Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia. In rete la memoria delle stragi

di Mario Avagliano

   Boves, Caiazzo, Marzabotto, Mascalucia, Roma, S. Anna di Stazzema… L’elenco di borghi, città, località italiane che nel tragico periodo che va dall’estate del 1943 all’aprile del 1945 furono insanguinati dal terrore nazifascista è un lungo interminabile rosario. 5.428 stragi, con un bilancio di oltre 23 mila vittime, secondo il censimento realizzato in due anni di lavoro collettivo da 120 ricercatori e 60 istituti storici, nell’ambito del primo Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, presentato ieri alla Farnesina dal direttore generale per l'Ue del ministero degli Esteri, Giuseppe Buccino Grimaldi, insieme all'ambasciatore tedesco in Italia, Susanne Marianne Wasum-Rainer.

L’Atlante è disponibile da oggi online all’indirizzo www.straginazifasciste.it e costituisce una sorta di «grande memoriale virtuale», in continuo aggiornamento, che, come affermato daldirettore generale dell'Insmli Claudio Silingardi, trasforma le vittime in «uomini, donne, bambini», dando loro un nome e una carta d’identità.
La ricerca è stata finanziata dal ministero degli Esteri della Repubblica Federale tedesca, nell'ambito delle raccomandazioni suggerite dalla Commissione storica italo-tedesca, ed è stata realizzata dell’Anpi e dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia.
«Un censimento della violenza», come ha detto la storica Isabella Insolvibile, che ci fornisce una vera e propria guida storica e anche geografica di tutti i crimini di guerra verso i civili accaduti in Italia sotto l’occupazione nazifascista. L’Atlante è composto da una banca dati georeferenziata, da schede monografiche su ogni episodio e da testi contenenti la ricostruzione storica dei fatti, corredati da materiale fotografico.
La ricerca consente di fare ulteriore luce sulla pagina nera dell’occupazione nazifascista, dopo che colpevolmente i governi italiani del dopoguerra, per motivi di realpolitik e di salvaguardia del ruolo della Germania dell’Ovest come avamposto dell’Occidente, avevano fatto calare il silenzio sulle stragi, addirittura murando i relativi fascicoli nel cosiddetto «armadio della vergogna», scoperto nel 1994.
Per la prima volta, infatti, è stato definito il numero delle stragi a livello nazionale, 5.428, avvenute non solo nel Centro-Nord ma anche in Meridione, dalla Sicilia alla Campania. Dalla ricerca emerge un notevole aumento del numero delle vittime, che passa dalle 10-15 mila finora ipotizzate a 23.461 accertate, escludendo i caduti in combattimento e comprendendo quindi solo i civili inermi, catturati e uccisi a seguito di rastrellamenti, di rappresaglie o di stragi “eliminazioniste” o dirette contro specifiche tipologie di persone (ebrei, antifascisti, religiosi etc.).
L’Atlante, spiega Toni Rovatti, propone, ove possibile, anche i nomi degli esecutori: non solo membri delle famigerate SS naziste, ma anche militari della Wehrmacht e diversi italiani fascisti del regime di Salò il cui ruolo, come sottolinea Paolo Pezzino, è autonomo e determinante nel ben 19% delle stragi. A testimonianza che la Rsi «portò avanti in modo autonomo una propria politica della violenza».
Frutto della «stretta collaborazione» tra Italia e Germania, l'iniziativa punta alla «creazione di una comune cultura della memoria», ha sottolineato l'ambasciatore tedesco. Un «progetto scientifico molto impegnativo» per registrare tutti gli atti di violenza compiuti da nazisti e fascisti in Italia, «assicurando così alle vittime una degna memoria».
Di «passo avanti per la memoria comune» ha parlato anche il presidente dell'Anpi, Carlo Smuraglia, anche se resta ancora sospesa la questione della giustizia di transizione, ovvero delle sentenze relative a condanne all’ergastolo nei confronti di criminali tedeschi e austriaci, emesse da corti italiane ma non rese esecutive da quelle tedesche. Un “disaccordo” giudiziario che costituisce una ferita ancora aperta e che – come evidenzia la storica Isabella Insolvibile – «nessun investimento nella ricerca e nella memoria può autonomamente risolvere».

(Il Messaggero e Il Mattino del 7 aprile 2016)

Storie – Il 25 aprile a Roma, la targa sulla banda Koch e gli applausi scroscianti al passaggio della Brigata Ebraica

di Mario Avagliano

25 aprile 2012, Roma. Appunti su un giorno da ricordare, di festa pacifica e di Memoria. Nonostante i manifesti anonimi affissi dai neofascisti sui muri della capitale, che riproducono la foto dell’estate del 1944 di Alessandro Pavolini e Vincenzo Costa che passano in rassegna, a Milano, l’VIII Brigata Nera “Aldo Resega”, con uno slogan tratto da un verso de “La locomotiva” di Francesco Guccini (“Gli eroi son tutti giovani e belli”) e la dedica “Ai ragazzi di Salò”. Guccini, dal canto suo, ha subito preso le distanze: “Hanno offeso e tradito la mia canzone”.

Fotogramma numero uno. Arco di Costantino, ore 10, partenza del corteo del 67° anniversario della Liberazione. In testa ai manifestanti, appena dietro gli ex partigiani, spiccano lo striscione e le bandiere inneggianti alla Brigata Ebraica, che combatté in Italia al fianco dei soldati Alleati e delle truppe italiane del Gruppo di Combattimento “Friuli”, con il quale fu protagonista dello sfondamento della linea gotica nella vallata del Senio.
Fotogramma numero due. Porta San Paolo, ore 11: il presidente dell’Anpi provinciale Vito Francesco Polcaro dedica un lungo passaggio del suo intervento alla Brigata Ebraica, applauditissimo da tutta la piazza. Non c’è ombra di contestazione, a differenza degli anni scorsi.
Fotogramma numero tre. Via Principe Amedeo, ore 13. La sezione Anpi "Don Pietro Pappagallo" Esquilino-Monti-Celio, dopo una battaglia di civiltà durata oltre due anni, appone finalmente nella strada la targa di commemorazione dei patrioti e degli antifascisti caduti, incarcerati o torturati nella "Pensione Oltremare" per mano della famigerata banda Koch. L'inaugurazione è stata resa possibile grazie alla collaborazione del Municipio Centro Storico, che ha dato l'autorizzazione ad installare la targa sul marciapiede di fronte al portone d'ingresso del numero civico 2 del palazzo che ospitava il carcere della banda fascista, superando così il diniego del condominio. Sotto la targa viene deposto un mazzo di fiori rossi con un biglietto dell'Anpi: "È questo il fiore del partigiano...".

(L’Unione Informa, 1° maggio 2012)

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Storie - La Memoria e la guerra delle lapidi e dei sampietrini

di Mario Avagliano

La Memoria delle violenze del fascismo e del nazismo e della vergogna delle leggi razziali e delle deportazioni si preserva anche con le lapidi, le targhe e le "pietre d'inciampo". Simboli che "segnano" il territorio e le città, a perenne ricordo di eventi delittuosi, luttuosi o anche gloriosi avvenuti in un determinato luogo. Chiunque passa di lì e butta lo sguardo alle scritte, è invitato a riflettere: proprio dove ha posato i piedi, un tempo viveva un deportato razziale o politico oppure era collocata una prigione fascista o nazista oppure si è verificato un episodio di resistenza, di rastrellamento, di strage.
I negazionisti, i neofascisti, gli antisemiti o semplicemente chi non desidera essere importunato nel suo quieto vivere dal passato scomodo della nostra Italia, sanno bene quanto contino questi simboli. Ecco perché negli ultimi mesi nella sola Roma si sono verificati ben tre atti di oltraggio delle "pietre d'inciampo" (Stolpersteine), inventate dall'artista tedesco Gunter Demnig in memoria dei deportati nei campi di sterminio nazisti.
La Memoria delle violenze del fascismo e del nazismo e della vergogna delle leggi razziali e delle deportazioni si preserva anche con le lapidi, le targhe e le "pietre d'inciampo". Simboli che "segnano" il territorio e le città, a perenne ricordo di eventi delittuosi, luttuosi o anche gloriosi avvenuti in un determinato luogo. Chiunque passa di lì e butta lo sguardo alle scritte, è invitato a riflettere: proprio dove ha posato i piedi, un tempo viveva un deportato razziale o politico oppure era collocata una prigione fascista o nazista oppure si è verificato un episodio di resistenza, di rastrellamento, di strage.
I negazionisti, i neofascisti, gli antisemiti o semplicemente chi non desidera essere importunato nel suo quieto vivere dal passato scomodo della nostra Italia, sanno bene quanto contino questi simboli. Ecco perché negli ultimi mesi nella sola Roma si sono verificati ben tre atti di oltraggio delle "pietre d'inciampo" (Stolpersteine), inventate dall'artista tedesco Gunter Demnig in memoria dei deportati nei campi di sterminio nazisti.

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Storie – Roma e il revisionismo della toponomastica

di Mario Avagliano

La storia non si riscrive con la toponomastica o con i premi alla memoria. Eppure a Roma, medaglia d’oro della Resistenza, c’è chi ne è testardamente convinto. Proprio questa mattina il Consiglio del Municipio Roma II, governato dal centrodestra, ha votato la proposta di risoluzione n. 52 avente per oggetto “Intitolazione strada a Giorgio Almirante” dell’attuale viale Liegi o di un viale di Villa Borghese, avanzata dal consigliere Roberto Cappiello del partito “la Destra” di Storace. La seduta è stata momentaneamente sospesa per le proteste dei partigiani dell’Anpi romana e di diversi esponenti politici (tra cui Carla Di Veroli), ma poi si è proceduto al voto della risoluzione, che fortunatamente è stata bocciata con il voto contrario dei 9 consiglieri del centrosinistra ma anche di un esponente del centrodestra e l’astensione di altri due (tra cui la presidente), mentre 8 consiglieri del centrodestra hanno votato a favore.

L’auspicio è che non venga più ripresentata né in questa né in altra sede. Giorgio Almirante fu infatti il segretario di redazione della rivista "La difesa della razza" (quindicinale che tra il 1938 e il 1943 fu il capofila del razzismo del regime fascista), caporedattore del "Tevere", distintosi per una campagna antiebraica già prima delle leggi razziali. Negli anni della Repubblica Sociale di Salò firmò un bando che imponeva la presentazione ai posti di polizia fascisti e tedeschi degli sbandati o appartenenti a bande, pena la fucilazione nella schiena per quanti non si fossero presentati.

Nei giorni scorsi ha provocato polemiche accese anche la decisione del sindaco Gianni Alemanno e del Campidoglio di concedere l’uso della prestigiosa Pietro da Cortona dei Musei Capitolini per la terza edizione del ‘premio Duelli-Gallitto’, un evento dedicato alla memoria dell’ausiliaria scelta di Raffaella Duelli e del comandante Bartolo Gallitto, entrambi della X MAS, organizzato dall’associazione X flottiglia MAS e da quelle Campo della Memoria ed Armata Silente.
Va ricordato che la X Mas di Junio Valerio Borghese, tra il 1943 e il 1945, oltre ad essere impegnata nelle azioni di repressione dei partigiani, agli ordini delle SS tedesche, macchiandosi di numerosi crimini di guerra, ebbe anche un carattere fortemente antisemita. La rivista della Decima, «L’Orizzonte», ospitò numerosi articoli contro gli ebrei, in particolare di Giovanni Preziosi, uno dei più importanti esponenti dell’antisemitismo di matrice fascista, in cui si sosteneva la teoria del complotto giudaico mondiale, in combutta con la massoneria.

L’Anpi di Roma ha promosso un sit in al Campidoglio ed ha parlato di “manifestazione inopportuna e impropria”, denunciando che queste organizzazioni sono “di chiara matrice nostalgica e revisionista, nate per celebrare la repubblica sociale italiana ed il fascismo”. E il presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, ha dichiarato: "Dare spazio logistico e patrocinio ad una kermesse del genere è stato un errore di valutazione, che condanniamo. Questi due signori, combatterono per un'ideologia folle, che ha portato l'Italia al baratro e che ha contribuito a costruire il clima dell'odio nei confronti dei diversi, in particolare nei confronti degli ebrei - con le leggi razziali del 1938 -. Queste persone, con l'occupazione nazista collaborarono con i tedeschi nella deportazione e nello sterminio degli ebrei".

(L'Unione Informa, 26 giugno 2012)

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Io sono l’ultimo. Lettere di partigiani italiani

A sessant'anni da Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana di Malvezzi e Pirelli, Einaudi propone una nuova emozionante antologia: la piú grande epopea della nostra storia raccontata dalle voci dei suoi ultimi protagonisti.
Il libro si chiama Io sono l’ultimo. Lettere di partigiani italiani (pp. 332, euro 18), ed è curato da Stefano Faure, Andrea Liparoto e Giacomo Papi. Oltre cento lettere piene di amore, amicizia, di odio e violenza. Un indimenticabile racconto corale sul fascismo, la libertà e la democrazia. I partigiani, prima di tutto, erano giovani. Si innamoravano, scoprivano di avere paura e coraggio. In queste lettere, raccolte con la collaborazione dell'Anpi, i testimoni viventi della Resistenza raccontano le torture, le bombe, i rastrellamenti. Ma anche la nascita di un bambino, un bacio mai dato, il piacere di mangiare o ridere in classe del Duce.
Un racconto emozionante, vivo, collettivo che arriva dal passato per parlare al presente. Il ricordo della guerra di Liberazione diventa giudizio sull'Italia di oggi. Come ha scritto Paola Doriga su la Repubblica: “Le loro storie sono la nostra memoria. Le storie dei nostri nonni, che ci hanno raccontato quando magari non avevamo voglia di ascoltare, e che adesso non sappiamo dire quanto ci dispiace non potere più ascoltare. Le storie dei nostri nonni o dei nonni che ci siamo scelti, arrivate con una parola, con un libro, con una canzone”.


La prefazione di Andrea Liparoto – Responsabile comunicazione ANPI Nazionale:

“Le pagine che avete davanti sono indirizzate ai giovani.
A loro i partigiani raccontano, a loro intendono affidare così un “testimone” che sia forza di futuro, continuità di sogno e impegno per realizzarlo: un Paese di persone uguali nei diritti e libere. L’Italia della Costituzione, eredità immensa e imprescindibile della Resistenza.
Per tutto ciò l’ANPI ha convintamente aderito alla proposta di Einaudi di collaborare a questo progetto editoriale, attivando memoria e “antica” responsabilità degli ultimi protagonisti viventi della guerra di Liberazione, prontamente disponibili a ripercorrere strade e lotte straordinarie. Proprio per loro, per i ragazzi e le ragazze di oggi. In tanti, con la svolta del Congresso di Chianciano Terme del 2006 – che ha aperto le porte dell’A.N.P.I. anche ai non partigiani – sono entrati a far parte della nostra Associazione. Oggi su un totale di quasi 130.000 iscritti, i giovani tra i 18 e i 30 anni sono circa 25.000. La loro è una ricerca pressante di valori forti e limpidi su cui investire giorni e speranze. Hanno voglia di fare ed esserci. Di costruire, e partecipare.
Ci piace, perciò, pensare a questo libro come a una “piazza delle radici” dove dare appuntamento ai giovani.
Per intrattenerli e per incoraggiarli.
E offrire un sentiero”.


Ecco di seguito alcuni stralci dell’antologia:

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«Ai ragazzi nelle scuole dico: - Guardate, sono rimasto solo io. Allora diventano piú interessati ancora. Io sono l'ultimo».
Marcello Masini «Catullo», Firenze, 1925, artigiano
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«Ventisette anni dopo, una sera del 1971, sento suonare il campanello di casa. Era un tedesco. Dice che ha piacere di parlare con un comandante partigiano. Lo riconosco. E dopo un momento, gli dico: - Lei ha ucciso mio padre».
Carlo Varda «Charles», Chiomonte (Torino), 1925, ferroviere

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«Alla mattina ho visto una cassa da morto. Allora mi hanno detto: - Guarda che dobbiamo farti il funerale. Era l'unico modo per portarmi all'ospedale. Avevo un bastoncino per alzare il coperchio. Ma ad Alpignano i tedeschi hanno fermato il carro funebre».
Cesare Mondon «Rino», Collegno (Torino), 1923

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«Si chiamava Giambattista, ma il suo nome di battaglia era "Fifa", anche se era coraggiosissimo. È morto nel 1944, a ventitre anni. L'ho saputo sei mesi dopo, a primavera, quando la neve si sciolse sul Monte Caio e il corpo fu ritrovato. Gli porto ancora i fiori. Dev'essere stato importante per me, se mentre ne scrivo me lo rivedo davanti agli occhi. L'unico nostro bacio è stato d'addio».
Anita Malavasi «Laila», Reggio Emilia, 1921, studentessa

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«Ai ragazzi dico questo. Pensate le cose impensabili. Si può sopravvivere a una guerra. Si può saltare un cancello alto alto con delle lance acuminate in cima e resistere a un tempo che vuole scambiare la giovinezza con la fame e la morte. Si può scappare dai campi di concentramento in Germania usando un filo di ferro. Si può ritornare a casa quando tutto sembra distrutto e perduto e ricominciare da capo. E sapere, sul treno di ritorno, con le macerie che passano dai finestrini, che a casa ti stanno aspettando tua moglie e tua figlia».
Ferruccio Mazza, Ferrara, 1921, operaio

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«A novantanove anni, ogni tanto, tendo a cadere. Perdo l'equilibrio e cado. E va bene. Però questa è stata la mia vita e io l'ho vissuta intensamente e con entusiasmo, soffrendo, amando e lottando. E ho continuato a fare. Se no, come si fa?»
Giovanna Marturano, Roma, 1912, studentessa

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«In bicicletta si farà un giro di Pisa lasciando una rosa sopra ogni targa. È sempre difficile trovare gente per le commemorazioni, perché da noi gli eccidi piú grandi sono avvenuti d'estate. Ma io credo che qualcuno verrà».
Giorgio Vecchiani «Lungo», Pisa, 1926, impiegato

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Graziani, il sacrario e il collaborazionismo con Hitler

di Anna Foa

Affile, piccolo comune del Lazio, noto per aver dato i natali al maresciallo Graziani e per avergli offerto sepoltura, inaugurerà sabato un sacrario alla memoria del ministro della Difesa del governo di Salò. Nell'inevitabile polemica derivata da questa notizia, il sindaco di Affile ha minacciato di querela l'ANPI, che opponendosi al sacrario ha detto che Graziani era stato condannato per crimini di guerra, sostenendo che questi era stato condannato invece per collaborazionismo (nel 1948, una condanna a diciannove anni di cui scontò solo due anni).
Qui le versioni della stampa divergono, in alcune si dice "per collaborazionismo", in altre "solo per collaborazionismo". Senza il "solo", infatti, quel che il sindaco di Affile vuol dire è che il collaborazionismo con i nazisti è stato un fatto positivo, di lealtà all'Italia, non un crimine di guerra. Se ci aggiungiamo il "solo", vuol dire che il collaborazionismo è piccola cosa, assai minore dei crimini di guerra, e che non vale la pena di fare tanto chiasso in proposito. Dal punto di vista storico, è vero che il maresciallo Graziani è stato condannato "soltanto" per il reato di collaborazionismo, come per collaborazionismo, oltre che per tradimento, fu processato in Francia Pétain, condannato a morte e salvato dalla grazia di De Gaulle. Ma la storia ci dice anche, fondandolo su prove irrefutabili, che il maresciallo Graziani ha ordinato l'uso dei gas, l'iprite in particolare, in Abissinia, e ha ordinato rappresaglie sulla popolazione civile, impiccagioni, repressioni senza numero. Il fatto che il tribunale lo abbia condannato "per collaborazionismo", e non per questi suoi crimini di guerra, ci fa forse dimenticare che cosa comportava la collaborazione con i nazisti che avevano invaso il nostro paese? Arresti di ebrei operati in prima persona dai militi della RSI, da Graziani diretti, e consegnati alla deportazione, il proclama che porta la sua firma in base al quale i soldati italiani che non accettarono tale collaborazione furono inviati in deportazione (oltre seicentomila!), repressioni e violenze di ogni tipo nella lotta contro la Resistenza. Aspettiamo il processo per diffamazione minacciato dal sindaco di Affile per dire tutti insieme che Graziani fu un criminale di guerra, e per dirlo a voce alta appoggiandosi, stavolta, sui documenti della storia.

(l'Unione Informa, 6 agosto 2012)

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L’archiviazione della Strage di S.Anna di Stazzema: “E’ un atto grave e inaudito”

di Carlo Smuraglia*

Il provvedimento di archiviazione di Stoccarda, nei confronti di alcuni residui imputati della strage di S. Anna di Stazzema, è semplicemente inaudito e colpisce per la sua gravità, dimostrando che in Germania, insieme a persone che hanno “capito” (vedi i discorsi di Schultz a Marzabotto e a Sant’Anna) ce ne sono altre che ancora non vogliono arrendersi di fronte alla durezza della storia e della realtà.
Possibile che la giurisdizione di un Paese prescinda del tutto da quanto si è accertato (e in modo definitivo) in un altro Paese? Certo, non esiste un obbligo di legge di conformazione a quanto altrove accertato, anche se nella sede più alta, ma che si possa addirittura archiviare “per mancanza di prove” per una vicenda storicamente accertata e per la quale dieci cittadini tedeschi sono stati condannati in Italia, in tutti i gradi del giudizio, all’ergastolo, è veramente inaudito e incredibile, perché significa che non ci si è resi conto della orrenda tragedia compiuta, per mano tedesca e fascista, nell’agosto 1944, e non si è pensato non solo alle ragioni imposte dal diritto ma neppure a quelle imposte dalla umanità.
Così le 560 vittime, i loro familiari, i loro figli e nipoti, restano sullo sfondo, come figure
irrilevanti, perché non si è stati in grado di capire che così si rinnova il loro dolore, visto che da anni invocano verità e giustizia, senza successo, perché hanno ottenuto sentenze in Italia, che non sono state eseguite e perché quella di Stoccarda pretende oggi di chiudere anche l’ultimo sipario. C’è da restare attoniti e sgomenti a fronte di provvedimenti come questo, che si muovono – peraltro – su un filone mai estinto ed al quale non è mancato l’apporto della Corte dell’Aja, che ha dato più rilievo al ruolo diritto che non ai valori ed ai diritti umani.
Bisogna perseguire la verità ed affermare le ragioni della storia, contrapponendole ad ogni
tentativo di ridurre la gravità estrema di quanto accaduto in Italia, tra il ‘43 e il ‘45, ad opera della barbarie di una parte dell’esercito tedesco, spesso con l’aiuto dei fascisti.
Bisogna terminare di costruire la mappa delle stragi, avvenute in tutta Italia, completare ed
arricchire le ricerche storiche, condurre in porto i procedimenti penali ancora aperti davanti ai Tribunali militari di Verona e Roma. Ma bisogna anche ottenere una discussione parlamentare seria su tutta la vicenda delle stragi, sulle responsabilità tedesche e fasciste, ma anche sulle responsabilità collegate all’ignobile vicenda dell’armadio della vergogna; responsabilità che devono essere finalmente dichiarate e riconosciute a tutti i livelli, nella loro complessità non solo giuridica ma anche politica. Quindi, deve andare avanti la interrogazione presentata da un intero gruppo di Senatori e reiterata anche alla Camera e bisogna raccogliere tantissime firme sotto la petizione popolare lanciata a Marzabotto.
E infine, bisogna premere sul Governo perché si proceda nella “trattativa” con la Germania, che doveva avviarsi dopo la sentenza dell’Aja e di cui da mesi non si sa nulla. Anche sul punto risarcimento e riparazioni occorre raggiungere qualcosa di concreto e certo, mentre si sta sempre aspettando non si sa bene cosa.
Noi ci riteniamo impegnati a tutto questo e riteniamo che sia la migliore risposta ai Magistrati di Stoccarda, così come ai tanti tentativi di far cadere l’oblio su vicende imprescrittibili perché hanno oltrepassato ogni confine, abbattendosi su civili inermi, su persone ree solo di esistere, calpestando diritti umani che dovrebbero essere intangibili.
Ed è anche questo il modo migliore per esprimere la solidarietà più forte, affettuosa e sincera, alle vittime, ai sopravvissuti ed ai familiari della strage di S. Anna di Stazzema, così come a tutte le vittime ed i familiari della strage di Marzabotto e di tante altre terribili stragi.

* Presidente nazionale dell’Anpi

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Il 25 aprile è morto? Gli storici: ma è su quei valori che si basa l'Italia di oggi

di Mario Avagliano

La Resistenza resta “un valore fondante” della nostra Repubblica. Nell’anno del settantesimo dell’inizio della guerra di Liberazione, che sarà celebrato l’8 settembre, il giudizio della storiografia italiana è che il 25 aprile sia ancora oggi una festa di tutti gli italiani, nonostante le dichiarazioni liquidatorie di Beppe Grillo, il successo di libri come quelli di Giampaolo Pansa sulle violenze partigiane o il clamore suscitato dal saggio Partigia (Mondadori) di Sergio Luzzatto su Primo Levi e un episodio nero della Resistenza in Valle d’Aosta.
“In tutti i Paesi ci sono delle feste nazionali che unificano tutta la popolazione. Per l’Italia è la liberazione dal fascismo e dal nazismo. È assurdo che ogni anno ci si debba porre il problema dell’attualità di questa data. Nelle altre Nazioni non è così”, protesta Elena Aga Rossi, la storica italiana che più di ogni altro ha analizzato i fatti dell’8 settembre. “Il 25 aprile è la celebrazione di uno sforzo di rinascita nazionale che in sostanza è riuscito. Non dimentichiamo che se non abbiamo avuto il trattamento della Germania, è proprio perché non siamo rimasti inerti di fronte all’occupazione tedesca e alla restaurazione del fascismo, incalza Alberto Melloni, storico di area cattolica. “L’Italia di oggi e la stessa Costituzione hanno le loro basi nel 25 aprile e nella guerra di Liberazione. Se avessero vinto Mussolini e Hitler, non saremmo qui”, aggiunge Anna Foa, storica ebrea tra le più sensibili.
“La Resistenza è una festa di tutti, se la si identifica non con una parte politica, minore o maggiore, ma con tutti coloro che, a vario titolo e in varie forme, lottarono contro i nazifascisti”, avverte Emilio Gentile, uno dei massimi storici italiani del fascismo.
Altro discorso è quello dell’appeal che ha oggi il 25 aprile sull’opinione pubblica. L’Anpi, l’associazione nazionale dei partigiani, in questi anni ha moltiplicato gli iscritti, aprendo le porte a decine di migliaia di giovani e anche le manifestazioni di ieri in tutta Italia hanno fatto registrare un’ampia partecipazione. Ma nel corpo della società italiana “la guerra di liberazione non gode di buona salute ed è denigrata da molti”, si rammarica lo storico piemontese Alberto Cavaglion, autore tra l’altro di un pamphlet intitolato La Resistenza spiegata a mia figlia: “Sono abbastanza avvilito. Colpa anche della storiografia, che ha dedicato sempre meno attenzione a questo tema, lasciando il campo a Pansa e ai suoi epigoni”.
Uno dei motivi principali della “crisi” della Resistenza nell’immaginario collettivo è la narrazione eroica e a senso unico che ne è stata fatta nel dopoguerra. “La rappresentazione dei partigiani come angioletti puri e candidi ha procurato danni enormi”, sostiene Cavaglion. È stato dunque “giusto e opportuno il lavoro storiografico volto a descrivere luci ed ombre di questo evento, appoggiato e sostenuto dai più alti livelli istituzionali, come il presidente Napolitano”, sottolinea Eugenio Di Rienzo, storico di area liberale.
Bisognava “togliere alla Resistenza l’alone leggendario”, dice Emilio Gentile. Per questa via è stato possibile allargare il campo degli studi al di là dei fazzoletti rossi dei partigiani in montagna e nelle città, raccontando anche le vicende degli altri filoni del movimento di liberazione (la Resistenza militare, gli Imi, i deportati politici) e i limiti e gli errori della guerra partigiana, compresi gli atti violenti nei confronti dei vinti e degli stessi compagni di lotta.
Vicende come la strage di Porzus e i fatti di sangue del dopoguerra, però, non mettono in discussione il giudizio su quella pagina di storia nazionale. “Tutte le Resistenze sono violente. La guerra è guerra. La ricerca storica deve indagare a 360 gradi quel periodo, senza reticenze e senza tabù”, avverte Elena Aga Rossi. “Le violenze della guerra civile, di cui parlò già nel 1991 Claudio Pavone, non possono certo oscurare il significato della presa di distanza degli italiani dal fascismo”, taglia corto Melloni. “Né tolgono valore al sacrificio di chi lottò per la libertà del nostro Paese”, aggiunge Gentile.
Gli storici, invece, sono contrari a mettere sullo stesso piano partigiani e ragazzi di Salò. “Non è possibile una memoria condivisa perché c’era una differenza sostanziale tra chi deportava gli ebrei e chi combatteva i nazisti”, spiega Anna Foa. Tuttavia, la storia della Rsi va studiata con maggiore oggettività. “Per troppo tempo – dice Elena Aga Rossi – si è affermato che i fascisti erano tutti criminali e i partigiani tutti Santi. In realtà non era così. Accanto agli eccidi, alle delazioni, agli episodi di complicità con i nazisti, ci sono stati casi di fascisti di Salò che hanno aiutato gli ebrei o hanno aderito alla Rsi non per motivi ideologici ma soltanto per sopravvivere a quei tempi oscuri”.
E le dichiarazioni di Grillo sulla morte del 25 aprile? “Dubito che Grillo e i grillini abbiano memoria storica. Non vale la pena di parlarne”, si inalbera Anna Foa. “Dire che questa data è morta, ferisce la coesione civile del nostro Paese, proprio in un momento in cui il 25 aprile non divide più gli italiani”, argomenta Di Rienzo. E Cavaglion lancia un appello: “Chi ha a cuore la Resistenza, deve esprimere preoccupazione per come si presenta e agisce questo movimento nel nostro Paese. Non voglio esagerare, ma in questo populismo vedo in nuce i germi di un nuovo fascismo”.

(Il Messaggero e Il Mattino, 26 aprile 2013)

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