L’Italia dei 335 martiri: le biografie di chi fu ucciso alle Fosse Ardeatine

di Aldo Cazzullo

«Che cosa sarà di noi? Questa è la tragica domanda che mi rivolgo». Così scrive dal carcere nazista di via Tasso in un biglietto clandestino alla moglie Giovanni Frignani, uno dei carabinieri che il 25 luglio 1943 avevano arrestato Mussolini. Dopo l’armistizio Frignani era entrato nella Resistenza, ma all’inizio del 1944 cadde nelle mani della Gestapo, fu più volte torturato e qualche giorno prima del suo quarantasettesimo compleanno, il 24 marzo 1944, ucciso alle Fosse Ardeatine.

In quella cava di pozzolana alle porte di Roma, all’inizio della fosca primavera del 1944, vengono uccise 335 persone. Una sequenza di colpi di pistola sparati alla testa, che fanno cadere le vittime sul cumulo dei cadaveri di coloro che le hanno precedute, nel buio umido e profondo di un anfratto di cui verrà fatto esplodere l’ingresso. È la più grande strage compiuta dai nazisti in un’area metropolitana, di cui tra qualche giorno ricorre l’ottantesimo anniversario. Ma nonostante la portata storica di quel tragico fatto, la vicenda personale di gran parte delle vittime si è persa nel tempo. Tre dei 335 martiri sono addirittura ancora ignoti. Molti altri sono poco più di un nome.

A riparare a questo vuoto ora è un libro bellissimo degli storici Mario Avagliano e Marco Palmieri, Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine, in uscita domani da Einaudi, con un sottotitolo significativo:Le storie delle vittime dell’eccidio simbolo della Resistenza . Un libro che si presenta come una sorta di Spoon River italiana che ricostruisce la biografia di tutte le vittime. Un risarcimento morale per questi italiani finora in larga parte sconosciuti (a parte qualche eccezione, come l’eroico colonnello Giuseppe Montezemolo, capo della Resistenza militare, la cui biografia era stata raccontata dallo stesso Avagliano). Gli autori hanno lavorato su lettere, diari, interviste ai parenti, documenti di archivio presso l’ufficio storico della polizia, il Casellario politico centrale, il Museo storico della Liberazione, l’Anfim, l’associazione dei familiari, gli incartamenti del processo Kappler e dei processi ai fascisti nel dopoguerra.

Dalle storie individuali emerge un microcosmo altamente rappresentativo della storia del tempo, dando uno spaccato dell’identità italiana dal punto di vista geografico (i martiri sono di 18 regioni, 6 nati all’estero e 9 stranieri), sociale (tutti i ceti, i livelli di istruzione e le condizioni economiche, lavorative e professionali), generazionale (dai 32 giovanissimi tra i 15 e i 21 anni fino ai 15 ultrasessantenni), religioso (cattolici, ebrei, evangelici e atei), militare (una quarantina di ufficiali di tutte le armi, veterani della Grande guerra e giovani volontari delle campagne più recenti). Ma soprattutto politico: le vittime sono rappresentative di tutte le anime che partecipano alla Resistenza. Si va dagli oppositori di vecchia data rimasti fedeli alle proprie idee durante il ventennio, come il professore azionista Pilo Albertelli, originario di Parma, il ferroviere socialista Armando Bussi o il comunista sardo Sisinnio Mocci, reduce delle Brigate Garibaldi in Spagna, a coloro che maturano la scelta solo dopo l’armistizio. L’avvocato Alberto Fantacone in una lettera alla moglie scrive: «Cerca di confortarti perché del resto sono dentro non per aver commesso qualche grave reato ma per aver aderito a qualche cosa che rappresenta un ideale a cui dovrebbero aderire tutti gl’italiani, degni di questo nome».

Una quota significativa delle vittime è costituita da militari che rifiutano di aderire alla Rsi, spesso in nome alla fedeltà alla monarchia, e scampano al destino da Internati militari. Il Fronte militare clandestino di Montezemolo conta almeno 42 vittime alle Fosse Ardeatine e ha un ruolo fondamentale nella Resistenza a Roma. E numerosi sono anche i membri delle forze dell’ordine, in particolare carabinieri e poliziotti, come il tenente colonnello dei carabinieri Manfredi Talamo, che durante la guerra aveva trafugato il Black Code, il codice segreto di trasmissione degli Alleati, e il poliziotto Maurizio Giglio, figlio di un funzionario dell’Ovra, che mette su un’efficientissima organizzazione di intelligence, Radio Vittoria, collaborando con i socialisti Giuliano Vassalli e Sandro Pertini. Numerosi sono anche i giovanissimi nati e cresciuti nella temperie culturale del regime alla quale si ribellano, come lo studente cattolico comunista Romualdo Chiesa e diversi giovani operai dei quartieri popolari di Roma, da Centocelle a Pigneto e Tor Pignattara. Di contro, ci sono anche fascisti che in precedenza avevano avuto ruoli importanti, tra cui un podestà arrestato per aver aiutato e nascosto soldati alleati e l’ex sottosegretario di Mussolini, Aldo Finzi, che aveva fondato una banda partigiana a Palestrina.

Lo spirito che li anima è sintetizzato da quanto si legge in un biglietto a matita ritrovato in tasca a una delle vittime, scelto da Avagliano e Palmieri come dedica del libro: «Sono Italiano e mi vanto di appartenere alla Nazione più bella del mondo, a questa bella Italia così martoriata! Se non dobbiamo più rivederci ricordate che avete avuto un figlio che ha dato sorridendo la sua vita per la Patria guardando in viso i carnefici!».

La particolarità della strage delle Fosse Ardeatine è che essa parla non solo della Resistenza ma anche della storia degli ebrei, prima perseguitati nell’Italia delle leggi razziali e poi braccati per essere portati a morire nei campi di sterminio (75 vittime, di cu 66 iscritti alla comunità ebraica di Roma e altri iscritti ad altre comunità o stranieri). Tra le varie storie, spicca quella della famiglia Di Consiglio. Il 21 marzo 1944, tre giorni prima dell’eccidio, le SS arrestano su delazione di un italiano quattordici componenti della famiglia Di Consiglio e quattro componenti della famiglia Di Castro. Sei maschi della famiglia Di Consiglio, tutti nati a Roma, più Angelo Di Castro, con loro imparentato, vengono uccisi alle Fosse Ardeatine, le donne e i bambini vengono deportati, via Fossoli, ad Auschwitz e nessuno di loro tornerà a casa.

Un punto d’osservazione sacrosanto, quello proposto da Avagliano e Palmieri, che ha anche il merito di riportare in piena luce le responsabilità della strage, che certamente sono dei nazisti, nel quadro del loro articolato e sanguinario sistema d’occupazione che in Italia costa la vita a più di 23 mila persone, tra cui molte donne e bambini, vittime inermi di atti violenti, stragi ed eccidi, ma coinvolgono direttamente anche i fascisti della Rsi. La Questura di Roma, come è noto, partecipa attivamente alla selezione delle vittime, contribuendo a raggiungere il numero stabilito ma, come evidenziano gli autori, la metà delle vittime è arrestata da italiani, autonomamente o in collaborazione con i tedeschi come basisti, infiltrati, spie o esecutori materiali del fermo, anche grazie a una estesa rete di delatori prezzolati, pronti a vendere ebrei e patrioti (rispettivamente 101 arrestati in autonomia e 69 insieme ai tedeschi). E le biografie ci raccontano anche il clima di terrore delle prigioni naziste e fasciste, le torture e le violenze subite dalle vittime, alle quali pure c’era chi reagiva con grande coraggio e ironia, come il generale Sabato Martelli Castaldi, di Cava de’ Tirreni, rinchiuso a via Tasso, che in un messaggio clandestino alla moglie rivela: «Penso la sera in cui mi dettero 24 nerbate sotto la pianta dei piedi, nonché varie scudisciate in parti molli, e cazzotti di vario genere. Io non ho dato loro la soddisfazione di un lamento, solo alla 24ª nerbata risposi con un pernacchione che fece restare i manigoldi come tre autentici fessi».

(Corriere della Sera, 18 marzo 2024)

 

Gli irriducibili al fascismo

di Mario Avagliano

 

Negli anni Venti e Trenta il fascismo conquistò il consenso di centinaia di migliaia di giovani con le sue idee di rivoluzione permanente. Benito Mussolini, come scriverà nel primo dopoguerra Elio Vittorini, ex camicia nera poi diventato intellettuale organico al Pci, incarnò agli occhi dei ragazzi dell’epoca, che studiavano o si affacciavano al mondo del lavoro, le aspettative di rivoluzione sociale, di uguaglianza e di contrasto alla povertà contro le élite conservatrici e reazionarie italiane e mondiali.

Ma fu per tutti così? No, vi furono alcuni giovani, utopisti e coraggiosi, che non si fecero irretire dal duce e manifestarono, sin dal primo momento, un’«irriducibile avversione» per il maestro di Predappio dalla mascella volitiva (come scrisse Enzo Sereni, nato nel 1905 e morto a Dachau nel 1944). La loro storia di opposizione ferma è raccontata, con brillante ritmo narrativo, nel libro «Gli irriducibili. I giovani ribelli che sfidarono Mussolini» di Mirella Serri, appena uscito per i tipi di Longanesi.

Tra speranze, persecuzioni, tradimenti e relazioni sentimentali, la Serri ripercorre il percorso di un manipolo di ragazzi e ragazze che non volle rassegnarsi al fascismo trionfante in Italia e che per questo scontò anni di prigionia, di confino e di esilio in Francia, in Palestina e in Tunisia. Erano studenti, intellettuali, pensatori e filosofi alle prime armi e accomunati da una medesima provenienza sociale e culturale. Appartenenti a famiglie borghesi e colte, una parte di loro aveva aderito al Partito comunista d’Italia, altri militavano in Giustizia e Libertà, altri ancora erano socialisti riformisti o repubblicani. In comune avevano una fondamentale convinzione: la sconfitta dei fascisti e poi dei nazisti poteva venire solo da un ampio fronte unitario.

In questa truppa di «soldati senza uniforme» si ritrovarono personaggi poi passati alla storia e protagonisti dimenticati, come Giorgio Amendola, Enzo ed Emilio Sereni, Xeniuska Silberberg, Loris Gallico, Velio Spano, Ferruccio Bensasson, Maurizio Valenzi (poi sindaco di Napoli) e Litza Cittanova. Molte furono le presenze femminili tra questi oppositori della prima ora. Fra loro Nadia Gallico, moglie di Spano, che agì in Tunisia e divenne poi una delle ventuno elette all’Assemblea Costituente, e Ada Ascarelli, la quale a vent’anni convolò a nozze con Enzo Sereni. Ostile al regime fin dalla marcia su Roma, fu una delle prime italiane emigrate in Palestina per sottrarsi alla nefasta politica di Mussolini.

Oltre che Roma, dove soprattutto nei licei diversi ragazzi provarono ad organizzare un’opposizione alla nascente dittatura fascista, un altro centro dove gli irriducibili trovarono seguito fu Napoli, in quel frangente storico città cosmopolita e universitaria, con una vita culturale vivace, piena di studenti ebrei dell’Est Europa socialisti e comunisti e dove viveva Benedetto Croce, punto di riferimento dell’antifascismo di matrice liberal-democratica.

A Napoli, esattamente al Vomero, in quegli anni, dopo l’assassinio del padre, si era trasferito anche Giorgio Amendola, ospite dello zio Mario Salvatore detto zio Totore, e qui aveva ritrovato i fratelli Enrico ed Emilio Sereni. Giorgione (chiamato così dai più intimi per la notevole corporatura), iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, assieme ad Enrico, leader degli studenti e dei docenti napoletani antifascisti, tentò di ridestare dal torpore i colleghi universitari, organizzando riunioni clandestine e dando vita alla rivista «Antifascismo».

Emilio Sereni, detto Mimmo, iscritto all’università di agraria a Portici, invece passò dall’entusiasmo per il sionismo e dal sogno della Palestina all’adesione clandestina alla federazione del partito comunista napoletano, di cui diventò il leader. Dopo il suo arresto da parte della polizia fascista, verrà sostituito proprio dall’amico Giorgio Amendola.

Negli anni successivi, molti di questi ragazzi e ragazze, dopo esperienze di carcere e di confino, si ritroveranno in esilio all’estero, a Parigi o in Tunisia, dove subiranno nuove persecuzioni. Anche da fuoriusciti, con le loro limitate forze, anni prima dell’inizio della Resistenza, si organizzarono e cercarono di colpire una dittatura apparentemente invincibile. Avviarono sabotaggi, attentati e iniziative di propaganda con l’obiettivo di dare un segnale forte: nonostante il massiccio consenso tributato al duce nella Penisola, vi erano anche italiani che avevano scelto di schierarsi sul fronte dell’antifascismo.

Divennero così il volto internazionale della prima opposizione al fascismo. Ma, come scrive Mirella Serri, quando rientreranno in Italia, il racconto della loro avventurosa vita sarà cancellato e il loro durissimo antifascismo di espatriati sarà omologato a quello dei coetanei fascisti che facevano la fronda.

(Blog Mario Avagliano, 2019)

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Fascismo, non è stato un gioco

di Diego Gabutti

Banalizzare (come si dice) il fascismo è stato sempre uno sport molto praticato in Italia. Mussolini «buonuomo», gli antifascisti «in villeggiatura» alle isole, i gerarchi in pantofole, la dittatura mite e generosa, la bonifica delle paludi, la Treccani, giusto un po' d'antisemitismo (ma indulgente, mica come a Berlino). Non si capiva, in fondo, perché gli oppositori del regime andassero esuli all'estero. Potevano restarsene tranquillamente anche qui, pacifici, indisturbati, persino un po' riveriti.

Coccolati da Primato, cari ai frondisti come Leo Longanesi e Indro Montanelli, e in fondo simpatici anche allo stesso Dux, gli antifascisti avrebbero potuto essere l'ala democratica (diciamo così) del regime se soltanto fossero stati meno cocciuti. Un po' come oggi, sotto la stella cometa del governo meloniano, quando il neofascismo («onore al Msi», commemora la seconda carica dello Stato) è stato trasformato dal voto popolare (il 26% del 55% dell'elettorato) nell'ala littoria della democrazia.

Per lo più il fascismo è caramellato e farcito d'uvetta da storici e memorialisti, che ridacchiano, beffeggianti ma ammirati, del Duce a cavallo che brandisce la Spada dell'Islam, del Duce aviatore e sciatore, del Duce che si molleggia con i pugni sui fianchi nella gabbia Non è bello né sano che oggi, dopo ottant'anni di racconto storico assolutorio e banalizzante, ci tocchi anche un governo banalizzatore che con il fascismo storico c'entrerà magari poco, anzi niente, ma che del neofascismo non è solo una parodia ma l'erede diretto, come Articolo 1 e Sinistra italiana del comunismo del leone, del Duce armato di falce e a torso nudo che partecipa alla battaglia del grano, del Duce giocatore di bocce.

Raccontato così, deriso e rimpianto insieme nei memoir dei giornalisti e dei diplomatici più compromessi, filtrato attraverso le mattane dei legionari fiumani, tutto tele futuriste e telefoni bianchi, il fascismo diventa uno scherzo e gli oppositori degli zucconi che non capiscono la barzelletta. Ci sono libri scanzonati sui rapporti al Duce dell'Ovra, la polizia politica. Si possono leggere libri leggeri e goliardici sulle imprese erotiche di Mascellone nella Sala del Mappamondo. Gli si accreditano opinioni antinaziste ((pando c'era tutt'al più dell'invidia per la bella presenza delle SS, alte e marziali, dalla divisa impeccabile, mentre a lui toccavano militi «brevilinei», sgualciti e pelandroni). Passa per libertario, addirittura per «auto-mormoratore», se non per antifascista occulto: l'idea generale è che il fascismo non sia colpa sua ma degl'italiani, «ingovernabili», «indisciplinati», eterni bambini. Straparlano così, da ottant'anni in qua, intere biblioteche.

Rare se non rarissime le eccezioni: tra i titoli recenti Il caso Mussolini (Neri Pozza 2022) di Maurizio Serra, la biografia di Giovanni Gentile (Il filosofo in camicia nera, Mondadori 2021) di Mimmo Franzinelli, il Mussolini capobanda (Mondadori, 2022) di Aldo Cazzullo e questo Il dissenso al fascismo di Mario Avagliano e Marco Palmieri, storici accurati delle zone in ombra dell'Italia nella prima metà del secolo. Mentre non c'è storia del fascismo, dei suoi Guf, delle sue disfatte militari, dei suoi slogan ridicoli, dei suoi ras, del suo Minculpop, delle sue Opere Balilla, dei suoi gerarchi, dei suoi architetti e trasvolatori, delle sue donne fertili, dei suoi squadristi in orbace o in doppiopetto che non abbia al centro qualche grand'uomo a pancia in dentro e petto in fuori, Avagliano e Palmieri in tutti i loro libri si sono invece sempre occupati di cose che contano e di persone vere.

Negli anni, hanno raccontato la storia delle leggi razziali e dell'antisemitismo fascista, dello sbarco alleato, dei soldati al fronte, della resistenza disarmata dei militari italiani internati nei lager tedeschi per non essersi arruolati nei ranghi di Salò, dei primi anni del secondo dopoguerra, della resistenza allo stalinismo nel 1948. Qui, con Il dissenso al fascismo, si occupano dei dissidenti — gli antifascisti che, tra la proclamazione della dittatura nel 1925 e la caduta del fascismo nel 1943, cercarono d'opporsi al regime e ne furono perseguitati. A fermarli non fu il «consenso» di cui godeva il fascismo, come raccontano gli storici compiacenti, ma il terrore scatenato dal regime contro l'opposizione in qualsiasi forma, dal partito liberale a quello socialcomunista, dai Testimoni di Geova ai boy-scout.

Tutt'altro che caramellosa, niente canditi, zero uvetta, la storia della repressione negli anni del fascismo è la storia d'un regime criminale, assassino, feroce. Non è vero che Hitler e Stalin fossero peggio di Mussolini soltanto perché fecero peggio di lui. Mussolini ha fatto quel che ha potuto coni mezzi e il materiale umano che aveva. Se solo ne avesse avuto i mezzi, il vantaggio e l'occasione, non avrebbe certo indietreggiato di fronte al genocidio, come infatti dimostrarono le leggi razziali del 1938 che gettarono in pasto ai cannibali migliaia d'ebrei. Qualunque cosa se ne legga nei libri così spiritosi di Leo Longanesi, nelle Storie d'Italia di Montanelli o nelle biografie di Filippo Tommaso Marinetti, di Giuseppe Bottai e di Berto Ricci, un antisemita rabbioso che Montanelli definiva «un anarchico» e «un idealista», il fascismo non fu affatto uno scherzo né un intermezzo piacevole: eravamo ragazzi, c'era l'avventura dell'impero, giovinezza, giovinezza.

A decine di migliaia d'italiani (molti dei quali lasciarono clandestinamente il paese poiché anche l'espatrio era diventato un reato, com'era reato raccontare barzellette sull'Uomo della Provvidenza o criticare per una qualsiasi ragione il regime) non era sembrato divertente farsi purgare e randellare dalla feccia della società nazionale. Decine di migliaia d'italiani finirono in galera, al confino, in manicomio, stipati nelle isole che la stampa internazionale descriveva realisticamente come «Siberia e Cayenna italiane». Ci furono centinaia di suicidi, la maggioranza dei quali soltanto tra virgolette: malnutriti, torturati con le tecniche più efferate, talvolta persino violentati (come raccontano Avagliano e Palmieri) dalle stesse guardie carcerarie, gl'internati antifascisti morivano come mosche, assassinati senza che i loro aguzzini fossero chiamati a risponderne.

Avagliano e Palmieri scavano in una vasta costellazione di piccole storie che finiscono male, malissimo, bene, mai benissimo. Storie d'avvocati, d'operai, di calzolai, d'ingegneri espulsi dall'ordine, di studenti e insegnanti, di sacerdoti, di donne e uomini che il fascismo ha imprigionato, torturato, oltraggiato, ucciso. «No, non è terrore, è appena rigore», spiegò Mussolini alla Camera il 26 maggio 1927. «Terrorismo? Nemmeno; è igiene sociale, profilassi nazionale, si levano dalla circolazione questi individui come un medico toglie dalla circolazione un infetto» Erano discorsi da teppista, i soli che gli si addicessero. Stalin e Hitler dicevano esattamente le stesse cose.

Come ci ricordano Avagliano e Palmieri, è di questo che si parla quando si parla di fascismo. Sul dissenso e la resistenza al fascismo è stata fondata la repubblica, che per quanto imperfetta è sempre meglio di qualunque regime. Non è bello né sano che oggi, dopo ottant'anni di racconto storico assolutorio e banalizzante, ci tocchi anche un governo banalizzatore che con il fascismo storico c'entrerà magari poco, anzi niente, ma che del neofascismo non è solo una parodia ma l'erede diretto, come Articolo 1 e Sinistra italiana del comunismo. C'era Mario Draghi a Palazzo Chigi e adesso guardateci. 

(Italia Oggi, 31 dicembre 2022)

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Le barzellette su Mussolini raccontano il dissenso nascosto

di Mario Avagliano e Marco Palmieri

 

La campagna elettorale per le elezioni politiche che si è appena conclusa ha avuto un nuovo protagonista indiscusso: i meme. Il sarcasmo, infatti, al giorno d’oggi viaggia veloce e senza confini sui social network. E per questo i meme sono diventati una cosa seria, poiché hanno assunto un peso specifico assai rilevante nella ridefinizione della geografia politica del consenso: non c’è candidato, leader o esponente istituzionale che possa sfuggire all’ironia puntuta, irriverente, dissacrante e soprattutto contagiosa delle immagini divertenti che gli utenti della rete producono, anche in modo spontaneo, e che si diffondono con una viralità mai vista prima.

Se lo strumento (la rete e i social) e le potenzialità di circolazione e diffusione sono senza precedenti, ciò che invece non è affatto nuovo è il ruolo della satira e dello sbeffeggiamento che, in presenza di situazioni in cui la libertà d’espressione è limitata o non ammessa del tutto, assumono anche la valenza di potente mezzo di opposizione, di resistenza, di dissenso. Tant’è vero che sono oggetto di feroce di repressione.

In Italia, ad esempio, ci fu una vivace fioritura di meme ante litteram durante il ventennio fascista. Un’ironia sotterranea, che circolava segretamente, strappando un sorriso e aprendo in questo modo qualche crepa nella cappa oppressiva che il regime fece scendere sul paese mettendo fuori legge e punendo severamente qualsiasi forma d’opposizione, ma anche di semplice dissenso non organizzato e non politico, bensì spontaneo.

A una ricostruzione dettagliata di questo fenomeno è dedicato un intero gustoso capitolo del nostro ultimo libro “Il dissenso al fascismo. Gli italiani che si ribellarono a Mussolini 1925-1943”, appena pubblicato da Il Mulino, che - come ha affermato la storica Simona Colarizi - ricostruisce finalmente in modo completo la storia degli oppositori a quel regime, raccontando sia le vicende dei militanti politici noti, come Gramsci, Pertini e Sturzo, sia di quelli sconosciuti: operai, casalinghe, contadini, impiegati protagonisti di scioperi, proteste, scritte murali, atti di critica al fascismo ma anche di barzellette, epigrammi, storielle sarcastiche, motti di spirito, storpiatura degli slogan e parodia delle canzoni fasciste e della retorica ufficiale.

Così, ad esempio, vi si legge la storiella di Mussolini che va in visita a un manicomio e passa in rassegna i malati che applaudono convinti tranne l’ultimo della fila, il quale quando gli viene chiesto perché non batte le mani risponde di essere infermiere e non matto. E ancora: «sulla tomba della madre del Duce hanno messo quattro soldati di guardia. Lo sai perché? Per evitare che risorga e faccia un altro Duce»; «Hai la foto del Duce in tasca? No. Ma allora dove sputi».

La memoria collettiva del fascismo, in effetti, nel dopoguerra prende una strana piega, sedimentando il ricordo di un regime risibile, di rituali e liturgie grottesche e pratiche ridicole, che contribuisce a oscurare il ricordo della pratiche repressive feroci, della brutale privazione della libertà e del soffocamento di ogni forma di dissenso e opposizione. A ben guardare un fondamento di questa incredibile evoluzione si può cercare proprio in questa fioritura di battute e di sarcasmo. Sotto la dittatura, però, il ruolo dell’ironia fu importante, poiché nel quadro della pressoché totale impossibilità di manifestare il dissenso, queste freddure andarono a scalfire la pretesa sacralità del fascismo e del duce, il suo mito e quindi la pretesa dedizione assoluta alla causa e al pensiero unico. Un flusso che la polizia politica, come dimostrano le carte relative alle indagini per ricercare chi le crea o semplicemente le racconta, faticò a contenere e a interrompere.

Fermo restando il fenomeno della diffusione di una comicità e di una ironia fine a sé stessa, mettere in circolo barzellette, storielle e battute e lasciarsi andare a una risata di fronte ad esse rappresentarono uno sfogo e una reazione all’oppressione del regime, alle difficoltà della vita quotidiana e alla povertà della vita intellettuale al di fuori dai canoni consentiti. Tant’è vero che nel 1938 Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione nazionale, annotò nel suo diario che circolavano «barzellette a josa. Fioriscono ai margini della disciplina cieca e muta».

A grandi linee, nel fenomeno si può anche rintracciare una tendenza generale: barzellette, battute e parodie su Mussolini, i gerarchi e il fascismo, tra i ceti popolari, avevano più spesso il retrogusto di una critica sincera e sentita, portata avanti nonostante i rischi di denuncia. Tra i ceti medio-alti, invece, rispondevano più di frequente al mero spirito di divertissement, che non intaccava la sostanziale adesione al fascismo e al mito del duce.

La polizia politica mise sotto torchio coloro i quali venivano sorpresi a raccontare storielle ironiche contro il duce e il regime, nel difficilissimo intento di risalire a chi le aveva create. Così il prefetto di Sassari nel 1932 denunciò un tale che in pubblico chiese: «Sapete quale è la differenza tra il Popolo d’Italia e Mussolini? La differenza è che Mussolini ha i pieni poteri, ed il popolo d’Italia ne ha i coglioni pieni». Quello di Forlì invece nel 1934 diffidò un uomo che in un albergo di Riccione andava raccontando che «Hitler ha i baffi rossi perché Mussolini ha le emorroidi». L’anno seguente una barberia romana attirò l’attenzione delle autorità per essere una sorta di covo di satira antifascista: «Il Duce chiamò a sé un Accademico d’Italia per chiedergli di sostituire nel vocabolario italiano la parola culo. Dopo alcuni giorni l’Accademico tornò a Lui per riferirgli che aveva trovato la nuova parola. Il nuovo vocabolo sarebbe stato comprensione. Il Duce si meravigliò e disse: che c’entra questa parola? L’Accademico rispose: come? Ce lo ha insegnato Lei stesso quando in un discorso disse che il Fascismo era entrato nella comprensione del Popolo Italiano».

Un filone molto gettonato era quello di prendere di mira corruzioni e ruberie che abbondavano tra le gerarchie del regime. Ne è un esempio la barzelletta allusiva riferita da un rapporto del prefetto di Milano a fine 1934, raccontata sempre da un barbiere, ma all’uomo sbagliato, un fiduciario fascista che prontamente sporse denuncia: «Mussolini si recò un giorno da un dentista per farsi estirpare un dente che gli faceva male. Dopo l’operazione chiese quanto doveva ed il dentista pretese la somma di lire mille. Mussolini protestò per il caro prezzo, ma, poi, finì col pagare; però, nel consegnare il denaro, disse: “Queste sono le mille lire, ma guardi che sono rubate”. Il dentista rispose: “Non ne dubito”». «Una volta – recitava un’altra storiella sarcastica – un operaio comprò della frutta, ma essendosi accorto che era stata avvolta in un giornale dove vi era l’effige del Duce, disse di cambiare la carta altrimenti si mangiava anche la frutta».

Anche le sigle, tanto diffuse sotto il regime, erano terra fertile per far proliferare l’ironia: Pnf diventò «Per Necessità Familiare» o anche «Pane Nostro Fatigato» e per i fascisti doc «Per Niente Fare» oppure «Preparazione Nostri Furti», mentre Mvsn venne tradotta in Mai Visto Sudare Nessuno, Gil in Gioventù Incretinita del littorio». E a Roma c’è chi inventa una nuova interpretazione dell’S.P.Q.R. letto per diritto e per rovescio, riferita ai gerarchi fascisti: «-Signori Podestà, Quanto Rubate? E quelli rispondevano con fascistica imperiosità: – Rubiamo Quanto Possiamo. Silenzio!».

Tuttavia, a conferma che barzellette e storielle dietro l’ironia celavano solide verità, si metteva alla berlina anche la mancanza di coraggio del popolo italiano: «In casa: – Accidenti a quel ladro di Mussolini! Morte a tutti quei filibustieri fascisti! Fuori di casa: – Viva il duce! Viva il fascismo». O la sua intelligenza, come nel seguente epigramma: «Povero popolo, / quanto sei bravo! / Farti suo schiavo / può un fanfarone / che da un balcone / ti sa incantare; / se fa il giullare / con le parate, / le smargiassate, / tu corri appresso... / Povero popolo, / quanto sei fesso!»

(Il Domani, 5 novembre 2022)

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Mussolini: il 25 luglio il suo arresto fu concordato con il re?

di Mario Avagliano

Il 26 luglio del 1943, mentre in piazza e nelle strade centinaia di migliaia di italiani ancora festeggiano la caduta del fascismo, i principali quotidiani titolano in prima pagina, a caratteri cubitali, «Le dimissioni di Mussolini». Un modo alquanto edulcorato di informare l’opinione pubblica su quell’evento storico, dopo vent’anni di dittatura e di rigido controllo della stampa da parte dell’occhiuta censura del Minculpop.

In realtà la mattina del 25, dopo la votazione notturna dell’ordine del giorno Grandi da parte del Gran Consiglio del Fascismo, il duce si è recato a Villa Savoia per un colloquio con il re Vittorio Emanuele III, il quale lo ha gelidamente congedato dalla carica di primo ministro. All’uscita, ha trovato ad attenderlo i carabinieri, che lo hanno arrestato e trasportato in caserma in ambulanza.

Ma se le cose non fossero andate esattamente così? Se invece Benito Mussolini avesse concordato con il re una sorta di finto arresto per evitare problemi con i nazisti e l’ala oltranzista del suo partito?

Ad avanzare questa tesi non è un testimone qualsiasi, ma Sandro Pertini, antifascista, partigiano, indimenticato presidente della Repubblica, in un’intervista inedita contenuta in un dvd allegato al libro di Ugo Intini dal titolo «Avanti! Un giornale. Un’epoca. 1896-1993» (Ponte Sisto, 700 pp., euro 20), che racconta la storia del quotidiano socialista e propone anche colloqui con Pietro Nenni, Alberto Jacometti, Lelio Basso e Riccardo Lombardi. Pertini sostiene che quando Mussolini fu arrestato dal re, i due erano d'accordo, aggiungendo che anche il generale dei carabinieri Angelo Cerica, che organizzò il blitz, la pensava allo stesso modo. La spiegazione logica è fornita dallo stesso Pertini. Mussolini aveva capito che la guerra era perduta e che il fascismo era finito. Cercava perciò una via di uscita dignitosa e tale da salvargli la vita. L’arresto gli consentiva di abbandonare il posto di comando contro la sua volontà e così nessuno (a partire da Hitler) poteva accusarlo di codardia. Un accordo conveniente anche per il re, che salvava la faccia, dopo aver formalmente condiviso tutte le scelte del regime fascista, compreso le leggi razziali del 1938 e l’ingresso in guerra.

In seguito, gli avvenimenti presero una piega diversa, ma in quei giorni ci fu una grande ambiguità. Mussolini, almeno in questa prima fase, non gridò al tradimento o al golpe, né ci furono reazioni troppo veementi da parte dei fascisti.

La tesi di Pertini è interessante, anche se – per ora – priva di riscontri documentali. Certo che prendendo in esame questa versione dei fatti, assumerebbe una luce diversa anche il paradossale scambio di lettere tra i due futuri nemici giurati, Mussolini e Badoglio, all’indomani del 25 luglio.

Badoglio infatti tratta l’ex dittatore con i guanti di velluto, con tono sussiegoso, scusandosi e dandogli del voi, alla maniera fascista. «Il sottoscritto capo del governo – scrive - tiene a far sapere a S.V. che quanto è stato eseguito nei vostri riguardi è unicamente dovuto al vostro personale interesse essendo giunte da più parti precise segnalazioni di un serio complotto verso la vostra persona. Spiacente di questo, tiene a farVi sapere che è pronto a dare ordini per il vostro accompagnamento, con i dovuti riguardi, nella località che vorrete indicare».

Mussolini gli risponde in modo altrettanto sorprendente, offrendosi addirittura di collaborare: «Desidero ringraziare il maresciallo d’Italia Badoglio per le attenzioni che ha voluto riservare alla mia persona. Unica residenza di cui posso disporre e la Rocca delle Carminate, dove sono disposto a trasferirmi in qualunque momento. Desidero assicurare il maresciallo Badoglio, anche in ricordo del lavoro comune svolto in altri tempi, che da parte mia non solo non gli verranno create difficoltà di sorta, ma sarà data ogni possibile collaborazione».

C’è nell'intervista con Pertini un altro elemento interessante, solo in parte conosciuto. Pertini sostiene che esisteva il progetto di fare il principe Umberto capo della Resistenza. Se così fosse avvenuto, l’esito del voto tra monarchia e repubblica del 2 giugno 1946 avrebbe potuto essere diverso e magari al Quirinale negli anni Ottanta non ci sarebbe stato Pertini ma forse lo stesso Umberto.

Un altro episodio curioso emerge dall’intervista, anche questa inedita, ad Alberto Jacometti, diventato segretario del Psi dopo la disfatta del Fronte popolare nel 1948. Jacometti racconta che dopo l'accordo tra Hitler e Stalin del 1939, per un anno e mezzo il mondo sembrò capovolto. A Ventotene, dalle camerate dei detenuti comunisti, si sentivano gli applausi e i cori di entusiasmo quando la radio annunciava le vittorie tedesche. La storia riserva sempre sorprese.

24 giugno 2022

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Il dopoguerra anticipato del Sud: quando il popolo scrive la Storia

di Pasquale Chessa

Furono tante le guerre che si combatterono in Italia dopo la caduta del fascismo: fra guerra civile e di liberazione, partigiana o di classe, c'è chi ne ha contate almeno sette, insieme a quella mondiale. Di conseguenza non ci fu un solo dopoguerra. Il primo è "scoppiato" almeno due anni prima del 1945, con lo sbarco degli Alleati in Sicilia. Un'asimmetria tutta italiana che rimanda alla frattura geografica e antropologica fra Nord e Sud, per lungo tempo trascurata dalla storiografia, che ha lasciato tracce indelebili non solo nella storia politica ma anche nella mentalità di tutta la nazione.
 
LA RICERCA
Tracce ancora leggibili, come possiamo constatare seguendo la ricostruzione di Mario Avagliano e Marco Palmieri, frutto di una ricerca del tutto inedita sui modi affatto peculiari messi in atto dall'Italia postfascista per uscire dalla Seconda guerra mondiale. Paisà, sciuscià e segnorine. Il Sud e Roma dallo sbarco in Sicilia al 25 aprile (Il Mulino) infatti, non è solo un libro di storia ma piuttosto un racconto di storie che si ramificano nel tempo e nello spazio della geografia. Con una polifonia di voci, che promuove le memorie popolari a fonte storiografica, insieme alle testimonianze giornalistiche e letterarie, compresi romanzi e Sofia Loren nel film del 1960 "La Ciociara" di Vittorio De Sica, dal romanzo di Alberto Moravia film, Avagliano e Palmieri riescono a farci entrare nel vissuto della storia colta nel momento in cui si radica nei comportamenti collettivi. Sapiente è l'equilibrio fra la grande storia, dalla caduta del fascismo alla liberazione di Roma, e i suoi riflessi sul sentimento popolare, dalle "segnorine" che si prostituiscono per salvarsi dalla fame, alle rivolte contadine e ai moti del pane.
 
LA DEFINIZIONE
È stato Enzo Forcella, giornalista politico di primo rango del secondo Novecento, molto sensibile al vissuto collettivo del Paese, a coniare l'innovativa definizione di "altro dopoguerra" in un libro del 1976. Fu infatti un periodo eccezionale, una specie di laboratorio storico-politico, spesso funestato da forme feroci di repressione militare come risposta alle inevitabili rivolte popolari. A Canicattì, il 14 luglio, due giorni dopo la strage perpetrata dai tedeschi in ritirata, gli americani fucilarono almeno una ventina di civili arrestati per aver rubato del sapone... Nella Guida del soldato, la Sicilia è descritta come «un buco infernale [...]abitato da gente troppo povera per andarsene o troppo ignorante per sapere che esistono posti migliori».
 
LA TRAGEDIA
Il romanzo di Alberto Moravia, La ciociara, che Vittorio De Sica tradusse in un film toccante magistralmente interpreto da Sofia Loren, trova la sua ispirazione originaria nella tragedia che travolse la Ciociaria invasa dalle truppe marocchine sbarcate a Napoli nel novembre del 1943 con licenza di saccheggio, fino allo stupro. «1 napoletani non sanno più chi odiare» scriveva Leo Longanesi. Eppure quei due anni «vissuti sotto l'occupazione alleata - riconoscono Avagliano e Palmieri - consolidano il mito della potenza americana collocando definitivamente e stabilmente l'Italia del dopoguerra nella sfera americana e occidentale, nel nuovo scenario della guerra fredda contro la sfera sovietica e comunista».
 
(Il Messaggero, 4 dicembre 2021)

 

Il 7 dicembre presentazione a Roma di "Paisà, sciuscià e segnorine"

Martedì 7 dicembre, alle ore 17.00, presso la sede e sul canale Facebook della Biblioteca di storia moderna e contemporanea, in collaborazione con ANPI, INSMLI e IRSIFAR, sarà presentato il volume Paisà, sciuscià e segnorine. Il Sud e Roma dallo sbarco in Sicilia al 25 aprile di Mario Avagliano e Marco Palmieri. (Il Mulino, 2021). Intervengono: Anna Balzarro, Isabella Insolvibile, Giancarlo Governi,  Gianfranco Pagliarulo. Coordina: Maria Corbi. Saranno presenti gli autori.

È stato chiamato «l'altro dopoguerra» il periodo vissuto dall'Italia meridionale e Roma tra il luglio del 1943, quando gli alleati sbarcano in Sicilia, e il maggio del 1945, quando la guerra finisce. Un lungo periodo, segnato dal procedere lento della linea del fronte verso nord, con combattimenti accaniti, violenze, stragi tedesche e alleate e atti di resistenza, spesso misconosciuti (non solo la battaglia per la difesa di Roma e le Quattro giornate di Napoli). Ma anche un vitale, caotico, difficile ritorno alla pace e alla libertà, con il primo confronto con la democrazia dopo il ventennio fascista. I problemi economici e sociali sono aggravati dall’atteggiamento dei militari alleati, intorno ai quali, come avviene ad esempio a Napoli e a Roma, proliferano fenomeni come segnorine, sciuscià e traffici del mercato nero che portano a un certo decadimento dei costumi morali. Esaurita l’euforia della libertà riconquistata ed emersa la consapevolezza del carattere illusorio dell’aspettativa che l’arrivo degli anglo-americani, simbolizzato dal pane bianco, dalle caramelle e dalle chewing-gum, porti miracolosamente alla fine della miseria, le truppe “salvatrici” nella penisola diventano sempre meno gradite. La presenza degli alleati, il ritorno dei partiti, delle radio, della stampa libera, la voglia di normalità e di divertimento, la rinascita del cinema e del teatro, con Anna Magnani, Totò, i fratelli de Filippo, De Sica e Rossellini, e poi la fame, il banditismo, le marocchinate, la criminalità. Attingendo a lettere, diari, corrispondenza censurata, relazioni delle autorità italiane e alleate, giornali, canzoni, film, il libro compone un racconto corale, curioso e inedito di quell'Italia del dopoguerra.


Mario Avagliano
è un giornalista e storico, collabora alle pagine culturali de “Il Messaggero” e de “Il Mattino”. E’ autore di numerosi saggi su fascismo, seconda guerra mondiale, deportazioni e dopoguerra.

Marco Palmieri è giornalista e storico, ha lavorato per diverse testate e ha pubblicato numerosi saggi sulla deportazione, la resistenza e il dopoguerra.

 

Anna Balzarro è direttrice dell’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza (IRSIFAR) 

Maria Corbi è una giornalista, inviata de La Stampa.

Giancarlo Governi è un autore televisivo, sceneggiatore e scrittore.

Isabella Insolvibile è una storica specializzata nella Resistenza italiana.

Gianfranco Pagliarulo è presidente nazionale dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI)                                                            

Patrizia Rusciani è direttrice Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea.



Diretta sul canale FB della Biblioteca
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E nei giorni successivi sul canale youtube della Biblioteca

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Storie – Il fascista del “Il sangue dei vinti” era un delatore di ebrei

di Mario Avagliano
 
Chi conosce Daniele Biacchessi, giornalista, scrittore, vicecaporedattore di Radio 24, più volte premiato per la sua attività di reporter, sa che è anche un appassionato autore, regista e interprete di opere di teatro civile. Il suo ultimo libro, “Orazione civile per la Resistenza” (Promo Music), è una storia corale della guerra di liberazione, ripercorsa attraverso interviste, narrazioni di episodi e di luoghi della memoria.
Ma Biacchessi è anche un curioso, un cercatore di verità.
Da buon cronista, si era sempre chiesto chi fosse il fascista con le mani dietro la nuca , trascinato per le strade di Milano da alcuni partigiani armati, ritratto nella fotografia sulla copertina del saggio “Il sangue dei vinti” di Giampaolo Pansa, che a sua volta aveva tratto l’immagine dal libro dell’ex esponente della Repubblica Sociale Giorgio Pisanò, “Storia della guerra civile”.
Nella didascalia del libro di Pansa, in seconda di copertina, si parla genericamente di “fascista ucciso il 28 aprile 1945”.
Biacchessi non si è accontentato. Così è andato negli archivi dell’Istituto di Storia dell’Età Contemporanea (ISEC) di Sesto San Giovanni e si è messo alla ricerca di questa immagine.
Scartabella che scartabella, eureka!, l’ha trovata. Ed ha scoperto che si trattava di Carlo Barzaghi, l’autista di Franco Colombo, il comandante della legione autonoma mobile Ettore Muti di Milano.
Carlo Barzaghi è conosciuto come il boia del Verzeè (del Verziere), scrive Biacchessi, “responsabile di efferati crimini di guerra: la compilazione di numerosi elenchi di ebrei e oppositori poi deportati nei campi di sterminio, la fucilazione di quindici prigionieri politici (10 agosto 1944, Milano, piazzale Loreto) detenuti nel carcere di San Vittore su ordine di Walter Rauff e Theo Saevecke, funzionari della Sicherheitpolizei stanziati all’albergo Regina di Milano”.
Barzaghi non è quindi un fascista qualsiasi, un innocente ucciso nei giorni dell’aprile 1945. E’ un esponente di spicco della Repubblica di Salò e si è macchiato di vari reati.
Eppure c’è chi, anche oggi, alla vigilia della festa della Liberazione, affigge nella capitale manifesti anonimi con un verso tratta dalla canzone “La locomotiva” di Francesco Guccini: “Gli eroi sono tutti giovani e belli”, dedicandoli “Ai ragazzi di Salò”. Guccini non l’ha presa bene: “Hanno tradito il senso della mia canzone”.
A costoro andrebbe ricordata la frase di Italo Calvino: “Dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c'erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l'Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c'era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, ché di queste non ce ne sono”.
 
(L’Unione Informa, 24 aprile 2012)
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