Il partigiano con le stellette conquista il Premio Fiuggi

Doppio prestigioso riconoscimento per il giornalista e scrittore Mario Avagliano. Il partigiano Montezemolo, suo ultimo lavoro uscito nelle librerie la scorsa primavera con Dalai Editore, si aggiudica infatti il Premio Fiuggi Storia 2012 promosso dalla Fondazione Levi Pelloni e il premio Gen. Div. Amedeo De Cia dell'istituto bellunese di ricerche storiche e culturali. Un risultato molto significativo che testimonia il valore di un'opera che ha contribuito a far emergere dall'oblio un protagonista della Resistenza a lungo dimenticato come il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo.
A Mario Avagliano, che i lettori conoscono grazie anche agli interventi che ogni settimana regolarmente appaiono a sua firma su questo notiziario, un sincero e affettuoso mazal tov da parte di tutta la redazione del portale dell'ebraismo italiano.

(L’Unione Informa, 14 settembre 2012)

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1943-1945, parole dall’Italia in lotta

di Mario Avagliano

«Si aspetta l’evolversi della situazione. I combattimenti in direzione di Salerno sono traditi dal rumore degli aerei che, in continuazione, passano sulle nostre teste. Esso è ben distinto da quello dei cannoni che tuonano ad una ventina di chilometri». Così scrive nel suo diario il 9 settembre 1943 il diciottenne Pietro Sorrentino, originario di Castellabate, commentando lo sbarco degli Alleati nel golfo di Salerno, affacciato alla finestra dell’appartamento degli zii a Pagani. Alla fine dell’estate del 1943 la guerra entra in casa degli italiani, in un Paese ridotto a luogo di macerie materiali e morali.

Nella memoria degli italiani gli eventi del pur breve periodo tra il 25 luglio, che segnò la defenestrazione di Benito Mussolini, e il successivo 8 settembre, in cui in un pugno di ore l’Italia si arrese, fu spezzata in due e occupata da soldati tedeschi e anglo-americani, hanno assunto un valore cruciale, sul quale la storiografia continua ad interrogarsi. Così come il biennio 1943-1945, funestato da stragi, fucilazioni, deportazioni, fame e bombardamenti, ma segnato anche da atti eroici, lotte per la libertà e grandi pulsioni ideali.Il variegato puzzle dei sentimenti, delle angosce, delle gioie e delle passioni che animarono gli italiani di allora, divisi tra Resistenza e Repubblica sociale, è stato ricostruito dallo storico Luigi Ganapini, con la sensibilità e il rigore che gli sono propri, nel saggio Voci dalla guerra civile (il Mulino, pp. 310, euro 23), in uscita il 20 settembre in libreria. Le fonti a cui ha attinto Ganapini sono i diari e le memorie dell’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, vera miniera della memoria del nostro Paese. Parlano in queste pagine le tante anime di una nazione che nell’autunno del 1943 pareva destinata a scomparire. Voci diverse fra loro: uomini e donne, settentrionali e meridionali, partigiani e aderenti a Salò, deportati e internati militari, cattolici ed ebrei.
Il racconto corale parte dal 25 luglio, giorno in cui, scrive la contadina emiliana Margherita Iannelli, residente a Marzabotto, «la gente si riversò nei paesi, tutti urlavano a più non posso. Chi gettava le immagini del Duce dalle finestre e altri le calpestavano e gli sputavano sul viso. Ma l’urlo immane fu quello che tutti dicevano: “Finalmente siamo liberi e potremo parlare”». E i fascisti? «Restarono zitti – ricorda la toscana Albertina Tonarelli –, non sapevano che fare, restarono come bastonati».
I primi 45 giorni del governo guidato da Pietro Badoglio non furono memorabili. «La guerra sembra a tutti perduta – annota il romano Mario Tutino -. Si tratta di uscirne non dico col minor danno, ma senza disonore». Le cose vanno in modo differente. «Al mattino dell’8 settembre si sparse la notizia della fuga del Re e dei suoi generali», racconta il torinese Ercolino Ercole, in servizio di leva a Marina di Massa. In poche ore i tedeschi disarmano i soldati italiani, anche per la viltà degli ufficiali, ma nella notte il giovane fugge. E quando arriva a Torino, è «pieno di rabbia, conscio di essere stato fregato dal libro “Cuore”, dal re vittorioso, da “Giovinezza”, dal “Dio, patria famiglia”, da tutto quel ciarpame».
In quei giorni centinaia di migliaia di nostri soldati vengono catturati dai tedeschi, senza sparare un colpo o dopo coraggiosi tentativi di resistenza. Per tutti gli italiani sotto il tallone nazifascista, è il momento delle scelte. «Oggi dobbiamo combattere contro i nazisti, che sono i nostri veri nemici», annota nel suo diario la senese Bruna Talluri, che poi entrerà nella Resistenza. Tra i soldati della divisione Emilia, di stanza in Dalmazia, si apre invece un dibattito, ricorda il riminese Aurelio Bernardi: «c’è chi vuole essere fedele al duce, chi vuole seguire le direttive di Badoglio, altri pensano solo alla pelle». Bernardi sarà uno dei 650 mila militari italiani internati in Germania che dirà «no» alle proposte tedesche di aderire all’esercito della Repubblica sociale del redivivo Mussolini, pagando la sua decisione con il campo di concentramento e trascorrendo il tempo, come fa Giorgio Cranz, «non pensando altro che a roba da mangiare».
Le memorie e i diari citati da Ganapini svelano la storia di quel biennio al di là degli stereotipi. E quindi accanto ai tedeschi violenti e cattivi, vi sono anche quelli buoni e stanchi di combattere, ai quali magari regalare un bacio, anche se sono «il mio nemico», come accade alla partigiana Cesarina Veneri. Tra gli italiani c’è chi resiste sui monti, in campagna e nelle città, rischiando la vita e le fucilazioni («altri sette li hanno presi, costretti a stendersi a terra, in piazza, tra la folla atterrita: li hanno finiti scaricando loro addosso i mitra», annota nel suo diario Irene Paolisso da Trivio di Formia), e chi invece, come la torinese Zelmira Marazio, aderisce a Salò e appunta orgogliosa il distintivo sulla camicetta, salvo notare per strada sguardi «cupi, minacciosi» e «una carica di odio» da parte della gente.
Fino alla gioia della liberazione, alle «tavolette di cioccolata nera e bianca… un vero godimento», ai balli americani col grammofono, alla riscoperta della libertà «di parlare, di scrivere» e purtroppo anche alle esecuzioni sommarie, che Maria Assunta Fonda rievoca con pena e pietà. E fino al triste rientro a casa di deportati politici e di internati militari, umiliati dalla freddezza della Patria. «Addirittura il mio nome – racconta Alessandro Roncaglio – era diventato “Mauthausen” pronunciato spesso con scherno e in tono canzonatorio. Sono addolorato nel dirlo: il tempo, gli affari, la vita quotidiana della gente stava spegnendo tutto mettendo sotto la cenere ricordi, martiri e morti».

(Il Mattino, 17 settembre 2012)

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Il Partigiano Montezemolo - il coraggio della coerenza

di Anna Maria Barbato Ricci

   Un recente libro di Mario Avagliano, storico impegnato a scrivere le tante verità sottaciute sul periodo della seconda guerra mondiale in Italia, punta i riflettori su un eroe dimenticato e ingiustamente non conteggiato nelle vicende della Resistenza.

Con “Il partigiano Montezemolo - Storia del capo della resistenza militare nell’Italia occupata”, con prefazione di Mimmo Franzinelli, noto autore di saggi di storia contemporanea (Dalai Editore), l’Autore restituisce all’analisi storica ed alla divulgazione oltre la ristretta cerchia degli addetti ai lavori la figura integerrima ed eroica del Tenente Colonnello Giuseppe (Beppo) Cordero Lanza di Montezemolo, che, nella vacatio post 8 settembre, assunse coraggiosamente le redini della Resistenza militare nel pezzo della Penisola (la maggior parte, Roma compresa) occupate dai repubblichini di Salò e dai nazisti, diventando la Primula Rossa indicata come il nemico numero uno del Generale Kappler.
Fu un personaggio di alto vigore morale e d’adamantina coerenza che, abilmente, fu regista della resistenza operata da quella parte dell’esercito che non si macchiò di viltà e fellonia, ma si schierò, in ossequio al giuramento alla Patria ed al Re (che, forse, non fu altrettanto coerente, allontanandosi per mettersi al sicuro ed abbandonando persino il genero Calvi di Bergolo in balia dei tedeschi), per l’Italia a costo dell’estremo sacrificio.
Il libro ricostruisce, con il sostegno dei cinque figli del Colonnello, fra cui il Cardinale Andrea e la straordinaria donna Adriana, la storia di quest’uomo di eccezionale nobiltà d’animo ed intelligenza superiore.
L’amatissima moglie Amalia, detta Juccia, era la sua compagna d’elezione ed il loro legame fu d’incredibile sostegno morale per Montezemolo, quando, venduto al nemico da un traditore e catturato, fu rinchiuso nel terribile carcere di via Tasso, nella cella n. 5.
Malgrado fosse malamente torturato, non un fiato sull’organizzazione resistenziale militare che egli guidava uscì dalle sue labbra.
La sua condanna alla fucilazione ed all’oltraggio delle Fosse Ardeatine, in fondo, può intendersi come il tragico riconoscimento di cotanto coraggio e fedeltà alla Patria. Morì, infatti, proclamando: “Viva l’Italia”!

(BLOG quartadicopertina.ilcannocchiale.it, 19 settembre 2012)

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Libri: a Mario Avagliano due premi per “Il partigiano Montezemolo”

(AGI) - Roma, 17 set. - Lo storico e giornalista Mario Avagliano si e' aggiudicato due prestigiosi premi letterari con il suo ultimo libro "Il partigiano Montezemolo" (Dalai editore), una biografia minuziosa e commovente del capo della resistenza militare e monarchica nella Roma del 1943-44, che colma una lacuna nella storiografia sulla Resistenza. Si tratta del Premio "FiuggiStoria 2012", promosso dalla Fondazione Levi-Pelloni, come migliore biografia dell'anno, e del Premio "Gen. Div. Amedeo De Cia", promosso dall'Istituto bellunese di ricerche sociali e culturali, per i saggi di storia militare. Un doppio riconoscimento ad un saggio di grande successo di pubblico e di critica, recensito dai principali quotidiani e media nazionali e giunto in pochi mesi gia' alla seconda edizione.

Aldo Cazzullo, sul Corriere della Sera ha scritto che si tratta di "una biografia che non indulge mai alla retorica o all'agiografia, tenendo ferma la barra di una ricostruzione puntuale e documentata in ogni dettaglio, come e' testimoniato dal ricco apparato di note. Ne viene fuori un libro di storia scritto con il rigore dello specialista e con freschezza narrativa. Insomma, un 'romanzo' non romanzato, che svela un eroe italiano di prima grandezza, che se non fosse stato trucidato alle Fosse Ardeatine, sarebbe stato senza ombra di dubbio un protagonista dell'Italia del dopoguerra". E lo storico Mimmo Franzinelli ha aggiunto che "questa documentatissima biografia rimedia a un'ingiustificata trascuratezza e reinserisce la figura di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo nel circuito storiografico".

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Montezemolo, il partigiano moderato

Per questo saggio lo scrittore salernitano Avagliano sarà premiato con il “Fiuggi storia 2012”.

  di Alfonsina Caputano

  Un personaggio che era considerato dal comandante della Gestapo a Roma Herbert Kappler il più temuto degli avversari e dal capo delle Forze Alleate, il generale Alexander, il militare più ammirato. Ma anche un uomo che amava la sua famiglia ed era animato da un sano sentimento di patriottismo, che fu la bussola che orientò tutte le scelte. Tutto questo era il colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo, comandante del Fronte militare clandestino e martire delle Fosse Ardeatine. La sua figura sopra le righe, di partigiano con le stellette, è stata delineata dal giornalista e storico Mario Avagliano nel libro “Il partigiano Montezemolo” (Dalai Editore). Il volume oggi varrà all’autore il premio “Fiuggi Storia 2012” nella sezione biografie.

In che modo si è avvicinato alla figura di Montezemolo?
Il primo contatto con Montezemolo, antenato di Luca di Montezemolo, lo ebbi quando studiai la figura del cavese Sabato Martelli Castaldi, medaglia d’oro alle Fosse Ardeatine e suo collaboratore. In quell’occasione raccolsi del materiale, che poi ho approfondito.
Chi era Montezemolo?
Un colonnello di origine piemontese e di nobile lignaggio, che aveva fatto la grande Guerra e combattuto nella guerra civile spagnola. Militare di carriera, monarchico e anticomunista, Montezemolo era ufficiale dello Stato Maggiore dell’Esercito e segretario particolare di Badoglio dopo il 25 luglio 1943.
Quale fu il ruolo che ricoprì dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943?
Comandava il Fronte militare clandestino che avrebbe dovuto coordinare le formazioni partigiane romane con diramazioni in tutta l’Italia occupata dai nazifascisti. Inoltre a lui fu affidata l’organizzazione dei servizi segreti. Due ruoli importanti che ricopriva celandosi dietro l’identità dell’ingegnere Giacomo Cataratto.
Come giunse ad essere fucilato alle Fosse Ardeatine insieme ad altri 334 civili?
Fu catturato il 25 gennaio 1944 e portato nelle carceri di via Tasso dove fu torturato per 58 giorni. Ma dopo l’attentato a via Rasella nel 24 marzo 1944, in cui furono uccisi 33 tedeschi, fu inserito nella lista di coloro che dovevano essere fucilati nella rappresaglia.
Com’era il Montezemolo uomo?
Dalle testimonianze si desume che dovesse essere un uomo dal carattere coraggioso e determinato. Quando morì, a 42 anni, aveva avuto già cinque figli dalla moglie Amalia, la figlia del medico di famiglia e quindi non una nobile, che sposò per amore e che affettuosamente chiamava Juccia.
Perché, secondo lei, di un eroe come Montezemolo non si ha memoria storica?
Perché non rispettava i cliché dei partigiani. Il suo personaggio è stato oscurato dalla storiografia post bellica come è accaduto a molti altri protagonisti della Resistenza di matrice moderata. Con questo saggio spero di aver, almeno in parte, contribuito a farlo conoscere anche alle giovani generazioni.
 
(La Città di Salerno, 22 settembre 2012)

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Il partigiano e i misteri del Duce

di Mario Avagliano

  Chi uccise Benito Mussolini e la sua amante Claretta Petacci il 28 aprile del 1945? E quali misteri nasconde la tragica fine del dittatore fascista, il cui corpo venne poi appeso a testa in giù a Piazzale Loreto a Milano, proprio nel luogo dove nell'agosto del '44 erano state esposte in pubblico per sfregio le salme di quindici partigiani? Gli storici non sanno ancora dare una risposta definitiva a questi quesiti. E ieri è morto a 94 anni, nella sua casa a Brescia, uno degli ultimi testimoni di quegli avvenimenti, l'ex partigiano Bruno Giovanni Lonati, nome di battaglia «Giacomo», commissario politico della 101a Brigata Garibaldi.
Nel 1994 Lonati pubblicò il libro "Quel 28 aprile. Mussolini e Claretta: la verità" (Mursia), in cui si assunse la responsabilità di essere stato l'autore materiale dell'uccisione del dittatore fascista, tre giorni dopo la liberazione di Milano. Un'esecuzione che sarebbe avvenuta poco dopo le ore 11, in una stradina a Bonzanigo di Mezzegra, sul lago di Como, nell'ambito di una missione segreta diretta da un agente segreto inglese, figlio di emigrati italiani in Gran Bretagna, detto «il capitano John», ufficiale dello Special Operations Executive (Soe).
Una testimonianza clamorosa, che smentiva la versione ufficiale circolata per cinquant'anni, in base alla quale ad uccidere Mussolini con una scarica di mitra Sten era stato il partigiano comunista Walter Audisio, il famoso Colonnello Valerio, coadiuvato dai compagni Michele Moretti e Aldo Lampredi, davanti al cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra; azione poi rivendicata dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia con un comunicato emesso il giorno dopo.
Secondo la versione di Lonati, poi definita dagli storici "la pista inglese", lo scopo della missione sarebbe stato il recupero del presunto carteggio tra Winston Churchill e Mussolini, al fine di cancellare le tracce di quel rapporto imbarazzante, attraverso la soppressione di due scomodi testimoni, lo stesso duce e la Petacci, prima che finissero nelle mani degli americani, che avrebbero voluto sottoporre il capo del fascismo ad un processo.
Il memoriale di Lonati afferma che il "carteggio Churchill-Mussolini" non fu trovato e che tuttavia i servizi segreti inglesi avrebbero concordato il silenzio di Lonati e dei due partigiani superstiti per altri cinquant'anni. Per tale motivo il suo libro sarebbe uscito solo allora.
Una ricostruzione dei fatti confermata nel 2002, con nuovi dettagli, dal giornalista Luciano Garibaldi nel saggio "La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci" (Ares), oltre che dall'ex agente segreto americano Peter Tompkins, secondo cui addirittura il futuro segretario del Pci Luigi Longo avrebbe organizzato la finta fucilazione del duce per nascondere la verità. Lo stesso Renzo De Felice, nel libro "Rosso e Nero" (Baldini e Castoldi, 1995), ritenne credibile un intervento inglese per eliminare Mussolini ed evitare una sorta di processo di Norimberga nei confronti del duce.
Il racconto di Lonati, però, era privo di riscontri documentali e presentava diversi punti oscuri, contrastanti con i risultati di altre ricerche storiche. L'orario dell'esecuzione fu davvero le 11 di mattina o le quattro e dieci di pomeriggio come riferisce la versione ufficiale? Come mai il carteggio tra Churchill e Mussolini non è mai venuto fuori? Perché l'altro componente del commando di Lonati, all'epoca ancora vivente, si rifiutò di confermare la sua versione? Va detto che fra l'altro il numero di colpi sparati dichiarato dall'ex partigiano "Giacomo" non corrisponde con i rilievi compiuti sul corpo di Mussolini e che Lonati si sottopose anche all'esame della macchina della verità, con esito negativo.
Di recente lo storico Mimmo Franzinelli ha smontato pezzo per pezzo, con uno studio documentato, la tesi dell'esistenza di un carteggio segreto tra il duce e lo statista britannico ("L'arma segreta del Duce. La vera storia del carteggio Churchill-Mussolini", Rizzoli, 2015). La "pista inglese" si è quindi di fatto indebolita. Resta da capire il motivo che avrebbe spinto un personaggio di rilievo come Lonati a sostenere tale tesi e ad alimentare quella che sembra una grande "bufala" storica.
E infatti l'ex partigiano "Giacomo", nato a Legnano il 3 giugno 1921, non fu un esponente di secondo piano della Resistenza. Fu commissario politico della 101a Brigata Garibaldi e comandante di una divisione partigiana formata da tre brigate operanti nel capoluogo lombardo. Nel dopoguerra Lonati riprese il lavoro alla Franco Tosi e trasferitosi poi a Torino nel 1958, ricopri incarichi di dirigente alla Fiat e negli anni ottanta guidò a Bari un'importante società metalmeccanica. Dopo la pensione si stabilì a Brescia, dove ha trascorso gli ultimi anni della sua vita, prima di portare i suoi segreti nella tomba.

(Il Messaggero, 17 novembre 2015)

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"L'Italia s'è ridesta", le pagine di Aldo Cazzullo su Mario Avagliano e il Mezzogiorno

di Aldo Cazzullo

I migliori tra i libri recenti sulla Resistenza, sui militari internati durante la seconda guerra mondiale, sugli ebrei, sul colonnello Montezemolo – il monarchico piemontese divenuto a Roma capo dell’opposizione in armi all’invasore nazista –, li ha scritti uno studioso di Cava dei Tirreni, Mario Avagliano. Il suo primogenito, Alessandro, è cresciuto a Roma. Una volta gli chiesi se si sentisse romano. Lui, che non ha ancora sedici anni, rispose fiero: «Io sono del Sud».

Guardai suo padre, che distolse lo sguardo, per nascondere la commozione. Ricordo quando in un circolo di Cava, dopo che un neoborbonico aveva fatto la sua tirata contro il Nord invasore e persecutore, Mario Avagliano rispose di non sentirsi meno orgoglioso di lui di essere meridionale, ma l’orgoglio non significa prendersela con Garibaldi; significa non rassegnarsi ad abitare case abusive, a lavorare in nero, a dare il voto in cambio di un’elemosina.
Antimeridionali sono i neoborbonici. Termine ormai riduttivo, per definire un movimento assai più vasto, molto attivo sul web, che ha già dato vita a partiti sicilianisti e presto germinerà una Lega del Sud, per la gioia di Borghezio e degli altri leghisti che disprezzano i meridionali e non vedono l’ora di separarsi da loro. Questo movimento si basa su una leggenda di cui gli storici meridionali seri come Rosario Villari ridono – il Regno delle Due Sicilie presentato come il più ricco e avanzato d’Europa –, costruita assemblando fandonie e pezzi di verità, per formulare una tesi consolatoria e per questo affascinante, ma nefasta e controproducente: il Sud è Sud a causa del Nord; la responsabilità dei mali della nostra terra non è nostra, ma di altri italiani. Per cui, non avendo colpe, non ci possiamo fare nulla.
Intendiamoci: è vero che per troppo tempo si è parlato troppo poco della guerra civile che ha insanguinato il Sud dopo il Risorgimento, con atrocità da entrambe le parti. È vero che Napoli prima dell’unificazione era di gran lunga la più grande città italiana, e dopo non lo è più stata. È vero che la politica dell’Italia liberale nei confronti del Sud – spesso condotta da meridionali come Crispi, Di Rudinì, lo stesso Pica – può e dev’essere criticata. Ma ai leghisti del Sud non importa nulla del revisionismo. Altrimenti racconterebbero, accanto all’esecuzione comandata da Nino Bixio, anche il primo e più sanguinoso eccidio di Bronte, la caccia all’uomo in cui venne bruciato mezzo paese e furono linciati sedici tra ufficiali, possidenti, civili. Altrimenti non presenterebbero come una guerra del Nord contro il Sud quella che in realtà vide come prime vittime i patrioti meridionali della Guardia nazionale, che venivano massacrati da quella strana alleanza tra briganti in senso tecnico, partigiani dei Borboni e nostalgici del potere temporale del clero: non esattamente un’alleanza per il progresso.
Ma è inutile dilungarsi nella confutazione. Non è la storia che interessa ai leghisti del Sud. Interessa soffiare sul fuoco del rancore verso il Nord che già esisteva e che vent’anni di invettive bossiane hanno rinfocolato, costruire il mito della grandezza perduta, inasprire le divisioni tra italiani. In perfetta sintonia, anzi complicità, con i nordisti, per cui il Nord non è la Germania a causa del Sud. La colpa è sempre degli altri.
In realtà il Sud è stato, ed è, grande. Ma non certo per i Borbone, dinastia di origine straniera, accanita avversaria del liberalismo e delle Costituzioni e sostenitrice dell’Antico Regime: monarchia assoluta, forca, tortura, Inquisizione, censura, ghetti; e molto oro, certo, che però non era dello Stato e tantomeno del popolo, ma del re. Il Sud è stato, ed è, grande per Vico e Croce, per Falcone e Borsellino (e Chinnici, Cassarà, Mattarella, La Torre, Livatino, Siani, Beppe Alfano, Peppino Impastato…), per la letteratura siciliana che è la più importante del Novecento italiano, per il contributo che i meridionali hanno dato con il loro lavoro alla ricostruzione del paese e al boom economico. Il Sud è la nostra identità, è un’Italia elevata all’ennesima potenza, rappresenta i nostri vizi peggiori e le nostre doti migliori, il familismo e la solidarietà, la spregiudicatezza e la lealtà, la violenza e il coraggio.

(da "L'Italia s'è ridesta" di Aldo Cazzullo, Mondadori, pp. 185-187)

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Cava città borbonica? Ma fateci il piacere…

di Mario Avagliano

   L’immagine dei portici di Cava de' Tirreni imbandierati con i vessilli dei Borbone, in occasione della visita del principe Carlo, ha inferto una ferita profonda nel cuore dei cavesi che amano l’Italia e la nostra giovane Repubblica, malandata e incerottata a causa della crisi economica internazionale e degli scandali politici, ma dalla storia gloriosa, costruita col sangue di tanti martiri, uno per tutti il nostro concittadino generale Sabato Martelli Castaldi, ucciso alle Fosse Ardeatine, medaglia d’oro della Resistenza.

Sorprende e amareggia non poco che il sindaco Marco Galdi abbia dato il via libera e anzi abbia partecipato in prima persona (con la fascia tricolore!!!!) a uno “spettacolo” del genere, che ha chiamato a raccolta i neoborbonici da tutto il Mezzogiorno, con un corteo d’onore, il present’armi, grida entusiaste di «Viva il Re», la Fanfara dei Civici Pompieri di Napoli in Alta Uniforme Borbonica scortati dai Real Tiragliatori “Milites luci”, la consegna simbolica al principe delle chiavi del Santuario di S. Francesco e addirittura l’esecuzione dell’Inno al Re.
Non a caso il Movimento Neoborbonico, ha esaltato la «storica visita» sul suo sito, sottolineando la «continuità dei rapporti tra la dinastia borbonica e la "fedelissima Cava"», mentre sul web e sui social network i nostalgici dei Borbone festeggiavano a loro volta l’avvenimento.
Siamo tornati indietro di centocinquant’anni, in barba alle celebrazioni dell’Unità d’Italia nella nostra città, culminate il 17 marzo 2011 con l’alzabandiera in Piazza Abbro, la Santa Messa alla Cattedrale, il corteo della banda musicale per le vie del centro e la convocazione di una seduta straordinaria del consiglio comunale.
Non era lo stesso sindaco Galdi ad aver promosso quelle celebrazioni? E non era la stessa Chiesa cavese ad avervi partecipato, con l’appuntamento solenne della Santa Messa?
Se da allora qualcosa è mutato e il sindaco si è convertito improvvisamente al Movimento Neoborbonico, ne tragga le conseguenze.
La storia patria non si può cancellare.
Come dimenticare che alcuni dei maggiori teorici del sogno di un'Italia unita e tanti uomini d'azione che lottarono per la causa italiana furono meridionali? Basti citare i napoletani Vincenzo Cuoco, Luigi Settembrini, Alessandro Poerio e Carlo Pisacane, il calabrese Benedetto Musolino, i siciliani Rosolino Pilo, Francesco Crispi e Michele Amari, il pugliese Giuseppe Fanelli.
Questo sogno era allora un progetto di modernità. Significava richiesta di costituzione, di autogoverno, di giustizia e di diritti civili. Ecco perché i patrioti meridionali, molti dei quali aderivano alla Carboneria, nei decenni precedenti si erano rivoltati più volte contro i Borbone, anche nel salernitano (vi furono scontri tra i carbonari e le forze dell'ordine pure a Cava) e tanti di loro marcirono nelle carceri borboniche.
Quando nel 1849 Roma si sollevò, proclamando la Repubblica, da Napoli partirono moltissimi patrioti campani per aiutare i rivoluzionari romani.
Anche tra i Mille di Garibaldi vi fu una notevole presenza di meridionali, circa cento, principalmente siciliani, campani (tra cui nove della provincia di Salerno) e calabresi. Nel corso della spedizione tanti altri meridionali si arruolarono nelle file dei garibaldini e ovunque il Generale fu accolto da una folla festante. Le donne di Cava lo attesero lungo il corso e vollero baciarlo sulle guance. In quei giorni, come ha ricordato opportunamente Massimo Buchicchio, il garibaldino frate francescano Giovanni Pantaleo, siciliano, di passaggio a Cava con il Generale, non mancò di visitare il nostro santuario di S. Francesco.
Nelle ultime fasi della seconda guerra mondiale Brindisi e Salerno furono capitali d'Italia, i napoletani si ribellarono ai tedeschi per la libertà del Paese e migliaia di meridionali entrarono nella Resistenza, combattendo sulle montagne o nelle città del Centro Nord e finendo spesso davanti a un plotone di esecuzione o nei campi di concentramento per contrastare il nazifascismo.
Non c'è dubbio che nel processo unitario vi furono delle pagine nere, come l'assedio di Gaeta, le deportazioni dei meridionali ed alcuni violenti eccidi di cui si macchiò l'esercito sabaudo, a partire dalla strage di Pontelandolfo, nel Beneventano, del 14 agosto 1861. Dopo l'Unità, il processo di pacificazione e di omologazione venne condotto in modo maldestro e disomogeneo sotto il profilo economico e fiscale e nella realizzazione dei servizi e dei trasporti (diverso è il giudizio per quanto riguarda l'aspetto culturale e dell'istruzione), e i governi succedutisi alla guida del Paese fecero davvero poco per risolvere la cosiddetta questione meridionale, a parte l'esperienza della prima Cassa del Mezzogiorno.
Ma il destino del Meridione è nelle nostre mani. La rinascita delle popolazioni meridionali richiede uno Stato più efficiente, più moderno e più equo, e Regioni, amministrazioni locali, cittadini del Sud capaci di rimboccarsi le maniche, mettendo a frutto l'incredibile patrimonio di cultura, di storia e di bellezze naturali, artistiche ed archeologiche lasciatoci in eredità dai nostri padri.
Dobbiamo essere orgogliosi di essere cavesi e meridionali. Ma consapevoli che le scorciatoie di un revisionismo storico a senso unico e le nostalgie politiche di un partito del Sud o neoborbonico non ci porterebbero lontano, rischiando di minare pericolosamente la vita culturale, sociale ed economica del nostro Paese.

(CavaNotizie.it, ottobre 2012)

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