Mario Avagliano

Mario Avagliano

Gli intellettuali spiati dai gendarmi (1945-1980)

Gli intellettuali spiati dai gendarmi (1945-1980)

di  Mario  Avagliano

 

Roma, anni Sessanta. In uno scalcagnato teatro off di via Belli, il Beat 72, dove hanno mosso i primi passi Carmelo Bene e Memè Perlini (e più tardi calcheranno la scena Roberto Benigni e Mario Martone), si tengono spettacolini che disturbano l’Oltretevere. I questurini annotano che il patron Ulisse Benedetti «ha richiesto la licenza per poter tenere pubblici intrattenimenti danzanti». Ma non si fa la danza del ventre: la «sacra messa» viene, come in un sabba demoniaco, oltraggiata dall’«attrice Trombetti Laura, ovvero Laura Betti» che, con capelli cotonati e occhi contornati da una pesante sottolineatura di eyeliner, si esibisce in «una Messa rossa con spogliarello».

 

Cos’ha da spartire l’attrice Laura Betti con gli scrittori Italo Calvino, Carlo Cassola ed Elsa Morante, i pittori Renato Guttuso ed Ernesto Treccani, i registi Pier Paolo Pasolini ed Elio Petri, i giornalisti Giorgio Bocca e Giampiero Mughini e tanti altri intellettuali, artisti ed uomini di spettacolo della Prima Repubblica pedinati dalla polizia e dai carabinieri? Sono personaggi che nessuno si aspetterebbe di ritrovare in mattinali e faldoni della Questura. Eppure sotto controllo per anni ci sono stati proprio loro, a causa dell’appartenenza o vicinanza al Psi e al Pci (e in seguito ai gruppuscoli di estrema sinistra), come rivela il bel libro di Mirella Serri Sorvegliati speciali. Gli intellettuali spiati dai gendarmi (1945-1980), in uscita il 16 febbraio da Longanesi (pp. 279, euro 18). 

 

L’Italia non era la Germania dell’Est del film La vita degli altri, ma certo per decenni i governi a guida democristiana attivarono un’infiltrazione metodica nelle riunioni riservate, cenacoli e circoli che impegnarono le più note teste d’uovo della sinistra, dalla A di Alberto Asor Rosa alla Z di Za ovvero Cesare Zavattini. I segugi – travalicando i compiti istituzionali di pubblica sicurezza – schedavano inclinazioni sessuali, lavori, patrimoni e lo fecero pure per coniugi, amanti, fratelli. La strana vicenda s’intensificò in epoca scelbiana, quando si lavorò intensamente per schedare l’intellighentia di sinistra, ritenuta non solo un covo di potenziali sovversivi ma anche la longa manus della propaganda d’opposizione. 

 

Nei rapporti riservati della polizia emerge la “verità” degli investigatori sull’egemonia culturale del Pci. Un documento del 1954 denuncia che il mondo dello spettacolo è tutto «infiltrato di comunisti e sostenuto dai loro giornali, così che, quando la censura si abbatte con la sua mannaia, i produttori, da Ponti a De Laurentiis, scatenano una canea». Di Vittorio De Sica si sottolinea che il film Stazione Termini è stato prodotto «contro il volere dell’onorevole Andreotti». Quanto a Vittorio Gassman, sarebbe stato politicamente influenzato dal regista Luchino Visconti, «notoriamente affetto da omosessualità». Per il grande Eduardo De Filippo, nonostante il suo antico antifascismo, si adombra il sospetto che l’attivismo nel Pci sia dovuto alla bocciatura di due suoi progetti cinematografici, tra cui uno con Totò.

 

Negli anni Settanta nel mirino dei governi finiranno anche i giovani Gad Lerner, Giangiacomo Feltrinelli, Marco Bellocchio e Paolo Liguori, che a vario titolo militavano nei movimenti di sinistra.  Ma il libro della Serri non è solo una storia di spie. È anche un ritratto tra luci ed ombre dell’intellighenzia italiana che trovò dimora nel Pci, non di rado dopo aver indossato la camicia nera. L’obiettivo dichiarato degli intellettuali era quello di difendere libertà di scelta e di espressione, alzando le barricate contro il potere democristiano, peraltro molto suscettibile quando si sfioravano i nervi scoperti della religione e della morale, come dimostrò il divieto pervicace nel ’63 nei confronti di Gian Maria Volontè di mettere in scena Il vicario di Rolf Hochhuth, un testo in cui si denunciava l’atteggiamento acquiescente di Pio XII verso i nazisti e lo sterminio degli ebrei.

 

Peccato tuttavia che, come osserva la Serri, gran parte di loro fece anche di più, con toni oggi quasi surreali per accenti, ovazioni e genuflessioni, per mitizzare acriticamente il socialismo reale dell’Urss  e dei paesi satelliti e poi, negli anni Settanta, dei paesi socialisti “esotici” emergenti, dalla Cina a Cuba. Pochi furono gli intellettuali che non si adeguarono alla ragion di partito e, per dirla con Norberto Bobbio, difesero «la libertà individuale contro i regimi assolutistici». 

 

Così quando nel gennaio del 1969, a Roma, i giovani universitari di Scienze politiche vollero commemorare  il sacrificio di Jan Palach, all’evento si presentò un solo uomo di spettacolo: Gianfranco Funari, lo showman dal marcato accento romanesco e dalla vistosa dentatura. Tutto il bel mondo dell’intellighenzia impegnata disertò l’appuntamento. Un atteggiamento opportunistico che, conclude la Serri, diversi uomini di spettacolo ed intellettuali, come l’ex marxista Lucio Colletti, hanno riproposto in egual modo in epoca berlusconiana in favore del nuovo Principe.


(Il Messaggero, 14 febbraio 2012)

Roma. La Repubblica degli stranieri

Roma. La Repubblica degli stranieri

 
di Mario Avagliano
 
 
Roma, 3 luglio 1849. Ultime ore della Repubblica. Mentre il triumviro Giuseppe Mazzini verga un ultimo commosso proclama ai romani, l’esercito francese del generale Oudinot avanza lentamente da piazza del Popolo lungo via del Corso, in un silenzio tombale. “L’entrata dei francesi somigliò piuttosto a un corteo funebre che a un trionfo. Essi non riuscirono a trovare una persona che gli indicasse le caserme che gli erano state assegnate. I quattro primi individui che si rassegnarono a servirgli da guida caddero sotto i colpi dei pugnali dei loro compatrioti. Queste scene provano il patriottismo esaltato dei Romani. Un simile popolo è degno che si versi il sangue per lui”.
La cronaca dal vivo è dell’anziano colonnello Fijalkowski, che guida i duecento soldati della legione polacca, accorsi in difesa dell’esercito di straccioni in blusa rossa guidato da Giuseppe Garibaldi, sventolando fieramente la bandiera polacca e la sciarpa tricolore italiana. L’epopea della Repubblica romana, proclamata il 9 febbraio 1849 e durata neppure cinque mesi, è stata scritta anche da quel pugno di polacchi senza più patria, e da centinaia di francesi, belgi, bulgari, tedeschi, spagnoli, olandesi, ungheresi, americani, svizzeri, inglesi, perfino un finlandese, innamorati degli ideali di libertà, uguaglianza, fraternità della rivoluzione francese. Una brigata internazionale di volontari che, circa un secolo prima della guerra di Spagna, si mobilitò da ogni angolo d’Europa per contribuire alla disperata resistenza di Roma.
 
Di questa pagina del Risorgimento, definita dallo storico G. M. Trevelyan “il più commovente di tutti gli episodi della storia moderna”, si è parlato molto nell’anno delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità. Brunella Diddi e Stella Sofri, in Roma 1849. Gli stranieri nei giorni della Repubblica (Sellerio, pp. 219, euro 16), hanno scelto un inedito punto di vista per raccontarla, quello delle coraggiose donne e degli impavidi uomini stranieri che parteciparono all’esperienza repubblicana,.
Un piccolo esercito cosmopolita costituito da soldati, intellettuali, artisti, antiquari, professionisti e nobili, che in quei giorni imbracciò i moschetti al comando degli italianissimi Luciano  Manara, Carlo Pisacane, Enrico Dandolo, concludendo le giornate di guerra a cena in osteria, per festeggiare lo scampato pericolo. Una generazione romantica e appassionata, imbevuta del mito classico di Roma, che nei giorni della Repubblica sparò e si ubriacò, s’innamorò, scrisse versi e articoli infiammati, raccolse fondi e dipinse quadri, lasciando poi diari, memoriali, raccolte di lettere, biografie, per documentare quella breve stagione di speranze.
Tra le figure che affollano questo bel saggio, spicca Margaret Fuller, giornalista del New York Tribune, amica di Hawthorne, Thoreau e Emerson. Amante di un nobile italiano decaduto, Giovanni Angelo Ossoli, Margaret all’epoca della proclamazione della Repubblica si trovava già a Roma. Ebbe la ventura di assistere all’assassinio del ministro pontificio Pellegrino Rossi e diventò fin dall’inizio la cronista (di parte) della rivoluzione romana per il suo giornale. In seguito fu tra i responsabili al Fatebenefratelli del servizio di cura dei feriti di guerra diretto dalla principessa Cristina di Belgiojoso, assieme ad Enrichetta Di Lorenzo, compagna di Pisacane.
In una lettera a Waldo Emerson del 10 giugno Margaret racconterà la sua drammatica ma al tempo stesso esaltante esperienza accanto ai feriti: “Ho ricevuto la tua lettera tra il tuono della cannonate e dei moschetti. C’è stata una terribile battaglia qui dall’alba alle ultime luci del giorno. (…) Gli italiani si battono come leoni”. La Fuller sarà anche testimone diretta dell’eroismo delle donne sulle barricate che “raccolgono le palle dei cannoni nemici e le portano ai nostri”.
Anche il pittore olandese Philip Koelman risiedeva a Roma da alcuni anni. Nel 1849 interruppe la sua esistenza di artista bohémien, frequentatore di atelier e caffè, e conquistato dal fiammeggiante Garibaldi, acclamato dalla folla al grido di “evviva il brigante” (come scrive nelle sue memorie), si schierò con i repubblicani assieme agli amici più cari, il fiammingo Victor e il giovane Perequillo, proveniente da L’Avana.
Altri stranieri invece giunsero nell’Urbe in quei giorni di rivoluzione, irrequieti Che Guevara dell’Ottocento che vagavano per l’Europa seguendo la mappa delle rivolte politiche, come lo svizzero Gustav de Hoffstetter, che nel suo diario sui giorni della Repubblica ci regala deliziose descrizioni di Garibaldi, che sedeva sul cavallo “come se vi fosse nato sopra”, e di Anita, che “vestiva all’amazzone” e “portava il cappello alla calabrese con una penna di struzzo”.
Molti volontari stranieri persero la vita sul campo di battaglia, come il polacco Alexander Podulak, l’americano Manuelito e il francese Gabriel Laviron, e ancora ungheresi, belgi, svizzeri. Quanto alle donne, caduta la Repubblica, furono additate dalla Chiesa come “prostitute”. Di questi romantici eroi oggi resta poco, a parte il tempietto fatto edificare da Garibaldi sul Granicolo, dove furono traslate le salme. Ricordare i loro nomi dimenticati, le loro gesta e i loro sogni di libertà, come fanno Brunella Diddi e Stella Sofri, romane del quartiere Monteverde, è un atto meritorio che va rimarcato.
 
(Il Messaggero, 28 febbraio 2012)
 

Mario Fiorentini, Via Rasella: "Non fu attentato ma atto di guerra"

Mario Fiorentini, Via Rasella: "Non fu attentato ma atto di guerra"

 
di Mario Avagliano
 
"Via Rasella fu un atto di guerra. Per favore non chiamatelo attentato. Noi eravamo combattenti per la libertà". A 68 anni da quel 23 marzo 1944, parla Mario Fiorentini, il "regista" dell'azione partigiana che uccise trentatre SS polizei del Battaglione Bozen nel cuore di Roma (nei giorni seguenti il bilancio finale salì a 44, compresi due civili italiani). Se Rosario Bentivegna (nome di battaglia Paolo), travestito da spazzino, accese la miccia dell'ordigno nascosto in un carretto dell'immondizia, fu Mario Fiorentini (nome di battaglia Giovanni), intellettuale comunista dai capelli arruffati, figlio dell'ebreo Pacifico, amico di Luchino Visconti, Vittorio Gassman, Lea Padovani, Vasco Pratolini e dei pittori di via Margutta, a ideare l'attacco al Battaglione e a progettarlo in ogni minimo dettaglio, anche se avrebbe voluto realizzarlo in un luogo diverso.
Per lei tutto ebbe inizio il 16 ottobre 1943, giorno della retata degli ebrei da parte delle SS di Kappler.
Quel giorno ero in via Capo le Case n. 18, una traversa di via del Tritone, dove abitavo con la mia famiglia (e dove era stato Mazzini all’epoca della repubblica Romana). Mio padre era ebreo, ma non frequentava la comunità e perciò non era nelle loro liste. Di mattina alla nostra porta bussarono i tedeschi. In realtà cercavano un mio zio. Io ero già nella Resistenza. Li vidi arrivare e feci in tempo a scappare, rifugiandomi in via Margutta, nello studio di Afro e Mirco Basaldella, assieme ai pittori Emilio Vedova e Giulio Turcato. I tedeschi presero i miei genitori e li portarono via; poi mia madre inventò uno stratagemma e riuscirono a fuggire.
Come le venne l’idea di attaccare le SS proprio a via Rasella?
In clandestinità io e i miei compagni di lotta cambiavamo di continuo i nascondigli. Qualche volta dormivo presso una zia che risiedeva dall'altro lato di via del Tritone, vicino a via Rasella. Fu allora che notai il passaggio del Battaglione Bozen in quella strada stretta e in salita. Rividi in quelle divise e in quei passi di marcia nel cuore della città il verde marcio di quelli che erano venuti a prendere i miei genitori. E pensai di agire. Psicologicamente l'ho vissuta così.
È vero che il piano originario era diverso?
Sì, avrebbe dovuto svolgersi in Via delle Quattro Fontane, attaccando i tedeschi appena uscivano da Via Rasella e svoltavano a destra. Fu Carlo Salinari a comunicarmi il cambiamento di programma. Io ero contrario e manifestai il mio disappunto. Non sono mai riuscito a capire da parte di chi venne l’ordine: Giorgio Amendola, della giunta militare nazionale, oppure Cicalini e Molinari della giunta regionale.
L’attacco partigiano di Via Rasella fu un attentato terroristico?
No, fu una battaglia, come ha detto Giorgio Amendola. Non c’è stata solo l’esplosione dell’ordigno nel carretto trasportato da Rosario Bentivegna. Le squadre dei gappisti hanno attaccato i tedeschi  da più lati con bombe da mortaio brixia modificate. Dal punto di vista militare è stata un’azione perfetta, senza nessuna perdita per noi. Kappler trovò 32 morti (uno morì poche ore dopo) e frammenti di bombe da mortaio. Per molto tempo pensò di essere stato attaccato con i mortai; andò anche al Quirinale a cercarli. Fu il questore Caruso a dire a Kappler che i mortai non c’entravano nulla: era stato un gruppo di ragazze e di ragazzi a portare l’attacco alla colonna delle SS.
Perché fu scelto il 23 marzo?
Quella data era molto importante per i fascisti perché ricorreva l’anniversario della fondazione dei Fasci di Combattimento.
Alessandro Portelli ha scritto che via Rasella fu anche una risposta alle violenze quotidiane degli occupanti nei confronti dei romani.
Roma era usata dai tedeschi come un retrovia del fronte ed era attraversata ogni giorno da convogli militari. Via Rasella  è stato l’atto più eclatante di un programma di lotta che avevamo già avviato nell’ottobre del '43 e che ci veniva ordinato dagli Alleati e dal Cln. Gli Alleati erano in serie difficoltà sul fronte di Anzio, stavano per essere rigettati in mare con conseguenze catastrofiche per la guerra. La Special Force inglese e l'OSS statunitense avevano paracadutato degli agenti segreti nella capitale e ci esortavano a colpire duramente i tedeschi. Dovevamo dimostrare che non erano invincibili. In questo quadro vanno considerate le azioni che precedettero via Rasella: l'attacco ai tedeschi alla caserma di Viale Giulio Cesare, al carcere di Regina Coeli, all'albergo Flora, fuori dal cinema Barberini, alla sfilata fascista in via Tomacelli e poi, ancora, in via Crispi, a Villa Borghese, in via Veneto, a piazza dell'Opera. Stavamo preparando anche un assalto al carcere di via Tasso.
L'azione di via Rasella è stata criticata per la sua presunta inutilità militare.
Non sono d’accordo. Dopo via Rasella il comando militare tedesco vietò alle sue truppe di utilizzare la città per i trasporti di uomini e materiali bellici. Questo è un primo risultato di natura militare e strategica rilevante, perché i tedeschi furono costretti ad "allargare" il loro percorso, esponendosi così ai bombardamenti e alle azioni partigiane lungo le strade consolari. Inoltre l’enfasi che le radio alleate diedero all’attacco di via Rasella, rappresentò una spinta morale per tutti i partigiani che combattevano nell’Italia occupata. Anche negli Stati Uniti il giudizio degli storici è questo, come ho potuto constatare alcuni anni fa in una conferenza su via Rasella all’Università del Connecticut.
E’ vero che voi gappisti sapevate che la vostra azione avrebbe provocato una rappresaglia? E che i tedeschi affissero dei manifesti per invitarvi a consegnarvi?
Niente affatto. Nei sei mesi precedenti noi gappisti avevamo compiuto tanti attacchi dentro Roma, ma i tedeschi e i fascisti li tenevano quasi sempre nascosti, senza reagire, se non con misure come il divieto di circolare con le biciclette o quella dell’anticipazione del coprifuoco. A nessuna delle azioni che avevamo fino ad allora compiuto, era seguita una rappresaglia. La storia dei manifesti, poi, è una falsità assoluta.
Che cosa provò quando seppe dell’eccidio alle Fosse Ardeatine?
Noi non abbiamo avuto subito contezza della gravità del fatto. Il giorno dopo ho incontrato Salinari e Calamandrei e non avevamo ancora notizia della rappresaglia, anzi abbiamo discusso e avevamo progettato altre azioni. L’ho appresa solo il 26. Ricordo che provai uno sconfinato dolore per le vittime ma anche sconcerto, incredulità. Non avrei mai immaginato che i tedeschi avrebbero avuto questa reazione così violenta, né che agissero così in fretta, in meno di venti ore. D’altronde fin da quando abbiamo iniziato a combattere, quella delle rappresaglie era una spada di Damocle sulla nostra testa. Ma l’alternativa qual era? Restare fermi? Sarebbe stato un errore. I tedeschi decisero di abbandonare Roma senza difenderla anche per la paura di un’insurrezione dei “comunisti-badogliani”. Temevano altre via Rasella. 
 
(Il Messaggero, 23 marzo 2012)
 
 
CHI SONO
Mario Fiorentini, classe 1918, vive a Roma assieme alla moglie Lucia Ottobrini (nomi di battaglia Maria e Leda), anche lei coraggiosa gappista nei sette mesi di guerriglia urbana tra l'ottobre 1943 e l'aprile 1944. Nel dopoguerra Fiorentini è diventato un matematico di fama internazionale. I suoi studi sono pubblicati in ogni parte del mondo.
Mario, 94 anni e Lucia, 88, vantano ben quattro medaglie d'argento al valor militare e cinque croci di guerra.
 

Il libro dei patrioti trucidati dai Borbone

di Mario Avagliano  

A oltre due secoli dalla gloriosa esperienza della  Repubblica Napoletana, il Pantheon dei Martiri del 1799 torna alla luce, grazie alle ricerche di Antonella Orefice, storica che ha già al suo attivo diversi studi  che hanno contribuito a far chiarezza sulle vite e le imprese di alcuni protagonisti di quell’epopea. 
Composto da 57 fogli di carta pergamena, vergati in lingua latina e greca, il Pantheon è stato ritrovato dalla Orefice tra le preziose carte inedite del fondo archivistico D’Ayala, custodite presso la sede della Società Napoletana di Storia Patria, nel silenzio delle torri del Maschio Angioino, messe a disposizione della studiosa dalla presidente Renata De Lorenzo. Ora viene proposto per la prima volta nel libro Mariano D’Ayala e il Pantheon dei Martiri del 1799 di Antonella Orefice (editore l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), che sarà presentato il prossimo 13 giugno a Napoli, con la partecipazione della stessa De Lorenzo, autrice della nota introduttiva, e del pm Henry John Woodcock, al quale è stata affidata la prefazione.
 
Il libro della Orefice è dedicato alla figura di Mariano D’Ayala, storico e politico dell’Ottocento, che fu tra i primi a combattere la damnatio memoriae sui fatti del 1799 voluta dai Borbone, divenendo per questo loro nemico ed essendo  condannato dapprima  al carcere e poi all’esilio. D’Ayala, pur tra mille difficoltà, fino a gli ultimi giorni della sua vita non interruppe mai la sua opera di ricerca storica, recuperando documenti, cimeli e memorie sulle Vite dei benemeriti italiani uccisi per mano del carnefici, come è intitolata la sua opera postuma, curata dal figlio Michelangelo .
Uno di questi cimeli è appunto l’opera denominata dal D’Ayala Pantheon, ma il cui titolo originale è Apoteosi dei patrioti. Si tratta di una tavola necrologica nominale, di autore anonimo, risalente al 1799 o ai primissimi anni dell’Ottocento, in cui vengono commemorati i patrioti della Repubblica Napoletana, attraverso la creazione di sarcofagi immaginari su cui è inciso il loro nome seguito da quello di eroi greci o latini e da una citazione tratta dai classici.
Nel volume della Orefice, oltre alla riproduzione completa del Pantheon posseduto dal D’Ayala, viene proposta anche la traduzione di tutta l’opera a cura di Antonio Salvatore Romano. Il manoscritto inizia con un proemio in latino a cui fa seguito una tavola di novantasette nominativi. I primi tre martiri citati, Emmanuele De Deo, Vincenzo Galiani e Vincenzo Vitaliani sono i giustiziati della congiura giacobina del 1794. I fratelli Ascanio e Clemente Filomarino ed il generale tedesco Giuseppe Writz aprono la lunga lista dei giustiziati del ’99, pur se costoro furono uccisi i primi per mano dei lazzari all’alba della Repubblica Napoletana nel gennaio del 1799, mentre il generale Writz cadde nella battaglia di Vigliena il 13 giugno, il giorno che i sanfedisti riuscirono ad entrare in Napoli ed a costringere i repubblicani alla resa.
Seguono, ma non tutti in ordine cronologico di esecuzione, i giustiziati di Napoli nelle pubbliche piazze, alcuni caduti in battaglia, altri giustiziati a Procida nel giugno del 1799. La presenza di alcuni nomi aggiunti alla fine dell’opera, Bernardino Rulli, Vincenzo Porto e Giuseppe Maria Capece Zurlo, personaggi illustri che patirono certamente la reazione borbonica ma non furono condannati a morte, rende chiaro l’intento dell’autore di celebrare i più noti protagonisti della rivoluzione del 1799.
Mariano D’Ayala riportò le epigrafi latine contenute nel Pantheon nel suo saggio Vite degli Italiani benemeriti della Libertà e della Patria, definendo il manoscritto “un documento molto raro scritto da un uomo dottissimo nel greco e nel latino” e attribuendolo, col beneficio del dubbio, ad Antonio Jerocades, abate e poeta italiano. Ad avviso della Orefice, “la supposizione non sembra così azzardata se si pensa non solo all’uomo erudito in lingue classiche, amico di tanti patrioti di quel tempo, ma alla vita stessa dello Jerocades che aveva partecipato con grande coinvolgimento, sin dal 1794, ai moti giacobini napoletani ed aveva fondato la Società Patriottica con Carlo Lauberg, scelte che gli costarono più volte il carcere e poi l’esilio a Marsiglia”.
Una totale messa in discussione sia della genesi che dell’originalità del documento, è stata tentata alla fine dell’Ottocento da un docente privato di Lettere, Alberto Agresti, socio dell’Accademia Pontaniana che, in una memoria pubblicata nel volume XXIX degli Atti della stessa Accademia, ha cercato di ribaltare non solo la presunta paternità dell’opera posseduta dal D’Ayala e da lui attribuita ad Antonio Jerocades, ma anche l’autenticità dello stesso, definendolo “copia di poco valore”, “scorretta ed incompiuta”
Una testi che viene rigettata nel volume curato da Antonella Orefice, grazie a una perizia grafologica sui frontespizi di entrambi i documenti compiuta da Alberto Mario D’Alessandro. Mettendo così fine al mistero del Pantheon dei Martiri e restituendo questo eccezionale documento ai lettori.
 
(Il Mattino, 1° giugno 2012)
Sottoscrivi questo feed RSS