Il lodo Moro. Terrorismo e ragion di Stato 1969-1986

di Mario Avagliano

Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, il terrorismo arabo-palestinese, a partire dalle stragi alle Olimpiadi di Monaco del 1972 e all’aeroporto di Fiumicino del 1973, colpì l’Europa a più riprese con attentati, sequestri, dirottamenti di aerei e di navi. Alcuni paesi europei, tra cui l’Italia, per scongiurare atti di violenza nel territorio nazionale strinsero patti segreti con i mandanti dei terroristi arabi, compreso alcuni Stati cosiddetti «canaglia». Patti che prevedevano il transito dei terroristi in Italia, il loro rilascio nel caso di arresto e perfino la vendita e la fornitura di armi alle dittature arabe. Rientra in questi accordi il caso Sigonella, quando il presidente del consiglio socialista Bettino Craxi rifiutò la consegna agli Stati Uniti sia del commando di terroristi palestinesi che tra il 7 e il 10 ottobre 1985 aveva dirottato la nave italiana Achille Lauro prendendo in ostaggio 511 persone e assassinando Leon Klinghoffer, un cittadino statunitense ebreo, sia di Abu Abbas, rappresentante dell’OLP che aveva mediato tra le autorità del Cairo e i terroristi.

È il tema del denso saggio di Valentine Lomellini, dal titolo Il «lodo Moro». Terrorismo e ragion di Stato 1969-1986, appena uscito in libreria per i tipi di Laterza. Il «lodo» non fu definito in un solo documento ma fu piuttosto un processo dinamico di nego­ziazione continua, che si adattò al mutare degli interlocutori coin­volti. Se, nonostante il perpetuo avvicendarsi dei governi della Repubblica, i nomi dei protagonisti italiani furono circoscritti, invece i soggetti terroristici mutarono in modo significativo: dapprima l’Organizza­zione per la liberazione della Palestina di Arafat, in seguito un insieme fra­stagliato di movimenti estremisti e di mercenari, e infine gli Stati che li finanziavano: l’Iraq di Saddam Hussein, la Libia di Gheddafi e poi anche la Siria.

Dalla “prigione del popolo” dove era stato rinchiuso dalle Brigate rosse nel 1978, Aldo Moro chiedeva di trattare per la sua liberazione, svelando che questa era una prassi abituale per i terroristi palestinesi arrestati in Italia. In realtà, benché tale strategia venga attribuita allo statista democristiano, il patto per preservare l’Italia dagli attacchi del ter­rorismo internazionale coinvolse tutto l’apparato dello Stato, dai servizi segreti ai funzionari del Ministero degli Affari Esteri, del Viminale, del Ministero di Grazia e Giustizia, compreso la magistratura; nel 1976 fu implicato anche il presidente della Repubblica Giovanni Leone. All’inizio degli anni Ottanta, i governi Andreotti e Craxi confermarono l’operatività di questo accordo. Tra i pochi ad opporsi, moderatamente, a questa linea fu il repubblicano Giovanni Spadolini, che era più vicino ad Israele.

Perché, si chiede il saggio di Lomellini, esponenti di governo, talvolta di culture po­litiche diverse, scelsero questo compromesso, decidendo di fare ciò che con il terrorismo politico italiano, in particolare con le Brigate Rosse, venne da alcuni ritenuto inconcepibile?

Innanzitutto vi era una questione relativa all’obiettivo per­seguito da queste organizzazioni e dagli Stati sponsor del terro­rismo che, come scrive Lomellini, «esercitando pressioni sull’Italia, in sostanza chiedevano di spingersi un po’ più oltre rispetto ad una politica già in essere, quella filo-araba». La classe dirigente italiana poteva, inoltre, annoverare altre ra­gioni: innanzitutto la questione dell’approvvigionamento del petro­lio (nel 1973 c’era stata la crisi petrolifera). Vi era poi un elemento correlato alla posizione geopolitica del Paese: vi fu, nella classe dirigente italiana, da Rumor a Moro, da Andreotti a Craxi, l’idea che solo il dialogo con quegli interlocutori avrebbe consentito di garantire la pace e so­prattutto la stabilità sul fianco sud del Mediterraneo, oltre al timore che alcuni Paesi, come la Libia, potessero scivo­lare verso l’area di influenza dell’Unione Sovietica.

Nel medio periodo il sostegno all’ala moderata dell’OLP portò al raffor­zamento, anche se altalenante, dei palestinesi disposti al dialogo; e sebbene l’emarginazione dei movimenti estremistici fu in parte compensata dal sostegno a loro offerto da alcuni Paesi arabi, l’a­pertura nei confronti dell’Iraq e soprattutto della Libia preservò la penisola dagli attacchi terroristici fino alla metà degli anni Ot­tanta, quando tale equilibrio si ruppe a causa dell’affermarsi della Siria come sostenitore dei gruppi terroristici mercenari ai margini della galassia palestinese.

Ma, come acutamente rileva Valentine Lomellini, «l’effetto di questo appeaseament nel lungo pe­riodo è ancora da valutare: se e in che misura il terrorismo islamico del XXI secolo abbia appreso la lezione sull’efficacia della violenza politica come strumento di diplomazia della tensione, è un interrogativo che rimane aperto. La ragion di Stato aveva reso necessario il “lodo”, violando tuttavia il diritto dei cittadini italiani alla giustizia».

(Blog di Mario Avagliano, 2022)

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La sinistra italiana e gli ebrei

di Mario Avagliano

 

Lungotevere di Roma, 25 giugno 1982, nei pressi della Sinagoga. Un corteo di persone di passaggio urla: «Ebrei ai forni! W l'Olp! Morte a Israele» e poi lascia una bara davanti alle lapidi degli ebrei romani morti alle Fosse Ardeatine. Neofascisti o seguaci di Almirante? No, si tratta di militanti della Cgil, Cisl e Uil, nella capitale per i rinnovi contrattuali. Il rabbino Elio Toaff protesta e li definisce antisemiti, ma il segretario della Cgil Luciano Lama, invece che condannare quanto accaduto, giustifica i vergognosi slogan come comprensibili di fronte alla «guerra crudele scatenata dalle armate israeliane in Libano». D’altronde pochi giorni prima lo stesso Pci nella Direzione del 10 giugno 1982 ha accusato Israele di rasentare il «genocidio». È uno dei tanti episodi raccontati nel documentato saggio di Alessandra Tarquini intitolato «La sinistra italiana e gli ebrei. Socialismo, sionismo e antisemitismo dal 1892 al 1992» (Il Mulino, 22 euro), dal quale emerge che l’antisemitismo, a correnti alterne, ha allignato anche nella storia della sinistra italiana e non solo a destra, anche se vi sono stati pure diversi leader che viceversa hanno solidarizzato con gli ebrei.

Il rapporto tra la sinistra e gli ebrei è stato un po’ schizofrenico fin dalla fondazione del Psi nel 1892, data di inizio della indagine storica della Tarquini. I primi socialisti infatti minimizzano l’antisemitismo presente nella società, e questa sottovalutazione sarà una costante in quasi tutti i partiti di sinistra che nasceranno in Italia nei decenni successivi, convinti al pari di Cesare Lombroso, sulla scia del saggio di Karl Marx sulla questione ebraica, che la discriminazione verso gli ebrei sia superabile con l’affermazione di una società socialista.

Quando nel 1894 scoppia in Francia il caso del capitano Alfred Dreyfus, ebreo, accusato di spionaggio a favore dell’impero tedesco e per questo condannato ai lavori forzati, l’«Avanti!» si schiera per la colpevolezza di Dreyfus, addirittura sostenendo che un complotto della «bancocrazia giudaica» tentava di far evadere dall’isola del Diavolo il «capitano traditore». Solo dopo la celebre lettera di accusa alle gerarchie militari del gennaio del 1898 di Émile Zola al presidente della Repubblica Felix Faure il Psi diventa innocentista.

Dopo la nascita del sionismo, che sogna l’edificazione di una società socialista in Israele per gli ebrei, e fino alla Prima guerra mondiale, anche negli anni della direzione di Benito Mussolini, il quotidiano del partito socialista è un’importante voce di denuncia dell’antisemitismo nel mondo. Ad esempio, nell’autunno del 1913, l’«Avanti!» critica il linguaggio «violento» dell’«Osservatore romano» che ha definito il sindaco di Roma Ernesto Nathan «un volgare insultatore della nostra fede e delle nostre memorie», «un amalgama di giudaismo e massoneria».

Con l’ascesa del fascismo la sinistra italiana si occupa sempre meno della questione ebraica. Perfino dopo le leggi razziali varate dal regime di Mussolini, che colpiscono migliaia di persone, si levano poche voci in loro difesa, soprattutto quella del comunista Giuseppe Di Vittorio e del gruppo di Giustizia e Libertà, nel quale però militano numerosi ebrei. 

Anche nel dopoguerra, quando vengono alla luce gli orrori dei lager di sterminio e gli obiettivi della soluzione finale messa in atto dai nazisti con la complicità dei fascisti italiani, per anni a sinistra si ignorano le radici antisemite di queste azioni criminali e la Shoah viene equiparata a una forma di generica e certamente orribile «disumanizzazione», spesso senza far riferimento al genocidio degli ebrei, come nel film Kapò del regista comunista Gillo Pontecorvo. Anche Carlo Levi parla del lager come «il rifiuto dell’uomo da parte dell’uomo», senza soffermarsi sulle deliranti teorie antisemite del nazismo.

Alla loro uscita in libreria, opere simbolo della Shoah come «Il diario di Anna Frank» e «Se questo è un uomo» di Primo Levi (rifiutato per anni da Einaudi), se recensite dai quotidiani di sinistra, dall’Unità a Mondo Operaio, vengono elogiate per i loro aspetti letterari o di umanità, senza o con scarsissimi riferimenti all’antisemitismo e al genocidio di milioni di ebrei.

La Tarquini argomenta che pesa anche la posizione filopalestinese assunta dall’Urss. Anche a sinistra, dopo l’iniziale entusiasmo per la nascita di Israele nel 1948, col passare degli anni piovono critiche inaccettabili verso il governo israeliano, accusato di comportarsi come il nazismo nei confronti dei palestinesi. Durante la guerra dei Sei giorni, nel giugno del 1967, Antonello Trombadori scrive un articolo intitolato Da Anna Frank a Moshe Dayan indicando l’evoluzione di un popolo che è stato perseguitato e si nasconde «dietro l’antico e drammatico simbolo della stella di David». A suo avviso, Israele non è più la patria dei kibbutzim, ma uno Stato teocratico e razziale, che discrimina la minoranza araba e invocava le sofferenze subite per giustificare il proprio comportamento.

In quegli anni nella stampa di sinistra, si legge nel saggio, «i termini israeliano, sionista, ebreo vennero a sovrapporsi». Ancora nel 1974, quando un famoso sceneggiato televisivo su Mosè, interpretato da Burt Lancaster, viene trasmesso dalla Rai, un giornale di estrema sinistra, il «Quotidiano dei lavoratori», organo di Avanguardia operaia, protesta perché la tv pubblica avrebbe propagandato la «supremazia del popolo ebraico», in un certo qual senso giustificando «l’aggressività di Israele contro il popolo palestinese». Un attacco indegno che però non suscita grandi reazioni.

Peraltro anche nel Psi, che fino alla metà degli anni Settanta aveva una linea filoisraeliana, l’ascesa alla segreteria di Bettino Craxi comporta una brusca inversione di tendenza, con l’appoggio incondizionato all’Olp di Arafat. E ci vuole la caduta del muro di Berlino perché il Pci guidato da Achille Occhetto (poi diventato Pds), in particolare per merito di Piero Fassino, muti orientamento su Israele. Ma anche dopo il 1992, anno di conclusione del libro, in certe frange della sinistra estrema continueranno paragoni inaccettabili tra lo stato israeliano e i nazisti.

(Blog Mario Avagliano, 2020)

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“L'Italia tra le grandi potenze” di Elena Aga Rossi

di Mario Avagliano

Ancora oggi molte storie generali e libri di testo per studenti universitari continuano a descrivere l’Italia del dopoguerra come «vassalla» di Washington e totalmente subalterna alla politica americana e sottovalutano l’influenza sovietica sui partiti e sugli intellettuali italiani. Ma il leader democristiano Alcide De Gasperi fu davvero un burattino nelle mani del presidente americano Harry Truman, come lo descrivevano i manifesti di propaganda elettorale del Fronte Popolare alle politiche del 1948? E il segretario comunista Palmiro Togliatti cercò realmente una «via italiana» al socialismo?

A fare chiarezza sulla politica estera italiana è il saggio «L'Italia tra le grandi potenze. Dalla seconda guerra mondiale alla guerra fredda», appena uscito per i tipi del Mulino e opera di Elena Aga Rossi, una delle maggiori studiose della politica e dell'intervento degli Alleati in Europa e dell'influenza dell'Unione Sovietica in Italia nei primi anni della guerra fredda.

Sull'una e l'altra tematica Elena Aga Rossi, lavorando in più archivi, non solo italiani ma anche sovietici, americani e inglesi, ha prodotto alcune ricerche originali che hanno in più casi costituito punti di svolta sulla storia politica del nostro paese e ora trovano qui una sistemazione unitaria, che va dai piani alleati per la divisione dell'Europa, sullo sfondo della Campagna d'Italia, fino al ruolo di De Gasperi nella rottura con le sinistre del maggio 1947 e ai rapporti del Pci e del Psi con l'Unione Sovietica.

In realtà, l’appartenenza dell’Italia alla sfera d’influenza occidentale, data per certa durante la guerra dalle conferenze di Jalta e di Teheran, fu poi messa in discussione alla fine del 1947, non soltanto per l’ipotesi di un possibile colpo di mano comunista, ma soprattutto nel caso di una vittoria elettorale dei partiti di sinistra alle politiche del successivo aprile. La stessa Urss progettava una graduale sovietizzazione d’Europa nell’arco di un paio di generazioni, grazie anche alla prevista crisi del capitalismo.

Elena Aga Rossi con i suoi studi ha contribuito a smontare, sulla base di documenti d’archivio, alcuni miti della storia italiana. La svolta di Salerno di Togliatti, ovvero l’improvvisa apertura di credito del Pci al governo Badoglio, che spiazzò gli altri partiti di sinistra, sarebbe stata un’indicazione di Stalin e non una decisione autonoma del segretario comunista. La presunta autonomia del Pci (e anche del Psi di Pietro Nenni) rispetto all’Urss e la ricerca di una via nazionale sarebbe stata solo di facciata ma non di sostanza, come testimoniano la piena adesione dei comunisti italiani al Cominform e la vicenda di Trieste, sulla quale Togliatti si appiattì sulla linea di Stalin e di Tito. L’apertura degli archivi sovietici, avvenuta solo negli anni Novanta, ha consentito di documentare questi rapporti e di vedere per la prima volta «l’altra faccia della luna».

La longa manus dell’Urss si sarebbe manifestata anche con un condizionamento della politica editoriale di quegli anni in Italia, suggerendo alle principali casi editrici, compreso l’Einaudi e Laterza, la pubblicazione di saggi di chiara impronta filocomunista e antiamericana e di contro ostacolando la diffusione di libri di denuncia dell’oppressione sovietica come «Arcipelago Gulag» di Aleksandr Solzenicyn e «Vita e destino» di Vassilij Grossman.

La stessa decisione di De Gasperi di rompere la coalizione con socialisti e comunisti e di varare un governo moderato, non sarebbe il frutto «avvelenato» del suo viaggio in Usa del gennaio 1947 ma una scelta dello statista democristiano dovuta a fattori interni, quali la sconfitta della Dc ai turni elettorali delle amministrative a Roma e altre città e delle regionali in Sicilia e la scarsa affidabilità dei partiti di sinistra, più di lotta che di governo. Una svolta politica sofferta (sul punto la Dc era divisa) e che è stata vista a lungo come la fine delle speranze di cambiamento generate dalla Resistenza e solo di recente è stata inquadrata come determinante per la ricostruzione del Paese in senso democratico.

Non c’è dubbio, rileva Elena Aga Rossi, che gli Usa (peraltro più teneri e accomodanti verso gli italiani rispetto agli inglesi) esercitarono una pesante influenza, politica ed economica, sull’Italia del dopoguerra, prima con la Commissione alleata di controllo e poi attraverso il Piano Marshall. Ma il nostro Paese era allo stremo delle forze e aveva poche alternative, poiché senza gli aiuti americani non si sarebbe potuta concretizzare la ricostruzione e ogni tentativo di ottenere aiuti da parte dell’Urss non ebbe alcun seguito, anzi i sovietici furono in prima fila nel richiedere all’Italia le riparazioni di guerra. E d’altronde quel piano fu alla base del boom degli anni successivi e consentì all’Italia di entrare nel club delle grandi potenze.

 

(Blog di Mario Avagliano, 2019)

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Gli irriducibili al fascismo

di Mario Avagliano

 

Negli anni Venti e Trenta il fascismo conquistò il consenso di centinaia di migliaia di giovani con le sue idee di rivoluzione permanente. Benito Mussolini, come scriverà nel primo dopoguerra Elio Vittorini, ex camicia nera poi diventato intellettuale organico al Pci, incarnò agli occhi dei ragazzi dell’epoca, che studiavano o si affacciavano al mondo del lavoro, le aspettative di rivoluzione sociale, di uguaglianza e di contrasto alla povertà contro le élite conservatrici e reazionarie italiane e mondiali.

Ma fu per tutti così? No, vi furono alcuni giovani, utopisti e coraggiosi, che non si fecero irretire dal duce e manifestarono, sin dal primo momento, un’«irriducibile avversione» per il maestro di Predappio dalla mascella volitiva (come scrisse Enzo Sereni, nato nel 1905 e morto a Dachau nel 1944). La loro storia di opposizione ferma è raccontata, con brillante ritmo narrativo, nel libro «Gli irriducibili. I giovani ribelli che sfidarono Mussolini» di Mirella Serri, appena uscito per i tipi di Longanesi.

Tra speranze, persecuzioni, tradimenti e relazioni sentimentali, la Serri ripercorre il percorso di un manipolo di ragazzi e ragazze che non volle rassegnarsi al fascismo trionfante in Italia e che per questo scontò anni di prigionia, di confino e di esilio in Francia, in Palestina e in Tunisia. Erano studenti, intellettuali, pensatori e filosofi alle prime armi e accomunati da una medesima provenienza sociale e culturale. Appartenenti a famiglie borghesi e colte, una parte di loro aveva aderito al Partito comunista d’Italia, altri militavano in Giustizia e Libertà, altri ancora erano socialisti riformisti o repubblicani. In comune avevano una fondamentale convinzione: la sconfitta dei fascisti e poi dei nazisti poteva venire solo da un ampio fronte unitario.

In questa truppa di «soldati senza uniforme» si ritrovarono personaggi poi passati alla storia e protagonisti dimenticati, come Giorgio Amendola, Enzo ed Emilio Sereni, Xeniuska Silberberg, Loris Gallico, Velio Spano, Ferruccio Bensasson, Maurizio Valenzi (poi sindaco di Napoli) e Litza Cittanova. Molte furono le presenze femminili tra questi oppositori della prima ora. Fra loro Nadia Gallico, moglie di Spano, che agì in Tunisia e divenne poi una delle ventuno elette all’Assemblea Costituente, e Ada Ascarelli, la quale a vent’anni convolò a nozze con Enzo Sereni. Ostile al regime fin dalla marcia su Roma, fu una delle prime italiane emigrate in Palestina per sottrarsi alla nefasta politica di Mussolini.

Oltre che Roma, dove soprattutto nei licei diversi ragazzi provarono ad organizzare un’opposizione alla nascente dittatura fascista, un altro centro dove gli irriducibili trovarono seguito fu Napoli, in quel frangente storico città cosmopolita e universitaria, con una vita culturale vivace, piena di studenti ebrei dell’Est Europa socialisti e comunisti e dove viveva Benedetto Croce, punto di riferimento dell’antifascismo di matrice liberal-democratica.

A Napoli, esattamente al Vomero, in quegli anni, dopo l’assassinio del padre, si era trasferito anche Giorgio Amendola, ospite dello zio Mario Salvatore detto zio Totore, e qui aveva ritrovato i fratelli Enrico ed Emilio Sereni. Giorgione (chiamato così dai più intimi per la notevole corporatura), iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, assieme ad Enrico, leader degli studenti e dei docenti napoletani antifascisti, tentò di ridestare dal torpore i colleghi universitari, organizzando riunioni clandestine e dando vita alla rivista «Antifascismo».

Emilio Sereni, detto Mimmo, iscritto all’università di agraria a Portici, invece passò dall’entusiasmo per il sionismo e dal sogno della Palestina all’adesione clandestina alla federazione del partito comunista napoletano, di cui diventò il leader. Dopo il suo arresto da parte della polizia fascista, verrà sostituito proprio dall’amico Giorgio Amendola.

Negli anni successivi, molti di questi ragazzi e ragazze, dopo esperienze di carcere e di confino, si ritroveranno in esilio all’estero, a Parigi o in Tunisia, dove subiranno nuove persecuzioni. Anche da fuoriusciti, con le loro limitate forze, anni prima dell’inizio della Resistenza, si organizzarono e cercarono di colpire una dittatura apparentemente invincibile. Avviarono sabotaggi, attentati e iniziative di propaganda con l’obiettivo di dare un segnale forte: nonostante il massiccio consenso tributato al duce nella Penisola, vi erano anche italiani che avevano scelto di schierarsi sul fronte dell’antifascismo.

Divennero così il volto internazionale della prima opposizione al fascismo. Ma, come scrive Mirella Serri, quando rientreranno in Italia, il racconto della loro avventurosa vita sarà cancellato e il loro durissimo antifascismo di espatriati sarà omologato a quello dei coetanei fascisti che facevano la fronda.

(Blog Mario Avagliano, 2019)

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Eleonora Pimentel Fonseca: luci, ombre e particolari inediti

di Mario Avagliano

Se l’infinita distanza tra verità e storia non può essere colmata, compito dello storico è quello di abbreviarla. E' quanto ha provato a fare Antonella Orefice nel suo nuovo lavoro Eleonora Pimentel Fonseca. Eroina della Repubblica Napoletana del 1799, Salerno Editrice, Roma 2019, pp.318.

Prima donna in Europa incaricata di dirigere l’organo di stampa ufficiale del Governo Provvisorio, con il suo “Monitore Napoletano”, la marchesa rivoluzionaria segnò l’inizio della stampa politica femminile. Donna di cultura in stretta relazione e collaborazione con gli uomini del suo tempo, Eleonora riuscì a sublimare l’infelicità della vita coniugale in forza edificatrice, abbracciando gli ideali rivoluzionari di fine Settecento.

Nelle sue vicissitudini personali la Pimentel ha rappresentato un prototipo di donna più vicina al presente attuale piuttosto che al suo tempo e questa sua atipica modernità ha aperto la strada alle più disparate valutazioni. Colpita dalla vendetta borbonica anche dopo la morte con la damnatio memoriae, «il rarefarsi delle fonti documentarie – scrive l’autrice - ha causato una serie di ricostruzioni biografiche pregne di congetture, alterazioni, luoghi comuni, giudizi approssimativi, tutti elementi per lo più inverificabili che hanno prodotto lavori molto discutibili e controversi, tanto da rendere la ‘marchesa giacobina’ nei suoi  multiformi aspetti un personaggio di fantasiosa fattura hitchcockiana, a tratti indecifrabile, una donna, insomma, che ha vissuto non due, ma svariate volte con personalità diverse,  a seconda della chiave interpretativa. Da qui le tante ‘Eleonore’ dai variegati volti: la borbonica, la poetessa, la traditrice, la femminista, la rivoluzionaria, l’esaltata, l’infanticida, la sublime e finanche l’ermafrodita, tutte definizioni arbitrarie, forzate e spesso offensive, ma purtroppo avallate dalle incolmabili lacune documentarie.»

Dopo un percorso di ricerca ventennale, la storica Antonella Orefice ha raccolto per archivi e biblioteche una serie di frammenti inediti relativi al percorso esistenziale di questa eroina di fine dì Settecento, elementi preziosi che hanno sfatato molti luoghi comuni e chiarito tanti dubbi: dalla storia delle mutande negate sul patibolo alla sua ultima dimora, dal suo vero volto al mistero della tomba scomparsa.

Con un linguaggio semplice e lineare agli occhi del lettore si apre un ampio squarcio sulla Napoli di fine Settecento vissuta attraverso il destino di una donna che pagò con la vita il suo amore per la libertà. La storia, quella vera, viene narrata con la leggerezza di un romanzo dai colori vividi, i contorni quasi palpabili che trasudano emozioni. L’intima essenza della Pimentel viene trasmessa come eredità spirituale, nel valore del suo esempio, nella lezione morale, nel tragico intreccio di destino e carattere che segna la sua esistenza, nella miracolosa incarnazione della forza e della fragilità delle idee che in lei trova espressione, nella conversione del dolore in passione civile, tutti elementi di una personalità complessa che la Orefice ha cercato di raccontare attraverso lo specchio di quel tempo, nella speranza di restituire al lettore una Eleonora meno distorta e molto vicina al vero.

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I prigionieri che dissero no a Salò. «Inutilmente Mussolini insistette»

di Aldo Cazzullo

«Noi non vogliamo restare qui, come qualcuno insinua, per vigliaccheria, quasi imboscati. Siamo tutti ex combattenti, molti decorati, molti volontari. Noi non siamo degli attendisti, come qualcuno ci chiama. Non è per calcolo né per capriccio né per puntiglio, ma solo per coerenza, per un principio di dignità, di onore, di giustizia. Noi siamo uomini, vogliamo essere uomini».

È il 5 aprile del 1944. Sono trascorsi sette mesi dalla sera di settembre in cui la radio ha annunciato l’armistizio e l’esercito italiano si è sfaldato. Per centinaia di migliaia di militari italiani catturati e deportati in Germania è stato un inverno durissimo, di prigionia e lavoro coatto, poiché hanno scelto di non continuare a combattere al fianco degli ex alleati e di non aderire alla Rsi. Uno di loro è il capitano Giuseppe De Toni, nato a Modena, classe 1907, comandante italiano del campo di Hammerstein, che scrive clandestinamente questa lunga e appassionata lettera al fratello Nando, che lo aveva invitato ad optare per uscire dal lager.

  La copertina de «I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi 1943-1945» (il Mulino, pp. 457, euro 26)

 

La storia degli oltre seicentomila internati militari deportati nei lager nazisti, gli Imi, che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 rifiutarono di continuare a combattere con la Germania nazista e di aderire alla Repubblica sociale, è una pagina assai rilevante della partecipazione italiana alla Seconda guerra mondiale e della Resistenza, ma è stata a lungo trascurata. Nel 2009 ad aprire la pista a questo percorso fu l’antologia delle lettere e dei diari degli Imi curata da Mario Avagliano e Marco Palmieri. A undici anni di distanza arriva in libreria il nuovo saggio dei due giornalisti e studiosi, I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi 1943-1945 (il Mulino).

In questo libro Avagliano e Palmieri, con il rigore storico che li contraddistingue e un sapiente uso della diaristica e della corrispondenza coeva, per lo più inedita o scarsamente conosciuta, e di altri documenti come i rapporti della censura, le relazioni delle autorità italiane e tedesche, i volantini e i manifesti di propaganda tedesca o della Rsi, conducono il lettore in un appassionante viaggio nel mondo degli Imi, che ci fa scoprire aspetti nuovi o poco noti, dal loro bagaglio di umanità alla capacità e al coraggio di resistere a tutte le avversità, raccontando attraverso le storie individuali la storia collettiva degli internati militari italiani.

I nazisti vietarono severamente agli Imi di tenere diari. «Premetto — avverte infatti un tenente, Giorgio Marras, alla data del 22 gennaio 1944 — che se mi trovano questo diario mi fucilano». Ma nonostante il pericolo la pratica dei diari è abbastanza diffusa, perché «raccontare — come annota Lino Monchieri il 3 ottobre 1943, subito dopo la cattura — è mio dovere. Qualcuno dovrà pure sapere cosa succedeva qui…», anche se «queste disordinate note — è la consapevolezza del capitano Guido Baglioni, il 12 luglio 1944 — non potranno mai rendere i giorni di disperato tormento, di sconforto, di fame e abbrutimento superati più per miracolo che per forza di volontà».

Il viaggio nella memoria si snoda in quindici tappe, quanti sono i capitoli, accompagnate dalle parole vive dei protagonisti dell’epoca (non solo gli internati ma anche i loro familiari e i loro oppressori). La vicenda degli Imi è analizzata nel suo complesso, dalla reazione all’annuncio dell’armistizio alla cattura da parte dei tedeschi, dal viaggio in tradotta verso i lager alle sofferenze patite nei campi e al lavoro coatto, fino alla liberazione e al ritorno in patria. Un’attenzione particolare è stata rivolta alle motivazioni della scelta di fronte alle offerte di adesione alle SS da parte dei tedeschi e a quelle rivolte ai militari italiani dagli emissari della Rsi dopo il ritorno di Mussolini.

Il libro scandaglia tutti gli aspetti della vita quotidiana degli Imi, caratterizzata dall’ossessione della fame, ma anche dagli sforzi compiuti per difendere la loro dignità di soldati e di uomini nell’inferno dei campi, come la fede religiosa, le iniziative culturali, gli espedienti per ricevere e diffondere informazioni (i giornali parlati e le radio clandestine), il rapporto con la popolazione civile, i contatti con i prigionieri e i deportati di altre nazioni, le storie d’amore e di sesso, che in alcuni casi dopo la liberazione si tradussero in matrimoni e in figli (qualcuno tornò a casa con la moglie o la fidanzata tedesca o polacca).

Vengono approfonditi anche profili nuovi o poco conosciuti, come i campi di punizione, le violenze dei carcerieri, le fughe, la collaborazione con la resistenza locale, i casi di resistenza armata, la deportazione dei carabinieri, la seconda prigionia subita dagli Imi liberati da parte dei russi di Stalin o degli jugoslavi di Tito. Gli ultimi due capitoli riguardano la liberazione, il rientro in patria e la difficile reintegrazione degli ex internati.

La vicenda degli Imi, del resto, è stata per decenni pressoché dimenticata, per diversi motivi: il desiderio del Paese di voltare pagina e non sentir più parlare della guerra e delle responsabilità del fascismo; la loro resistenza in nome di un re e di una dinastia andati via dall’Italia; la scelta del silenzio da parte degli stessi reduci, delusi dal mancato riconoscimento della propria esperienza come contributo alla Resistenza; il fardello di aver combattuto la guerra voluta dal fascismo e la memoria della rovinosa dissoluzione dell’esercito all’indomani dell’armistizio, in un clima di tutti a casa. Basti dire che nel 1950, e fino al 1977, agli Imi venne negata la concessione della qualifica di Volontario della libertà perché «questo ministero (della Difesa) è del parere che sia doveroso mantenere una differenziazione fra i civili che volontariamente presero parte all’attività partigiana (...) e i militari che negando la propria collaborazione ai nazifascisti e subendo l’internamento si attennero semplicemente ai doveri derivanti dal proprio stato», senza il «presupposto della volontaria partecipazione alle ostilità contro i nazifascisti».

Eppure nell’esercito degli Imi si ritrovano numerosi personaggi che raggiungeranno posizioni di spicco nella cultura, nell’economia, nello spettacolo e nella politica del dopoguerra, come Alessandro Natta, Vittorio Emanuele Giuntella, Giovanni Ansaldo, Oreste Del Buono, Mario Rigoni Stern, Tonino Guerra, Luciano Salce e Giovannino Guareschi, la cui foto con la matricola di Imi campeggia nella copertina del libro e che, come raccontano Avagliano e Palmieri, con la sua straordinaria verve fu uno dei protagonisti del «no» alla Rsi e della vita culturale e artistica nei lager. Altri internati saranno genitori di personaggi famosi, come l’ufficiale Ferruccio Guccini, catturato in Grecia, padre del cantautore Francesco; Carmelo Carrisi, padre del cantante Al Bano; Giuseppe Di Pietro, padre del magistrato ed ex ministro Antonio; Giovanni Carlo Rossi, padre di Vasco.

Quello che ora è stato tardivamente riconosciuto, e che dagli scritti coevi degli Imi emerge nitidamente, è che ai militari italiani disarmati e internati si deve il primo rifiuto in massa della guerra e del fascismo, con una «specie di plebiscito — come lo ha definito Vittorio Emanuele Giuntella — da parte di una generazione che non aveva mai partecipato a consultazioni elettorali», ferma restando un’aliquota non trascurabile di aderenti di cui pure bisogna tenere conto. In entrambi i casi la scelta non è necessariamente dettata da motivazioni di natura politico-ideologica, ma nel caso dei non optanti risponde in particolare a sentimenti confusi di stanchezza della guerra, sfiducia verso il regime, fedeltà alla divisa e al giuramento prestato al re, smobilitazione interiore, attendismo o mera imitazione dei compagni e dei superiori. Una scelta che gli internati pagano ad un prezzo altissimo, visto che il censimento in corso da parte dell’Anrp (Albo degli Imi caduti nei Lager nazisti 1943-1945) ha accertato al momento 50.834 caduti. Con questo libro Avagliano e Palmieri sviscerano e riempiono di senso il sacrificio di quei militari italiani, e furono la grande maggioranza, che fino alla fine decisero di dire «no», come Giovannino Guareschi indica nella dedica del volume: «Ingannato, Malmenato, Impacchettato / Internato, Malnutrito, Infamato / Invano Mi Incantarono / Inutilmente Mussolini Insistette».

Mio padre prigioniero in un lager

Era uno dei 650 mila soldati che dissero no alla Repubblica di Salò. Ora un saggio ricostruisce la storia degli internati militari in Germania
 
di Luca Bottura
 
Tra il sangue dei vinti e quello dei vincitori, che da qualche anno in Italia pare impopolare, fastidioso, quasi dovessimo vergognarci di aver mondato con l'eroismo di pochi la codardia dei molti che sostennero prima il fascismo e poi, addirittura, il nazismo, sta il sangue dei dimenticati. Appartiene agli italiani che resistettero senza armi, che scelsero la prigionia anziché fare i reggicoda alle Ss, che — nonostante fossero nati e cresciuti nel brodo di coltura della cartapesta autoritaria — non ebbero dubbi. E optarono, tra Salò e la deportazione, per l'opzione meno gravida di variabili.
Lo Stato fantoccio, la fedeltà al Reich, la cosiddetta Repubblica sociale, la parte sbagliata che per molti "italiani brava gente" è ancora quella giusta, onorevole, lasciavano più margini. C'era comunque l'occasione di menar le mani. Di mettere in pratica la ribalderia prepotente che il buffone di Predappio aveva instillato in un paio di generazioni almeno. C'era, anche, la possibilità di prendere la rincorsa per meglio nascondersi in un anfratto della Storia. Per uscirne immemori. Imboscati, millantando lealtà a un'idea. Di morte.
Alcune centinaia di migliaia di italiani, militari, soldati, decisero che fosse preferibile un viaggio verso nessun posto. Uno Stalag sparso nelle campagne della Prussia orientale. Un contesto che differiva dai lager della Shoah per un unico e decisivo particolare: l'assenza di camere a gas. Tecnicamente, Internati Militari Italiani: Imi. Nella realtà, ostaggi senza diritti. Partigiani spuri. Cancellati a lungo dalla storiografia perché non collocabili, nel mondo diviso in due dell'immediato dopoguerra. Costretti a proclamarsi anticomunisti al ritorno in patria, dopo essere stati liberati dall'Armata Rossa, pena un'ulteriore discriminazione. Sospinti in un angolo del ricordo perché poco afferibili a un lato o all'altro della Guerra Fredda. Ammutoliti.
Nel saggio di Mario Avagliano e Marco Palmieri, I militari italiani nei lager nazisti, non c'è mio padre, che era uno di loro. Stalag IIl C, Kostrzyn, all'odierno confine tra Polonia e Germania, ottanta chilometri in linea d'aria da Berlino. Ma c'è molto di lui. C'è molto di una banalità del bene, di una "cosa giusta", come dicono nella cultura di oltreoceano, fatta in modo quasi incidentale. Eppure consapevole. Ci sono le lettere, le paure, le passioni, la quotidianità dei prigionieri. C'è un coraggio anti-manzoniano, quello che in certi anfratti dell'esistenza ci si dà eccome, anche se non lo si avrebbe. Ci sono gli errori grammaticali, c'è il racconto casuale di chi si ritrova la caserma accerchiata dai tedeschi e scrive alla fidanzata che andrà tutto bene, che comunque con l'altra era solo amicizia, che pub spiegare, e poi chiude come in un bollettino della vittoria: "Viva il Re, viva Badoglio, abbasso i fascisti".
Ci siamo noi e c'è la nostra storia piccola, ci sono gli occhi di un Paese intero che per vent'anni li aveva girati dall'altra parte. Esistenze che si somigliano e differiscono, ognuna con un rimbalzo di afflizione o speranza. L'ordine del giorno Grandi, le caserme senza ordine alcuno, le squadracce che si riformano e cercano di armarsi assediando soldati senza più un referente, I'S settembre del 1943, colonnelli che vendono i loro uomini ai tedeschi per qualche stella in più da far brillare nel cielo di Salò, l'offerta primigenia aggregarsi direttamente all'esercito di Hitler — e l'altra, quella repubblichina. Il vagone piombato. Il lavoro coatto. La mancia come mercede della schiavitù. Le lettere bugiarde verso casa ("Sto bene") e l'orrore di tutti i giorni. I canali pieni di cadaveri. E, anche, altro incredibile cimelio che possiedo personalmente, le cartoline illustrate l'esterno del campo, un tizio in divisa davanti alla guardiola, la bandiera con la croce uncinata. Saluti dal baratro.
Di molti saggi, per nobilitarli, si dice che sembrano romanzi. Non è quasi mai vero. Questo è uno dei rari casi. Nell'alternarsi dei racconti II libro I militari italiani nei lager nazisti di Mario Avagliano e Marco Palmieri edito da il Mulino (pagg.456, euro 26) mancano i contorni stentorei e, a loro modo, bellissimi, che si ritrovano nelle lettere dei resistenti condannati a morte, o sui muri della prigione di via Tasso, a Roma, scolpiti sul muro con le unghie della disperazione. Non c'è il Disegno percepito che comincia con Hannah Arendt e arriva a Primo Levi. Manca l'Orrore. Ma anche senza le maiuscole, anche soltanto unendo i puntini di ogni singola vita a rischio, si riscrive un percorso di dignità, parente minore ma virtuoso dei racconti che meglio conosciamo. Se il diario di Anne Frank è diventato patrimonio di tanti, è anche perla normalità cogente di un'adolescente che scopriva l'amore. Ed è questo antidoto, il trasporto, il sentimento, il capitolo che meglio racconta la sopravvivenza, quella che Andrea Aloi definì Resistenza Umana, un motore inestinguibile che ci spinge avanti barcollanti. Dentro o fuori da una tragedia.
È un libro bellissimo, necessario. Non tanto e non solo per quel lampo di lucore che irradia sulle vite di chi — con la rotonda eccezione di Giovannino Guareschi e del suo Diario Clandestino e di pochi altri — ha in massima parte lasciato questo mondo in punta di piedi. Fin troppo a lungo misconosciuto, disconosciuto. Degnarlo di uno sguardo postumo, anche a spizzichi e bocconi, apparenta a una parcellare fiducia persino in questo presente piuttosto derelitto. Ché in quei giorni di tarda estate, incredibilmente, l'individualismo nobile fece di noi un popolo.
Troppa gente ogni giorno violenta la parola Patria. Se davvero dovessi intestarmene una — Patria, non Nazione: di quella francamente nulla mi cale — vorrei che fosse la stessa di quei giovani sperduti e spaventati. Anche di quelli che morirono di malattie e stenti. Versando, per noi, il sangue dei miti.
 
(la Repubblica, 10 febbraio 2020)
 

Biacchessi, pagine partigiane a rischio di «smemoria»

di Mario Avagliano

 

Ad uno ad uno, purtroppo, se ne stanno andando gli ultimi testimoni della Resistenza contro la dittatura fascista e l’occupazione nazista. Centinaia e centinaia di ex partigiani ci lasciano così, senza troppe celebrazioni, accompagnati spesso dalle note di Bella ciao, con intorno qualche vecchio compagno, i familiari, rare bandiere tricolori. Muoiono come persone normali, umili e semplici, protagonisti della grande stagione delle scelte, e lasciano un vuoto che è impossibile da colmare. E con loro potrebbero svanire anche le storie dell’Italia partigiana. «L’Italia liberata. Storie partigiane», di Daniele Biacchessi (Jaca Book) parte proprio da qui, dalla fine anagrafica di una generazione di italiani che in soli venti mesi, dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, riprese le redini del Paese e lo condusse attraverso la Costituzione repubblicana verso la democrazia, dopo lunghi anni governati dal regime fascista, dalle barbarie e dall’orrore del nazismo.

La battaglia per la memoria della Resistenza di Biacchessi non parte adesso. Dal 2004 il giornalista-saggista-regista e interprete porta in giro per l’Italia (spesso nei luoghi simbolo della guerra di liberazione) e in Europa uno spettacolo di teatro civile in versione solista o accompagnato da Gang, Gaetano Liguori, Michele Fusiello, Massimo Priviero e altri. Questo spettacolo è ora diventato un libro, con l’obiettivo di «narrare la vita di uomini e di donne che con le loro azioni coraggiose hanno cambiato il corso della Storia e smontare attraverso l’oggettività della documentazione, orale e scritta, la forza delle parole e della narrazione, le tesi false del nuovo revisionismo».

Uno dei meriti di questo lavoro è puntare l’attenzione, con taglio divulgativo, oltre che sulle storie note dei sette fratelli Cervi, della Risiera di San Sabba, unico campo di sterminio in Italia, delle stragi di civili a Boves, Sant’Anna di Stazzema, Montesole e tante altre località, del terribile eccidio delle Fosse Ardeatine a Roma (nel quale furono uccisi anche numerosi meridionali) e delle violenze delle autorità di Salò e delle bande fasciste, anche su altre vicende meno conosciute, compreso alcuni episodi di resistenza nel Sud tra il settembre e l’ottobre del 1943.

Un ampio capitolo è ovviamente dedicato al moto di popolo delle quattro giornate di Napoli, nato in seguito alla razzia della città scatenata dai tedeschi, che saccheggiano la città, uccidono un marinaio, Andrea Mansi di stanza a Rovello, sulla soglia dell’università, lungo il Rettifilo, rastrellano centinaia di persone, rapinano cittadini, sparano sulle donne che fanno la coda davanti ai negozi, lasciano per giorni senza pane una città di un milione di abitanti.

La rivolta esplode fulminea tra il 27 e il 28 settembre al Vomero, in via Chiaia, in piazza Nazionale, in decine di punti diversi della città. È la rivolta degli eroi bambini, dal volto sporco e dallo sguardo furbo, e degli scugnizzi di Napoli. Il dodicenne Gennaro Capuozzo resta al suo posto di servente a una mitragliatrice in via Santa Teresa, presa sotto il fuoco di carri armati nazisti. Viene colpito in pieno da una granata mentre difende la sua città. Filippo Illuminato, tredici anni, e Pasquale Formisano, diciassette, corrono incontro a due autoblindo che cercano d’imboccare via Roma da via Chiaia. Avanzano decisi e rapidi, fino a quando cadono esanimi mentre lanciano una bomba contro i nazisti. In ogni rione emergono i capipopolo: Stefano Fadda a Chiaia, Ezio Murolo in piazza Dante, Aurelio Spoto a Capodimonte. Il 30 settembre i nazisti sgomberano la città. Il nemico si lascia dietro una lugubre scia di rappresaglie: gruppi di guastatori massacrano alcuni giovani in località Trombino.

Ma Biacchessi parla anche dell’insurrezione di Matera del 21 settembre 1943 e di Lanciano del 5-6 ottobre, delle stragi naziste a Rionero in Vulture il 24 settembre e a Caiazzo, in provincia di Caserta, il 13 ottobre, delle bande partigiane in Abruzzo e della battaglia di Bosco Martese del 25-26 settembre, definita da Ferruccio Parri «la prima battaglia campale in campo aperto della resistenza italiana».

Di grande interesse le storie di formazioni partigiane mitiche come la banda Tom e di partigiani eroici come Dante Di Nanni, pugliese residente a Torino, che il 18 maggio 1944 si barrica in casa e resiste da solo all’assalto di un centinaio di fascisti e nazisti, uccidendone 9 e ferendone 17, fin quando circondato e coperto di sangue, preme il ventre alla ringhiera del balcone e saluta col pugno alzato gridando «Viva l’Italia». Poi si getta di schianto con le braccia aperte sull’asfalto.

In chiusura, le interviste dello stesso Biacchessi ad alcuni protagonisti dell’epoca, padri della repubblica: Tina Anselmi, Vittorio Foa, Giuliano Vassalli, Giorgio Bocca, il quale regala una riflessione amara ma con un fondo di verità, almeno per una parte di nostri connazionali: «Come diceva Livio Bianco di Giustizia e Libertà, “la Resistenza è stata una lunga e meravigliosa vacanza”, nel senso che pur nel dramma è stato un periodo bello, un momento in cui si ritrovavano tutti i valori democratici fondamentali. Ma è durato poco, perché poi gli italiani hanno continuato ad essere quello che sono sempre stati: voltagabbana e servitori».

(Il Mattino, 10 dicembre 2019)

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