chi deve gestire il patrimonio archeologico: il pubblico o il privato. Quale che sia la linea di indirizzo, ritengo che oltre ai grandi siti archeologici come Paestum e Velia, si debbano valorizzare anche i tanti siti apparentemente “minori” della nostra provincia, come lo splendido Battistero di Nocera Superiore.
Tra le varie manifestazioni che organizza la sua società, vi è anche il Concorso Ippico. 
Lo abbiamo istituito nel 1991. Intendiamoci, non era una novità assoluta per Salerno. Il Concorso Ippico si svolgeva nella nostra città già negli anni Cinquanta e Sessanta. La nostra intuizione è stato averlo riproposto dopo trent’anni e averne fatto un appuntamento di rilievo nazionale. 
Da operatore culturale, come giudica l’offerta di eventi a Salerno?
Ho apprezzato il coraggio dell’attuale amministrazione di organizzare grandi mostre-evento nel complesso monumentale di Santa Sofia. Questo impulso è positivo. L’importante era partire. Dopo la scomparsa di Filiberto Menna e Alfonso Gatto, sono venti anni che a Salerno a livello culturale non si muove nulla!
 
  (La Città di Salerno, 6 febbraio 2005)
 
 
Carta d'identità
 
Luogo e data di Nascita: Salerno,  31 ottobre 1961
Vive a Salerno
Sposato: Si
Figli:  3 (Giulia, Francesca e Carmen)
Titolo di studio: Diploma di Maturità Classica al Liceo “T. Tasso”
Hobby: cinema e lettura.
Libro preferito: Memorie di Adriano (Marguerite Yourcenar)
Film preferito: Oltre il Giardino (Peter Sellers)
 
Cariche
Direttore della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico
Componente di Giunta Esecutiva della Associazione degli Industriali della provincia di Salerno dal 1999
Presidente del Gruppo Turismo della Associazione degli Industriali della provincia di Salerno dal 2001
Vicepresidente del Gruppo Regionale Turismo di Federindustria Campania dal 1999 al 2003.
Amministratore e direttore generale della Leader s.a.s

Intervista a Pietro Lista, artista

di Mario Avagliano
 
 
“La Salerno di oggi culturalmente è un piattume”. A parlare così è Pietro Lista, 65 anni, allievo di Mario Colucci ed Emilio Notte all'Accademia di Belle Arti di Napoli, il più importante artista contemporaneo salernitano, assieme a Mario Carotenuto. Ha esposto i suoi dipinti a Parigi, Berlino, Tokio, Barcellona, Ginevra, Montecarlo, Hong Kong, Valencia, e le sue opere fanno parte di collezioni in varie nazioni del mondo, dalla Finlandia agli Stati Uniti d’America. Nello studio di Fisciano, in mezzo al suo “mondo disordinato di oggetti”, Lista racconta a la Città di avere un rapporto quasi erotico con la tela, rimpiange i ruggenti anni Settanta e il genio intellettuale di Filiberto Menna e svela che lui e l’amico Carotenuto si sono lanciati una “sfida” a colpi di pennelli: ritrarsi dal vivo, uno di fronte all’altro, guardandosi negli occhi. “Ho una fifa matta - afferma tra il serio e il faceto -. Mario è un maestro, ma sarà divertente!”.
 
Lei è nato in Umbria, anche se vive a Salerno da oltre cinquant’anni.
Sì, mi sono trasferito a Salerno con la mia famiglia nel 1954, due mesi prima dell’alluvione. Credo che sia stato un segno del destino, perché anche la mia vita è stata un’”alluvione” di sentimenti, di disastri, di emozioni… 
Ci parli dei suoi genitori.
Mio padre Salvatore era di origini lucane, maresciallo dei carabinieri. Era un uomo meraviglioso, dolcissimo, anche se faticava ad esternare il suo affetto verso i figli. Mia madre Amelia era napoletana, ed è stata la persona più importante della mia vita. Mi ha insegnato ad avere fede in Dio, e poi la generosità, la sensibilità, l’umiltà.
E’ vero che stava per diventare ragioniere?
Dopo la scuola media, mio padre voleva che facessi ragioneria. Io già allora ero un ribelle ed ero innamorato dell’arte, e allora scappai di casa perché volevo iscrivermi al liceo artistico. Ricordo ancora mio padre, vestito con un impermeabile bianco, che venne a prendermi a casa di un amico e mi scongiurò di tornare a casa perché mamma piangeva. E così ho frequentato prima il liceo artistico e poi l’Accademia delle Belle Arti di Napoli.
Chi sono stati i suoi maestri?
Ho avuto la fortuna di avere come insegnanti grandi artisti quali il pittore futurista Emilio Notte, Mario Colucci, fondatore del Gruppo 58, e il paesaggista Vincenzo Ciardo. Poi ho trovato l’amore, mi sono sposato con una ragazza finlandese e al terzo anno ho lasciato l’Accademia.
Ed è iniziata la sua carriera di artista.
Non è stato facile. E’ stato fondamentale l’incontro con Marcello Rumma, che è stato il mio mecenate e mi ha dato la spinta per andare avanti. Con lui, sul finire degli anni Sessanta, ho organizzato ad Amalfi tre grandi mostre, “L’impatto percettivo”, “Ritorno alle cose stesse” e soprattutto, nel ’68, “Arte povera + Azione Povera”, un’esposizione curata da Germano Celant. Marcello intuì subito la straordinaria vitalità di quella corrente artistica. In quel periodo conobbi artisti del calibro di Pistoletto, Fabro, Boetti, Anselmo, Kounellis, Merz, e critici del valore di Filiberto Menna e Achille Bonito Oliva.
Era un periodo d’oro per l’arte a Salerno?
Erano anni di grandi furori, di creatività, di fermenti. Nascevano nuove gallerie d’arte, come Il Catalogo di Lelio Schiavone. Gli artisti si confrontavano tra di loro. Si organizzavano eventi, rassegne, happenings. Insomma, era l’esatto contrario di oggi, dove prevale il piattume, e tutto è squallido e grigio.
Un giudizio duro.
E’ la realtà dei fatti. Ormai a Salerno sopravvive solo la splendida galleria di Lelio Schiavone. Diciamo la verità: si sente moltissimo la mancanza di una figura come Filiberto Menna.
Che ricordo ha di Filiberto Menna?
Era una persona straordinaria, che tengo nel mio cuore. Era un accentratore, che voleva la sua corte ma l’amava. Ci trattava come fratelli e ci incoraggiava a creare e a sperimentare.
E che ne pensa di Achille Bonito Oliva?
Sono legato a lui da grande affetto e da antica amicizia. Sul piano umano in passato abbiamo avuto qualche screzio, ma lo stimo tantissimo. E’ una figura creativa della critica italiana, una risorsa preziosa della cultura del nostro Paese.
Anche lei in quel periodo aprì una galleria d’arte.
Nel 1970 inaugurai la galleria Taide a Salerno, e in seguito fondai la rivista Taide - Materiali minimi. Ricordo che all’inaugurazione vennero Michele Santoro, Filiberto Menna, Celant. E’ stata un’esperienza meravigliosa, durata dodici anni, fino al 1982, quando fui costretto a chiudere lo spazio espositivo per il mio cronico problema di mancanza di fondi.
Qual è la mostra alla quale è più legato affettivamente?
La personale alla galleria Trans-Forum di Parigi, dove tra l’altro vendetti anche molte opere.
E la critica nella quale si è riconosciuto di più?
Quella di Achille Bonito Oliva il quale scrive letteralmente che per me “fare significa pensare, realizzare e fondare la propria cosmologia di immagini” e che la mia opera trova una premonizione nel mio nome, Lista, e diventa appunto “una lista d’attesa per il pubblico che aspetta l’epifania, l’apparizione dell’immagine”.
Perché l’epifania?
Io considero il quadro uno sguardo veloce sulla realtà. Una lampadina che si accende e poi si spegne. Il mio racconto nasce dal sudario della tela, dai grumi del colore. Su questo magma scorre il mio pennello, descrivendo scene in fondo teatrali. Ho la cultura profonda del segno che deve vibrare, ma cerco forzature, per analfabetizzare il mio segno e renderlo primitivo e sofferente. Mi eccita l’errore, l’imperfezione, in tutte le forme dell’arte. Per esempio, quando faccio ceramica, il filo attorno al piatto mi piace tremolante. Tendo a una pittura “sporca” come materia. Fare quadri eleganti non m’interessa.
Ha dei modelli o dei miti artistici?
I miei modelli sono Lucio Fontana, Bacon e, soprattutto, Morandi, che passò tutta la vita a dipingere bottiglie, come faccio io con le brocche.
Nel 1993 lei ha fondato a Paestum il Museo Materiali Minimi di Arte Contemporanea (MMMAC).
Ogni anno organizziamo una mostra importante. L’anno scorso abbiamo proposto una personale di Arnaldo Pomodoro. A luglio presenteremo un’esposizione di opere di Salvatore Paladino, in particolare il cavallo che lui ci ha donato, che ho intenzione di restaurare e di esporre sopra le mura, alcuni disegni e qualche statua.
Qual è il suo rapporto con Salerno?
Amo Salerno perché mi ha dato tutto. E’ una città bellissima e negli ultimi anni ha fatto un grosso scatto in avanti, soprattutto dal punto di vista urbanistico. Tuttavia, come ha detto Lelio Schiavone, oggi a Salerno fare è arte è un esercizio di testimonianza del tempo che fu. Sono molto amareggiato dal silenzio della cultura. 
Qualcosa si salverà dal punto di vista culturale…
Beh, a parte la galleria Il Catalogo e la Fondazione Menna, che comunque è una roccaforte di intellettuali, mi sembra che l’unico tentativo serio sia quello di Massimo Bignardi e del FRAC, il Fondo Regionale d’Arte Contemporanea, che ha realizzato a Baronissi. Anche noi artisti viviamo isolati uno dall’altro. Ognuno si è chiuso nel proprio castello.
Dimentica le grandi mostre al complesso di Santa Sofia?
Sicuramente la presenza a Salerno di opere di Picasso, di Mirò, di Warhol, è emozionante, ma paragonando le mostre salernitane ai meravigliosi allestimenti di Napoli, viene da dire che sono state un mezzo flop, forse perché sono stati stanziati pochi soldi.
Che cosa si potrebbe fare di più?
A Salerno manca uno spazio espositivo dove organizzare mostre. Ci vorrebbe il coraggio di creare una Galleria comunale e di nominare una commissione di esperti che selezioni nuovi pittori e scultori e permetta loro di esporre le proprie opere, di pubblicare un catalogo e di farsi conoscere dalla gente.
Chi stima tra gli artisti salernitani?
Innanzitutto Mario Carotenuto. Lo ritengo un artista eccezionale e un uomo perbene, sereno, come me. Anzi, le voglio raccontare una cosa. Abbiamo deciso di “sfidarci”. Un match artistico davanti a due tele bianche, ritraendoci dal vivo, guardandoci negli occhi. 
E a parte Carotenuto?
Ugo Marano, Virginio Quarta e Sergio Vecchio. E tra gli artisti emergenti, Giovanni Cavaliere, di cui apprezzo la pittura precisa, pulita, rigorosa.
E suo figlio Pier Paolo Lista?
Ha un segno straordinario. Racconta il quotidiano in modo originale, attraverso oggetti, bottiglie. La sua ultima mostra a Pavia ha avuto un grande successo. Ha un solo difetto, è un po’ svogliato. Ma è un giudizio che non fa testo: io sono della vecchia guardia, di quelli che considerano l’arte lavoro e artigianato. 
Come si definisce Pietro Lista come uomo?
Sono una persona di grande serenità e di grande fede, che si pone di fronte alla vita con la freschezza di un bambino e senza abbandonare mai il sorriso, anche se il mondo è cattivo e spesso mi ferisce. 
E come artista?
Ancora oggi a 65 anni di età mi alzo la mattina con l’entusiasmo di creare qualcosa. Io poi ho un rapporto fisico con la tela bianca, per me è come affrontare un amplesso con una donna. Il momento magico di quando ti siedi davanti a una superficie vergine è indescrivibile: è un caleidoscopio di immagini e di emozioni che ti corrono dentro. Quando dipingo, sono l’uomo più felice del mondo, con il mio sigaro toscano tra le labbra e un bicchiere di vino a farmi compagnia…
 
(La Città di Salerno, 16 aprile 2006)
 
 
Carta d’identità
 
Luogo e data di nascita: Castiglione del Lago (Perugia), 12 luglio 1941. Vive a Salerno dal 1954.
Separato, ha quattro figli: Riika, Amelia, Nuvola e Pier Paolo.
Titolo di studio: diplomato al Liceo Artistico di Napoli.
Hobby: collezionismo di sculture di falli (ne ha oltre 200).
Il libro preferito: La vita di San Francesco; il saggio “Lo sperma nero” del fratello Giovanni Lista, storico del futurismo; in genere tutti i libri d’arte.
Il film preferito: Fahrenheit 451 del regista francese François Truffaut e le pellicole di Federico Fellini.
 
Carriera: Pietro Lista a partire dagli anni Sessanta ha esposto le sue opere in tutto il mondo, partecipando alla VIII Biennale di Parigi ed alla X Quadriennale di Roma. Nel 1968 ha preso parte alla mostra "Arte povera - Azioni povere" a cura di G. Celant.  Nello stesso anno ha costituito il Gruppo Teatrale Artaud, e pubblicato il manifesto "Il Verbo sorge dal sonno come un fiore". Dal 1970 al 1982 ha diretto la Galleria d’Arte Taide.  Negli anni Ottanta ha iniziato a dedicarsi alla scultura e alla ceramica. Nel 1993 ha fondato il Museo d'arte contemporanea MMMAC di Paestum, intitolandolo a Marcello Rumma. Hanno scritto di lui i maggiori storici e critici d'arte italiani e internazionali: Argan, Dorfles, Menna, Bonito Oliva, Di Genova, Celant, Okamoto, Lemaire, Debeque-Michel, Barrier, Dalmijrò, Bory, Liot, Barilli, Trimarco, Mele. Per la grafica è stato segnalato in Bolaffi, nel 1969, da Filiberto Menna, nel 1976 da Achille Bonito Oliva. Ha realizzato numerose performances e girato tre film d'artista. 

 

Intervista ad Angelomichele Risi, artista

di Mario Avagliano
 
 
Sul biglietto della Lotteria Italia che sarà assegnata venerdì 6 gennaio, è riprodotta l’opera di un artista salernitano, Angelomichele Risi, 55 anni, originario di Fisciano. Allievo di Capogrossi e De Stefano, diplomato all’Accademia di Belle Arti di Napoli, Risi ha partecipato alla X Quadriennale di Roma e alla Biennale del Sud ed è considerato dal critico d’arte Massimo Bignardi “il principale pittore salernitano a partire dagli anni Ottanta” perché ha saputo “declinare il linguaggio contemporaneo della transavanguardia” tenendo conto della “lezione della grande pittura italiana del Novecento”. Intervistato da la Città, Risi afferma che oggi a Salerno si vive un momento di tensione culturale di grande rilevanza, figlio dei fermenti positivi degli anni settanta, che dopo le mostre di Mirò e Picasso, ha portato all’attenzione un primo nucleo di opere di artisti  del territorio campano, con la presentazione della collezione del FRAC di Baronissi diretto da Massimo Bignardi.
 
Lei è nato e cresciuto a Fisciano. E’ cambiata dagli anni Cinquanta? 
E’ totalmente diversa da allora, anche come clima. Ricordo ad esempio che negli anni della mia infanzia d’inverno a Fisciano c’era sempre tanta neve e il paese era tutto imbiancato. Dal punto di vista sociale, Fisciano era caratterizzata dalla presenza di alcuni nuclei familiari forti come tradizioni. Le feste popolari per noi erano un appuntamento importante, che coinvolgeva tutta la popolazione. C’era anche una sana rivalità tra i due principali quartieri della città: Case Sarno, dove sorge la parrocchia di San Vincenzo, e Sabatini, dove c’è la Madonna delle Grazie. Si parlava tutto l’anno dei fuochi d’artificio, delle processioni, delle bande musicali, di chi riusciva ad organizzare la festa più bella, con reciprochi sfottò tra i paesani…
E’ mutato anche il sistema economico locale?
Eccome. Fisciano aveva una forte tradizione di artigianato legato alla lavorazione dei metalli, che ormai è scomparsa completamente. A Fisciano centro quasi tutti lavoravano il rame. C’erano due fonderie, le cosiddette “ramiere”, dove si fondeva il rame. A Penta, piccola frazione di Fisciano, c’era la tradizione del ferro battuto. A Lancusi, un’altra frazione di Fisciano, si fabbricavano le bilance e gli strumenti di precisione. Tutta l’economia locale girava intorno a questa attività, che però è stata abbandonata.
Come mai?
Sicuramente ha pesato il fenomeno migratorio degli anni Sessanta e Settanta. Molti fiscianesi sono emigrati in Germania, in Svizzera e, ancor di più, a Milano. L’altro motivo credo sia stato la pericolosità di questi mestieri, che si svolgono in un ambiente di lavoro inquinante, sempre a contatto con gli acidi. E’ quello che accaduto anche a me. Mio padre Andrea aveva una bottega artigiana di rame molto avviata e così anche mio nonno e mio zio. E’ stato lui a volere con determinazione che io studiassi e mi emancipassi da quella condizione.
La passione per la materia cromatica le deriva anche dall’esperienza della bottega di suo padre?
Le mie matrici artistiche affondano le radici nella tradizione dell’artigianato del rame, che ho anche manipolato da ragazzo, ma anche nel senso estetico del ricamo che caratterizzava il lato materno della mia famiglia. Le mie zie erano ricamatrici eccezionali. Bisogna anche dire che fin da piccolo ero consapevole di avere una grossa predisposizione per il disegno. Ricordo ancora con tenerezza il giorno in cui i miei zii americani mi regalarono una scatola di acquerelli. Avevo sei anni e mi parve di salire in cielo dalla contentezza.
Gli studi artistici sono stati quindi un percorso naturale?
Sì. Ho studiato all’Istituto d’arte a Salerno e poi mi sono diplomato all’Accademia di Belle Arti a Napoli, avendo come maestri tre grandi artisti italiani: Capogrossi, De Stefano e Scordia. Soprattutto i primi due mi hanno dato molto, aprendomi nuovi orizzonti e nuovi linguaggi.
In quegli anni a Salerno e in provincia si affacciava una giovane generazione di artisti.
Era un periodo di grandi fermenti. All’Università c’erano personaggi dello spessore di Filiberto Menna, Achille Bonito Oliva, Angelo Trimarco, Crispolti, Rino Mele. Ad Amalfi Marcello Rumma organizzava rassegne d’arte ad altissimo livello. A Salerno città, oltre allo straordinario Filiberto Menna, che non mancava mai di sostenerci e di incoraggiarci, un'altra persona molto attiva era Carmine Limatola, che poi negli anni Ottanta, sulla scia di Rumma, ha continuato il discorso delle rassegne d’arte internazionali ad Amalfi. A Napoli la galleria di Lucio Amelio era un vero e proprio centro artistico internazionale, frequentato dai più grandi pittori contemporanei, dove ad esempio ho potuto conoscere Andy Warhol. Insomma c’era un clima favorevole per noi giovani artisti, e così anche a Salerno, dopo la stagione  degli anni cinquanta che aveva visto emergere figure come  Carotenuto, la generazione sessantottina ha fatto i conti con una realtà diversa, ci siamo trovati di fronte una nuova economia dell’arte che si trovava di fronte un mercato diverso che andava oltre la dimensione della figurazione e  guardava con interesse al recupero dell’”oggetto”, alla poetica del “fare” e agli extra –media.
C’erano anche molte gallerie d’arte dove poter esporre le proprie opere.
Ricordo, accanto alla galleria Taide, che fondai nel 1974 insieme a Pietro Lista e Giuseppe Rescigno, la galleria Lapis–Arte  di Carmine Limatola  e la galleria Delta, che prestavano attenzione al contemporaneo ed allo sperimentale. Vi erano poi parallelamente altre  gallerie  che continuavano il discorso sulla figurazione, come Il Catalogo a Salerno e la galleria Il Portico a Cava de’ Tirreni, diretta da Sabato Calvanese e Tommaso Avagliano. 
Quali sono i suoi riferimenti culturali e come definirebbe il suo linguaggio artistico?
E’ evidente il mio guardare alla cultura artistica italiana e a figure emblematiche  quali Sironi, De Chirico e Carrà, coniugandole con la grande  avanguardia europea, da Cezanne al mio maestro Capogrossi, al suo segnismo declinato da una vivacità che tiene presente quanto di meglio ha prodotto la transavanguardia in questi ultimi decenni. Quanto al mio linguaggio artistico, io mi considero per certi versi un solitario, perché insisto testardamente nella ricerca intorno alla pittura,  alla materia, mentre la maggior parte degli artisti esplora altre modalità espressive. Io invece sono legato a doppio filo al pennello e alla tela, a strumenti che sono in apparenza arcaici in una società tecnologica come la nostra, ma che io adopero con la stessa curiosità e la stessa intensità dei colleghi artisti che si avvalgono del computer.
Lei ha esposto i suoi quadri e le sue opere in rassegne nazionali e in personali tenute a Monaco, Zagabria, Como, Roma, Napoli. C’è una mostra alla quale è legato di più, di cui va fiero?
Nel ’75, quando fui selezionato per la Quadriennale a Roma, fu per me un’emozione assai forte. Ricordo con piacere anche la Biennale del Sud del 1987, che mi vedeva assieme gli artisti più importanti dell’Italia meridionale. Andando a tempi più recenti, citerei la mostra di quest’anno al FRAC di Baronissi, curata con grande passione  da Massimo Bignardi ed Ada Patrizia Fiorillo, che vorrei ringraziare pubblicamente, e la mostra a Como, dove ho presentato le mie opere insieme a quelle di Castellani, uno dei più grandi artisti italiani contemporanei.
Com’è nata l’occasione della Lotteria Italia?
E’ stata una vera e propria “lotteria”, appunto. I Monopoli di Stato mi hanno selezionato tra una rosa di artisti contemporanei italiani e mi hanno convocato a Roma. Ho presentato loro alcune delle mie opere e alla fine hanno scelto “Terra di luce”.
Quali sono gli artisti salernitani che stima di più?
Carmine Limatola, per le continue riflessioni e provocazioni, e Sergio Vecchio, per la sua capacità di non farsi ammaliare dalle mode e di continuare la sua straordinaria ricerca su Paestum e sui miti. Poi ovviamente ho un grande rispetto per Mario Carotenuto.
Ha citato tre nomi che sono sulla scena da tempo. Non ci sono giovani talenti?
Sicuramente  ci sono moltissimi talenti, vedo una situazione in crescita, partendo da Scafati, con personaggi come Casciello, che è presente alla mostra sulla scultura italiana a Milano, Vollaro, Pagano, e ancora i giovani presenti alla Quadriennale di Roma, come Maiorino,  ben documentati dalla mostra  collezione del FRAC di Baronissi, e tanti altri che lavorano con un linguaggio diverso dal mio. Anche nel campo della critica, emergono giovani interessanti, come Marco Alfano, ma sicuramente ne dimentico altri. Viviamo un momento positivo per l’arte a Salerno e in provincia. Ci attendiamo  dalle istituzioni ulteriori segnali di apertura di nuovi spazi espositivi che consentono più momenti di confronto.
 
 (La Città di Salerno, 8 gennaio 2006)
 
Carta d’identità
 
Angelomichele Risi è nato a Fisciano (SA) il 10 settembre del 1950. 
Vive e lavora a Fisciano.
Sposato: sì
Figli: due (Andrea e Chiara)
Titolo di studio: Accademia delle Belle Arti di Napoli
Hobby: fotografia e collezione di apparecchi fotografici e di motociclette d’epoca (ne ha più di 30); è un grande esperto di disegno industriale e di motociclette, nel tempo libero si diverte a smontare motori, verniciare le moto e restaurarle 
Libro preferito: le biografie di De Chirico e di Carrà
Film preferito: ama tutto il cinema.
 
Fra le principali mostre personali si segnalano  quelle alla Galleria Taide di Salerno del 1977 e del 1980;  alla Galleria Pantha Arte di Como del  1982,  allo Studio  Cavalieri di  Bologna nel 1983,  mentre del 1984  sono quelle alla Galleria Giulia di Roma,  alla galleria Nova di Zagabria ed ancora a Como alla Galleria  Pantha  Arte.  Del 1986 è la personale alla Lapis Arte di Salerno,  mentre nel 1987 espone, con Bernd Zimmer , alla Galleria  Karl Pfefferle di Monaco  e nel 1991 all’Exofficina di  M.S. Severino. Nel  1999 espone alla Galleria Comunale d’Arte Contemporanea di Scafati ed al MMMAC di Paestum con Mimmo Paladino.  Partecipa  alla  X Quadriennale di Roma del 1975, Autodocumentazione, Salerno  del 1978,  Disegno gemello,Salerno  1982. Del 1985 è la presenza  alla Rassegna Internazionale di Amalfi ,Rondo’,  ed a Gallarate al XIII premio ‘Citta’ di  Gallarate,  mentre nel 1986  partecipa alla Rassegna Internazionale  ‘L’arsenale,il laboratorio, l’artista’ ad Amalfi. Del 1987 è ‘Dentro la pittura’ , Fondazione  Arechi  Arte, a Ravello;   ‘Il passo dell’acrobata, Auditorium S.Giovanni di Dio, Salerno;  ‘Pittura’ Arco di Rab, Roma Nel 1988 è invitato alla ‘Biennale del Sud’ , Accademia di Belle Arti di Napoli ;   ‘Disegno in Campania’ , Morcone.; Galleria  Fahlbusch  , Mannheim. Nel 1991, ‘Rassegna delle rassegne’ Forte la Carnale, Salerno ;  Invitato nel 1992 al XXXII Premio Suzzara;  nel 1996 realizza con  Zimmer e Vopawa un grande dipinto’Omaggio a Disler’  a Vietri sul Mare;  nel 1997 è presente alla mostra ‘Le vie della creta’,Villa Rufolo,Ravello.    Expo Arte  Bologna ,1998 Galleria Nanni ;  Galleria  ‘La canonica’, Milano;    ‘Piatto d’Artista’ , Parma. 1999  Suzzara, Galleria  Civica d’Arte Contemporanea   Premio  Suzzara ‘Opere 1989-1999’. Nel 2000, con Castellani, Marrocco e Minoli è presente a ‘Contemporanea Como5’,San Pietro in Atrio- Ex Ticosa, Como: ‘Arte come comunicazione di vita’ Rotary  Club  Milano Scala. Milano. Nel 2001 ‘Insorgenze nel classico –Sguardi in cammino da Oplonti’ Villa  Campolieto, Ercolano: ‘Corni d’autore’ Agora’ , Napoli: ‘Una luce per il Sarno’ Salone dei Marmi, Sarno:  ‘Akkampamento provvisorio’  Ex Idaf , Fisciano.  2005 ‘Sguardi diversi’ , Stella Cilento.:  ‘Tracce del disegno contemporaneo’ ,Fes Show Room, Minori.

 

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