Mario Avagliano

Mario Avagliano

La storia dai diari, i biglietti e le lettere dei soldati. Mario Avagliano presenta il suo libro

di Simona Toscano 
 
Giornalista professionista, Mario Avagliano, collabora con le pagine culturali de Il Messaggero e de Il Mattino.Ha ricevuto diversi riconoscimenti per la sua attività di saggista storico: nell'aprile 2010 l'Anpi lo ha insignito del VII Premio Renato Benedetto Fabrizi e nel settembre 2012 si è aggiudicato il Premio Fiuggi Storia e il V Premio “Gen. Div. Amedeo De Cia”. Il 9 novembre 2014 è stato nominato componente del Comitato d'onore scientifico e culturale della Fondazione del Museo della Shoah di Roma. L’ultima fatica un nuovo libro scritto a quattro mani con Marco Palmieri "Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte, 1940-1943", presentato a Roma la scorsa settimana.
Com'è nata l'idea di raccogliere diari, lettere e i biglietti di soldati?
Nel dopoguerra si è verificato un processo di rimozione e di oscuramento della partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale che ha riguardato non solo gli avvenimenti bellici in quanto tali, ma anche e soprattutto il tema del consenso e dell’adesione al fascismo e ai suoi miti, credenze e valori. La storiografia si è soffermata sul dissenso diffuso verso il fascismo dopo il 25 luglio e l’8 settembre del 1943, facendo risalire l’inizio della critica a Mussolini e al regime fascista già al momento della dichiarazione di guerra (10 giugno 1940) o comunque già ai primi mesi di guerra, dopo l’esito negativo della campagna di Grecia. L’unico modo per indagare su quali fossero le opinioni reali degli italiani in guerra, era utilizzare documenti coevi come i diari, le lettere, i biglietti, compresi quelli finiti nelle maglie della censura, oltre che le relazioni dalle autorità militari e di polizia sullo spirito delle truppe (tra cui i Promemoria per il Duce redatti dal Comando generale dei Carabinieri) e le note dei fiduciari del regime. Documenti che, come già sperimentato in altri nostri lavori di ricerca, ci hanno consentito di raccontare i miti, le illusioni, le speranze dei protagonisti dell’epoca.
Quanto sono durate le ricerche? E dove sono state fatte?
Circa due anni, anche se parte del materiale lo avevamo raccolto già nelle nostre precedenti ricerche. I fondi più importanti che abbiamo scandagliato sono quelli dell’Archivio Centrale dello Stato e dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore della Difesa. Ma molto materiale proviene anche da archivi privati, archivi comunali e ricerche o pubblicazioni locali semisconosciute.
Qualcosa che ha letto l'ha stupita più di tutte?
Potrei citare tanti brani. Forse la cosa che più mi ha colpito è che gli italiani arrivano all’appuntamento con la guerra con una immagine dei nemici stereotipata e filtrata dalla propaganda di regime, intrisa anche di motivi ideologici. Così gli inglesi sono i maledetti e perfidi affamatori del mondo, i russi sono esseri inferiori e senza Dio, gli ebrei continuano a tramare nell’ombra, nel tentativo fra l’altro di spingere nel conflitto contro le forze dell’Asse anche la potenza americana. Questa carica di odio, di pretesa superiorità e di razzismo fanno certamente buona presa sulla massa degli italiani, in particolare su quelli in armi, che proprio in virtù di questi valori si trovano a dover imbracciare il fucile e a combattere tali nemici. L’altro aspetto sorprendente è che c’è chi testardamente, fino alla fine, nonostante l’evidenza, continua a credere nella Vittoria dell’Italia nei vari teatri di guerra. Segno che la propaganda fascista aveva scavato in profondità nell’animo degli italiani.
Un libro a 4 mani, quali i vantaggi, quali le difficoltà?
Io e Marco Palmieri costituiamo ormai da anni una squadra affiatata. Questo è il quinto libro scritto assieme. Ci accomuna la passione per quel periodo storico e per l’indagine storiografica, il metodo di lavoro che privilegia le fonti coeve, l’attenzione al materiale archivistico costituito dai diari e dalla corrispondenza. I vantaggi di un libro a 4 mani, è quello di avere a disposizione anche…. 2 cervelli. Il confronto fra di noi ci consente di affinare la ricerca e di controllare meglio le fonti.
Perché questo titolo?
“Vincere e vinceremo!” è lo slogan lanciato da Benito Mussolini nel discorso del 10 giugno 1940 dal balcone di Piazza Venezia alla folla plaudente. E fu lo slogan che anche tantissimi soldati dell’epoca ripeterono nelle loro lettere o nelle loro cartoline, perfino all’immediata vigilia della caduta del fascismo e dell’armistizio. Uno degli addetti alla censura, l’ufficiale alpino Mario Cereghini, nel suo diario il 26 novembre 1942, riportando alcune frasi delle lettere visionate, così annotava: «Per i soldati poi la vittoria è qualche cosa di sostanziale: a decine e decine essi ne parlano come di una cosa reale, palpabile. Ti par di vederla questa bella donna con una stella in fronte che li guida verso la meta radiosa. Certamente la loro fantasia ricalca i luoghi comuni delle illustrazioni da copertina di quaderno scolastico o dei foglietti di propaganda: Finché Dio ci darà per noi questa cara Vittoria…; La Vittoria ci condurrà fino al cuore di queste steppe….; La Vittoria deve condurci più avanti…; La buona Vittoria…; Quando anche voi sentirete che la vittoria ci ha seguito…».
Cosa crede aggiunga, la vostra ricerca, all’indagine storica?
Mancava una storia «emotiva», ma anche politica e ideologica, del periodo che va dalla dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940 alla vigilia dell’8 settembre 1943. Il nostro libro mette a fuoco da un lato l’atteggiamento degli italiani in armi verso la guerra, caratterizzato da un iniziale entusiasmo e consenso e alimentato, quasi fino alla caduta del fascismo, da una considerevole e diffusa adesione ai sogni di gloria e di grandezza inculcati dalla propaganda e dalla retorica fascista; dall’altro la parabola del consenso al fascismo. Vengono così ripercorsi dal di dentro, o potremmo dire dal basso, sia la complessa vicenda storica della partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale, sia quel «lungo viaggio attraverso il fascismo» compiuto dagli italiani e in particolar modo dalla generazione nata e cresciuta nella sua temperie culturale, attraverso la viva voce dei protagonisti, nel pieno degli eventi, al riparo dai pregiudizi, dalle prese di distanza e dalle tesi precostituite della memorialistica successiva.
Dunque una sorta di cronaca degli umori del tempo in diretta…
Un’operazione di questo tipo sulla seconda guerra mondiale fino ad ora non era stata fatta, probabilmente proprio a causa della sua memoria divisa e della stretta compenetrazione esistente tra la partecipazione alla vicenda bellica e quella politica – il fascismo appunto – con cui si è a lungo preferito non fare pienamente i conti, glissando in particolar modo sull’adesione convinta e sulle responsabilità diffuse da parte degli italiani del tempo.
Un’ultima domanda. Abbiamo visto il valore storico del volume e la sua originalità, ma quale è il messaggio alle nuove generazioni?
Credo che il messaggio più forte che viene fuori dal libro è che il pensiero unico, tipico delle dittature di qualsiasi colore politico, porta sempre del male, sotto la forma di guerre, persecuzioni, razzismi. Bisogna sempre coltivare il dubbio e la critica. L’altra considerazione potente che emerge dalla storia di quel periodo, è che la guerra non è mai positiva, ma reca con sé distruzioni, disillusioni, morte fisica ma anche morale.
 

Storie - Palatucci e il metodo storico

di Mario Avagliano
 
In attesa del 17 dicembre, data in cui la commissione di studiosi incaricata dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane di fare chiarezza sulla figura dell’ex questore di Fiume Giovanni Palatucci, proclamato Giusto tra le Nazioni dallo Yad Vashem nel 1990, dovrebbe presentare le conclusioni dei suoi lavori, due nuovi libri cercano di portare un contributo al dibattito.
 
Uno è opera del giornalista Nazareno Giusti, “Giovanni Palatucci. Una vita da (ri)scoprire” (Tra le Righe Libri, pp. 160) e l’altro è dello storico e giornalista dell’Osservatore Romano Giovanni Preziosi, “L’affaire Palatucci. ‘Giusto’ o collaborazionista dei nazisti?”, di prossima uscita per le Edizioni “Comitato Palatucci”.
Il libro di Nazareno Giusti è una sorta di viaggio-intervista ad alcuni personalità che si sono occupate della figura del poliziotto irpino. Il saggio di Preziosi invece presenta i documenti e le testimonianze su Palatucci da lui raccolte negli ultimi anni e in parte pubblicate nei suoi articoli sull'Osservatore Romano.
 
La novità rispetto al passato è il tentativo di misurare l’attendibilità delle testimonianze anche attraverso la documentazione coeva. Il dibattito su Palatucci, quindi, è uscito dalle secche del dibattito politico. 
 
Ricostruire la storia, d’altra parte, richiede un metodo scientifico. È esattamente questo lo sforzo che ha in corso la commissione di studiosi presieduta da Michele Sarfatti, composta da Mauro Canali (Università di Camerino), Matteo Luigi Napolitano (Università degli Studi Guglielmo Marconi), Marcello Pezzetti (Fondazione Museo della Shoah di Roma), Liliana Picciotto (responsabile ricerche storiche della Fondazione Cdec e consigliere UCEI), Micaela Procaccia (dirigente della Direzione generale per gli archivi del ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo) e Susan Zuccotti (Centro Primo Levi, New York). Presto ne sapremo di più.
 
(L'Unione Informa e Moked.it del 25 novembre 2014) 
  • Pubblicato in Storie
  • 0

Storia. La guerra «Senza mandolino» del capitano Corelli

La radiografia, a tratti accorata a tratti impietosa, dei militari italiani partiti per il secondo conflitto mondiale. La fede incrollabile nella vittoria e nella visione del mondo inculcata da Mussolini
 
di Giovanni Grasso
 
Credevano, obbedivano e combattevano. Male equipaggiati e peggio armati, ma molto motivati. Capaci di compiere grandi gesti di eroismo, come sull'Amba Alagi ο a El Alaimen, ο di commettere brutali rappresaglie contro la popolazione civile in Grecia ο nei Balcani. Eccidi e crimini di guerra troppo spesso rimossi, la cui riscoperta dovrebbe definitivamente mandare in soffitta il mito degli "italiani brava gente" e gli stereotipi cinematografici del Capitano Corelli e relativo mandolino. La radiografia, a tratti accorata a tratti impietosa, dei militari italiani partiti per la Seconda Guerra Mondiale con una fede incrollabile nella vittoria e nel Duce emerge in questo nuovo e pregevole lavoro di Mario Avagliano e Marco Palmieri, "Vincere e vinceremo!" (il Mulino). 
 
Α differenza infatti della stragrande maggioranza dei poveri fantaccini della Grande Guerra (contadini semianalfabeti spediti sul Carso a morire come mosche per un ideale di patria lontano e poco ο nulla sentito) le giovani leve dell'esercito italiano, nate negli anni della dittatura e nutrite fin da piccole dalla propaganda del regime, mostravano una piena ed entusiastica adesione ai miti (e ai deliri) di potenza e alle ambizioni di conquista di Benito Mussolini. Ne è riprova il fatto che, mentre la macchina di repressione della giustizia militare, tra il 1915 e il 1918, procedeva a tutta birra con il suo luttuoso carico di fucilazioni e decimazioni, molto meno lavoro (e anche la mano più leggera) ebbero le corti marziali italiane durante i primi tre anni di guerra con le forze dell'Asse. 
Avagliano e Palmieri hanno scandagliato con acume e maneggiato con competenza un' enorme mole di documenti che riguardano in qualche modo la psicologia (ο, come si diceva al fronte, il "morale") dei combattenti: rapporti di polizia, relazioni dei comandi ο dei servizi d'informazione, brani di lettere, edite e inedite, dei militari italiani (dagli alti ufficiali ai soldati semplici) partiti per il fronte orientale, la Grecia, i Balcani, l' Africa ο la Russia. Uomini in armi, sedotti dalla propaganda e gettati nella mischia, con cinismo e follia in parti eguali, per assecondare il sogno improbabile di un'Italia fascista seduta con pari dignita al tavolo dei vincitori, quando fu subito chiaro sia a Hitler che agli Alleati che l' esercito italiano rappresentava l'anello debole dell'Asse. Ε quanto sarebbero stati effimeri i primi, sbandierati successi bellici italiani, senza l'apporto determinante dei mezzi, delle armi e degli uomini della Germania nazista. 
Dalla lettura dei documenti emerge un affresco corale in cui le inevitabili differenze soggettive (come per esempio sul rapporto con il prepotente alleato tedesco, visto con fastidio, timore ο ammirazione) si stemperano, delineando il vissuto di una guerra con connotati fortemente ideologici, venature esplicite di razzismo e antisemitismo e, specie nella sventurata campagna di Russia, persino spirito di crociata religiosa contro il bolscevismo ateo. Avagliano e Palmieri insistono molto nel sottolineare come la disillusione e il conseguente distacco dei soldati italiani dal regime fascista ebbero sicuramente inizio dalle disfatte militari in Africa e in Russia. Ma per la maggioranza, e a eccezione di menti particolarmente illuminate, fino almeno all'8 settembre e all'invasione tedesca dell'Italia (inizio della guerra civile) fu un processo molto più lento, graduale e tormentato di quanto si possa pensare. 
 
(Avvenire 28 novembre 2014, pagina 15)

Italiani al fronte, voci dalla guerra «giusta»

Italiani al fronte voci da una guerra che sedusse il Paese - Italiani al fronte, voci dalla guerra «giusta»
 
di Fabrizio Coscia
 
Attraverso lettere dal fronte della seconda guerra mondiale, Mario Avagliano e Marco Palmieri sfatano, nel saggio "Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte", il mito di un popolo al quale il regime fascista avrebbe imposto un conflitto senza consenso.
 
«Cara ti racconterò di nuovo i disastri che stiamo facendo perché eravamo partiti per andare a bruciare due paesi di ribelli, e così non ti spiego che strage abbiamo fatto». «In questo momento sono reduce da una spedizione contro gli ebrei comunisti, insieme al Battaglione squadristi toscano. Se tu vedessi mamma che macello abbiamo fatto». Basterebbero questi due stralci dalle lettere dei militari durante la seconda guerra mondiale (il primo dal fronte balcanico, il secondo da quello russo), per sfatare, una volta per tutte, il mito degli «italiani brava gente», fondato sulla lunga rimozione storica dei crimini di guerra commessi dal nostro esercito nelle ex colonie africane e nei territori occupati. 
Un mito che, in verità, già da qualche anno la storiografia ha cominciato a smantellare, ma su cui adesso arriva a mettere la parola fine il saggio di Mario Avagliano e Marco Palmieri, Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte (Il Mulino, pagg. 376, euro 25). Il volume raccoglie appunto la corrispondenza dal fronte dei militari, semplici o graduati, di tutta Italia, indirizzata a parenti, amici, fidanzate, madrine di guerra, parroci, rappresentanti delle autorità locali o del partito o commilitoni. E in particolare il capitolo dedicato, nella parte centrale del libro, alla partecipazione degli italiani alla guerra ideologica e totale, fatta di crimini, razzismo e repressioni sanguinarie, lascia davvero pochi dubbi sul comportamento dei nostri soldati in guerra, con le terribili stragi in Tessaglia e Macedonia perpetrate tra il 1942 e il 1943, tra saccheggi, omicidi, furti, rapine, stupri e incendi di villaggi, per non parlare della Jugoslavia, o le giornate di «carta bianca» a Podgorica, le deportazioni e gli internamenti in Dalmazia, le rappresaglie nella campagna di Russia, l'aperto disprezzo razziale nei confronti di africani e albanesi, e non solo (non mancano nelle lettere riferimenti ai «maledetti» inglesi, agli americani «negroidi» e «dediti al vizio», ai russi «senza Dio», agli arabi «sporchi e rozzi»).
 
Queste testimonianze raccolte dai due storici non si limitano però a tratteggiare un ritratto del nostro esercito (e di noi italiani, in fondo) molto diverso da quello che decenni di retorica ci avevano abituati a concepire: il volume, infatti, nel suo lavoro di ricognizione di fonti e documenti coevi, riesce a disvelare anche il «processo di rimozione e oscuramento» sul consenso alle politiche fasciste da parte dei militari italiani, che fu invece, come risulta, pieno e convinto, almeno nel periodo esaminato, dal 1940 (anno della dichiarazione di guerra) al 1943 (alla vigilia dell'8 settembre). 
Nella corrispondenza riecheggiano spesso, da soldati di ogni grado ed estrazione sociale, concetti come patria, vittoria, gloria, eroismo, sacrificio, dovere, o motti della cultura fascista, che dimostrano tra l'altro una tenuta perfino ostinata dei militari sul consenso al regime, anche quando già tra i civili, con il perdurare della guerra, cominciava a serpeggiare un forte malcontento nei confronti di Mussolini che presto si sarebbe trasformato in aperto dissenso. Un dissenso che invece non si manifesterà mai tra l'esercito, se non sotto forma di un «lento declino del consenso», causato dalle delusioni e dai disastrosi fallimenti delle campagne militari, mai sfociato però in esplicito «antifascismo». 
E questo perché il mito della vittoria, accompagnato dal mito personale di Mussolini e della «guerra giusta» e «santa», non verrà mai meno nei mostri soldati, nemmeno di fronte all'evidenza fallimentare delle sorti belliche dell'Italia, almeno fino al 25 luglio 1943, ealla tragica deriva della guerra civile. Così non stupisce che, tra i tanti stereotipi storiografici che questo saggio contribuisce a demolire, ci sia anche quello legato al presunto antisemitismo di facciata degli italiani, voluto da Mussolini solo per compiacere Hitler.
 I documenti attestano al contrario, a fronte di qualche manifestazione di solidarietà, numerosi episodi di violenza contro gli ebrei, assalti alle sinagoghe e diffusioni di manifesti discriminatori. Valga per tutti questa inequivocabile relazione del settembre 1941, redatta dal maggiore dei carabinieri Antonio Patruno, capo del Centro del servizio informazioni militare di Trieste, nella quale si avverte che finché gli ebrei «non saranno completamente eliminati, non potremo mai sottrarci al loro controllo e di conseguenza a quello del nemico». 
 
(Il Mattino, 30 dicembre 2014)
Sottoscrivi questo feed RSS