La sinistra italiana e gli ebrei

di Mario Avagliano

 

Lungotevere di Roma, 25 giugno 1982, nei pressi della Sinagoga. Un corteo di persone di passaggio urla: «Ebrei ai forni! W l'Olp! Morte a Israele» e poi lascia una bara davanti alle lapidi degli ebrei romani morti alle Fosse Ardeatine. Neofascisti o seguaci di Almirante? No, si tratta di militanti della Cgil, Cisl e Uil, nella capitale per i rinnovi contrattuali. Il rabbino Elio Toaff protesta e li definisce antisemiti, ma il segretario della Cgil Luciano Lama, invece che condannare quanto accaduto, giustifica i vergognosi slogan come comprensibili di fronte alla «guerra crudele scatenata dalle armate israeliane in Libano». D’altronde pochi giorni prima lo stesso Pci nella Direzione del 10 giugno 1982 ha accusato Israele di rasentare il «genocidio». È uno dei tanti episodi raccontati nel documentato saggio di Alessandra Tarquini intitolato «La sinistra italiana e gli ebrei. Socialismo, sionismo e antisemitismo dal 1892 al 1992» (Il Mulino, 22 euro), dal quale emerge che l’antisemitismo, a correnti alterne, ha allignato anche nella storia della sinistra italiana e non solo a destra, anche se vi sono stati pure diversi leader che viceversa hanno solidarizzato con gli ebrei.

Il rapporto tra la sinistra e gli ebrei è stato un po’ schizofrenico fin dalla fondazione del Psi nel 1892, data di inizio della indagine storica della Tarquini. I primi socialisti infatti minimizzano l’antisemitismo presente nella società, e questa sottovalutazione sarà una costante in quasi tutti i partiti di sinistra che nasceranno in Italia nei decenni successivi, convinti al pari di Cesare Lombroso, sulla scia del saggio di Karl Marx sulla questione ebraica, che la discriminazione verso gli ebrei sia superabile con l’affermazione di una società socialista.

Quando nel 1894 scoppia in Francia il caso del capitano Alfred Dreyfus, ebreo, accusato di spionaggio a favore dell’impero tedesco e per questo condannato ai lavori forzati, l’«Avanti!» si schiera per la colpevolezza di Dreyfus, addirittura sostenendo che un complotto della «bancocrazia giudaica» tentava di far evadere dall’isola del Diavolo il «capitano traditore». Solo dopo la celebre lettera di accusa alle gerarchie militari del gennaio del 1898 di Émile Zola al presidente della Repubblica Felix Faure il Psi diventa innocentista.

Dopo la nascita del sionismo, che sogna l’edificazione di una società socialista in Israele per gli ebrei, e fino alla Prima guerra mondiale, anche negli anni della direzione di Benito Mussolini, il quotidiano del partito socialista è un’importante voce di denuncia dell’antisemitismo nel mondo. Ad esempio, nell’autunno del 1913, l’«Avanti!» critica il linguaggio «violento» dell’«Osservatore romano» che ha definito il sindaco di Roma Ernesto Nathan «un volgare insultatore della nostra fede e delle nostre memorie», «un amalgama di giudaismo e massoneria».

Con l’ascesa del fascismo la sinistra italiana si occupa sempre meno della questione ebraica. Perfino dopo le leggi razziali varate dal regime di Mussolini, che colpiscono migliaia di persone, si levano poche voci in loro difesa, soprattutto quella del comunista Giuseppe Di Vittorio e del gruppo di Giustizia e Libertà, nel quale però militano numerosi ebrei. 

Anche nel dopoguerra, quando vengono alla luce gli orrori dei lager di sterminio e gli obiettivi della soluzione finale messa in atto dai nazisti con la complicità dei fascisti italiani, per anni a sinistra si ignorano le radici antisemite di queste azioni criminali e la Shoah viene equiparata a una forma di generica e certamente orribile «disumanizzazione», spesso senza far riferimento al genocidio degli ebrei, come nel film Kapò del regista comunista Gillo Pontecorvo. Anche Carlo Levi parla del lager come «il rifiuto dell’uomo da parte dell’uomo», senza soffermarsi sulle deliranti teorie antisemite del nazismo.

Alla loro uscita in libreria, opere simbolo della Shoah come «Il diario di Anna Frank» e «Se questo è un uomo» di Primo Levi (rifiutato per anni da Einaudi), se recensite dai quotidiani di sinistra, dall’Unità a Mondo Operaio, vengono elogiate per i loro aspetti letterari o di umanità, senza o con scarsissimi riferimenti all’antisemitismo e al genocidio di milioni di ebrei.

La Tarquini argomenta che pesa anche la posizione filopalestinese assunta dall’Urss. Anche a sinistra, dopo l’iniziale entusiasmo per la nascita di Israele nel 1948, col passare degli anni piovono critiche inaccettabili verso il governo israeliano, accusato di comportarsi come il nazismo nei confronti dei palestinesi. Durante la guerra dei Sei giorni, nel giugno del 1967, Antonello Trombadori scrive un articolo intitolato Da Anna Frank a Moshe Dayan indicando l’evoluzione di un popolo che è stato perseguitato e si nasconde «dietro l’antico e drammatico simbolo della stella di David». A suo avviso, Israele non è più la patria dei kibbutzim, ma uno Stato teocratico e razziale, che discrimina la minoranza araba e invocava le sofferenze subite per giustificare il proprio comportamento.

In quegli anni nella stampa di sinistra, si legge nel saggio, «i termini israeliano, sionista, ebreo vennero a sovrapporsi». Ancora nel 1974, quando un famoso sceneggiato televisivo su Mosè, interpretato da Burt Lancaster, viene trasmesso dalla Rai, un giornale di estrema sinistra, il «Quotidiano dei lavoratori», organo di Avanguardia operaia, protesta perché la tv pubblica avrebbe propagandato la «supremazia del popolo ebraico», in un certo qual senso giustificando «l’aggressività di Israele contro il popolo palestinese». Un attacco indegno che però non suscita grandi reazioni.

Peraltro anche nel Psi, che fino alla metà degli anni Settanta aveva una linea filoisraeliana, l’ascesa alla segreteria di Bettino Craxi comporta una brusca inversione di tendenza, con l’appoggio incondizionato all’Olp di Arafat. E ci vuole la caduta del muro di Berlino perché il Pci guidato da Achille Occhetto (poi diventato Pds), in particolare per merito di Piero Fassino, muti orientamento su Israele. Ma anche dopo il 1992, anno di conclusione del libro, in certe frange della sinistra estrema continueranno paragoni inaccettabili tra lo stato israeliano e i nazisti.

(Blog Mario Avagliano, 2020)

  • Pubblicato in Articoli

Quando era il Sud a protestare contro Roma

La caduta del fascismo a fine luglio del 1943 porta anche alla rinascita del pluralismo sindacale, soffocato durante il Ventennio fascista. E infatti il nuovo ministro delle corporazioni Leopoldo Piccardi, in accordo con il capo del governo Badoglio, decide di «commissariare» le organizzazioni sindacali costituite nel passato regime, affidandone la guida ad alcuni esponenti del sindacalismo prefascista, rappresentanti delle maggiori correnti politiche. Il socialista Bruno Buozzi viene nominato a capo dell’organizzazione dei lavoratori dell’industria, il cattolico Achille Grandi a quella dell’agricoltura e il comunista Giuseppe Di Vittorio a quella dei braccianti. All’organizzazione degli industriali viene invece preposto Giovanni Mazzini, che aveva già guidato l’associazione prima dell’avvento della dittatura. Mazzini e Buozzi il 2 settembre 1943 siglano un accordo con il quale vengono ufficialmente ricostituite le commissioni interne nei luoghi di lavoro soppresse dal patto di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925.

di Mario Avagliano e Marco Palmieri

L’armistizio dell’8 settembre 1943 e la divisione in due del Paese frenano però la costituzione di un nuovo sindacato democratico unitario. Tuttavia il governo Badoglio estende progressivamente a tutto il Meridione l’ordine di scioglimento dei sindacati fascisti e il diritto di costituire organizzazioni libere da ogni controllo governativo. Già a partire dall’ottobre del 1943 vengono costituite Camere del Lavoro in molte delle province liberate e a novembre al convegno di Napoli, al quale partecipano i rappresentanti dei lavoratori della provincia, viene creato il Segretariato Meridionale della Confederazione Generale del Lavoro (Cgl) e sono fissate le direttive fondamentali del nuovo sindacato. Nel comitato direttivo provvisorio entrano membri del Pci, del Psiup e del Pd’A e segretario generale viene nominato Enrico Russo, vecchio militante comunista, perseguitato dai fascisti, combattente nelle brigate internazionali in Spagna, già segretario della Camera del Lavoro di Napoli e segretario regionale del Pci sino al 1926, ma ora in odore di eresia per le sue posizioni eterodosse (nel partito c’è chi lo accusa di essere trotskista e a lui sono vicini i frazionisti di sinistra della federazione di piazza Montesanto). L’altro dirigente di spicco è Dino Gentili, che rappresenta la corrente azionista.

L’impronta classista del sindacato non è affatto gradita al Pci, che promuove l’indizione a Bari il 29 gennaio 1944, a margine del Congresso dei Comitati di Liberazione, di una riunione dei delegati sindacali del Mezzogiorno nella sede dei post-telegrafonici. Dall’assise emerge la volontà di costituire una nuova Cgl, in opposizione a quella napoletana, con l’aggiunta dell’aggettivo «Italiana» e che rappresenti tutte le forze antifasciste. Nel comitato provvisorio direttivo entrano anche il Pd’A e i liberali, anche se la direzione è costituita da membri di Pci, Psiup e Dc. La carica di segretario viene affidata al socialista Bruno Buozzi e la vice-segreteria al comunista Giovanni Roveda e al democristiano Achille Grandi. Ma nessuno di essi si trova nel territorio liberato ed è in grado, quindi, di assumere la carica, anche se è chiaro l’intento di dimostrare l’importanza e l’autorevolezza della Cgil barese rispetto alla Cgl di Napoli.

I desideri del Pci di formare un sindacato interpartitico vengono peraltro frenati dai rappresentanti di Psiup, Pd’A e Dc che il 5 febbraio 1944 diffondono un comunicato congiunto nel quale si dichiara di non riconoscere il deliberato del Congresso di Bari. La Cgil di Bari non viene sciolta, ma la componente che fa capo al Pci deve rallentare i tempi di formazione di un nuovo sindacato unitario.

Intanto la Cgl convoca a Salerno il suo primo congresso nazionale dal 18 al 20 febbraio 1944. All’assise partecipano trenta Camere del Lavoro, quattro sindacati campani, ventitré federazioni della terra e i delegati delle commissioni di fabbrica per i centri in cui le Camere del Lavoro non funzionano ancora, in rappresentanza di circa 150 mila iscritti. Una delegazione giunge dalla Puglia (Andria) e altri rappresentanti dall’Abruzzo e Molise.

Sono assenti i rappresentanti della Cgil di Bari, che peraltro fanno di tutto per cercare di impedire l’adesione delle altre province. Il Teatro Verdi, dove si tiene la manifestazione, è gremito: vi sono oltre duemila persone. La Cgl dà vita anche a un giornale, «Battaglie sindacali», con Enrico Russo direttore e Libero Villone redattore capo, il cui primo numero esce proprio il 20 febbraio.

Il congresso conferma come segretario nazionale Enrico Russo, il quale nella sua relazione chiarisce che «Non vi deve essere alcuna tregua sindacale», chiede di combattere il mercato nero, propone aumenti salariali per i lavoratori e l’eliminazione della disoccupazione mediante la consegna delle fabbriche alla gestione diretta operaia, e afferma l’esigenza di una decisa epurazione a ogni livello: «Il 25 luglio non è stato altro che il salvataggio della borghesia. Si è cambiata l’etichetta, ma il fascismo è rimasto, e il proletariato lo ha capito benissimo».

«Con il governo della borghesia – aggiunge Russo – non possiamo venire a nessun accordo […]. Le masse lavoratrici sono decisamente contro il governo Badoglio che, coprendo le responsabilità dei fascisti, rinnova e rafforza il fascismo».

Il congresso vota anche l’unificazione con la Cgil di Bari. Inutile si rivela il tentativo dei rappresentanti del Pci di scalzare dalla direzione Enrico Russo, come rileva l’Oss, ricostruendo in un documento del 27 aprile 1944 i retroscena del Congresso: «Tengono banco Gentili, il PD’A e i comunisti dissidenti di Russo. I socialisti e i comunisti di Napoli non riescono a sconfessare del tutto Salerno e lo definiscono regionale, cercando di dare peso all’altra CGL […] incaricano poi i socialisti presenti a Salerno di votare, nella votazione finale, contro Russo. Ma i socialisti di Salerno passarono l’informazione a Gentili e Russo si salva con 60 voti contro 26».

Nel frattempo anche i democristiani hanno creato una loro organizzazione sindacale; a Salerno, nei giorni 19 e 20 marzo, è nata la Confederazione Italiana del Lavoro (Cil), il cui congresso viene convocato con un manifesto che s’intitola Lavoratori di tutto il mondo; unitevi in Cristo. Viene nominato segretario generale Domenico Colasanto.

Togliatti, dopo il suo arrivo a Napoli, a inizio aprile incontra Russo e tenta un dialogo con la Cgl. Ma i motivi di contrasto prevalgono per la forte impronta classista della Cgl e perché essa avversa con asprezza la svolta di Salerno. Il 16 aprile del 1944, infatti, la Cgl emana un duro comunicato contro l’ipotesi di un nuovo gabinetto Badoglio con la partecipazione dei partiti del Cln in cui sostiene che «nessun governo di collaborazione con elementi responsabili del fascismo può risolvere i problemi della crisi politica ed economica, né soddisfare le aspirazioni delle masse» e «afferma che nessun governo potrà utilmente operare nell’interesse del Paese se non avrà l’appoggio delle masse lavoratrici».

A questo punto lo scontro con il Pci è frontale. Attraverso le colonne de «l’Unità» il partito critica duramente la Cgl, definita settaria e antidemocratica. Il 21 maggio «l’Unità» invita esplicitamente i dirigenti baresi a operare una scissione nel Consiglio Direttivo della Confederazione e afferma che i dirigenti eletti al congresso di Salerno non devono essere riconosciuti, ed è necessario che si tenga al più presto, «sulla base del tesseramento, la libera elezione degli organismi dirigenti» a tutti i livelli dell’organizzazione sindacale.

Alla fine di maggio viene convocato un nuovo congresso a Bari, al quale partecipano i rappresentanti della Cgil di Bari e della Cgl di Napoli, ma che ha carattere interlocutorio, sia per l’approssimarsi della liberazione di Roma sia perché, come spiegherà il socialista Oreste Lizzadri, «si preferì non pregiudicare con deliberazioni impegnative le trattative che, si sapeva, a Roma erano giunte a buon punto fra i partiti di massa».

Infatti a Roma in clandestinità Buozzi, Grandi e Di Vittorio hanno continuato a tessere la tela per la costituzione di un’organizzazione unitaria, in cui siano rappresentati i tre partiti di massa. Il loro impegno sfocia in uno storico accordo, il Patto di Roma, che viene siglato all’indomani della liberazione della capitale, il 9 giugno del 1944, e che sancisce la nascita della Confederazione generale italiana del lavoro unitaria (Cgil), stabilendo tra l’altro il «rispetto reciproco di ogni opinione politica e fede religiosa», la democrazia interna con elezione dal basso delle cariche, l’indipendenza dai partiti e la partecipazione in forma paritetica delle correnti sindacali.

Il Patto viene sottoscritto, oltre che da Di Vittorio e da Grandi, da Emilio Canevari che ha assunto la guida della corrente socialista dopo l’arresto di Buozzi da parte dei tedeschi il 13 aprile 1944 e la sua uccisione il 4 giugno nell’eccidio in località La Storta. La nascita del nuovo sindacato unitario precede lo scioglimento delle vecchie organizzazioni sopravvissute alla caduta del fascismo, che avviene qualche mese dopo, con il decreto legislativo n. 369 del 23 novembre 1944.

La risposta della Cgl di Russo è al fulmicotone, con un ordine del giorno in cui si afferma che «di fronte all’informazione che a Roma si è nominato un organo centrale di una Confederazione Generale Italiana del Lavoro, con tre dirigenti designati da partiti politici, nel riaffermare la necessità che il movimento sindacale rimanga indipendente dai partiti politici e non divenga strumento degli stessi, ma rimanga mezzo attraverso il quale le masse lavoratrici realizzano la difesa dei loro interessi; dichiara di non poter riconoscere alcuna nomina che non sia fatta per espressa volontà delle masse lavoratrici». La Cgl si ripropone di rappresentare essa i lavoratori, anche a Roma e nel resto d’Italia. Per contrastare l’ormai invadente sindacato romano, a giugno la Cgl stipula con la cattolica Cil un’intesa riguardante l’attività sindacale di base e i contratti collettivi.

Ma il piano di Russo & Co. si rivela velleitario. E infatti, mentre Di Vittorio tiene decine di comizi per diffondere l’idea del sindacato unitario, nelle settimane successive la Cgl perde pezzi, con la presa di distanza dei delegati di Bari e la fuoriuscita di vari segretari di Camere del Lavoro. Non resta altra strada che lo scioglimento e la confluenza nella Cgil romana. Con questo obiettivo viene convocato il 27 agosto a Napoli un nuovo congresso, al quale partecipano oltre cento delegati provenienti da tutto il Sud e anche da Roma, dove la Cgl è appoggiata dal Movimento Comunista d’Italia («Bandiera Rossa»). Il congresso approva l’adesione alla Cgil. Russo, dimettendosi da ogni carica, nel discorso di chiusura dichiara: «Per la prima volta nella storia del Movimento Sindacale un organo direttivo è costretto a dissolversi per il prepotere di forze estranee soverchianti […]. Dalla liberazione di Roma ci attendevamo un più vasto respiro di libertà. Ma questo respiro è stato soffocato».

Nel frattempo anche la Cil si è sciolta, superando le resistenze interne che hanno reso necessario un viaggio a Napoli di Achille Grandi. Ma in ambito cattolico resta l’esigenza di avere un luogo autonomo di discussione dei problemi del lavoro, tanto è vero che in un convegno tenuto tra il 26 e il 28 agosto del 1944 nel convento di Santa Maria sopra Minerva i dirigenti dell’Azione Cattolica e i sindacalisti della Dc firmatari del Patto di Roma decidono di dar vita alle Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani (Acli) «per integrare e affiancare l’opera dei sindacati unitari di categoria». A testimonianza del preciso legame tra la nuova organizzazione e la corrente cattolica presente nella Cgil, Grandi ne viene nominato presidente e Giulio Pastore segretario.

Il 15 settembre del 1944 a Roma si svolge il Convegno delle organizzazioni sindacali dell’Italia liberata, alla presenza della delegazione sindacale anglo-americana e del segretario della Federazione Sindacale Mondiale, Walter Schevenels, che danno l’imprimatur al nuovo sindacato.

Il primo Congresso della Cgil unitaria si tiene invece a Napoli dal 28 gennaio al 1° febbraio 1945, con la partecipazione dei delegati delle dodici regioni fino ad allora liberate (Sicilia, Calabria, Basilicata, Campania, Puglia, Abruzzo, Sardegna, Lazio, Umbria, Marche, Toscana, Romagna).

È l’occasione per ratificare il Patto di Roma e per confermare la segreteria generale, composta da Di Vittorio, Grandi e Oreste Lizzadri (che ha preso il posto di Canevari). Recita la risoluzione finale: «Il Congresso dichiara che l’unità sindacale, superate trionfalmente le prime prove, è considerata da tutti i lavoratori italiani come la più importante conquista da essi realizzata. Il proletariato italiano difenderà col più grande vigore questa sua conquista contro tutti coloro che tentassero, con arti subdole e con attacchi diretti, di infrangerla o d’incrinarla».

I carabinieri in un rapporto del 6 febbraio informano che «i congressisti hanno votato un ordine del giorno nel quale, tra l’altro, si afferma la necessità 1) dell’unità sindacale, 2) di immediati provvedimenti a favore dei lavoratori, 3) della soppressione dei contratti fascisti, 4) della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende, 5) della parità di trattamento degli operai in tutta Italia, 6) della nazionalizzazione dei monopoli economici», osservando che «Con le decisioni prese la Cgil mirerebbe al potenziamento delle masse per poter influire sulla direttive politiche del governo, tanto più che gli iscritti […] dei partiti estremisti sono in maggioranza».

Nel rapporto successivo del 9 marzo aggiungono: «Il partito comunista cerca di ingrossare le sue file prevalentemente attraverso l’appoggio della Confederazione generale del Lavoro e l’inquadramento delle organizzazioni sindacali sotto l’egida del partito».

Intanto anche il mondo imprenditoriale si organizza con la nascita il 18 gennaio 1945 dell’Unione degli Industriali della provincia di Napoli e della Camera di Commercio, che riprende la sua denominazione originaria dopo essere stata trasformata in epoca fascista in Consiglio provinciale delle Corporazioni e viene guidata prima da un commissario e poi da Epimenio Corbino. Riprende così la dialettica tra rappresentanti delle imprese e dei lavoratori, ancora prima della liberazione del Nord dell’Italia.

("Patria Indipendente", n. 103, marzo 2021)

 

Fonti bibliografiche e archivistiche

Alosco, Alle radici del sindacalismo. La ricostruzione della CGL nell’Italia liberata. 1943-1944, Milano, SugarCo, 1979

Archivio centrale dello Stato, Governo del Sud, Arma Carabinieri Reali dell’Italia liberata, fasc. 3/16.

Bianconi, 1943: la CGL sconosciuta. La lotta degli esponenti politici per la gestione dei sindacati operai 1943-1946, Centro Studi Libertari Di Sciullo, Chieti, 2013

Romeo, 28 gennaio-1° febbraio 1945, nell’Italia divisa in due il Congresso della Cgil delle zone liberate, in LaCgilnelNovecento.blogspot.com, 2 febbraio 2017

 

  • Pubblicato in Articoli

Storia nazionale riletta tra Stalin e De Gasperi

di Mario Avagliano

Ancora oggi molte storie generali e libri di testo per studenti universitari continuano a descrivere l’Italia del dopoguerra come «vassalla» di Washington e totalmente subalterna alla politica americana e sottovalutano l’influenza sovietica sui partiti e sugli intellettuali italiani. Ma il leader democristiano Alcide De Gasperi fu davvero un burattino nelle mani del presidente americano Harry Truman, come lo descrivevano i manifesti di propaganda elettorale del Fronte Popolare alle politiche del 1948? E il segretario comunista Palmiro Togliatti cercò realmente una «via italiana» al socialismo?

A fare chiarezza sulla politica estera italiana è il saggio «L' Italia tra le grandi potenze. Dalla seconda guerra mondiale alla guerra fredda», appena uscito per i tipi del Mulino e opera di Elena Aga Rossi, una delle maggiori studiose della politica e dell'intervento degli Alleati in Europa e dell'influenza dell'Unione Sovietica in Italia nei primi anni della guerra fredda.

Sull'una e l'altra tematica Elena Aga Rossi, lavorando in più archivi, non solo italiani ma anche sovietici, americani e inglesi, ha prodotto alcune ricerche originali che hanno in più casi costituito punti di svolta sulla storia politica del nostro paese e ora trovano qui una sistemazione unitaria, che va dai piani alleati per la divisione dell'Europa, sullo sfondo della Campagna d'Italia, fino al ruolo di De Gasperi nella rottura con le sinistre del maggio 1947 e ai rapporti del Pci e del Psi con l'Unione Sovietica.

In realtà, l’appartenenza dell’Italia alla sfera d’influenza occidentale, data per certa durante la guerra dalle conferenze di Jalta e di Teheran, fu poi messa in discussione alla fine del 1947, non soltanto per l’ipotesi di un possibile colpo di mano comunista, ma soprattutto nel caso di una vittoria elettorale dei partiti di sinistra alle politiche del successivo aprile. La stessa Urss progettava una graduale sovietizzazione d’Europa nell’arco di un paio di generazioni, grazie anche alla prevista crisi del capitalismo.

Elena Aga Rossi con i suoi studi ha contribuito a smontare, sulla base di documenti d’archivio, alcuni miti della storia italiana. La svolta di Salerno di Togliatti, ovvero l’improvvisa apertura di credito del Pci al governo Badoglio, che spiazzò gli altri partiti di sinistra, sarebbe stata un’indicazione di Stalin e non una decisione autonoma del segretario comunista. La presunta autonomia del Pci (e anche del Psi di Pietro Nenni) rispetto all’Urss e la ricerca di una via nazionale sarebbe stata solo di facciata ma non di sostanza, come testimoniano la piena adesione dei comunisti italiani al Cominform e la vicenda di Trieste, sulla quale Togliatti si appiattì sulla linea di Stalin e di Tito. L’apertura degli archivi sovietici, avvenuta solo negli anni Novanta, ha consentito di documentare questi rapporti e di vedere per la prima volta «l’altra faccia della luna».

La longa manus dell’Urss si sarebbe manifestata anche con un condizionamento della politica editoriale di quegli anni in Italia, suggerendo alle principali casi editrici, compreso l’Einaudi e Laterza, la pubblicazione di saggi di chiara impronta filocomunista e antiamericana e di contro ostacolando la diffusione di libri di denuncia dell’oppressione sovietica come «Arcipelago Gulag» di Aleksandr Solzenicyn e «Vita e destino» di Vassilij Grossman.

La stessa decisione di De Gasperi di rompere la coalizione con socialisti e comunisti e di varare un governo moderato, non sarebbe il frutto «avvelenato» del suo viaggio in Usa del gennaio 1947 ma una scelta dello statista democristiano dovuta a fattori interni, quali la sconfitta della Dc ai turni elettorali delle amministrative a Roma e altre città e delle regionali in Sicilia e la scarsa affidabilità dei partiti di sinistra, più di lotta che di governo. Una svolta politica sofferta (sul punto la Dc era divisa) e che è stata vista a lungo come la fine delle speranze di cambiamento generate dalla Resistenza e solo di recente è stata inquadrata come determinante per la ricostruzione del Paese in senso democratico.

Non c’è dubbio, rileva Elena Aga Rossi, che gli Usa (peraltro più teneri e accomodanti verso gli italiani rispetto agli inglesi) esercitarono una pesante influenza, politica ed economica, sull’Italia del dopoguerra, prima con la Commissione alleata di controllo e poi attraverso il Piano Marshall. Ma il nostro Paese era allo stremo delle forze e aveva poche alternative, poiché senza gli aiuti americani non si sarebbe potuta concretizzare la ricostruzione e ogni tentativo di ottenere aiuti da parte dell’Urss non ebbe alcun seguito, anzi i sovietici furono in prima fila nel richiedere all’Italia le riparazioni di guerra. E d’altronde quel piano fu alla base del boom degli anni successivi e consentì all’Italia di entrare nel club delle grandi potenze.

(Il Mattino, 19 ottobre 2019)

  • Pubblicato in Articoli

Il Dopoguerra, un laboratorio tra compromessi e idee geniali (Il Messaggero)

di Pasquale Chessa

«E' scoppiato il dopoguerra»: la battuta, a orecchio attribuita a Flaiano, è invece di Suso Cecchi D'Amico la sceneggiatrice di Ladri di biciclette, che descrive al marito musicologo l'aria del tempo alla fine del 1945: «Finora è stato un limbo». Dietro c'è l'inferno di Mussolini, della Guerra Mondiale, della Guerra Civile, ancora in atto con la "resa dei conti", «la più feroce e sincera di tutte le guerre» secondo il latinista comunista Concetto Marchesi. Non sarà facile per la nuova Italia, temprata dalla Resistenza, dopo vent'anni di dittatura, costruire la sua nuova identità senza il fascismo. Seguendo «gli italiani fra speranze e disillusioni» (così dice il sottotitolo del libro) ci spiegano come ci siamo riusciti, Mario Avagliano e Marco Palmieri, capaci di rintracciare nella cronaca politica e culturale, nelle mode e nei costumi i passaggi cruciali della grande storia.
 
LA VIA
Si capisce meglio, per esempio, la "Via italiana al socialismo", che consente a Togliatti di rimandare a un futuro mitico il tempo della rivoluzione, leggendo un articolo dell'Unità del 23 giugno 1945 che comincia così: «Si balli pro Tizio, pro Sempronio l'essenziale è che si balli (...) stretti possibilmente a una bella e formosetta fanciulla». Non è incauto sostenere che da lì comincia la legittimazione democratica e popolare del Pci, in sintonia con quel compromesso storico originario con la Dc su cui si fonda la nostra Costituzione. Sebbene nella parola Dopoguerra (idea titolo di Avagliano e Palmieri) sia contenuto il concetto di guerra, è dal suo superamento che nasce l'altra storia: «L'immagine del Paese che si rimette in moto alla fine della guerra non è solo metaforica».
 
L'IDEA
Affonda nell'industria bellica l'idea della Vespa progettata per Enrico Piaggio da un ingegnere aeronautico che odiava le moto, e perciò inventò lo «scooter». Seguendo la stessa ispirazione Enzo Ferrari reinventa l'automobile da corsa. Ma anche l'Algida nata nel 1946 sfrutta un residuato americano per fare gelati. Una storia fondata sui fatti: peccato che nell'indice dei nomi manchi Renzo De Felice. C'è in questo Dopoguerra una teoria implicita del processo storico come una serie contigua e distinta di vasi comunicanti: nel 1946 la nascita di Miss Italia sta bene insieme al referendum fra monarchia e repubblica, prima volta delle donne alle urne; Bartali e Coppi fanno pendant con Peppone e Don Camillo; la nascita del Piccolo teatro a Milano non stona con la traumatica uscita dal governo del Pci nel 1947. Aveva ragione il protagonista di Napoli milionaria di Eduardo De Filippo: «Ha da passa 'a nuttata». La nottata è passata. Si dirà: ma l'Italia non è poi venuta tanto bene? Vabbè, nessuno è perfetto.
 
(Il Messaggero, 11 agosto 2019)

Elezioni, qua succede un 48

di

 

1948. Gli italiani nell’anno della svolta, l’ultima fatica letteraria di Mario Avagliano e Marco Palmieri, pubblicata da poche settimane da Il Mulino è tutto da leggere per diversi motivi. Prima di tutto perché è un libro scritto bene, che si fa leggere e che spiega raccontando con un linguaggio piano e comprensibile un periodo complicatissimo della vita nazionale. Poi perché – come si è detto -, fornisce gli elementi conoscitivi utili per capire meglio anche quello che sta accadendo oggi.

Avagliano e Palmieri – da storici -, ripercorrono passo dopo passo l’avvicinarsi alla giornata elettorale del 18 aprile del ’48, lo svolgimento della giornata stessa e poi cosa accadde dopo. E lo raccontano guardando a tutti gli aspetti (la propaganda delle parti, le pressioni internazionali, il vissuto degli italiani, l’atteggiamento delle Istituzioni, quello della Chiesa), e utilizzando tutto il materiale possibile, spesso inedito. Scorrono così sotto gli occhi di chi legge diari, lettere, interviste, relazioni delle autorità e di pubblica sicurezza, carte di partito, documenti internazionali, giornali, volantini permettono di ricostruire il quadro complesso dell’Italia dell’epoca, illuminando anche molte questioni che hanno caratterizzato i decenni successivi, fino ai nostri giorni.

Ma non basta. Perché gli autori – da giornalisti –, scrivono quasi in presa diretta, non fanno sconti a nessuno, raccontano senza giudicare. Fanno cioè quello che ogni buon storico e ogni buon giornalista dovrebbe fare. Ciò che emerge è, appunto, un racconto ma anche la collezione di una serie di strumenti per capire il passato e il presente, scoprendone le differenze così come le analogie. Si susseguono così episodi della grande e della piccola politica. Anche a Torino e in Piemonte. Curiosa, per esempio, è la vicenda raccontata da Diego Novelli, futuro sindaco, allora 17enne espulso dalla Messa perché “cattolico di sinistra” (pagg. 121-122). Drammatica, invece, la cronaca di quanto accadde a Torino subito dopo l’attentato a Togliatti e la dichiarazione di sciopero generale, con le fabbriche bloccate, la Fiat occupata: “A Mirafiori i lavoratori bloccano in fabbrica sedici persone, tra cui l’amministratore delegato Vittorio Valletta” (pag. 309).

Certo, il 1948 davvero condizionò e cambiò (forse) il futuro del Paese; difficile dire adesso se il 2018 avrà lo stesso ruolo. Ma certamente “1948” di Avagliano-Palmieri  ha già un ruolo chiaro: metterci in condizione di capire di più e meglio cosa sta accadendo.

Bella, poi, la citazione di Paolo Monelli posta in quarta di copertina del libro, che dà in poche righe il senso di quanto accadde e – tutto sommato – di ciò che in qualche modo accade anche oggi: «Un tumulto, un’agitazione, un ondeggiare di folle sempre maggiore, da una piazza all’altra, da un comizio all’altro, e blaterare di altoparlanti, e sbocciare di manifesti l’uno sull’altro, e gualdane di attacchini arditi e petulanti come guerrieri d’assalto…».

(pubblicato su lospiffero.com)

Presentazione del libro "1948. Gli italiani nell'anno della svolta"

Presentazione del libro "1948. Gli italiani nell'anno della svolta" di Mario Avagliano e Marco Palmieri (edito dal Mulino)

A cura di Pantheon e Valentina Pietrosanti

Organizzatori: 
Istituto Europeo di Cultura Politica Italide
 
Registrazione video del dibattito dal titolo "Presentazione del libro "1948. Gli italiani nell'anno della svolta" di Mario Avagliano e Marco Palmieri (edito dal Mulino)", registrato a Roma giovedì 12 aprile 2018 alle 17:45.

Dibattito organizzato da Istituto Europeo di Cultura Politica Italide.

Sono intervenuti: Antonella Freno (presidente dell'Istituto Europeo Cultura Politica Italide), Francesco Verderami (giornalista del Corriere della Sera), Paolo Mieli (giornalista e storico), Caterina Misasi (attrice), Antonio Tallura (attore), Lucio Villari (storico), Pippo Baudo (artista), Mario
Avagliano (scrittore), Giorgio Marchesi (attore).

Tra gli argomenti discussi: Dc, De Gasperi, Libro, Pci, Politica, Sindacato, Storia, Togliatti.
 
  • Pubblicato in News

“1948 Gli italiani nell’anno della svolta” di Mario Avagliano e Marco Palmieri

“1948 Gli italiani nell’anno della svolta” di Mario Avagliano e Marco Palmieri

La campagna elettorale? Tante bugie e forzature, frasi semplici, ripetute insistentemente, slogan di facile comprensione, che fanno leva su paure, esigenze, ostilità degli elettori italiani. Parliamo delle recenti Politiche (lavoro, sicurezza, reddito di cittadinanza)? No, si tratta delle drammatiche elezioni del 18 aprile 1848 per il primo Parlamento repubblicano, il cui clima e significato sono tra i contenuti di rilievo del volume “1948. Gli italiani nell’anno della svolta” (collana Biblioteca storica, Il Mulino, 2018, pp. 452, edizione a stampa euro 25,00, ebook euro 16,99), a firma dei giornalisti, storici e saggisti Mario Avagliano e Marco Palmieri.
Non ci sono state consultazioni elettorali più risolutive, non c’è stato un anno più decisivo. Uno scontro manicheo, tra bianchi e rossi: da una parte la Democrazia Cristiana, dall’altra il fronte social-comunista. Due mondi contrapposti, democrazia e totalitarismo sovietico, blocco occidentale e blocco orientale, USA e URSS, capitalismo e anticapitalismo, cattolicesimo e ateismo. Del tutto evaporata la concordia responsabile dei partiti della Resistenza.

Qual era la società italiana chiamata a decidere il futuro politico nelle prime elezioni dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e prime anche della Guerra Fredda? I due saggisti la inquadrano perfettamente: è un paese povero, 47 milioni di cittadini (29 milioni chiamati alle urne, a suffragio universale) feriti da venti anni di fascismo, cinque di conflitto mondiale e due di guerra civile. Non si contano le case ancora distrutte, nel 25% delle abitazioni manca l’acqua corrente e nel 73% addirittura il bagno. Dilaga la disoccupazione, molte famiglie sono quasi alla fame. Quattro milioni gli analfabeti, più dei diplomati insieme ai laureati (questi meno di mezzo milione). Il resto ha un tasso di scolarizzazione insignificante, a malapena sanno leggere e fare i conti minimi. Ma c’è tanta voglia di riprendere: i cinema sono affollati, si va in Lambretta e Vespa, si diffondono i dischi a 33 giri.
Il risultato investe del compito di governo la Democrazia Cristiana, forte di un mai più raggiunto 48% dei voti. Lo eserciterà per oltre quarant’anni, alleandosi con altri partiti. In effetti, decide soprattutto il “sistema di valori” nel quale si muoverà la ricostruzione del Paese, favorita dal Piano Marshall, il colossale programma di aiuti economici avviato dagli Stati Uniti per l’Europa e che naturalmente si estende all’Italia, dimostratasi insensibile alle sirene sovietiche. Un miliardo e mezzo di dollari: significa industrie, case, strade, ferrovie, acquedotti, infrastrutture. Lavoro.
Gli aiuti americani rafforzano la simpatia degli italiani per la cultura, il costume, il cinema d’oltreoceano. Un’attrazione consolidata dai contatti con i nostri emigrati e dal ricordo della generosità dei “liberatori”, i militari USA che regalavano pane, cioccolata, scatolette di carne, latte condensato, sigarette e chewingum.

Solo a dicembre era scaduto il piano Unrra delle Nazioni Unite, che aveva consentito letteralmente di sfamare un Paese vinto e discinto dalla guerra.
Nasceva quindi un’Italia certamente libera, una democrazia parlamentare affidabile. E tuttavia si intravedevano i guasti che caratterizzeranno l’Italia dei partiti: diventano un’interfaccia obbligata tra lo Stato e i cittadini, elargiscono favori e prebende, intermediano tra domanda e offerta di lavoro, soprattutto pubblico, la politica si fa mestiere, la burocrazia diventa elefantiaca. Raccomandazioni. Corruzione. Concussione. Interessi privati. Bustarelle. Ed un ruolo lo esercita anche un’invadenza insistente della componente cattolica e curiale.
La DC è il garante di un sistema che doveva restare immutabile. Un Paese congelato in quegli anni, immobile. Di fronte c’è il più forte Partito comunista dell’Europa occidentale, a sua volta stretto tra anime concorrenti, più o meno fedeli alla voce di Mosca. Si è creato quel modello di “democrazia bloccata” che durerà non poco, superando qualche tentativo di apertura reciproca, uno dei quali frustrato dall’omicidio di Aldo Moro nel 1978.

E questo ci porta all’attentato a Palmiro Togliatti. Il 14 luglio, il segretario del Pci è gravemente ferito a colpi di pistola all’uscita da Montecitorio. In Italia la protesta comunista divampa ben oltre il controllo del partito, somiglia a un’insurrezione popolare. Fabbriche occupate, cortei nelle città, dimostrazioni violente, assalti alle caserme dei Carabinieri. Tornano in circolazione le armi partigiane nascoste, l’Amiata diventa una repubblica rossa.
Togliatti stesso invita alla calma, non è tempo di rivoluzione per il PCI. E nemmeno per la CGIL, il forte sindacato di sinistra, guidato con grande senso di responsabilità da Di Vittorio. La classe media e i partiti più moderati non si muovono, ma non approvano il clima di rivolta. Non alimentata politicamente, la protesta si esaurisce. A seguire, il ministro dell’interno Scelba avvia un periodo di repressione. Il bilancio degli incidenti è incerto: almeno 16 morti, 9 dei quali tra le forze dell’ordine, che hanno anche 500 feriti. Si contarono oltre 5100 arrestati e denunciati.

 (pubblicato su sololibri.net)

 

 

“1948. Gli italiani nell’anno della svolta” di Mario Avagliano e Marco Palmieri

“1948. Gli italiani nell’anno della svolta” di Mario Avagliano e Marco Palmieri

Dott. Mario Avagliano, Lei è autore insieme a Marco Palmieri del libro 1948. Gli italiani nell’anno della svolta edito dal Mulino: perché possiamo considerare il 1948 un anno di svolta?
1948. Gli italiani nell'anno della svolta, Mario Avagliano, Marco PalmieriIl 1948 è stato un anno cruciale, un autentico spartiacque nella storia politica e sociale italiana. Dopo vent’anni di dittatura fascista, culminati nella disastrosa partecipazione alla seconda guerra mondiale e nella drammatica e feroce guerra civile, l’Italia era un paese materialmente e moralmente devastato, ma con un futuro istituzionale, politico, economico e sociale tutto da costruire davanti a sé. Le laceranti vicende degli anni precedenti, naturalmente, non potevano essere cancellate con un colpo di spugna e in particolare quelle del biennio 1943-45.

Il 1° gennaio del 1948 è già un giorno storico, poiché entra in vigore la Costituzione della Repubblica italiana, licenziata a larghissima maggioranza dall’Assemblea Costituente eletta il 2 giugno 1946, contestualmente alla consultazione referendaria che aveva sancito la scelta della forma istituzionale repubblicana rispetto a quella monarchica. È però l’ultimo atto concorde dei partiti protagonisti della Resistenza.
Tuttavia lo spirito costituente di cui il testo è figlio, e che per circa due anni ha animato e appassionato tutte le forze politiche rinate dopo il fascismo, si è ormai esaurito. L’alleanza di governo tra i partiti antifascisti che si è forgiata nella Resistenza e ha contribuito a traghettare il paese verso la libertà e la democrazia, è bruscamente naufragata qualche mese prima, quando il leader democristiano De Gasperi ha estromesso i partiti di sinistra, Pci e Psi, dalla compagine di governo, complice anche il mutato clima internazionale.
Le successive elezioni politiche del 18 aprile 1948, le prime della guerra fredda, insieme al complesso delle vicende che caratterizzano quei mesi, segnano dunque una cesura tra due fasi storiche. Il risultato delle urne consacra la Democrazia Cristiana quale partito centrale del governo per i successivi quarant’anni e definisce il sistema di valori all’interno del quale si svolgeranno di lì in avanti le vicende politiche e socio-economiche dello Stato.

Il 18 aprile 1948, il popolo italiano non è chiamato a scegliere solo fra due coalizioni politiche, ma fra due diversi modelli, due diverse visioni, due ideologie contrapposte e alternative tra loro: Occidente e Oriente, comunismo e democrazia. E vengono raggiunti livelli di tensione e di drammaticità che probabilmente non saranno toccati mai più nella storia successiva repubblicana, la cui evoluzione sarà a lungo condizionata proprio dall’esito e dagli sviluppi del confronto del ’48.

Quali vicende accompagnarono la prima campagna elettorale della guerra fredda?
L’8 febbraio 1948, con la pubblicazione del decreto di «convocazione dei comizi» per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, viene fissata la data del 18 aprile per il voto e prende ufficialmente il via una delle più incerte e tese campagne elettorali della storia politica italiana, la prima della guerra fredda. Gli schieramenti contrapposti sono ormai ben definiti: da un lato le forze di sinistra, essenzialmente il Pci e il Psi, riuniti nel Fronte popolare; dall’altro la Dc e i suoi alleati di governo.
Gli italiani che si apprestano ad andare alle urne sono oltre 29 milioni. Il sistema elettorale con il quale si va al voto è proporzionale e, grazie all’introduzione del suffragio universale, sono coinvolti tutti i cittadini maggiorenni (21 anni) di entrambi i sessi. Ne deriva, per i partiti in lizza, la necessità di organizzare una campagna elettorale moderna e di massa, con l’impiego di ingenti risorse, l’utilizzo di svariati mezzi di comunicazione (comizi, manifesti, volantini, lettere, giornali, trasmissioni radiofoniche, produzioni cinematografiche) e la nascita della figura prima sconosciuta del militante, cioè l’attivista del partito impegnato a fare proseliti. La mobilitazione elettorale, inoltre, riguarda tutto il territorio nazionale, dai grandi centri urbani alle campagne più remote. E lo scontro politico assume le sembianze di una radicale e ultimativa scelta di campo, tra opposti inconciliabili – democrazia-comunismo, blocco occidentale-blocco orientale, Usa-Urss, capitalismo-anticapitalismo, cattolicesimo-ateismo – perché, come spiega tra gli altri il dirigente comunista Gian Carlo Pajetta, è «un momento della guerra fredda».

Le principali forme di comunicazione e di propaganda sono i comizi, in cui gli oratori tengono accorati e argomentati discorsi sulle proprie ragioni e sui rischi di un’affermazione degli avversari. Ai classici comizi nelle piazze, si aggiungono anche gli incontri con piccoli gruppi di elettori, organizzati o casuali, come i comizi volanti, improvvisati in qualsiasi luogo e momento.
Per affrontarli al meglio, i partiti principali spingono gli attivisti ad imparare a parlare in pubblico, fornendo loro dei manuali o degli schemi tematici per affrontare il contraddittorio con gli avversari. Inoltre si punta molto sulla reiterazione di slogan sintetici, semplici, facili da decodificare e di grande impatto emotivo attraverso altoparlanti fissi e mobili, manifesti, scritte murali e volantini, per far leva sulla sensibilità, l’istinto e la paura (in caso di vittoria degli avversari) più che sulle riflessioni approfondite e per raggiungere un pubblico ampio e trasversale per ceto sociale e livello culturale, analfabeti compresi. Soprattutto al Sud, dove la percentuale di elettori che non sanno leggere e scrivere è più alta, si rivela di grande efficacia il giornale parlato, che permette di diffondere oralmente idee, notizie, programmi e dottrine.

Le foto d’epoca – al netto del sonoro, che s’intuisce – restituiscono un ritratto eloquente: muri tappezzati in ogni dove di manifesti e scritte, piazze gremite di folla che assiste ai comizi con bandiere e cartelli e tutti i punti di ritrovo – dai bar, alle osterie, alle chiese – coinvolti nella lotta. Sui muri, spesso ancora segnati dai bombardamenti, in ogni angolo della penisola, è guerra di manifesti con simboli dei partiti, slogan e vignette satiriche il più delle volte attaccati gli uni sugli altri con la farina di grano al posto della colla sintetica che scarseggia.
D’altra parte l’esito delle urne è incerto. Si arriva al voto con la convinzione diffusa, supportata dai risultati delle precedenti elezioni amministrative in Sicilia, a Roma e a Pescara, che i partiti di sinistra riuniti nel Fronte popolare possano ottenere la maggioranza o comunque un’affermazione talmente decisa da rendere difficile un governo senza di loro, che dall’esecutivo erano stati estromessi nel corso dell’anno precedente dal leader democristiano e presidente del consiglio De Gasperi. Il diffuso disagio sociale ed economico dovuto alla cattiva congiuntura e ai disastri lasciati in eredità dalla guerra sembrano del resto spingere in questa direzione.

Come si articolarono l’intervento americano e il Piano Marshall?
Il 5 giugno 1947, in un discorso tenuto in occasione del conferimento delle lauree all’università di Harvard, il segretario di Stato americano George Cattlet Marshall aveva annunciato un colossale piano di aiuti economici per la ricostruzione dell’Europa. La cifra, astronomica per l’epoca, raggiungeva i 12 miliardi di dollari in quattro anni, di cui all’Italia sarebbe toccato circa un miliardo e mezzo di dollari, con cui ricostruire industrie, case, strade, ferrovie, acquedotti e altre infrastrutture distrutte dai bombardamenti. Tuttavia, dopo la rottura con l’Urss, la condizione non scritta ma necessaria per beneficiare delle ingenti risorse americane è la collocazione chiara e stabile del paese nel blocco occidentale guidato dagli Usa, senza rischi di svolte comuniste, a cominciare dal risultato delle elezioni.

L’annuncio del Piano Marshall, dunque, rappresenta un passo ulteriore verso la divisione del mondo in blocchi contrapposti. Il Piano, infatti, se da un lato ha una chiara funzione anti-sovietica, volta a contenere l’espansione della sua sfera d’influenza, dall’altro presuppone la ricostruzione del mondo occidentale sulla base di un modello di capitalismo integrato a guida, immagine e somiglianza di quello americano.

L’influenza americana che gli aiuti materiali contribuiranno ad innescare non sarà solo di natura politica, diplomatica ed economica, ma anche culturale in senso più ampio. Il fascino degli Usa, con la sua conseguente incidenza sulle scelte elettorali degli italiani, infatti, si propaga anche attraverso i miti che si irradiano da oltreoceano, dalle star di Hollywood a quelle della musica, dai romanzi di grande successo come quelli di Hemingway alle immagini scintillanti delle moderne metropoli. Non a caso in un manifesto della Dc si evidenzia che «anche gli attori di Hollywood sono in linea nella lotta contro il comunismo!!», con le foto di Rita Hayworth, Spencer Tracy, Bing Crosby, Clark Gable, Gary Cooper e Tyrone Power.

Miti che si saldano con i racconti dei parenti emigrati negli Stati Uniti e con l’immagine ancora viva negli occhi di molti italiani dei soldati americani che avevano contribuito a riportare la libertà nel paese dopo gli anni della dittatura fascista, distribuendo al loro arrivo pane, tavolette di cioccolata e sigarette, dimostrando di essere una nazione grande, giovane e generosa, che ora si fa carico anche dell’aiuto per la ricostruzione materiale.

Il tema della scelta di campo internazionale e quello ad esso strettamente connesso della possibilità di beneficiare degli aiuti americani per la ricostruzione e il benessere futuro, diventano inevitabilmente elementi centrali della contesa elettorale italiana e chiaramente giocano un ruolo rilevante in favore della Dc.

Per scongiurare l’eventualità di una vittoria comunista alle elezioni italiane gli Usa organizzano una massiccia campagna di propaganda. La principale leva utilizzata, come detto, è quella degli aiuti economici. Tuttavia i tempi tecnici per far affluire concretamente le risorse del Piano Marshall in Italia prima del voto non ci sono. Nel frattempo, quindi, il Governo americano adotta due misure d’emergenza in sostituzione del programma Unrra  terminato in dicembre, che destinano all’Italia oltre 290 milioni di dollari che vengono destinati per lo più all’acquisto di generi di prima necessità che, insieme agli aiuti materiali scaricati dalle navi americane che cominciano ad affluire in numero sempre maggiore nei porti italiani, servono all’ambasciatore Dunn per promuovere attivamente l’immagine degli Usa nelle settimane decisive prima del voto. In vista del 18 aprile, infatti, Dunn si dedica a un febbrile programma di pubbliche relazioni, di cerimonie nei porti dove attraccano le navi cariche di aiuti e di inaugurazioni di case e infrastrutture finanziate con fondi americani, alle quali sono sempre presenti anche esponenti del Governo, della Dc e dei partiti alleati.

Per sfruttare al meglio l’impatto emotivo degli aiuti sull’opinione pubblica italiana il giornalista Drew Pearson aveva già partorito l’idea del Friendship Train, il treno dell’amicizia, vale a dire un convoglio partito da Los Angeles il 7 novembre 1947 e arrivato a New York dopo aver raccolto lungo il tragitto viveri e altri prodotti per un valore di oltre 40 milioni di dollari, che arriva in Italia e attraversa con grande successo la penisola.

La campagna per influenzare il voto in Italia coinvolge anche la popolosa comunità italoamericana. A questo scopo vengono potenziate le trasmissioni radiofoniche di Voice of America per l’Italia, che mettono in evidenza tutte le notizie positive relative agli aiuti e ai buoni rapporti tra Italia e Stati Uniti. Appositi programmi, volti a orientare favorevolmente l’opinione pubblica italiana, vengono fatti registrare da personaggi famosi, come Frank Sinatra, Gary Cooper, il sindaco di New York Vincent Impellitteri e il campione dei pesi medi Rocky Graziano.

Ma la principale leva propagandistica messa in atto per mezzo della comunità italoamericana è quella delle lettere ai familiari in patria, che inizia spontaneamente il 10 novembre 1947, quando George J. Spatuzza, leader dell’influente Order Sons of Italy in America di Chicago, lancia un appello agli italiani residenti negli Usa affinché inviino ai propri connazionali in patria messaggi con l’invito a non votare per i candidati di sinistra. L’iniziativa delle lettere, anche ciclostilate, si diffonde in tutti gli stati dove risiedono italoamericani e conterà un milione di messaggi come: «Svegliatevi, combattete il Comunismo! Esso vi porta alla rovina, mentre l’America vuole soltanto la vostra salvezza. Fate conoscere a tutti la verità». Oppure: «L’ora della grande decisione si avvicina. Il 18 aprile sarà una data fatidica per l’Italia e stabilirà se essa dovrà continuare ad essere una grande nazione, libera, indipendente e arbitra dei suoi futuri destini o dovrà essere soggiogata in catene al carro di Stalin. Non vi fate infinocchiare dalle menzogne dei comunisti […]. I comunisti italiani lottano e tramano solo per la Russia».

Quali conseguenze produsse il risultato delle elezioni del 18 aprile?
Il risultato delle urne consegna il paese alla Dc, che ottiene un irripetibile 48% dei voti, raccogliendo molti consensi anche a destra,, e ai suoi alleati centristi e riformisti, col concorso rilevante di fattori esterni: la mobilitazione capillare della Chiesa cattolica e delle sue emanazioni, come l’Azione cattolica e i Comitati civici di Luigi Gedda, che determinano una massiccia «sovrapposizione tra aspetti religiosi e quelli politici» e uno straordinario «coinvolgimento del sacro», testimoniato anche dal moltiplicarsi di apparizioni, statue lacrimanti e miracoli vari che, se non possano essere pensati come una strategia ecclesiastica prestabilita, sono senza dubbio l’effetto di una campagna elettorale fortemente ideologizzata, che arriva ad assumere le sembianze dell’atavica lotta tra il bene e il male; il supporto americano, basato sull’influenza culturale dei suoi miti e modelli, e soprattutto sull’elargizione di ingenti aiuti materiali con l’implicita minaccia di farli venir meno e di escludere il paese dai benefici del piano Marshall in caso di vittoria delle sinistre; l’impatto emotivo delle notizie internazionali, come il colpo di stato comunista in Cecoslovacchia e la promessa anglo-franco-statunitense di restituire Trieste all’Italia.

La «nuova Lepanto», come è stato definito il risultato elettorale del 1948, assumerà nei decenni successivi un valore periodizzante, avviando una nuova e lunga fase politica basata sulla definizione dei rapporti di forza tra i partiti ex alleati nella fase dell’unità resistenziale, e in particolare tra la Dc e il Pci, oltre che del sistema di valori all’interno del quale da quel momento in poi si sarebbero svolte le vicende politiche, sociali ed economiche nazionali. La Dc, uscita vittoriosa da quello scontro, saprà infatti consolidarsi e gettare le basi per una duratura permanenza in posizione egemone nella democrazia italiana, che sarà poi chiamata ad affrontare anche momenti drammatici come gli anni di piombo e il terrorismo.

Al tempo stesso, però, il sistema che si delinea in quell’anno cruciale è minato al suo interno anche da alcuni germi già nati e proliferati, in modi e forme diverse, ai tempi del fascismo, come l’affermazione della politica-mestiere, la sovrapposizione fra interessi dello Stato e del partito, e in seno al partito dei privati, l’appartenenza politica come benemerenza in grado di garantire accesso a opportunità e privilegi, l’esistenza di una burocrazia parallela sovrapposta o in certi casi coincidente con quella degli enti dello Stato ma facente capo al partito stesso, la concezione del partito come dispensatore di favori e di vantaggi materiali.

«La Dc – come è stato osservato – introiettava abilmente una parte del paese che intendeva la nuova congiuntura della guerra fredda come l’occasione perfetta per congelare la situazione senza pericolose innovazioni: una sorta di iniziale “partito dell’immobilismo”». Un quadro, questo, che ne ridisegna il ruolo all’interno di un blocco conservatore e anticomunista di cui è la forza egemone, imprigionandola in una sorta di gabbia – molto remunerativa però sul piano elettorale – che se da un lato le consente di perpetuare la guida e il controllo della vita politica italiana, «per altro verso ne frenava le spinte riformatrici pur presenti al suo interno».

Quanto al fronte opposto, i partiti di sinistra, specie il Pci che Togliatti tenta di affermare come «partito nuovo», sono a loro volta ingabbiati nella difficoltà di rendere compatibile l’eredità del leninismo, profondamente radicata nel movimento operario, e il rigido ruolo guida del comunismo internazionale assunto dall’Urss, con la realtà e le specificità della democrazia italiana, inserita nel blocco occidentale al di qua della cortina di ferro. Di contro in molti italiani che si riconoscono nei partiti di sinistra si manifesta la delusione per gli esiti della Resistenza, che cominciano ad apparire palesemente limitati e riduttivi rispetto alle speranze nutrite a quel tempo, per l’impossibilità di portare a compimento quella che era stata immaginata come una rivoluzione democratica e per non aver tenuto fede a quei presupposti di rinnovamento, anche sociale, che in essa sembravano ben iscritti.

In un paese prigioniero della guerra fredda, che impedisce di fatto una fisiologica alternanza tra gli schieramenti, nasce così quella che è stata definita una «democrazia bloccata», che Aldo Moro nel 1973 etichetterà anche come «difficile», spaccata in due, e che tale rimarrà per circa mezzo secolo, ad eccezione di una breve parentesi caratterizzata dal tentato ritorno alla collaborazione emergenziale riportando il Pci nell’area delle responsabilità di governo, per contrastare le strategie eversive e il terrorismo negli anni di piombo, attraverso un «compromesso storico» che però fallirà anche a causa del rapimento e dell’assassinio dello stesso Moro da parte delle Brigate Rosse.

Quali risvolti aveva l’attentato a Togliatti?
Dopo la lunga fase elettorale e la formazione del nuovo Governo, il primo a guida democristiana legittimato dal voto popolare, il confronto politico italiano rimane aspro. Uno dei principali motivi di scontro è l’avvio del Piano Marshall. Il 28 giugno, infatti, il Governo ratifica l’Accordo di cooperazione economica tra Italia e Stati Uniti d’America senza ricorrere al parere delle Camere, suscitando l’ira delle sinistre. Il dibattito parlamentare divampa nei giorni seguenti, tra il 9 e il 10 luglio, quando alla Camera dei deputati va in discussione l’approvazione della ratifica dell’accordo. In quell’occasione Nenni attacca il Governo spiegando che Dottrina Truman e Piano Marshall sono «due aspetti di una stessa politica», «in funzione anticomunista», mentre Togliatti sostiene che il Piano Marshall, legando l’Italia alla politica estera degli Usa, porta il paese sulla strada delle guerra. Ma la ratifica passa a grande maggioranza, con 297 voti a favore e 96 contrari.

Gli strascichi dello scontro proseguono anche fuori dal Parlamento. Il 13 luglio, sul giornale del Psli «L’Umanità», in un articolo sopra le righe intitolato Paranoia, a firma del direttore Carlo Andreoni, si leggono queste parole: «prima che i comunisti possano consumare per intero il loro tradimento, prima che armate straniere possano giungere sul nostro suolo per conferire ad essi il miserabile potere “Quisling” al quale aspirano, il Governo della Repubblica e la maggioranza degli italiani avranno il coraggio, l’energia e la decisione sufficienti per inchiodare al muro del loro tradimento Togliatti ed i suoi complici, e per inchiodarveli non metaforicamente». E, in effetti, dalle metafore c’è chi passa ai fatti: mercoledì 14 luglio il leader comunista Palmiro Togliatti viene gravemente ferito in un attentato all’uscita dalla Camera.

Non appena la notizia dell’attentato viene diffusa dal giornale radio delle 13 sul paese cala una cappa di tensione. Lo sciopero e le manifestazioni iniziano spontaneamente, senza attendere alcun ordine dai vertici di partito e sindacali. Ma la geografia della protesta mette subito in evidenza un quadro non uniforme, con la spaccatura tra zone industriali e agricole, tra città e campagne e, con le dovute eccezioni, tra nord e sud della penisola.

La partecipazione dei lavoratori alla protesta, specie nelle regioni settentrionali dove è maggiore la presenza comunista, raggiunge tassi elevati. L’intensità della protesta, peraltro, si spinge ben oltre le stesse aspettative e intenzioni del Pci, assumendo i connotati di una potenziale insurrezione popolare anche se lo stesso Pietro Secchia, leader dell’ala rivoluzionaria del partito, subito dopo l’attentato, esprime dubbi su un’eventuale azione di forza.

Lo sciopero e le occupazioni delle fabbriche portano anche a disordini e violenti incidenti, specie nelle grandi città del nord, dando la netta sensazione di essere di fronte ad un principio di insurrezione e al rischio di una guerra civile. Sensazione rafforzata dal fatto che in molte zone d’Italia alle manifestazioni partecipano ex partigiani spesso armati, da Torino alla cintura milanese, e poi a Genova, La Spezia, in Bassa Polesine, in provincia di Vicenza, a Schio, Venezia, Piacenza, Massa, Siena, Livorno, Grosseto, in val di Chiana, a Pescara. In tutta la penisola scoppiano manifestazioni di violenza, che «in qualche località, assumono vero e proprio carattere insurrezionale», come osserva un rapporto dei Carabinieri: scioperi spontanei, occupazioni di fabbriche, manifestazioni e cortei che spesso sfociano in violenti scontri con le forze dell’ordine, assalti alle prefetture, alle questure, alle sedi dei partiti di governo e di destra, blocchi stradali e interruzioni ferroviarie.

Solo la responsabilità della classe dirigente del Pci (Togliatti in primis) e della Cgil di Di Vittorio impediscono guai peggiori.

Il bilancio finale degli incidenti è incerto. Il ministro Scelba dirà alla stampa e al Senato nei giorni successivi che ci sono stati 16 morti, di cui 9 appartenenti alle forze dell’ordine, 204 feriti, di cui 120 agenti, che da successivi controlli saliranno complessivamente a 500. L’immagine di un paese intero in rivolta, così com’è passata alla storia, non è però del tutto veritiera o comunque non è l’unica possibile. C’è anche quella che Walter Tobagi chiama una «seconda Italia», che non scende in piazza. Anche dalle relazioni post-sciopero delle federazioni del Pci emerge il dissenso espresso dai ceti medi e dai partiti più moderati in quelle ore. Vi sono poi zone d’Italia, soprattutto al Mezzogiorno, dove l’adesione allo sciopero è parziale o addirittura nulla.

Le conseguenze di questa sollevazione sono di vario tipo. Innanzitutto la fine dello sciopero e dell’ondata di proteste e incidenti coincide con l’inizio di una dura fase repressiva, sotto la regia del ministro Scelba. Alla fine, secondo le stime del ministero dell’Interno, si conteranno 5.113 arrestati e denunciati (rispettivamente 681 e 4.432), anche se nei mesi successivi circolano cifre più altre, fino a quasi 7.000.

Lo sciopero del 14-16 luglio, al di là dei risultati contingenti, ha poi una decisa valenza politica poiché rende palese che nonostante la sconfitta elettorale del 18 aprile le forze di sinistra, e in particolare il Pci, possono comunque contare su un forte seguito popolare. Tra i comunisti, però, resta aperta la questione della mancata insurrezione. Le velleità insurrezionali, infatti, hanno trovato nuova linfa proprio nel buon esito dello sciopero generale e nella prova di forza che esso ha rappresentato in termini di adesioni e partecipazione. Concluso lo sciopero e rientrata l’emergenza seguita all’attentato a Togliatti, nelle settimane e nei mesi seguenti in una parte della dirigenza e della base comunista continua quindi a sedimentare la delusione per la sospensione dello sciopero e per il suo mancato sbocco insurrezionale. Si registrano perfino casi di abbandono del partito. Il dibattito interno fa emergere lo scontro tra le due principali correnti del Pci: quella moderata, rappresentata da Togliatti, Amendola e Di Vittorio, che insiste più sugli «errori» degli scioperanti che su quelli del partito, e quella operaista e rivoluzionaria, che fa capo a Secchia, critica l’insufficienza direzionale del partito più che la sollevazione spontanea dei militanti.

Infine lo sciopero segna, anche formalmente, la fine dell’unità sindacale sancita dal patto di Roma del 9 giugno 1944, che era già andata in crisi di pari passo con il tramonto del paradigma consociativo. Poche settimane dopo, tra il 16 e il 18 ottobre, la scissione è cosa fatta: la corrente sindacale democristiana crea la Libera Confederazione italiana del lavoro. Giulio Pastore è eletto segretario. La nuova formazione sindacale si richiama alle istanze della scuola sociale cristiana e nel 1950 confluirà nella Cisl, la Confederazione italiana sindacato lavoratori.

(pubblicato su letture.org)

Sottoscrivi questo feed RSS