Intervista ad Antonio Calenda, regista teatrale
- Scritto da Mario Avagliano
- Pubblicato in Interviste
- 0 commenti
di Mario Avagliano
Il suo ultimo lavoro si intitola “’Na sceneggiata”, ha debuttato il 6 febbraio al Trianon di Napoli, ed evoca i fantasmi “di un mondo che ha caratterizzato circa un trentennio di teatro napoletano, dagli anni Quindici alla fine della guerra”. Antonio Calenda, classe 1939, originario di Buonabitacolo (Salerno), è uno dei maggiori registi italiani contemporanei e ha diretto diverse opere che hanno segnato la storia del teatro italiano dagli anni Sessanta ad oggi. In quarant’anni di carriera, si è cimentato nel teatro classico (da Shakespeare ad Eschilo) e in quello sperimentale (Brecht, Beckett), non disdegnando grandi allestimenti di opere liriche, e lavorando con i più importanti attori italiani, da Gigi Proietti a Giorgio Albertazzi, passando per Piera Degli Esposti, Carlo Giuffrè, Pupella Maggio, Franca Valeri, Elsa Merlini, Michele Placido, Glauco Mauri e Mario Scaccia. Direttore del Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia, Calenda vive tra Trieste e Roma ma dice di essere legato “indissolubilmente a Salerno e al Cilento”.
I suoi genitori erano cilentani?
Erano entrambi della Valle del Diano. Mio padre Giuseppe era di Arena Bianca, vicino Padula, ed era un ufficiale di artiglieria. Mia madre Grazia Mautone, casalinga, era di Buonabitacolo. Io sono nato nella casa dei nonni materni, in un bel palazzo ottocentesco di Buonabitacolo.
Poi suo padre venne trasferito a Roma.
E io e mia madre l’abbiamo seguito. Sono cresciuto nella capitale, ho frequentato tutte le scuole a Roma.
Come nacque la sua passione per il teatro?
Per caso. Avevo 12 anni ed era una di quelle noiose giornate domenicali degli anni Cinquanta. Al Teatro dell’Opera di Roma davano Otello. Io e un mio amico fummo attirati dal titolo sul cartello e così acquistammo il biglietto per il loggione. La star dello spettacolo era Del Monaco. Quella messinscena semplice ma potente, fatta solo di qualche telo nero, mi affascinò. Rimasi fulminato dal melodramma e sognavo di diventare baritono. Mi misi a studiare canto, frequentavo regolarmente l’opera, entravo nei camerini dei cantanti.
Dalla lirica passò al teatro.
A 18 anni, quando compresi che la lirica non faceva per me, provai a recitare. Volevo iscrivermi all’Accademia, però mio padre si oppose e volle che frequentassi l’università. All’inizio per me fu una frustrazione, ma appena presi la laurea in Giurisprudenza (con una tesi su “La giustizia nell’Orestea di Eschilo”), vinsi un concorso all’Ises, l’Istituto per lo sviluppo dell’edilizia sociale. Con i soldi dei primi stipendi, affittai una cantina. Lì, insieme a Virginio Gazzolo, Gigi Proietti, Leo De Berardinis e Piera Degli Esposti, nel 1965 fondai il Teatro Centouno che, in quella temperie culturale di forte rinnovamento, divenne subito uno dei luoghi più importanti del teatro sperimentale italiano.
Il cosiddetto teatro d’avanguardia.
Sì, anche se allora fare l’avanguardia era un’impresa solipsistica, perché quel tipo di teatro non accedeva ai fondi pubblici. Per mantenerci, facevamo tutti un doppio lavoro. Io ero avvocato all’Ises, Gigi Proietti si cimentava nel doppiaggio e cantava nei night con un complesso, Gazzolo costruiva le scene con le sue mani, Piera poi, quando l’abbiamo conosciuta, era addirittura una sarta… Io e Gigi abitavamo insieme, in una stanza al convento dei preti ortodossi, e ci svegliavamo ogni mattina al canto dei cori russi. Era dura, però la nostra voglia di innovare, di creare qualcosa di autenticamente originale, ci faceva superare ogni sacrificio.
Il suo debutto alla regia avvenne nel 1965, con un lavoro di Giorgio Manganelli, “Iperipotesi”. Il suo primo successo è datato qualche mese dopo, quando mise in scena “Direzione Memorie”, di Corrado Augias, con Gigi Proietti e Virginio Gazzolo.
Corrado allora era vice del quotidiano l’Avanti ed era uno degli intellettuali che frequentavano assiduamente il nostro teatro, che era diventato il punto di ritrovo di personaggi come Chiaromonte, Flaiano, Guttuso, De Chirico, Anna Magnani, Dacia Maraini. Quello spettacolo era un omaggio a Beckett e fu molto lodato dalla critica. Ricordo che De Feo scrisse sull’Espresso che “con altri due o tre spettacoli di questo tipo, non ci sarebbe crisi del teatro in Italia”.
Furono anni di intensa attività per lei.
Mi alzavo ogni mattina alle 6 e non andavo a dormire prima delle 2 di notte. Dopo tre anni di questa vita, mi venne un collasso!
Comunque l’establishment del teatro italiano cominciò ad interessarsi di voi.
Dopo l’articolo di De Feo, Paolo Grassi ci invitò a portare il nostro spettacolo al Piccolo Teatro di Milano. Ci sembrò un miracolo. Ottenemmo un grande successo. Entrammo così nel giro del teatro ufficiale, anche se – come purtroppo accade in questi casi - gli altri nostri colleghi dell’avanguardia ci considerarono alla stregua di transfughi, di traditori.
Il 1969 fu l’anno della consacrazione per lei e per Gigi Proietti.
Il primo exploit fu dirigere, ad appena 25 anni, al Teatro Stabile di Roma, l’opera di Bertolt Brecht “Nella giungla della città”. Per me fu un vero onore essere nello stesso cartellone di due mostri sacri del teatro italiano come Edoardo De Filippo e Patroni Griffi. Intanto ero stato chiamato al Teatro Stabile dell’Aquila. Lì curai la regia de “Il Dio Kurt”, di Alberto Moravia, con Gigi Proietti e Alida Valli. Fu un trionfo, per me come regista e per Proietti come attore.
Iniziò allora il sodalizio con Moravia?
Moravia ci seguiva dappertutto. Erano gli anni della contestazione e andavamo in giro per l’Italia con i nostri spettacoli di teatro sperimentale. Era un periodo di grande fertilità, non come oggi che la cultura italiana è spenta. Allora poi gli intellettuali erano più attenti e curiosi nei confronti del teatro.
Nel 1971 Antonio Calenda dirige il suo primo film.
Si chiamava “Il giorno del furore”, era tratto da un romanzo incompiuto dello scrittore russo Lermontov, e venne interpretato da Oliver Reed e Claudia Cardinale. Lo scrissi a quattro mani con un importante drammaturgo inglese, Edward Bond, che era anche l’autore di Blow Up di Antonioni. Il produttore inglese era la Saltzmann, quella di 007. Era la storia di una vendetta familiare, che si svolgeva nel quadro dei moti protorivoluzionari di Mosca. Un film di passioni forti, che ebbe un notevole successo di pubblico.
Perché non continuò con il cinema?
Perché tutti i produttori mi chiedevano di rifare il primo film, ed io invece volevo fare qualcosa di diverso. Per esempio, avrei voluto realizzare una pellicola da “Il Dio Kurt” di Moravia. Così, non potendo realizzare i miei progetti, venni risucchiato dal teatro.
Lei è stato per nove anni direttore del Teatro Stabile dell’Aquila. La regia di cui va più fiero?
Sicuramente “Rappresentazione della Passione”, un lavoro di cui sono anche autore, su testi del ‘500 abruzzese. E’ una sorta di apologo sulla guerra civile italiana e sul nazismo, incentrato su un Cristo operaio e sulla Madonna che parlano la lingua pietrosa e concreta degli abruzzesi. Una lingua che diventa una presenza quasi fisica, un corpo teatrale. Anche l’allestimento è suggestivo: la scena è costituita da una passerella quadrangolare che recinge il pubblico. E’ uno spettacolo che ha attraversato tutta la mia vita: è stato rappresentato dappertutto, dall’Australia al Canada, e ha avuto oltre 500 repliche. Tra l’altro il ruolo della Madonna è stato interpretato dalle tre attrici che ho amato di più nel corso della mia carriera: Elsa Merlini, Pupella Maggio e Piera Degli Esposti.
Perché sono le attrici che ha amato di più?
Elsa Merlini era una vocalista straordinaria, una piccola donna dalle incredibili capacità teatrali. Pupella Maggio era una maestra dello stare in scena, della gestualità sottintesa. Come poi non essere affascinati dall’astrazione folle, allucinata ma attrattiva di Piera Degli Esposti?
E tra gli uomini?
A parte Gigi Proietti, ricordo con affetto soprattutto l’esperienza con Giorgio Albertazzi, con il quale ho portato in scena “Enrico IV” e una rivisitazione folle del “Giulio Cesare”, e quella con Vittorio Gasmann, che negli ultimi anni della sua carriera scelse di lavorare con il Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia.
Nel 1982 Antonio Calenda fonda la Compagnia Teatro dell’Arte.
Di quel periodo egualmente fertile, ricordo in particolare la messa in scena di ‘Na sera e maggio, con Pupella, Beniamino e Rosalia Maggio, che fece il giro il mondo ed è stato oggetto anche di un film della Rai che ancora oggi si studia nelle università. Furono un grande successo anche Aspettando Godot, in cui chiamai a recitare i deliziosi vecchietti del varietà italiano, da Mario Scaccia a Pietro De Vico ed Aldo Tarantino, accanto all’allora quasi sconosciuto Sergio Castellitto; e poi Cinecittà, un apologo sul teatro di varietà e sul cinema. Danza di morte, invece, lo spettacolo con il quale ho vinto il premio della critica italiana e che valse il massimo riconoscimento come attori ad Anna Proclemer e a Gabriele Ferzetti, in sala fu un mezzo fiasco. Chi sa, forse la parola “morte” costituì un deterrente per il pubblico.
E’ in teatro che lei conosce sua moglie Daniela Giovanetti.
Sì, fu in occasione della rappresentazione della commedia musicale “Le ragazze di Lisistrata”, una sorta di L’attimo fuggente al femminile, scritto però con vent’anni di anticipo. Daniela, oltre ad essere mia moglie, è un’attrice bravissima.
Dove vive adesso Antonio Calenda?
Bella domanda. Ho una casa a Roma e una casa a Trieste, dove dirigo il Teatro Stabile, che è una realtà vivacissima e aperta alla cultura mitteleuropea. Spesso poi vado a trovare mio figlio a Riccione, dove vive con la nonna materna. E’ una situazione paradossale, ma speriamo in tempi brevi di riunirci tutti a Roma.
Torna mai a Buonabitacolo?
Qualche volta. Dopo la morte di mia nonna, purtroppo sempre meno. Mia nonna era una donna straordinaria. Il fratello era un grande giurista, Francesco Brandileone. Nel primo Novecento insegnò in Germania e fu uno dei fondatori della materia del diritto italiano. Però io amo moltissimo la mia terra, il Cilento. Per diversi anni sono andato al mare a Scario, nel golfo di Policastro, tra Maratea e Camerota.
Una terra, il Cilento, ancora poco sfruttata dal punto di vista turistico.
Negli ultimi anni stiamo recuperando terreno. Per esempio, il modo in cui è stata restaurata la Certosa di Padula, mi riempie di orgoglio sudista. Ho letto con piacere che il mio amico Achille Bonito Oliva la sta rivitalizzando anche come spazio policulturale.
E’ amico di Bonito Oliva?
Eravamo tutti e due docenti dell’Accademia di Belle Arti dell’Aquila, insieme a Carmelo Bene, ad Arbasino, a Bussotti, a Ceroli. Forse il fatto di avere origini comuni, ci ha fatto diventare amici.
Insomma, le radici salernitane contano.
Eccome. Ricordo che a casa mia si parlava in italiano, ma l’accento dei miei era inconfondibilmente cilentano, e accarezzava le mie orecchie con la sua musicalità. La cultura campana è stata fondamentale nella mia educazione. Mio padre mi portava a vedere Peppino De Filippo e Totò al varietà, e più tardi anche io ho incontrato il teatro classico napoletano, curando la regia di commedie di Eduardo De Filippo e di Eduardo Scarpetta.
E con Salerno, ha rapporti di qualche tipo?
Spesso i miei spettacoli vengono rappresentati al Teatro Verdi, ma confesso che mi piacerebbe avere contatti più profondi con Salerno e con le sue istituzioni culturali. Da quando il professore Achille Mango, che è stato un grande studioso di teatro, è scomparso, non ho avuto più occasione di rapporti professionali né con l’Università né con gli enti locali. Eppure negli ultimi anni Salerno è stata protagonista di un grande rinnovamento sul piano urbanistico e culturale, è una città ricca di fermenti che ha subito una vera e propria palingenesi. Mi piacerebbe lavorare a qualche progetto che la coinvolga.
Intanto è tornato ad occuparsi di teatro napoletano, con ‘Na sceneggiata, che ha debuttato venerdì al Trianon di Napoli.
Raccontiamo l’itinerario artistico e umano della più famosa compagnia di sceneggiata napoletana, la Cafiero-Fumo, che nacque dalla fusione delle compagnie di questi due grandi attori, che inventarono il genere della sceneggiata. Un genere che ebbe uno strepitoso successo in quel tempo, perché era alla portata del sottoproletariato, e univa la musica e il canto allo strazio delle passioni forti, come il tradimento e il disonore. Il Virgilio che accompagna gli spettatori alla scoperta di questo mondo che non c’è più è Nuccia Fumo, la figlia di Eugenio, il grande capostipite della compagnia, un’attrice di rara poesia. Il cast è completato da due attori di razza, Umberto Bellissimo e Nando Neri, e da due bravissimi cantanti, Maria Nazionale e Antonio Buonomo. E in scena si respira l’aria dei vicoli di Napoli.
(La Città di Salerno, 8 febbraio 2004)
Scheda biografica
Antonio Calenda nasce a Buonabitacolo (Salerno) il 25 marzo del 1939. Dopo essersi laureato in Giurisprudenza, inizia la propria attività teatrale nell'ambito del Teatro Universitario di Roma. Regista ed autore, nel 1965 fonda il Teatro Sperimentale Centouno, con Gigi Proietti, Virginio Gazzolo, Francesca Benedetti e Piera degli Esposti, gruppo che si proporrà come punto di riferimento per la sperimentazione teatrale. Successivamente lavora per il Teatro di Roma e dirige in due riprese, e per un periodo di nove anni, il Teatro Stabile dell'Aquila le cui produzioni sono rappresentate anche all'estero, in paesi quali Australia, Francia e Canada. Fonda quindi la Compagnia Teatro d'Arte per la quale, dal 1982, ha diretto spettacoli ospitati sovente da festival internazionali, e ha organizzato numerose manifestazioni culturali in Italia.
Nel corso della sua lunga carriera, Calenda ha curato la regia di un centinaio di opere teatrali, tra cui diverse messinscene di Shakespeare (Coriolano con Luigi Proietti, Come vi piace, Riccardo III con Glauco Mauri, Sogno di una notte di mezza estate con Mario Scaccia ed Eros Pagni, Otello con Michele Placido), Eschilo (Prometeo, Agamennone, Coefore, I Persiani, Eumenidi), Brecht (Nella giungla della città, La madre con Pupella Maggio, Madre Coraggio con Piera degli Esposti), Beckett (Aspettando Godot con Pupella Maggio, Giorni felici con Anna Proclemer), contemporanei come Franco Brusati (Le rose del lago) e Achille Campanile (L'inventore del cavallo, Centocinquanta la gallina canta, Alta distensione, Un'indimenticabile serata, Gli asparagi e l'immortalità dell'anima), e il teatro classico napoletano (La musica dei ciechi di Viviani; Il sindaco del rione Sanità di Eduardo de Filippo con Turi Ferro; Il medico dei pazzi di Eduardo Scarpetta con Carlo Giuffrè). Tra le altre messinscene: Enrico IV di Pirandello, Svenimenti di Cechov, Uno sguardo dal ponte di Miller, Tradimenti di Pinter, l'Edipo a Colono di Sofocle. Si è cimentato anche nella regia lirica, allestendo opere di Verdi, Mozart, Massenet, Spontini, Rossini, Honegger.
E’ anche autore di diverse opere, tra le quali vanno ricordate: Rappresentazione della Passione, con Elsa Merlini; ’Na sera e maggio con Pupella, Beniamino e Rosalia Maggio; Cinecittà; Giulio Cesare di Shakespeare per Giorgio Albertazzi.
Dal 1995 è direttore del Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia, e continua a svolgere attività di promozione di autori italiani contemporanei (tra questi, opere di Valduga, Manfridi, Archibugi, Maraini, Ruccello, Paolini, Tarantini, Bassetti, Magris e Cavosi, di cui ha messo in scena Rosanero e Il maresciallo Butterfly).
Ha realizzato numerose regie radiofoniche e televisive. Tra queste, La vedova Fioravanti di M. Moretti, L'agente segreto di J. Conrad, La signora Ava di F. Iovine. Nel 1971 ha diretto il film Il giorno del furore, scritto con Edward Bond e interpretato da Claudia Cardinale, Oliver Reed e John Mc Enery.