«L’Italia di Salò», 20 mesi di guerra civile vista dal basso

di Roberto Chiarini

Avagliano e Palmieri la rileggono a partire da scelte e motivazioni dei giovani aderenti  

Per molti, decisivi furono il «tradimento» di Badoglio e la voglia di dire che gli italiani non erano vigliacchi

In nessuna nazione europea come in Italia l’eredità del fascismo e, marcatamente, del fascismo repubblicano sorto sulle sponde del lago di Garda ha segnato i caratteri della politica e della stessa democrazia. Le ragioni dell’inossidabile persistenza della sua eredità nella vita della Repubblica sono molteplici. Ha pesato innanzitutto la durata ventennale del regime instaurato da Mussolini. Non di meno, ha costituito un pesantissimo lascito la guerra fratricida che si combatté nei Seicento giorni di Salò. È comprensibile che quel nodo politico e morale resti perciò tuttora il più visitato dalla storiografia. Negli ultimi tempi i riflettori si sono accesi in particolare su quella delle due parti in lotta che è stata a lungo più trascurata o negletta. Parliamo di coloro che andarono a cercare «la bella morte».

Ora, del vasto e variegato mondo di «vinti» disponiamo di uno studio - Mario Avagliano e Marco Palmieri, «L’Italia di Salò 1943-1945» (Il Mulino, 489 pagine, 28u) - che affronta sistematicamente l’argomento. Avvalendosi di una base documentaria particolarmente ricca, gli autori hanno riletto quei venti mesi di guerra civile «dal basso», partendo dalle motivazioni, dalle scelte, dai comportamenti adottati dai giovani (più di mezzo milione) che scelsero o subirono l’atroce destino di combattere o semplicemente schierarsi a fianco del risorto regime fascista. Avagliano e Palmieri ci conducono per mano ad esaminare l’avventura, umana e politica, vissuta dai «figli di stronza»: dai primi che impugnarono le armi contro gli Alleati senza aspettare la chiamata di Mussolini a quanti dopo l’armistizio restarono fedeli all’alleato tedesco o, internati in Germania, decisero in un secondo tempo di arruolarsi nell’esercito di Graziani, passando per i prigionieri degli Alleati non cooperatori per finire con quanti si arruolarono nell’Esercito Nazionale Repubblicano o nelle varie formazioni «nere»: dalle SS italiane alla Guardia Nazionale Repubblicana, dalla XMas alle Brigate Nere allo stesso reparto femminile delle Saf, per non dire delle famigerate bande Koch e Carità, responsabili delle più barbare atrocità.

A correre a Salò furono innanzitutto ex avanguardisti ed ex balilla. Li spinse la delusione sofferta a seguito della destituzione del duce, ma ciò che li fece davvero ribellare fu «il tradimento» perpetrato da Badoglio e dal re con la firma dell’armistizio. «Mi arruolai- protesta uno di essi, Gianfranco Finaldi - per dimostrare che noi italiani non eravamo fatti tutti della stessa pasta, non eravamo un popolo di vigliacchi». Più del fervore per la causa del fascismo, mosse i ragazzi di Salò la morale del «soldato fascista» alla quale erano stati educati a scuola e spesso anche in famiglia. Non tutti idealisti. Non furono tutti idealisti, peraltro, i giovani che scelsero o si adattarono a servire il nuovo regime fascista. Nelle loro file numerosi furono - l’ha ammesso lo stesso federale di Milano, Vincenzo Costa - autentici sciacalli che decisero di vestire la divisa solo per «camuffare i propri bassi istinti, le loro furfanterie». Del resto, un’Italia educata a «libro e moschetto», sprofondata da ultimo in una guerra civile, era difficile che non desse spazio alla sua «peggiore gioventù» e non incoraggiasse le imprese più disumane. Per il resto dei militi di Salò - la gran maggioranza - scattarono vuoi un malinteso amor di patria, vuoi il riflesso condizionato dell’obbedienza all’autorità costituita inculcato dal regime.

(Il Giornale di Brescia, 28 marzo 2017)

Il lato nascosto di Salò: la "resistenza nera" al Sud

di Roberto Chiarini

Dai «figli di stronza» di Elio Vittorini ai «quindicenni sbranati dalla primavera» di Francesco De Gregori, passando per i «non uomini» segnati dal «marchio di Caino» per finire con gli «esuli in patria» figli di nessuno: il destino di chi ha aderito alla Repubblica sociale è stato di reprobi sul piano morale e di feroci persecutori dei partigiani su quello politico.

 
 

Insomma, ha oscillato a lungo tra il «disconoscimento totale» della loro umanità e la taccia di essere «gregari» di un «regime fantoccio» al servizio dello straniero occupante, fautore di una causa aberrante che riservava un futuro di schiavitù e di oppressione ai popoli dell'intera Europa. Risultato: non solo nel dibattito politico ma anche nella considerazione storiografica, sui «ragazzi di Salò» ha gravato un pesante cono d'ombra fatto di silenzio e di disprezzo. Esattamente quel che si meritano dei sanguinari che non si sono fermati di fronte al baratro di una guerra fratricida in cui avrebbero cacciato il proprio Paese pur di soddisfare la loro sete di violenza.

Ci sono voluti, prima le possenti spallate inferte da Renzo De Felice al pregiudizio che riduceva il fascismo a regime dittatoriale imposto di forza a un popolo di democratici, poi il coraggioso cambio di passo impresso agli studi sul Ventennio da Claudio Pavone con lo sdoganamento della categoria storiografica di guerra civile per liberare la considerazione dei «Balilla che andarono a Salò» dal vizio della loro demonizzazione. Stiamo parlando praticamente dell'intera generazione dei nati nel 1924 e '25. Se infatti si sommano ai volontari i giovani chiamati alla leva che o per un'atavica sudditanza all'autorità costituita o per un malinteso spirito di servizio o per un più elementare, comprensibile desiderio di sfuggire alla pena di morte riservata ai renitenti, si raggiunge la somma di più di 500mila ragazzi che alla fine misero comunque in gioco la loro vita per una causa che, bene o male, sapevano persa in partenza.

Al confino morale e politico comminato loro dai vincitori si è paradossalmente sommato il cieco spirito di rivalsa dei «vinti» e dei loro epigoni, cui il rancore ha fatto velo a un'auspicabile rielaborazione critica della «scelta sbagliata» da loro compiuta.

Ora di questo vasto e variegato mondo di vinti disponiamo di un'opera sistematica. Sulla scorta di un'accurata investigazione di fonti archivistiche edite e inedite nonché della cospicua letteratura accumulatasi nel frattempo in materia, Mario Avagliano e Marco Palmieri con il saggio L'Italia di Salò. 1943-1945 (Il Mulino, pagg. 490, euro 28) ci mettono in condizione di articolare un giudizio sull'argomento a ragion veduta. La loro è una «storia dal basso», condotta cioè seguendo passo dopo passo il percorso compiuto da quegli italiani che, a diverso titolo e con diverse talora opposte - motivazioni, scelsero o subirono l'atroce destino di combattere o semplicemente di schierarsi a fianco del risorto regime fascista. Già il federale di Milano Vincenzo Costa aveva riconosciuto che, accanto agli idealisti, si nascondevano anche degli autentici sciacalli che vestirono la divisa per «camuffare i propri bassi istinti, le loro furfanterie». Entrando più nel dettaglio, Mario Cervi ha introdotto la distinzione tra i «fanatici, gli entusiasti, i rassegnati, i dubbiosi, i riluttanti», mentre Giorgio Bocca li ha suddivisi in «politici, romantici, onesti, illusi, profittatori scaltri, imprevedibili». Insomma, non si trattò solo di giovani invasati, di sanguinari, di accecati dall'odio ideologico. Corse a Salò, bene o male, tutta una generazione di giovanissimi nati, allevati e cresciuti a «libretto e moschetto», quindi «naturalmente» fascisti. Questo non impedì a molti di loro di maturare, alla luce della barbarie scatenata, di procedere poi a una sofferta revisione critica delle proprie originarie convinzioni fino ad aderire alla causa della libertà.

Avagliano e Palmieri hanno il merito di esaminare nel dettaglio tutti i capitoli della vicenda, umana e politica, vissuta dei «figli di stronza», arricchendoli peraltro di una ricca documentazione: dai giovani che non aspettarono la nascita dello Stato fascista per impugnare le armi contro gli Alleati ai soldati che all'indomani dell'8 settembre o solidarizzarono con i tedeschi o che, una volta internati in Germania, decisero di rivestire la divisa della Rsi nonché ai prigionieri non cooperatori fino a quanti si arruolarono nelle varie formazioni «nere» (dalle SS italiane alla Guardia Nazionale Repubblicana, dalla X Mas alle Brigate Nere, allo stesso reparto femminile delle Saf per non dire delle famigerate bande Koch e Carità, resesi responsabili delle più barbare atrocità) o nell'Esercito nazionale repubblicano. Sono pagine di storia non del tutto sconosciute. Molte sono già state messe in chiaro dalla nutrita serie di memoriali e diari redatti dai reduci, oltre che da numerosi studi condotti dagli storici sull'argomento.

Forse la meno nota al largo pubblico è la pagina scritta dalla cosiddetta resistenza nera, ossia dal fascismo clandestino che si organizzò nell'Italia liberata. Una forma di insorgenza fascista si manifestò soprattutto in Sicilia, Calabria, Campania e Puglia. L'elenco delle organizzazioni animatrici della lotta agli Alleati, solo abbozzate o semplicemente ostentate, sarebbe lungo. Si va dal Movimento giovanile di rinascita nazionale di Catania alla Lega Italica di Caltanisetta, al gruppo Onore di Roma, al Movimento dei giovani italiani repubblicani di Firenze, soprattutto alla Guardia ai labari, formazione costituitasi ancor prima della caduta di Mussolini per espressa volontà del duce su mandato del segretario Scorza. Solo a partire dal 1944, comunque, il fascismo clandestino diede concreti segni di vita, sviluppando una qualche forma di propaganda, persino azzardando conati rivoltosi. Nel complesso, però, l'impatto della sua azione fu assai modesto. Non riuscì né a stabilire un saldo coordinamento tra le varie realtà operanti né a dotarsi di una leadership riconosciuta. Il suo stesso esponente di maggior rilievo e visibilità, il bizzarro principe Valerio Pignatelli della Cerchiaia, finì col rimanere invischiato nella ragnatela da lui costruita senza riuscire a far compiere un salto di qualità al movimento clandestino. È vero che il mandato delle varie organizzazioni non era di serrare le file del popolo fascista ormai in disarmo. Era, più modestamente, di non lasciare nulla di intentato per contrastare l'invasione del nemico facendo leva sull'acuta sofferenza sociale della popolazione. A Palermo nell'ottobre del '44 la pessima situazione alimentare fece scattare una vivissima protesta nei confronti delle autorità occupanti. La repressione che ne seguì provocò numerose vittime, tanto che si parlò apertamente di una «strage del pane». Ancor più grave fu la rivolta suscitata dalla chiamata alle armi dei nati da parte del Regno del Sud tra il 1914 e il 1924. Il moto, avviatosi a Catania si estese poi a molti altri centri. Non fu, comunque, in grado di far rialzare la testa a un fascismo agonizzante.

(Il Giornale, 27 marzo 2017)

 

 

Storie – Mal d’Africa

di Mario Avagliano

  La “conquista” dell'Impero di Etiopia, datata 9 maggio 1936, è al centro dell’interesse dell’editoria. Tre libri sono usciti di recente sull’argomento, affrontandolo da diverse prospettive, e svelando con documenti coevi, memorie o la forza della narrativa il grande bluff di Mussolini.
Il saggio storico "L'ora solenne" di Marco Palmieri (Baldini & Castoldi, pp. 316) racconta come vissero gli italiani quella fase storica, in cui si registrò il massimo dei consensi per il regime fascista e per l’impresa militare, che in realtà venne compiuta al prezzo di violenti eccidi, anche con l'impiego di gas, con i ribelli che continuarono a resistere e solo una piccola parte del territorio effettivamente controllata dalle forze militari italiane.
Il romanzo storico "I fantasmi dell'Impero" (Sellerio, pp. 542), di Marco Consentino, Domenico Dodaro e Luigi Panella, ha come filo conduttore un'inchiesta del magistrato militare Vincenzo Bernardi (che prende spunto dalla figura reale del capo della giustizia militare dell'Africa Orientale italiana, Bernardo Olivieri) e vede dietro le quinte lo scontro tra i due super-nemici dell'epoca Graziani e Pietro Badoglio, il primo fascistissimo, l'altro legato ai Savoia. Un pretesto per narrare il "cuore di tenebra" del colonialismo italiano, mettendo a nudo i suoi orrori e le sue bassezze, e anche il conflitto sotterraneo che oppose la milizia fascista agli ufficiali dell'esercito.
Infine “Ti saluto vado in Abissinia” di Stefano Prosper (Marlin, pp. 348) descrive le esperienze di un giovane volontario, Mario Prosperi, nella guerra d’Etiopia del 1935-36, tra eccitazione, dubbi e timori davanti ad un futuro nuovo in un paese sconosciuto. Nel corso della sua esperienza africana il giovane approderà a convinzioni più nettamente antifasciste, mettendo in rilievo, con coraggio e determinazione, gli aspetti negativi di quella che si rivelò un’ambiziosa e disastrosa impresa del Regime.

(L'Unione Informa e Moked.it del 14 marzo 2017)

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Quanti fantasmi nell'Etiopia del colonialismo

di Mario Avagliano

  Quanti fantasmi ha lasciato in eredità il Ventennio fascista. Anche l'epopea della conquista dell'Impero di Etiopia, datata 9 maggio 1936, che all'epoca entusiasmò gli italiani, fu in gran parte un bluff e venne compiuta al prezzo di violenti eccidi di militari e di civili, anche con l'impiego di gas, come ha raccontato di recente il bel saggio "L'ora solenne" di Marco Palmieri per i tipi della Baldini & Castoldi e come denunciato da Angelo Del Boca nel suo fondamentale libro "La guerra di Abissinia".
In realtà le truppe italiane avevano occupato la capitale Addis Abeba e la vitale ferrovia per Gibuti, costringendo l'imperatore (il negus) Hailé Selassié all'esilio in Inghilterra, ma gli etiopi erano tutt'altro che sottomessi. Nel paese restavano in armi numerose formazioni di ribelli e solo una piccola parte del territorio era effettivamente controllata dalle forze militari italiane.
In questa Etiopia livida del 1937, con le strade della capitale insanguinate dai corpi senza vita di migliaia di persone uccise dalla feroce rappresaglia italiana a seguito dell'attentato fallito al viceré Rodolfo Graziani, e in cui infuria la guerra di polizia coloniale contro i patrioti (gli arbegnoch), si svolge la trama di un avvincente romanzo storico appena arrivato in libreria, intitolato "I fantasmi dell'Impero" (Sellerio, pp. 542), che ha come filo conduttore un'inchiesta del magistrato militare Vincenzo Bernardi (che prende spunto dalla figura reale del capo della giustizia militare dell'Africa Orientale italiana, Bernardo Olivieri) e vede dietro le quinte lo scontro tra i due super-nemici dell'epoca Graziani e Pietro Badoglio, il primo fascistissimo, l'altro legato ai Savoia.
L'idea del romanzo è nata curiosamente nel corso di una cena tra i tre autori, amici di vecchia data: Marco Consentino, esperto di relazioni istituzionali, e gli avvocati Domenico Dodaro e Luigi Panella. Quest'ultimo, per passione, scartabellando per archivi e biblioteche, nel tempo ha raccolto una sterminata documentazione anche fotografica (20 mila immagini) sul periodo coloniale, rinvenendo nei fascicoli del disciolto ministero dell'Africa italiana le tracce di un'inchiesta del 1938, rimasta segreta, condotta da un magistrato militare a carico dell'ufficiale Gioacchino Corvo, accusato di crimini di guerra nell'Etiopia occupata, che sollevava molti interrogativi.
I tre autori hanno provato a rispondere a quei quesiti e ne è nato questo godibilissimo romanzo  che, con un riuscito intreccio narrativo a metà tra spy-story e giallo, mescolando realtà e fiction (i numerosi telegrammi, lettere ed estratti di relazioni riportati sono quasi tutti autentici) ci conduce nelle stanze buie del regime fascista. Nel corso della sua inchiesta, infatti, il tenente colonnello Bernardi, attraversando l'Etiopia, incontra un universo popolato da tristi figuri, profittatori, violenti ma anche da qualche nobile persona, entrando nel "cuore di tenebra" del colonialismo italiano e mettendo a nudo i suoi orrori e le sue bassezze, e anche il conflitto sotterraneo che oppose la milizia fascista agli ufficiali dell'esercito.
Fascisti senza scrupoli, dediti a un turismo sessuale ante litteram, che stuprano le ragazzine del posto e in qualche caso le uccidono senza pietà dopo l'amplesso. Specialisti delle torture e delle esecuzioni capitali. Burocrati che per far leggere i loro rapporti dal massimo capo, il Duce, adottano lo stratagemma di sigle come MM.PP.AA. (Massima Precedenza Assoluta su tutte le Massime Precedenze Assolute). Alte cariche, come il governatore Alessandro Pirzio Biroli, già vincitore della medaglia d'argento all’Olimpiade di Londra 1908, specialità sciabola a squadre, che colleziona minorenni, omaggia gli ospiti del suo castello con "magnifiche donne indigene", allestisce spettacolini lesbo delle sue favorite che eseguono, come riferiscono le relazioni dei carabinieri, «quadri plastici orgiastici». Tanto che lo stesso Graziani, conosciuto come il "macellaio d'Etiopia", commenta: "Qui si schiatta e Sua Eccellenza il generale pensa solo a scopare...".  Aggiungendo che per colpa di Biroli gli italiani non vengono rispettati e sono considerati "una banda di rattusi" interessati solo alle donne.
Sullo sfondo c'è il complotto filo-monarchico di Badoglio (una sorta di prova generale del colpo di stato del 25 luglio 1943), che con l'aiuto dell'Arma dei carabinieri muove le fila da Roma e i cui contorni saranno svelati nelle ultime pagine del romanzo, che arrivano fino agli Cinquanta.
In passato solo il grande Ennio Flaiano nel 1947, con il suo "Tempo di uccidere", aveva indagato sotto forma romanzata alcuni lati oscuri della storia dell'Africa italiana. "I fantasmi dell'Impero", pur essendo un romanzo di esordio, ci regala un ritratto a tutto tondo e straordinariamente documentato di quella stagione tutt'altro che esaltante per l'Italia, con una cura del contesto storico e un senso del ritmo narrativo e dei dialoghi che rendono la lettura piacevole e appassionante.

(Il Messaggero, 12 marzo 2017)

L'Italia di Salò, la recensione di Paolo Mieli sul Corriere della Sera

Ragazzi di Salò anche in Sicilia

Un saggio di Mario Avagliano e Marco Palmieri sulla Rsi. Alla repubblica fascista aderirono molti futuri attori: Walter Chiari, Raimondo Vianello, Giorgio Albertazzi

di Paolo Mieli

La repubblica fascista che Benito Mussolini guidò, per volontà di Adolf Hitler, negli ultimi venti mesi della Seconda guerra mondiale è stata ben analizzata in molti volumi tra i quali sono da menzionare la prima Storia della Repubblica di Salò di William Deakin (Einaudi), L’amministrazione tedesca nell’Italia occupata di Enzo Collotti (Lerici), La guerra civile, ultimo volume della biografia mussoliniana di Renzo De Felice (Einaudi), La storia della Repubblica di Mussolini di Aurelio Lepre (Mondadori), L’occupazione tedesca in Italia di Lutz Klinkhammer (Bollati Boringhieri ), La repubblica delle camicie nere di Luigi Ganapini (Garzanti), Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza di Claudio Pavone (Bollati Boringhieri), L’ultimo fascismo di Roberto Chiarini (Marsilio). Oltre a quelli assai ben scritti di Indro Montanelli e Mario Cervi, Giampaolo Pansa, Giorgio Bocca, Silvio Bertoldi e, sul versante reducistico, Giorgio Pisanò. Eppure ci sono ancora infiniti aspetti che meritano di essere approfonditi, tante questioni apparentemente marginali su cui è utile entrare nel merito, come dimostra un documentatissimo libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri, L’Italia di Salò 1943-1945, che sta per essere pubblicato dal Mulino.

Roberto Chiarini ha scritto che la riduzione dell’ultimo fascismo alla semplice e unica categoria interpretativa della «barbarie consumata da un manipolo di sanguinari», prima ancora di essere una forzatura intellettuale, è stata a lungo un «artificio retorico» che doveva servire alla autoassoluzione in blocco degli italiani e all’occultamento delle responsabilità collettive per quel che accadde davvero ai tempi Salò. Ed è sottile l’analisi di Avagliano e Palmieri delle due memorie contrapposte in merito a quel che si verificò nel Nord Italia tra il 1943 e il 1945, là dove vengono identificati i limiti della storiografia che ha teso a negare ogni dignità a coloro i quali militarono dalla «parte sbagliata» (cosa che del resto durante la guerra civile avevano fatto gli stessi fascisti con i partigiani, chiamandoli «banditi, fuorilegge, animali»). Ciò che Luigi Ganapini ha definito il «disconoscimento totale e reciproco, non solo politico, dell’umanità dell’avversario». Per non parlare della memoria degli ex repubblichini fortemente condizionata — persino nei testi meno autoindulgenti come quelli di Giose Rimanelli e Carlo Mazzantini — dall’umiliazione della sconfitta.

La scelta di Salò, scrivono Avagliano e Palmieri, fu per molti giovani e perfino adolescenti «una sorta di rivolta generazionale contro il vecchio sistema, rappresentato dalla monarchia, dalle forze della borghesia che avevano voltato le spalle a Mussolini e dai quadri dirigenziali del regime», nella speranza, condivisa anche da diversi squadristi della prima ora, che la Repubblica recuperasse le parole d’ordine del fascismo delle origini e segnasse una «pagina nuova». Ma attenzione: «L’immagine dei combattenti di Salò come avventurieri, idealisti o poveri illusi tutto sommato in buona fede, non è stata solo frutto di una distorsione dovuta alle propensioni giustificative della memoria a posteriori; è servita piuttosto a relegare un tema arduo e scomodo in una zona d’ombra dove non fosse più di tanto necessario e richiesto fare i conti con una pagina importante del proprio passato e della propria storia nazionale».

Un dato interessante è la grande quantità di futuri personaggi dello spettacolo (oltre a Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, che erano già molto famosi ed ebbero un ruolo attivo nella lotta ai partigiani) che tra il 1943 e il 1945 in un modo o nell’altro militarono dalla parte di Mussolini e dei tedeschi: Giorgio Albertazzi, Enrico Maria Salerno, Dario Fo, Mario Castellacci, Leonardo Valente, Ugo Tognazzi, Mario Carotenuto, Walter Chiari, Raimondo Vianello, Marco Ferreri, Fede Arnaud Pocek (più moltissimi altri che ebbero ruoli marginali). Tra le giustificazioni addotte — molti anni dopo la fine della guerra — è prevalsa la presa di distanza da questa giovanile adesione alla repubblica di Mussolini. Disse Dario Fo: «Aderii alla Rsi per ragioni pratiche, cercare di imboscarmi, portare a casa la pelle». E Giorgio Albertazzi: «Non sono mai stato fascista; la mia scelta, sbagliata che fosse, nacque per orgoglio nazionale». Forse la spiegazione più articolata fu quella di Raimondo Vianello, che raccontò di aver deciso d’impulso di andare volontario nella Rsi «per ribellione verso il colonnello comandante che il 12 settembre del 1943, con un piede già sulla macchina carica di roba, mi chiamò per dirmi a bassa voce come fosse una confidenza: “Vianello, si salvi chi può!”». I giovani che «andarono a Salò», proseguì Vianello, «erano spinti dall’idea di non abbandonare la battaglia». Pur se consapevoli d’essere «destinati a perdere». Per cui, concluse l’attore, «condannare in toto questo capitolo storico non mi sembra giusto».

Il libro dedica pagine particolarmente interessanti al «primo fascismo clandestino» dei giorni successivi al 25 luglio del 1943; alla «resa dei conti» interna al fascismo; ai prigionieri degli Alleati «non cooperanti», in particolare quelli del campo texano di Hereford; ai «tormenti e ai cambi di fronte» nella Repubblica sociale; al confronto generazionale tra coloro che aderirono alla Rsi; ai loro ultimi scritti e «testamenti ideologici»; al difficile rapporto con i «camerati tedeschi»; al razzismo e all’odio contro gli Alleati; all’illusione finale di un «colpo di coda» mussoliniano. Ricco di particolari inediti è il capitolo dedicato al fascismo clandestino nell’Italia liberata. Si trattò di una consistente «rete dietro le linee nemiche», che si appoggiò a movimenti spontanei ai quali presero parte soprattutto giovani che non accettavano il cambio di alleanze del governo Badoglio. Movimenti spontanei che hanno inizio in Sicilia, nel luglio del 1943, subito dopo lo sbarco e le prime vittorie dell’esercito alleato. Prima cioè della notte del Gran Consiglio in cui il Duce fu messo in minoranza o comunque a ridosso della caduta di Mussolini (25 luglio). La prima formazione censita è «Fedelissimi del Fascismo - Movimento per l’italianità della Sicilia» fondata a Trapani da Dino Grammatico (futuro deputato regionale del Msi) e Salvatore Bramante il 27 luglio, appena quattro giorni dopo l’ingresso in città delle truppe angloamericane. Pochi mesi dopo il gruppo viene scoperto, arrestato e processato da una corte alleata: tra i giovanissimi portati alla sbarra, Maria D’Alì, figlia dell’ultimo vicefederale di Trapani che i giornali di Salò definiscono «la Giovanna d’Arco della Sicilia». Qualcuno li considera, più che dei nostalgici, come ragazzi che reagiscono contro il fenomeno non marginale dei loro concittadini (tra breve connazionali) che si mettono in fila per salire sul carro del vincitore. Non sopportavamo, racconterà Salvatore Claudio Ruta, leader del gruppo dei giovani fascisti di Messina, «che l’italiano fosse additato come il tipico voltagabbana, mandolinista e mangia spaghetti». «Si è trovato un gruppo di fascisti in Sicilia — esulta il 20 dicembre 1943 nel suo diario Giuseppe Prezzolini — meritano un monumento! Un fascista che ha tenuto a dichiarare la sua fede è grande quanto un democratico che non cambiò bandiera sotto il fascismo». Tra i loro avvocati difensori, notano Avagliano e Palmieri, «spicca il nome di Bernardo Mattarella». Il processo, a Palermo, si concluderà con pene severissime e addirittura una condanna a morte: per Bramante, accusato di «sabotaggio» (ma il generale Alexander commuterà immediatamente la pena a vent’anni di carcere).

In concomitanza con questo processo nasce a Palermo il «gruppo Costarini» (dal nome di uno dei primi caduti della Rsi) — fondato da Angelo Nicosia, Lorenzo Purpari, Aristide Metler e Nicola Denaro — che pubblica il giornale ciclostilato «A noi!». Copie di «A noi!» vengono gettate, nel gennaio 1944, dal loggione del teatro Biondo nel corso di una proiezione del Grande dittatore, il film satirico su Hitler (e Mussolini) di Charlie Chaplin, che più volte e in più parti dell’Italia liberata verrà interrotto da questo genere di manifestazioni. A Cisternino, in provincia di Brindisi, quando in un cinegiornale vengono proiettate le immagini della liberazione di Mussolini sul Gran Sasso, un militare dice ad alta voce: «Sì è un po’ sciupato ma è sempre lui! Battiamogli le mani». Molti spettatori si alzano, applaudono e intonano Giovinezza. A Milazzo vengono lanciati manifestini che promettono il ritorno in Sicilia di Mussolini con i tedeschi i quali «faranno vendetta»: «Ci sarà il Vespro Siciliano!», annunciano. A Ficarra fa proseliti l’ex segretario federale fascista Giuseppe Catalano. A Caltanissetta viene fondata la «Lega Italica» alla quale aderiranno Faustino La Ferla e Francesco Paolo Ayala (padre del magistrato Giuseppe). In sostanza la prima regione italiana ad essere liberata, la Sicilia, sarà anche quella in cui si verrà a creare la più forte, motivata e duratura, componente neofascista.

Sempre in Sicilia, nella fase finale della guerra si sviluppa una protesta contro la leva a cui aderiscono insieme elementi neofascisti, anarchici, cattolici, separatisti e comunisti. Strane alleanze destinate a ripresentarsi nella storia siciliana. Ci si batteva — con lo slogan «Non si parte» — per bloccare il reclutamento di soldati che dovevano andare a combattere contro la Rsi, negli ultimi, decisivi mesi del conflitto. Episodio simbolo della rivolta è quello del 4 gennaio 1945, a Ragusa, dove una giovane incinta di cinque mesi, Maria Occhipinti, si sdraia davanti a un camion che si accinge a trasportare nel continente alcuni reclutati. Un consistente gruppo di ragusani si unisce alla protesta. L’esercito spara sulla folla, uccide un ragazzo e il sacrestano Giovanni Criscione. Nel dopoguerra, la Occhipinti sarà eletta deputata del Pci. A Comiso i neofascisti del «Non si parte» creano addirittura una «Repubblica indipendente» (per ottenere lo sgombero gli Alleati minacceranno un bombardamento aereo). A Vittoria occupano le caserme dei carabinieri e della guardia di finanza, così come avevano già fatto, guidati da Vittorio Dell’Agli, a Giarratana, dove erano state date alle fiamme le carte dell’ufficio di leva. A Modica il municipio viene dato alle fiamme.

Qualcosa si muoverà anche in Sardegna. Il 3 dicembre 1943 viene fermato al largo dell’arcipelago della Maddalena un motoscafo partito da Olbia e diretto a Orbetello. Alcuni carabinieri infiltrati nell’equipaggio arrestano su quel natante l’ex console generale della Milizia Giovanni Martini, che porta con sé il verbale della costituzione del Partito fascista repubblicano sardo, che si propone di staccare l’isola dalla madrepatria per sottometterla al regime di Salò. Nel marzo del 1944 ad Olbia vengono tratti in arresto i componenti del gruppo che fa capo ad Antonio Pigliaru, Gavino Pinna, Giuseppe Cardi Giua e al sottotenente Ugo Mattone, che riuscirà a fuggire. Il Tribunale militare territoriale di guerra — pubblico ministero è Francesco Coco (il giudice che nel 1976 sarà ucciso a Genova dalle Brigate rosse) — li farà condannare tutti e la pena più alta, undici anni, sarà per il latitante Mattone. Che però cambierà nome, diventerà un apprezzato sceneggiatore e da quel momento in poi simpatizzerà per il Pci: da questo momento si chiamerà Ugo Pirro e il primo film al quale darà il proprio apporto sarà (nel 1951) Achtung! Banditi! di Carlo Lizzani dedicato all’epopea della lotta partigiana.

In Calabria e a Napoli sarà assai attivo il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara, comandante degli arditi nella Grande guerra, rivoluzionario in Messico, capo di una formazione di russi bianchi impegnati a combattere i bolscevichi, presente nella guerra di Etiopia e in quella civile spagnola. Tra i suoi progetti, il rapimento a Sorrento di Benedetto Croce che avrebbe dovuto essere portato a Genova da un sommergibile tedesco, per essere poi trasferito a Milano dove sarebbe stato costretto a commemorare Giovanni Gentile ucciso dai partigiani. In seguito Croce avrebbe dovuto assumere la presidenza dell’Accademia d’Italia. Ma il 27 aprile del 1944 Pignatelli, dopo che sua moglie aveva attraversato le linee per parlare direttamente con Mussolini e il feldmaresciallo Kesserling, viene arrestato. Sarà Bartolo Gallitto a raccogliere la sua eredità operativa. Ma del progetto di sequestro del filosofo non si parlerà più.

A Roma, poco dopo la liberazione, il 10 giugno 1944 comincia a trasmettere Radio Tevere, che in realtà ha sede al Nord. Direttore è Mario Ferretti, futuro radiocronista sportivo, collaborano attivamente Gorni Kramer e il Quartetto Cetra. Sigla di apertura è l’Inno a Roma di Puccini, in chiusura la canzone Tornerai, con un’evidente allusione/invocazione a Mussolini. A fine 1944 nasce il giornale clandestino «Onore», al quale fa capo un gruppo di cui fanno parte anche commercianti, operai e persino contadini. Non sono moltissimi, ma è una rete clandestina assai insidiosa, che viene sgominata grazie ad un giovane tenente che riesce ad inserire un infiltrato: Carlo Alberto dalla Chiesa. Il quale sperimentò contro i neofascisti di «Onore» tecniche che avrebbe riproposto, alcuni decenni dopo, per sgominare terroristi rossi che si proclamavano eredi dei partigiani.

(Corriere della Sera, 7 marzo 2017)

 

La nuova tappa di un itinerario nelle tragedie del Novecento

Esce in libreria il 16 marzo L’Italia di Salò di Mario Avagliano e Marco Palmieri (il Mulino, pagine 496, e 28). Si tratta di una nuova tappa del viaggio che i due autori hanno intrapreso nella storia italiana con diversi volumi: Gli internati militari italiani (Einaudi, 2009); Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia (Einaudi, 2011); Voci dal lager (Einaudi, 2012); Di pura razza italiana (Baldini & Castoldi, 2013), Vincere e vinceremo! (il Mulino, 2014). A Salò sono stati dedicati molti libri, come La repubblica delle camicie nere di Luigi Ganapini (Garzanti, 1999) e La storia della Repubblica di Mussolini di Aurelio Lepre (Mondadori, 1999). Tratta della Rsi l’ultimo volume, incompiuto, della biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice, La guerra civile (Einaudi, 1997), Se ne occupava anche Claudio Pavone nel suo libro sulla Resistenza Una guerra civile (Bollati Boringhieri, 1991).

 

Storie – Il progetto del museo a Predappio

di Mario Avagliano

   Oggi alla trasmissione “La Radio ne parla” su RadioRai, insieme ad altri studiosi di storia, ci siamo confrontati sul progetto del comune di Predappio, paese natale di Benito Mussolini, in provincia di Forlì-Cesena, di allestire un’esposizione permanente sul fascismo nell’edificio dell’ex Casa del Fascio.
La realizzazione del museo è stata affidata all'Istituto Parri di Bologna, diretto da Luca Alessandrini, e a un comitato scientifico di cui fanno parte diversi storici, tra cui ad esempio Marcello Flores, anche lui presente in trasmissione.
Su questo tema, come spesso accade in Italia, si è scatenato un dibattito che, come ha detto Carlo Greppi, ha assunto i caratteri del “tribalismo” e del tifo da stadio (vedi referendum).
La nascita di un museo dedicato alla storia del fascismo comporterebbe fare i conti su quella fase storica, cosa che l’Italia ha fatto ancora troppo poco, a differenza ad esempio della Germania. Io credo allora che invece che interrogarsi sul “se” fare il museo, bisognerebbe interrogarsi sul “come” si realizzerà quel progetto.
David Bidussa l’ha definita giustamente una sfida culturale. Uno storico contrario al progetto, Giovanni Sabatucci, intervenendo in trasmissione, ha invece adombrato i rischi che il museo possa inconsapevolmente avere un intento celebrativo.
Se però esso racconterà con immagini, video, parole le violenze squadriste, la soppressione delle libertà, le leggi fascistissime, la persecuzione degli ebrei e le leggi razziste del 1938, le stragi compiute dagli italiani in guerra, la complicità con il nazismo, tale pericolo sarà scongiurato. E anche i nostalgici che ciclicamente si recano a Predappio per celebrare il duce, se ne torneranno a casa con un pugno metaforico allo stomaco.

(L’Unione Informa e Moked.it 1° novembre 2016)

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L’Italia del post-fascismo: monarchia o repubblica?

di Mario Avagliano

   All’indomani del 25 luglio e della caduta del fascismo, si sviluppa quasi subito in Italia il dibattito sulla cosiddetta «questione istituzionale».

Il re Vittorio Emanuele III tenta di riabilitare la sua figura agli occhi degli italiani, restaurando lo Statuto Albertino, che di fatto era stato svuotato dal potere dittatoriale di Benito Mussolini, che aveva relegato la monarchia a semplice notaio delle decisioni del regime fascista.
La nomina del maresciallo Pietro Badoglio a capo di un governo che oggi si direbbe tecnico va tuttavia nel segno della continuità e infatti il nuovo esecutivo si limita all’abolizione degli istituti giuridici più critici dell’ordinamento fascista.
Di contro l’uscita dalla clandestinità delle formazioni politiche antifasciste porta inevitabilmente a ridiscutere l’assetto istituzionale del Paese.
I partiti di sinistra, in testa Pci, Psi e azionisti, sono assai critici verso Casa Savoia, per l’eredità del Ventennio fascista e per il via libera dato a leggi liberticide, a partire dalle leggi razziali del 1938. Dopo l’armistizio, la fuga ignominiosa a Brindisi del re e dei vertici politico-militari contribuisce a rendere il giudizio sulla monarchia ancora più severo.
La divisione dell’Italia in due stati, Repubblica di Salò e Regno del Sud, di fatto in guerra l’uno con l’altro, e l’occupazione del suolo patrio da parte di due eserciti tra di loro nemici, rinviano ogni decisione al dopoguerra. Pesa sul rinvio anche il parere degli Alleati che, a loro volta, hanno opinioni diverse sul futuro istituzionale dell’Italia.
Gli americani, e il loro presidente Roosevelt, premono per l’abolizione della monarchia, anche sull’onda della campagna svolta negli Usa dai fuorusciti antifascisti italiani. Invece gli inglesi, e in particolare Churchill, ritengono che sia essenziale tenere in piedi la monarchia, anche in funzione anticomunista.
Il risultato di questa divergenza di opinioni è che anche il dibattito interno italiano subisce uno stop e, non senza difficoltà, viene concordata una sorta di «tregua istituzionale».

A Roma, il 9 settembre 1943, sotto la presidenza di Ivanoe Bonomi, i rappresentanti dei sei partiti antifascisti (liberali, democristiani, democratici del lavoro, partito d’azione, socialisti, comunisti) danno vita al Comitato di Liberazione Nazionale per chiamare gli italiani alla resistenza contro i tedeschi e, in seguito, contro il redivivo regime fascista.
Successivamente, il 16 ottobre, il Cln approva un ordine del giorno nel quale si stabilisce che la monarchia rimane sub judice sino a dopo la fine della guerra e che «tutti» i poteri costituzionali dello Stato vengono assorbiti dal Comitato.
Di conseguenza i partiti antifascisti si rifiutano di collaborare sia con il re che con il secondo governo Badoglio, costituitosi il 16 novembre 1943, e pongono come precondizione di ogni dialogo l’abdicazione di Vittorio Emanuele.
In realtà sulla questione istituzionale i partiti del Cln sono divisi: azionisti, socialisti e comunisti sono dichiaratamente repubblicani, i democristiani sono tutto sommato agnostici, mentre liberali e demolaburisti sono tendenzialmente monarchici.

Il 28 e il 29 gennaio 1944 si celebra a Bari il congresso delle forze politiche antifasciste che si conclude con la richiesta della convocazione di una assemblea costituente da eleggersi appena finita la guerra e la conferma che l'abdicazione del re è condizione essenziale per la ricostruzione morale ed economica dell'Italia e per la formazione di un governo di coalizione democratica.
Lo stallo nel rapporto tra Cln e monarchia viene superato grazie a tre passaggi: l’entrata in scena di Stalin, che l'8 marzo annuncia il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra l'URSS e l'Italia, il rientro in Italia il 30 marzo di Palmiro Togliatti, che appena arrivato da Mosca, dice in una conferenza stampa e in un comunicato del suo partito che occorre sbloccare la situazione (la cosiddetta Svolta di Salerno), creando un governo di guerra. aggiungendo di non avere alcuna pregiudiziale nei confronti di Badoglio, e l’annuncio di Vittorio Emanuele il 12 aprile alle stazioni radio di Bari e di Napoli di ritirarsi a vita privata, di abdicare e di accettare la luogotenenza all’atto della liberazione di Roma.
Il 5 giugno 1944, il giorno dopo la liberazione della capitale, Vittorio Emanuele firma a Ravello il decreto per la luogotenenza. Ma non è Badoglio a formare il nuovo governo: il Cln chiede e ottiene che esso sia presieduto da Bonomi.
I partiti nella dichiarazione programmatica affermano di volersi dedicare unitariamente alla soluzione dei «problemi vitali e urgenti dell'ora», mettendo da parte la questione «della forma istituzionale dello Stato, che non potrà risolversi se non quando, liberato il Paese e cessata la guerra, il popolo italiano sarà stato convocato ai liberi comizi mercé un suffragio universale ed eleggerà l'Assemblea Costituente».
E il 25 giugno il governo Bonomi, trasferito a Salerno, approva il suo primo decreto legislativo, che stabilisce:  «Dopo la liberazione del territorio nazionale le forme istituzionali dello Stato saranno scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggerà un'Assemblea Costituente».
A liberazione avvenuta, l’Italia che esce dalla guerra discute di che forma istituzionale darsi, con due storie differenti alle spalle. Al Nord c’è un forte clima di speranza e una domanda di innovazione, alimentato dalla Resistenza, e i Cln incidono sulla vita dei cittadini, trattando direttamente con gli Alleati, nominando prefetti e sindaci. Al Sud, invece, che è stato liberato due anni prima e dove i Savoia hanno risieduto, il sentiment positivo verso la monarchia è molto più elevato.
Anche per questo il cammino è accidentato e si apre un dibattito assai acceso sui tempi e sul metodo di scelta tra monarchia e repubblica. Il decreto di Salerno prevedeva che le forme istituzionali sarebbero state determinate dalla Costituente. Alla fine però, dopo discussioni a tratti drammatiche e che fanno sfiorare la crisi al governo presieduto da Parri, prevale la proposta, inizialmente minoritaria, del ministro liberale Cattani di sottoporre la decisione alla diretta consultazione popolare mediante un referendum e di far eleggere contestualmente l’Assemblea Costituente. Sui tempi, vince la tesi di Nenni e di De Gasperi di fare in fretta e di non rinviare oltre, per cui il Consiglio dei ministri fissa la data del 2 giugno 1946.

La campagna elettorale si svolge in un clima non esattamente neutrale. L’apparato statale e le forze dell’ordine sono tendenzialmente monarchiche e, considerata la situazione di difficoltà economica e le agitazioni sociali, lo slogan dei monarchici secondo cui «La repubblica è un salto nel buio» ha buona presa tra i moderati e gli scontenti.
Quanto ai partiti, quelli di sinistra si schierano per la repubblica; i liberali si professano agnostici, anche se sono per lo più monarchici; la Dc dopo un referendum tra i suoi iscritti si pronuncia per la repubblica anche se De Gasperi decide di lasciare libertà di scelta ai suoi elettori.
Il 9 maggio Vittorio Emanuele III di Savoia abdica alla corona d'Italia in favore del figlio, che diventa re Umberto II.
E l’ultimo atto dei Savoia. L’Italia sta per scegliere la repubblica.

(blog Mario Avagliano, 3 febbraio 2017)

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La colpa di chiamarsi Mengele. Così vissero i figli dei nazisti

di Mario Avagliano

  Le colpe dei padri ricadono sui figli? La risposta, in linea teorica, è no. Ma è difficile se non impossibile evitare di fare i conti col passato oscuro del nazismo, tanto più se ti chiami Himmler, Göring, Hess, Frank, Bormann, Höss, Speer o Mengele e sei figlia o figlio di un gerarca criminale del cerchio magico di Adolf Hitler.

È quanto racconta Tania Crasnianski, avvocato penalista franco-tedesca ma con origini russe, nel suo saggio «I figli dei nazisti» (Bompiani, pp. 268, € 18), in libreria in Italia dal 27 gennaio e già in corso di stampa in tutto il mondo, frutto di una lunga ricerca negli archivi pubblici e privati e dello spoglio di carte giudiziarie, lettere, libri, articoli e interviste sulla vita privata dei gerarchi del Terzo Reich e dei loro discendenti.

Otto storie esemplari, narrate con una scrittura rigorosa ma incalzante, sui figli dei fedelissimi di Hitler, nati tra il 1927 e il 1944, cresciuti in un’infanzia dorata, lontana dai clamori della guerra e dalle violenze del nazismo, garantita loro da padri in genere tanto crudeli e cinici nella loro attività di governo, di amministrazione o di polizia quanto affettuosi e amorevoli in famiglia. «La mia famiglia fu l’altro mio santuario. Il mio legame con essa fu saldissimo», ebbe modo di dire Rudolf Höss, comandante del campo di sterminio di Auschwitz. Una doppia personalità, quasi schizofrenica, che in qualche modo veniva fuori già dal ritratto di Eichmann che aveva tracciato Hannah Arendt ne «La banalità del male».

«Ciò che il padre ha taciuto – annotava Nietzsche in «Così parlò Zarathustra» – prende parola nel figlio; e spesso ho trovato che il figlio altro non era, se non il segreto denudato del padre». E infatti molti di questi rampolli dei gerarchi nazisti hanno scoperto la verità sui propri genitori e sul loro ruolo nella macchina di distruzione di massa del nazismo e di sterminio degli ebrei solo dopo la fine del conflitto. Ma le reazioni sono state differenti, a volte completamente opposte.

Giudicare i propri genitori è un’impresa difficilissima. «Come guardare in modo spassionato e imparziale alle persone che ci hanno messo al mondo? Maggiore è la prossimità affettiva, più problematico risulta prendere partito», scrive la Crasnianski. Anche in Italia, personaggi illustri hanno dovuto affrontare il dramma del confronto con il passato fascista dei genitori, dai giornalisti Pierluigi Battista e Giampiero Mughini al comico Paolo Rossi e agli scrittori Marco Lodoli e Margaret Mazzantini.

Le soluzioni adottate dai figli dei gerarchi nazisti si sono polarizzate in modo netto: alcuni si sono allineati alle posizioni dei genitori, altri le hanno condannato fermamente, rarissimo l’atteggiamento di neutralità.

Sono soprattutto le figlie uniche a non aver rinnegato i padri: Gudrun Himmler (chiamata dal padre Püppi, bambolina), sola discendente legittima di Himmler, l’architetto della Soluzione Finale, sempre in giro con una spilla d’argento con una svastica formata da quattro teste di cavallo disposte in cerchio; Edda Göring, figlia del maresciallo del Reich, considerato il Nerone nazista; e Irene Rosenberg, il cui padre era Alfred Rosenberg, l’ideologo del nazismo, nonché ministro dei territori occupati sul fronte orientale. Divenute donne, hanno finito per vivere nel culto del genitore, dedicando la propria vita alla sua riabilitazione.

Anche Hans-Jürgen, il secondogenito di Höss, il comandante di Auschwitz, è rimasto fedele ai vecchi ideali del proprio genitore. Il figlio Rainer lo ha descritto come un uomo violento, dittatoriale e antisemita.

Sull’altro versante, ci sono figli che non se la sono sentita di amare il padre “mostro” e hanno preso le distanze da lui. Niklas Frank, il figlio di Hans Frank, detto il «boia di Cracovia», considera il padre un «assassino», giudicandolo «debole», «fatuo», «ipocrita», «vile», oltre che un patetico «leccaculo». Insieme alle fotografie dei suoi cari, porta con sé anche un’immagine del cadavere del genitore. «Mi piace come è venuto in quella fotografia: è morto», risponde a chi gli domanda chiarimenti.

Rolf Mengele, il figlio di Josef, il medico della morte, ha voluto cambiare il proprio cognome per non tramandare ai figli la vergogna familiare. E non è mancato chi ha cercato di espiare le colpe dei padri scegliendo la via della fede, come Martin Adolf Borman, figlio del potente segretario di Hitler e figlioccio del Führer, diventato missionario cattolico. Addirittura c’è chi si è convertito all’ebraismo, come Aharon Shear-Yashuv, all’anagrafe Wolfgang Schmidt, diventato rabbino dell’esercito israeliano, e la nipote di Magda Göbbels, cioè la figlia del figlio che Magda ebbe dal primo marito Günther Quandt.

E Hitler? Era contento di non avere discendenti: «Che problemaccio se avessi dei figli! Magari si cercherebbe di fare di mio figlio il mio successore! E non è tutto! Per uno come me non c’è speranza che gli nasca un ragazzo in gamba. È la regola. Si veda il figlio di Goethe: un individuo che non servì assolutamente a nulla!».

(Pubblicato in versione più sintetica su Il Messaggero del 26 gennaio 2017)

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