Pinocchio in camicia nera

di Mario Avagliano
 
   In fondo in fondo c’è un Pinocchio in ogni politico italiano. Come recita la filastrocca di Benito Jacovitti, “fu il pupazzo di Collodi / cucinato in tutti i modi”. La fiaba senza tempo del burattino di legno è stata infatti terreno di conquista da parte della politica made in Italy, che già a partire dalla Grande guerra - a destra come a sinistra – l’ha manipolata a proprio piacimento allo scopo di denigrare l’avversario o di educare pedagogicamente gli elettori.
Così al Pinocchietto delle origini, imbevuto di ideali socialisti e inviso ai preti e al Vaticano, si è alternato il giovanotto vivace in camicia nera o in divisa di Salò, dispensatore indigesto di olio di ricino e di bastonature ai “burattini comunisti” o agli odiati inglesi. Per poi indossare nel dopoguerra le vesti del cattolico scudocrociato (dopo la rivalutazione di Collodi operata dal critico letterario Piero Bargellini) o del comunista modernista Chiodino, con tanto di falce e martello. Sempre con il Gatto e la Volpe e Lucignolo a recitare la parte dei cattivi.
Lo racconta il saggio “Favole e politica. Pinocchio, Cappuccetto Rosso e la guerra fredda” (Il Mulino, pagg. 188, euro 19). Dopo l’analisi di come nacque e si sviluppò la leggenda popolare secondo cui "I comunisti mangiano i bambini", questa volta lo storico Stefano Pivato indaga con arguzia altre iperboli favolistiche nella propaganda politica del Belpaese.
All’inizio del Novecento, l’ingresso delle masse nella politica indusse i partiti ad utilizzare un linguaggio più semplice e persuasivo, facendo ampio uso di metafore e di apologhi. Quale miglior modo di “arrivare” al popolo, compresi gli analfabeti o gli italiani di livello d’istruzione più basso, del raccontare le favole? Non solo nel senso di dir panzane. Ma soprattutto del ricorso a strutture narrative proprie della tradizione fiabesca, mescolando elementi di satira con riferimenti alla zoologia, alla miracolistica e alla fisiognomica. Senza disdegnare incursioni nel mondo del fumetto, come nel caso di Paperino fascista che si reca in Etiopia per far opera di civilizzazione.
Una tendenza che proseguì anche dopo il ventennio mussoliniano, nel clima grigio e pesante della guerra fredda e della minaccia nucleare, che ispirò la rappresentazione degli avversari quali veri e propri “mostri”. Ecco allora il lupo di Cappuccetto rosso, con le fauci spalancate, impersonare di volta in volta il segretario comunista Togliatti o viceversa l’America nell’atto di divorare l’Italietta; il leader sindacale Giuseppe Di Vittorio ritratto con l’anello al naso e due capi di Stato del livello di Truman e Stalin vestire i panni dell’Orco mangiafuoco. O ancora De Gasperi e i ministri democristiani disegnati come voraci topi roditori che affamano gli italiani o le donne dell’Azione cattolica brutte come scimmie e ricoperte di peluria, simbolo dell’antimodernità e della conservazione della Dc.
Personaggi delle fiabe, ma anche leggende metropolitane. Come quella costruita sui cosacchi che, in caso di vittoria dei comunisti, avrebbero abbeverato i loro cavalli nella fontana di San Pietro. O ancora quella legata al campione sportivo “crociato”, il  cattolico Gino Bartali, che nel 1948  grazie all’aiuto divino, vincendo il Tour de France avrebbe salvato a colpi di pedale l’Italia sull’orlo della rivoluzione in seguito all’attentato a Togliatti. Eroe positivo contrapposto al comunista Fausto Coppi e al fascista Fiorenzo Magni.
In questo tipo di racconto presenze divine e ultraterrene si sostituiscono a orchi e fate. Con le rivelazioni della Madonna di Fatima sulla rivoluzione bolscevica e le madonne pellegrine che nell’immediato dopoguerra piangono sangue per l’imminente pericolo rosso. O, sull’altro versante, con la mitizzazione del Paradiso sovietico e di Stalin come “Piccolo Padre”.
Un mondo grottesco in cui “quelle costruzioni fantastiche – come osserva Pivato – si affiancano, quando non si sostituiscono del tutto, all’argomentazione e alla discussione grazie anche alla loro facilità a trasformarsi in vulgata, invettiva e modo di dire”.
Si tratta quindi di racconti che stanno ai gradini più bassi della comunicazione, una vera e propria infantilizzazione del racconto della politica rivolto al mondo adulto. Dando ragione alla celebre opera di Ellen Key, che definì il Novecento il secolo del fanciullo.
Stereotipi e modalità di propaganda politica che peraltro resistono anche nell’era moderna dei social, ancora dominata da giaguari e pitonesse. Un’era in cui, ad esempio, l’ex comico Beppe Grillo non si fa scrupolo di apostrofare con il sempreverde nomignolo di Pinocchio sia il Berlusconi del 2008 che il Renzi di oggi, ricambiato con egual moneta con un’altra citazione dall’immortale favola di Collodi: quella del “grillo parlante”.

(Il Messaggero, 7 dicembre 2015)

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