Storie – Artisti, dissidenti ed ebrei in fuga dai nazisti in Francia

di Mario Avagliano

«Nell’agosto del 1940 lasciai New York per una missione segreta in Francia, una missione che molti dei miei amici consideravano pericolosa. Partii con le tasche piene di elenchi di uomini e donne che dovevo soccorrere e con la testa piena di suggerimenti su come farlo».

Quell’estate gli Usa non erano ancora entrati in guerra ma «un gruppo di cittadini americani, convinti che i democratici dovessero aiutare i democratici, senza badare alla nazionalità, creò subito l’Emergency Rescue Committee», con l’obiettivo di far espatriare il maggior numero di esuli europei - artisti, intellettuali, antifascisti, antinazisti, ebrei - che avevano trovato rifugio in Francia e che erano ricercati dalle polizie segrete italiane, tedesche e spagnole (Gestapo, Ovra e Seguridad) e dalla stessa Francia filonazista di Vichy, che una volta arrestati, spesso li consegnava direttamente alla Germania.
L’agente al quale viene affidata questa gigantesca operazione di salvataggio è un giovane giornalista liberal, Varian Fry, che viene mandato a Marsiglia, in Costa Azzurra. L’elegante e ostinato Fry, in appena tredici mesi, mette in piedi una rete clandestina, coinvolgendo una pattuglia di volontari, tra cui la bella ereditiera americana Mary Jayne Gold, e tenendo riunioni nei posti più impensati (dalle toilettes ai postriboli) per sfuggire alle intercettazioni.
Nonostante la ritrosia dei funzionari del consolato statunitense a Marsiglia a rilasciare i visti, Fry riesce, con mezzi legali e illegali, ad ottenere i permessi e ad organizzare la fuga in Usa di centinaia di persone (ne sono stati calcolate più di 1.500), tra cui grandi nomi dell'arte, della scienza e della cultura, quali Marcel Duchamp, André Breton, Marc Chagall, Max Ernst, Arthur Koestler, Hannah Arendt.
La sua azione febbrile in favore dei rifugiati non passa inosservata. A settembre 1941 Fry è costretto a lasciare l’Europa: la polizia di Vichy lo ha espulso dalla Francia e il consolato americano non gli ha rinnovato il passaporto. Tornato in Usa, scrive di getto il racconto delle sua esperienza e, non senza difficoltà, lo pubblica, poiché contiene aspre critiche all’atteggiamento degli Stati Uniti verso gli esuli.
Ora le sue memorie escono per la prima volta in Italia, per i tipi della Sellerio (Varian Fry, «Consegna su richiesta. Marsiglia 1940-1941. Artisti, dissidenti ed ebrei in fuga dai nazisti»).
Solo trent’anni dopo la sua morte, Varian Fry è stato riconosciuto come uno dei Giusti tra le nazioni, primo cittadino americano a comparire nella lista, e nel 1998 ha ricevuto la cittadinanza onoraria dello Stato di Israele. Dalla vicenda narrata nel suo libro è stato tratto il film Varian’s War, con William Hurt e Julia Ormond.

(L'Unione Informa, 19 febbraio 2013)

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Storie – Stati Uniti 1938, una nuova terra promessa

di Mario Avagliano

Nelle pieghe della memoria, per molti versi sbiadita, delle leggi razziali in Italia, è conservata una vicenda individuale e collettiva: l’emigrazione forzata di circa duemila ebrei italiani negli Stati Uniti. Professori universitari, medici, avvocati, scienziati, giornalisti, artisti ma anche gente comune, costretti dai provvedimenti persecutori ad abbandonare la patria che li aveva disconosciuti come cittadini e a rifarsi una vita al di là dell’Oceano Atlantico, spesso ottenendo prestigiosi riconoscimenti. Dai premi Nobel Salvador Luria e Franco Modigliani all’architetto Giorgio Cavaglieri, dall’artista Leo Castelli al musicista Mario Castelnuovo Tedesco, dal cardiologo Massimo Calabresi al fisico Emilio Segrè e ai manager Giorgio Padovani, Giorgino Funaro ed Enrico Pavia. Il loro dramma è stata ricostruito nel libro America nuova terra promessa. Storie di ebrei italiani in fuga dal fascismo (Francesco Brioschi editore, pp. 192) di Gianna Pontecorboli, giornalista italiana che vive a New York e collabora con il Centro Primo Levi.
Attraverso le interviste ai testimoni e ai loro parenti, la Pontecorboli racconta la corsa ad ostacoli per ottenere il visto per l’America (impresa non facile, anche per l’opposizione di un potente funzionario americano, Breckinridge Long, ex ambasciatore a Roma e ammiratore di Mussolini), l’impatto con il nuovo continente, che non sempre li accetta bene, il legame indissolubile con l’Italia, l’adesione di molti di loro alla causa dell’antifascismo (ad esempio nell’ambito della Mazzini Society), il contributo dato alla Liberazione del nostro paese e al processo di ricostruzione ma anche la decisione della maggior parte di quegli italiani traditi di restare negli Stati Uniti, la nazione che aveva dato loro la possibilità di una vita dignitosa e senza persecuzioni. Una pagina di storia importante anche per comprendere, come scrive Furio Colombo nell’introduzione, le responsabilità dell’Italia e degli italiani non ebrei, senza indulgere, come si continua a fare, nell’auto-assoluzione. Tanto più in vista del 75° anniversario delle leggi razziali del novembre 2013.

(L'Unione Informa e portale Moked.it, 6 agosto 2013)

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La Rivoluzione Etica. Da Giustizia e Libertà al Partito d'Azione

di Mario Avagliano

«L’esperienza del Partito d’Azione è stata una luminosa meteora nella storia del nostro Paese. Eppure, la sua cultura, nonostante la breve vita, è quanto mai viva perché è una Scuola di Democrazia», si legge nel libro di Vittorio Cimiotta intitolato "La Rivoluzione Etica. Da Giustizia e Libertà al Partito d'Azione" (Mursia, pp. 370, euro 20). Un saggio importante che ripercorre le tappe salienti dell’esperienza politica di GL e del Partito d’Azione, e dei loro principi e idee, riconoscendone la grande validità anche nella società contemporanea in balia di una grave crisi morale e civile.

Il movimento Giustizia e Libertà, ricorda Cimiotta, venne fondato nel 1929 a Parigi da Carlo Rosselli e da altri fuoriusciti antifascisti con l’obiettivo di organizzare un’opposizione attiva ed efficace al regime di Mussolini, alternativa a quella comunista.
Dall’incontro tra giellisti, liberalsocialisti, sostenitori del liberalismo progressista gobettiano, esponenti del liberalismo amendoliano e del Partito Repubblicano, nacque nel 1942 la breve ma intensa esperienza politica del Partito d’Azione che, dopo la caduta del duce, organizzò bande partigiane, partecipò alla Resistenza con le Brigate Giustizia e Libertà e contribuì alla stesura della Carta Costituzionale.
Grandi personalità, come Mazzini, Salvemini, Gobetti, i fratelli Rosselli, Parri, Calamandrei e La Malfa, hanno lottato per dar vita a un modello di società basato sull’etica nella politica e nella comunità, di cui il giellismo e l’azionismo sono stati portatori ed esempi.
E il Partito d'Azione fu un lievito importante che nel dopoguerra, dopo il suo scioglimento, trasmigrò nel Pri così come nel Psi e nel Pci, immettendo in quei partiti motivi centrali della lotta politica democratica fino a far parlare nella storia italiana di una "fede azionista" sopravvissuta alla fine del partito.
"Il saggio di Cimiotta - scrive nella prefazione Nicola Tranfaglia - che è nello stesso tempo agile e aggiornato, ricco dei riferimenti storici necessari, rappresenta un contributo utile a introdurre per le nuove generazioni un mondo e un movimento che hanno costituito per molti decenni raggi di luce nella nostra storia".
Preziosa anche l'appendice finale, che propone le biografie di molti degli azionisti più famosi.

Vittorio Cimiotta è nato a Marsala (Trapani) e vive a Roma. È vicepresidente nazionale della FIAP (Federazione Italiana Associazioni Partigiane), fondatore della Federazione nazionale dei circoli storici Giustizia e Libertà, socio cofondatore della Fondazione Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini di Firenze, membro del Comitato dei Garanti della rivista «Il Ponte» di Firenze fondata da Piero Calamandrei e infine componente del Consiglio Direttivo del Museo Storico della Liberazione di Via Tasso di Roma.

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Storie – Colorni e il sogno europeo

di Mario Avagliano

Tra le figure meno conosciute della Resistenza e dell’antifascismo italiano c’è quella di Eugenio Colorni, filosofo brillantissimo, confinato politico, partigiano, uno dei tre coautori del Manifesto di Ventotene precursore dell’Unione Europea (gli altri due erano Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi). A fare luce su di lui è un’accurata biografia di Antonio Tedesco, “Il partigiano Colorni e il grande sogno europeo” (Editori Riuniti, pp. 205), patrocinata dalla Biblioteca della Fondazione Nenni, con prefazione di Giorgio Benvenuto, che sarà presentata venerdì 10 ottobre al Circolo "Giustizia e Libertà" di Roma (via Andrea Doria 79).
Eugenio Colorni, appartenente a una famiglia della medio borghesia ebraica milanese, secondogenito di Alberto Colorni e Clara Pontecorvo, è antifascista precoce, già a sedici anni, dopo l’omicidio Matteotti, e prosegue il suo percorso politico all’università, militando nei gruppo Goliardici per la libertà e poi aderendo a GL e al Psi.
In questi anni, anche grazie alla frequentazione con i cugini Sereni (Enrico, Emilio e in particolare Enzo) nelle estati a Forte dei Marmi, aderisce con fervore al movimento sionista, entrando nel 1928 nel comitato di segreteria del terzo congresso nazionale della Federazione Sionistica Italiana e partecipando nel luglio del 1929 al Congresso Sionista Internazionale di Zurigo.
Si allontanerà dal sionismo qualche anno dopo, pur conservando sempre vivo il sentimento di appartenenza alla comunità ebraica, per dedicarsi alla lotta in Italia contro il fascismo.
Iscritto al casellario politico già nel 1930 quale sospetto antifascista, diventa in poco tempo dirigente del Centro Interno Socialista. Il suo arresto il 5 settembre 1938, nel pieno della campagna razzista del regime fascista, farà clamore e sarà additato come esempio dell’antifascismo congenito negli ebrei. Il Corriere della Sera titola: “La trama giudaico-antifascista stroncata dalla vigile azione della polizia”.
Confinato a Ventotene, dove porterà a maturazione il suo ideale europeista a contatto con Spinelli e Rossi, e poi in Basilicata, nell’aprile 1943 si darà alla fuga, raggiungendo Roma ed iniziando un’attività politica clandestina. Nel settembre del 1943 sarà tra i promotori a Roma della Brigate partigiane Matteotti. Ferito gravemente il 28 maggio 1944 durante uno scontro a fuoco con due militi della Banda Koch a Piazza Bologna, morirà il 30 maggio all’Ospedale San Giovanni, dovendo così abbandonare la battaglia per realizzare il suo grande sogno: gli Stati Uniti d’Europa. Pietro Nenni scriverà nel suo diario: “La sua perdita è per noi irreparabile ed è dolorosa per la cultura italiana ed europea”.
In tempi come questi, in cui l’Europa è latitante, smarrita com’è nelle regole ferree dell’economicismo e del rigore dei conti, la figura e il pensiero di Eugenio Colorni, che prospettava un’unione federale di tipo politico e ideale, rappresentano – come ci spiega il libro di Antonio Tedesco - dei punti fermi dai quali ripartire e ritrovare passione ed entusiasmo.

(L'Unione Informa e Moked.it del 7 ottobre 2014)

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Il 25 aprile è morto? Gli storici: ma è su quei valori che si basa l'Italia di oggi

di Mario Avagliano

La Resistenza resta “un valore fondante” della nostra Repubblica. Nell’anno del settantesimo dell’inizio della guerra di Liberazione, che sarà celebrato l’8 settembre, il giudizio della storiografia italiana è che il 25 aprile sia ancora oggi una festa di tutti gli italiani, nonostante le dichiarazioni liquidatorie di Beppe Grillo, il successo di libri come quelli di Giampaolo Pansa sulle violenze partigiane o il clamore suscitato dal saggio Partigia (Mondadori) di Sergio Luzzatto su Primo Levi e un episodio nero della Resistenza in Valle d’Aosta.
“In tutti i Paesi ci sono delle feste nazionali che unificano tutta la popolazione. Per l’Italia è la liberazione dal fascismo e dal nazismo. È assurdo che ogni anno ci si debba porre il problema dell’attualità di questa data. Nelle altre Nazioni non è così”, protesta Elena Aga Rossi, la storica italiana che più di ogni altro ha analizzato i fatti dell’8 settembre. “Il 25 aprile è la celebrazione di uno sforzo di rinascita nazionale che in sostanza è riuscito. Non dimentichiamo che se non abbiamo avuto il trattamento della Germania, è proprio perché non siamo rimasti inerti di fronte all’occupazione tedesca e alla restaurazione del fascismo, incalza Alberto Melloni, storico di area cattolica. “L’Italia di oggi e la stessa Costituzione hanno le loro basi nel 25 aprile e nella guerra di Liberazione. Se avessero vinto Mussolini e Hitler, non saremmo qui”, aggiunge Anna Foa, storica ebrea tra le più sensibili.
“La Resistenza è una festa di tutti, se la si identifica non con una parte politica, minore o maggiore, ma con tutti coloro che, a vario titolo e in varie forme, lottarono contro i nazifascisti”, avverte Emilio Gentile, uno dei massimi storici italiani del fascismo.
Altro discorso è quello dell’appeal che ha oggi il 25 aprile sull’opinione pubblica. L’Anpi, l’associazione nazionale dei partigiani, in questi anni ha moltiplicato gli iscritti, aprendo le porte a decine di migliaia di giovani e anche le manifestazioni di ieri in tutta Italia hanno fatto registrare un’ampia partecipazione. Ma nel corpo della società italiana “la guerra di liberazione non gode di buona salute ed è denigrata da molti”, si rammarica lo storico piemontese Alberto Cavaglion, autore tra l’altro di un pamphlet intitolato La Resistenza spiegata a mia figlia: “Sono abbastanza avvilito. Colpa anche della storiografia, che ha dedicato sempre meno attenzione a questo tema, lasciando il campo a Pansa e ai suoi epigoni”.
Uno dei motivi principali della “crisi” della Resistenza nell’immaginario collettivo è la narrazione eroica e a senso unico che ne è stata fatta nel dopoguerra. “La rappresentazione dei partigiani come angioletti puri e candidi ha procurato danni enormi”, sostiene Cavaglion. È stato dunque “giusto e opportuno il lavoro storiografico volto a descrivere luci ed ombre di questo evento, appoggiato e sostenuto dai più alti livelli istituzionali, come il presidente Napolitano”, sottolinea Eugenio Di Rienzo, storico di area liberale.
Bisognava “togliere alla Resistenza l’alone leggendario”, dice Emilio Gentile. Per questa via è stato possibile allargare il campo degli studi al di là dei fazzoletti rossi dei partigiani in montagna e nelle città, raccontando anche le vicende degli altri filoni del movimento di liberazione (la Resistenza militare, gli Imi, i deportati politici) e i limiti e gli errori della guerra partigiana, compresi gli atti violenti nei confronti dei vinti e degli stessi compagni di lotta.
Vicende come la strage di Porzus e i fatti di sangue del dopoguerra, però, non mettono in discussione il giudizio su quella pagina di storia nazionale. “Tutte le Resistenze sono violente. La guerra è guerra. La ricerca storica deve indagare a 360 gradi quel periodo, senza reticenze e senza tabù”, avverte Elena Aga Rossi. “Le violenze della guerra civile, di cui parlò già nel 1991 Claudio Pavone, non possono certo oscurare il significato della presa di distanza degli italiani dal fascismo”, taglia corto Melloni. “Né tolgono valore al sacrificio di chi lottò per la libertà del nostro Paese”, aggiunge Gentile.
Gli storici, invece, sono contrari a mettere sullo stesso piano partigiani e ragazzi di Salò. “Non è possibile una memoria condivisa perché c’era una differenza sostanziale tra chi deportava gli ebrei e chi combatteva i nazisti”, spiega Anna Foa. Tuttavia, la storia della Rsi va studiata con maggiore oggettività. “Per troppo tempo – dice Elena Aga Rossi – si è affermato che i fascisti erano tutti criminali e i partigiani tutti Santi. In realtà non era così. Accanto agli eccidi, alle delazioni, agli episodi di complicità con i nazisti, ci sono stati casi di fascisti di Salò che hanno aiutato gli ebrei o hanno aderito alla Rsi non per motivi ideologici ma soltanto per sopravvivere a quei tempi oscuri”.
E le dichiarazioni di Grillo sulla morte del 25 aprile? “Dubito che Grillo e i grillini abbiano memoria storica. Non vale la pena di parlarne”, si inalbera Anna Foa. “Dire che questa data è morta, ferisce la coesione civile del nostro Paese, proprio in un momento in cui il 25 aprile non divide più gli italiani”, argomenta Di Rienzo. E Cavaglion lancia un appello: “Chi ha a cuore la Resistenza, deve esprimere preoccupazione per come si presenta e agisce questo movimento nel nostro Paese. Non voglio esagerare, ma in questo populismo vedo in nuce i germi di un nuovo fascismo”.

(Il Messaggero e Il Mattino, 26 aprile 2013)

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Il nazista che arrestò Anna Frank diventò 007 della Germania Ovest

 Karl Josef Silberbauer,l’ufficiale nazista che scovò e fece arrestare la quindicenne Anna Frank, ha lavorato durante gli anni della Guerra Fredda per i servizi segreti della Germania Federale (Bundesnachrichtendienst - BND) come informatore e reclutatore.
A rivelarlo è stato il settimanale tedesco Focus, che ha citato le ricerche effettuate dal giornalista Peter-Ferdinand Koch negli archivi delle SS e della Cia. Ricerche che hanno dato luogo al libro Enttarnt (Smascherato). Nel suo libro, Koch sostiene che furono circa 200 gli agenti di Adolf Hitler reclutati in tempi diversi dai servizi della Germania Federale.
Silberbauer era nato a Vienna nel giugno del 1911. Entrò nella Gestapo nel 1939 e nelle SS nel 1943. L'anno dopo arrestò Anna Frank e la sua famiglia ad Amsterdam. 
Koch cita documenti statunitensi e rivela che l'uomo fu localizzato da Simon Wiesenthal nel 1963. L'anno seguente Silberbauer venne sospeso dal servizio e  posto sotto investigazione, ma venne successivamente liberato in quanto non avrebbe avuto niente a che fare con l'Olocausto. Secondo Focus, invece, l'uomo utilizzò nel lavoro da agente per il servizio segreto tedesco proprio i contatti con i vecchi camerati nazisti. Silberbauer morì nel 1972, a 61 anni.
Annelies Marie Frank,  dopo aver passato due anni nascosta in una casa di Amsterdam, venne arrestata, in quanto ebrea, da Silberbauer e dai suoi camerati nell'agosto del 1944. Morì alla fine di marzo dell'anno seguente nel campo di concentramento di Bergen-Belsen per tifo esantematico. Aveva quindici anni. Il suo diario, scritto mentre viveva in clandestinità ad Amsterdam, è uno dei libri più letti dell'era contemporanea.
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Ciao comandante Max....

Scomparso a 95 anni Massimo Rendina
 
Sono ore tristi per me. E' scomparso ieri a Roma l'ex partigiano Massimo Rendina, all'età di 95 anni. E' stato uno dei miei Maestri di Storia, insieme a Vittorio Foa e Giuliano Vassalli. Fu lui a spingermi all'iscrizione all'Anpi di Roma, a farmi dirigere il Centro Studi della Resistenza e a propormi come vicepresidente. Era un uomo di straordinaria umanità, intelligenza, dolcezza, integrità morale. Amava i giovani ed era da loro amatissimo. Fu anche l'ideatore della Casa della Storia e della Memoria, il cui sogno si realizzò grazie all'allora sindaco Walter Veltroni. Vanno ricordati la sua partecipazione alla seconda guerra mondiale, nella Campagna di Russia; la sua storia di coraggioso comandante partigiano; la sua brillante carriera di giornalista; il suo impegno civile nell'Anpi; il suo impegno storiografico di studioso attento della Resistenza. Vi propongo la sua scheda biografica.
 
Massimo Rendina, nato a Mestre (VE) il 4/1/1920 da Federico e Maria Manara; morto a Roma l’8/2/2015. Studente alla facoltà di giurisprudenza dell'università di Bologna. Prestò servizio militare in fanteria nei guastatori, e poi con il grado di sottotenente dei bersaglieri partecipò alla campagna di Russia nel Csir.
 
Congedato nell'autunno 1942, nel dicembre fu nominato condirettore di "Architrave", il mensile del GUF bolognese, diretto da Eugenio Facchini, pure lui reduce dal fronte russo. Nelle intenzioni dei gerarchi fascisti bolognesi i due reduci avrebbero dovuto dare un tono più fascista al giornale, considerato un foglio della fronda. Pio Marsilli e Vittorio Chesi, il direttore e il condirettore della gestione precedente, erano stati destituiti d'autorità e proposti per il confino di polizia, perché considerati antifascisti. Invece i due nuovi giornalisti diedero al giornale un contenuto e un tono che non era più di fronda, ma di aperta contestazione del regime e della guerra. Nella nota Motivo ideale, siglata M.R. (Massimo Rendina) si legge: «Ormai la retorica illusione di una vittoria facile e di una guerra lampo è sprofondata nell'abisso del passato». La nostra «è sempre stata, sin dal primo colpo di cannone, una guerra difensiva» e «Ora soltanto il conflitto appare definitivamente difensivo nella sua intima essenza e si trasmuta in una lotta integrale, assoluta, di vita o di morte, estranea ad ogni altro pensiero che non sia di sopravvivere alla distruzione di tutto il mondo» ("Architrave", 31/1/43). Nello stesso numero, in una nota dal titolo Indagine sulla Russia, parlando dell'esperienza fatta sul fronte orientale, si chiese: «a) come mai il popolo russo, che non è convinto della bolscevizzazione, la tollera come un gioco, resiste, non si ribella, combatte con valore?; b) come mai dopo un'improvvisa e stupefacente disfatta militare, creduta da tutto il mondo irreparabile, ha opposto un'accanita resistenza e proprio sul principio dell'ultimo atto del grande dramma riconquistando parte delle posizioni perdute con un successo che ha del soprannaturale?». «Noi non crediamo - proseguiva — in una serie di astute ed avvedute manovre da parte del governo rosso: le ragioni sono piuttosto da ricercarsi nel sistema organizzativo e nelle vicende naturali della guerra che vedono l'alternarsi della fortuna, da una parte e dalla altra dei combattenti». Concludeva che se i russi «hanno sorpreso chiunque, la situazione delle armate tedesche non va considerata assolutamente nel campo del "disastroso"».
 
Chiuso "Architrave", dopo la caduta del fascismo, Rendina passò a "il Resto del Carlino", dove ebbe come collega Enzo Biagi. Quando, dopo l’8/9/43, al giornale fu nominato un direttore repubblicano, intervenne all'assemblea dei redattori per annunciare pubblicamente che non avrebbe collaborato con la RSI.
 
Abbandonò il giornale e si trasferì in Piemonte, dove - come un altro reduce di Russia, Nuto Revelli -  prese parte alla lotta di liberazione, con il nome di battaglia di Max il giornalista.
 
Militò prima nella 19a  Brigata Giambone Garibaldi, con funzione di capo di stato maggiore, e successivamente nella 103a Brigata Nannetti della 1a Divisione Garibaldi, della quale fu prima comandante e poi capo di  stato maggiore. Fu in contatto anche con Edgardo Sogno, che fece ricevere alla sua divisione lanci di munizioni da parte degli inglesi. Partecipò alla liberazione di Torino. Ferito, è stato riconosciuto invalido di guerra. E’ stato partigiano dall'1/11/43 al 7/5/45.
 
Lo zio Roberto Rendina fu ucciso alle Fosse Ardeatine a Roma.
 
Nel capoluogo piemontese Rendina riprese la professione di giornalista a l'Unità, con Giorgio Amendola e Ludovico Geymonat. Terminata la guerra, si occupò di cinema scrivendo film con Piero Tellini, curò poi la settimana Incom con Luigi Barzini junior e successivamente entrò in Rai, dove prima lavorò al giornale radio e poi fu direttore del primo telegiornale. 
Cattolico, nel dopoguerra Rendina uscì dal Pci e aderì alla sinistra della Dc, collaborando con Aldo Moro, Mariano Rumor e Benigno Zaccagnini.
 
Il presidente del Consiglio Fernando Tambroni chiese ed ottenne il suo allontanamento dalla Rai. Aldo Moro lo reintegrò, nominandolo condirettore del giornale radio e mandandolo in America a fondare Rai Corporation.
Negli ultimi anni della sua vita Rendina è stato uno dei principali protagonisti dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, rivestendo per oltre dodici anni la carica di presidente del Comitato Provinciale ANPI Roma e diventando, nell’aprile 2011, vicepresidente nazionale. È stato nominato anche membro del Comitato scientifico dell'Istituto Luigi Sturzo per le ricerche storiche sulla Resistenza
È stato, inoltre, l’ideatore della Casa della Memoria e nella Storia inaugurata a Roma dalla giunta Veltroni nel 2006 e fondatore dell’associazione di telespettatori cattolici Aiart.
 
Nel 2011 ha raccontato nel documentario Comandante Max, diretto da Claudio Costa, la sua esperienza di guerra in Russia e nella Resistenza.
 
È stato anche un appassionato studioso della Resistenza. Ha pubblicato: Italia 1943-45. Guerra civile o Resistenza?, Newton, Roma 1995; Dizionario della Resistenza italiana, Editori Riuniti, Roma 1995. Ha anche curato la “Cronologia della Resistenza romana”, pubblicata sul portale storico www.storiaXXIsecolo.it, di cui è stato anche il fondatore.
 
E’ morto all’età di 95 anni, a Roma.
 
Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha voluto ricordare la memoria di Rendina, mandando un messaggio di cordoglio alla moglie: "Per la scomparsa di un testimone leale e appassionato di molti decenni della nostra storia". Il presidente della Repubblica ha ricordato la partecipazione di Rendina "alla tragica ritirata di Russia e la successiva, decisa scelta di campo nelle file della resistenza", nella quale assunse il nome di 'comandante Max', distinguendosi "per coraggio e lungimiranza politica". Nel dopoguerra, ha affermato ancora il presidente Mattarella, "fu brillante giornalista e comunicatore, ricoprendo posizioni di prestigio. L'immagine più nitida che mi resta di lui- ha concluso il capo dello stato- è quella, più recente, di instancabile dirigente dell'anpi, al vertice della quale ha saputo difendere la memoria autentica dei valori della resistenza e tramandarla ai giovani con passione ed entusiasmo".
 
(a cura di Mario Avagliano)
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Gramsci. Burattini e burattinai di un arresto

di Mario Avagliano

 
La tragica coda della vicenda politica ed esistenziale di Antonio Gramsci costituisce un appassionante enigma storiografico. A distanza di 75 anni dalla morte del fondatore del partito comunista d’Italia, i punti oscuri sono ancora molti. Dopo l’arresto, fu davvero abbandonato al suo destino da Stalin e Togliatti perché ritenuto troppo ingombrante? E la sua impietosa critica al modello sovietico si spinse fino all’abiura del marxismo, in un quaderno dal carcere rimasto segreto?
Alcuni saggi usciti nelle ultime settimane aggiungono qualche importante tassello alla conoscenza dei fatti. Non mancando di suscitare un vivace dibattito, con Massimo D’Alema che punta il dito su lobbies ed élites tecniche: “La polemica sul Togliatti stalinista e sul Gramsci eretico è falsa e strumentale. Vogliono delegittimare le culture politiche del dopoguerra e i partiti che ne sono gli eredi”.
Per dipanare la matassa, il punto da cui partire – suggerisce Giuseppe Vacca, presidente della Fondazione Gramsci e autore di Vita e pensiero di Antonio Gramsci. 1926-1937 (Einaudi, pp. 367, euro 33) - è la critica ai “compagni” russi. “Voi oggi state distruggendo l’opera vostra”, scrive Gramsci il 14 ottobre 1926, su incarico dell’Ufficio politico del Pcd’I, in una vibrante lettera al Comitato centrale del partito comunista sovietico. Vacca  mette in rilievo  che non si tratta di una semplice accusa di metodo riguardo all’espulsione di Trotzki & Co.: Gramsci segna in modo insanabile e definitivo la sua presa di distanza dalla politica messa in atto da Stalin.
Un mese dopo quel messaggio, l’8 novembre 1926, in violazione dell’immunità parlamentare, Gramsci viene tratto in arresto dalla polizia fascista e rinchiuso a Regina Coeli. Inizia la sua odissea giudiziaria e carceraria. Nel febbraio 1928, mentre si trova nel carcere milanese di San Vittore, riceve una lettera di un dirigente del partito, Ruggiero Grieco, partita da Basilea e guarda caso transitata per Mosca, che lo fa “inalberare” perché “compromettente”, in quanto rivela che è il capo del Pcd’I.
Siamo alla vigilia del processo a ventidue imputati comunisti, tra i quali figurano, oltre a Gramsci,  Umberto Terracini e Mauro Scoccimarro, e il regime è all’affannosa ricerca di elementi di accusa nei confronti del pensatore sardo. La missiva potrebbe essere utilizzata contro di lui. E il giudice istruttore Enrico Macis commenta sardonico: “Onorevole Gramsci, lei ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera”. 
A maggio si celebrerà il processo e il pubblico ministero Isgrò concluderà la sua requisitoria con una frase rimasta famosa: «Per vent'anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare». Una richiesta accolta dal Tribunale. Quanto abbia contato la lettera ai fini della condanna, è oggetto di discussione. Gramsci, tuttavia, fino all’ultimo sospetterà che dietro a Grieco si nasconda Togliatti.
Su questa lettera di Grieco, definita di volta in volta da Gramsci “strana”, “famigerata” e addirittura “un atto scellerato”, gli storici si sono esercitati da tempo. Vacca, nel suo saggio, esclude la tesi del complotto interno: Togliatti non aveva bisogno di sabotare i tentativi di scarcerazione di Gramsci in quanto Mussolini odiava di suo il comunista sardo e lo stesso Cremlino non aveva alcun interesse a liberarlo, per le sue posizioni eterodosse.
Ma allora chi fu a manovrare Grieco? Luciano Canfora, in un altro libro uscito nelle ultime settimane, Gramsci in carcere e il fascismo (Salerno editore, pp. 304, euro 12), non esclude che questi abbia scientemente cercato di danneggiare Gramsci (e Terracini e Scoccimarro, destinatari di altrettante missive), su mandato dell’Ovra, la polizia segreta fascista. Una pista che sarebbe avvalorata anche dall’imbarazzante Appello ai fratelli in camicia nera redatto dallo stesso Grieco nell’agosto 1936 sulle colonne del periodico “Lo Stato operaio”, nel quale proponeva di far proprio il programma mussoliniano del 1919.
Le tre missive in cui Gramsci parla di Grieco furono in ogni caso eliminate dalla prima edizione delle Lettere dal carcere del 1947. D’altronde Palmiro Togliatti, appena quindici giorni dopo la morte di Gramsci (27 aprile 1937), aveva inviato una direttiva ai compagni comunisti del Centro estero per esortarli a “non prendere nessuna iniziativa di pubblicazione di lettere e altro materiale inedito (di Gramsci) senza accordo con me”.
L’intento censorio era evidente. E infatti l’intera opera di Gramsci fu sottoposta a pesanti tagli da Felice Platone, con la supervisione dello stesso Togliatti. Furono espunti i riferimenti agli eretici Trotzki e Rosa Luxemburg ma anche molti brani di carattere più umano.
Canfora scrive che l’operazione rappresentò in quel momento storico “la sola via che potesse avvicinare quelle pagine a un pubblico più ampio”. Quale che siano stati i reali intenti di Togliatti (Nunzio Dell’Erba, in polemica con Canfora, ritiene che il Migliore volesse “costruire un piedistallo per se medesimo come erede dell’opera di Gramsci, occultando i motivi delle loro divergenze politiche”), vi sono punti ancora da chiarire.
Lo stesso Canfora si dilunga sul ruolo di informatore dell’Ovra che avrebbe svolto l’anarchico Ezio Taddei, nel dopoguerra approdato a Botteghe Oscure. E Franco Lo Piparo, in un altro volume uscito di recente, I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli, pp. 144, euro 16), avanza l’ipotesi che Togliatti abbia fatto sparire un intero Quaderno, il n. 34, nel quale Gramsci avrebbe preso le distanze dal comunismo tout court. In effetti lo stesso Togliatti fin dall’inizio parlò di 34 quaderni dal carcere, ma ne sono conosciuti (e sono stati pubblicati) solo 33.
Insomma, c’è ancora materia per gli storici. David Bidussa invita ad indagare sulla pista di Cambridge. Dove viveva l’economista Piero Sraffa, che assieme alla cognata Tania Schucht fu la persona più vicina a Gramsci nel periodo della detenzione e dopo la sua scomparsa trasmise a Togliatti le copie delle lettere e dei quaderni. È in Inghilterra la soluzione dell’enigma?
 
(Il Messaggero, 31 luglio 2012)
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