Storie - La "sorella" di Anne Frank

di Mario Avagliano

All’inizio degli anni Quaranta due ragazzine, una dai capelli neri acconciati con cura, che indossava “sempre bluse e gonne immacolate con calzettoni bianchi e lucide scarpe di vernice”, l’altra “un maschiaccio biondo”, con i vestiti in disordine che giocava a biglie e faceva capriole sulla piazza, giocavano allegre per le strade di Merwedeplein, ad Amsterdam. Anne Frank ed Eva Schloss erano nel pieno dell’adolescenza e non immaginavano quale sarebbe stato il loro futuro. Di Anne sappiamo tutto, anche grazie al suo straordinario diario. La storia di Eva, invece, almeno in Italia, è ignota a molti, e ce la racconta lei stessa nel libro Sopravvissuta ad Auschwitz (Newton Compton Editori), arrivato in questi giorni in libreria. Nelle pagine della sua memoria scorrono le immagini della sua infanzia in Austria, della campagna antisemita, dell’avvento dei nazisti e della fuga nel 1938 in Belgio e poi in Olanda, dove Eva stringe amicizia con la loquace Anne, che conquista tutti con le sue storie e il suo eloquio brillante e che scherzosamente le amiche chiamano “Signora Qua Qua”.
I tempi felici non sono destinati a durare. Nel maggio del 1940 i tedeschi invadono l’Olanda e già a partire da agosto emanano le prime leggi contro gli ebrei. Due anni dopo, scatta l’imposizione di portare sugli abiti una stella di David gialla, con la scritta Jood, e la famiglia Schloss, come tante altre, decide di entrare in clandestinità. L’11 maggio 1944, però, giorno del suo quindicesimo compleanno, a causa di una delazione Eva viene arrestata dai nazisti assieme alla madre Fritzi e deportata ad Auschwitz. La sua salvezza è merito in parte del caso e in parte della forza di volontà della mamma, che nel lager lotta con tutte le sue forse per proteggerla. Quando nel gennaio del 1945 il campo viene liberato dall’Armata Rossa, Eva torna a casa con la madre e inizia la ricerca disperata del padre e del fratello maggiore Heinz, che purtroppo sono morti. Ad Amsterdam, però, il suo destino s’incrocia di nuovo con Anne Frank, o meglio con ìl padre di lei Otto, che intreccia una relazione sentimentale con la madre Fritzi, che poi sfocia nel 1953 nel matrimonio. Incredibilmente, quindi, la sua vita si lega di nuovo a quella ragazzina dai capelli scuri conosciuta anni prima. Nel 1986, trasferitasi a Londra da quarant’anni, Eva, che ha lavorato come fotografa professionista, usando all’inizio la Leica con cui Otto Frank aveva immortalato la sua Anne, all’inaugurazione di una mostra itinerante su Anne Frank per la prima volta racconta la sua storia. Da quel momento in poi diventa una Testimone e inizia a girare il mondo per far conoscere la sua esperienza, a cui è stata dedicata anche la pièce teatrale And They Came for Me: Remembering the World of Anne Frank.

(L'Unione Informa e moked.it del 22 ottobre 2013)

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Storie - L'arte di Bruno Canova e le leggi razziste

di Mario Avagliano

Si può denunciare l’orrore della Shoah, delle leggi razziste del 1938, dei fascismi e della guerra anche attraverso l’arte. Ne è uno straordinario esempio il grande incisore e pittore Bruno Canova, scomparso lo scorso anno, uno dei più importanti esponenti della Scuola romana e pioniere della riflessione autocritica degli italiani su quel periodo storico.

Canova, che nel 1944-1945 era stato prigioniero in Germania per la sua attività partigiana, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta dedicò al tema della responsabilità italiana nella persecuzione degli ebrei e alla tragedia della Shoah delle opere d’arte di grande forza evocativa che oggi, grazie agli studi compiuti dagli storici, appaiono davvero lungimiranti.
A questo ciclo di dipinti, quadri e bassorilievi, alcuni dei quali realizzati con la tecnica del collage, è dedicata una mostra nel museo romano del Casino dei Principi di Villa Torlonia, che sarà inaugurata il 14 dicembre fino al 26 gennaio 2014, dal titolo Bruno Canova. La memoria di chi non dimentica (aperta tutti i giorni, dalle ore 9 alle 19). Consiglio vivamente di non perderla.

(L'Unione Informa e Moked.it del 10 dicembre 2013)

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Storie - L'Eredità su RaiUno e i Mostri della Memoria

di Mario Avagliano

Frequentando le scuole da anni per i miei tour della Memoria, la paradossale scena di qualche giorno fa nel corso della trasmissione “L’Eredità” su Rai Uno, condotta da Carlo Conti, in cui tutti i giovani concorrenti non hanno saputo indicare la data di nomina a cancelliere di Adolf Hitler (1933), scegliendo ciascuno le altre improbabilissime opzioni (1948, 1964, 1979), non mi ha sorpreso più di tanto. Proprio un paio di settimane fa, in una scuola del Lazio, in un’aula magna colma di studenti, ho provato a chiedere la data della marcia su Roma delle camicie nere di Mussolini (1922), dando per scontato che qualcuno la conoscesse, e invece in sala è calato un imbarazzante silenzio.
Carlo Conti ha commentato in diretta: “Sono senza parole. Io farei un ripassino di storia”, e il video dell’Eredità, giustamente, ha fatto il giro dei social network, ricevendo circa 800 mila click su Youtube e suscitando indignazione in molti. Ma indignarsi non basta. L’ignoranza genera mostri della Memoria, come le affermazioni dell’esponente dei Forconi sui banchieri ebrei che egemonizzerebbero il nostro Paese. E’ evidente quindi che la scuola, gli storici, i giornalisti, le associazioni e anche le istituzioni abbiano molto lavoro da fare. Lo stesso Giorno della Memoria va ripensato, in modo meno rituale e stanco, rendendolo più vivo, partecipato, informato. E utilizzando meglio lo strumento libro e l’approfondimento e l’analisi storica. Un segnale positivo lo ha dato il governo varando una norma che, se sarà confermata, come è il mio auspicio, consentirà di detrarre fiscalmente per il 19% l’acquisto di libri nel corso dell’anno per una spesa massima di 2mila euro. Una delle armi che ci resta, è la lettura. Citando Woody Allen: “Leggo per legittima difesa”.

(L'Unione Informa e Moked.it del 17 dicembre 2013)

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Le origini ebraiche di Eva Braun, l'ultimo segreto nascosto nel dna

di Mario Avagliano

Ve lo immaginate Adolf Hitler, il dittatore nazista che mandò a morte milioni di ebrei nei campi di sterminio o in stragi efferate compiute in mezza Europa, legato a vita ad un’ebrea? Sembra fantastoria, ma potrebbe essere andata davvero così. Eva Braun, l'"arianissima" compagna e poi moglie del Führer, dagli occhi azzurri e i capelli biondi da valchiria, sarebbe in realtà di origine ebraica. A rivelarlo, le analisi del suo Dna, effettuate per un documentario che verrà diffuso mercoledì dalla rete britannica Channel 4. Se la notizia fosse confermata (in questi casi è doveroso essere cauti), sarebbe davvero un caso paradossale di nemesi storica, di vendetta postuma della Storia.

L’incredibile scoperta, ha anticipato la tv inglese, è seguita al ritrovamento di una spazzola da capelli della Braun a Berghof, il buen retiro bavarese di Hitler, dove lei trascorse gran parte della seconda guerra mondiale. La spezzaola venne trovat dal capitano della Settima Armata amricana Paul Baeer, alla sua morte il figlio diede i capelli ad un raccoglitore di reliquie che poi li ha rivenduti ora per duemila dollari. Su quei capelli i ricercatori hanno identificato una sequenza specifica di dna «fortemente associata» agli ebrei askenaziti, che rappresentano l'80% circa della popolazione ebraica. In Germania numerosi ebrei askenaziti si erano convertiti al cattolicesimo nell'Ottocento. "Non avrei mai creduto di ritrovarmi davanti a un risultato così straordinario", ha commentato Mark Evans, presentatore della trasmissione televisiva “the dead famous dna”.

Per confermare senza ombra di dubbi l'ipotesi, si attende però di paragonare il dna della Braun a quello delle due sue discendenti ancora vive, che fino ad oggi hanno rifiutato di sottoporsi al test. Fräulein Eva Braun era originaria di Monaco, dove vide la luce il 6 febbraio 1912 nella Isabellastraße 45, secondogenita delle tre figlie dell’insegnante Friedrich Braun e di Franziska Kronberger (le sorelle si chiamavano Ilse e Margarete). Cattolica, da adolescente era piuttosto grassa e fu una studentessa pigra, capricciosa e ribelle. L’unica materia in cui eccelleva era lo sport, in particolare sci e pattinaggio. Divorava le riviste di cinema e i romanzi rosa e sognava una carriera nello spettacolo come ballerina o attrice. L'incontro con Hitler, che nel suo libello Mein Kampf aveva scritto tra le altre cose che “gli ebrei sono indubbiamente una razza, ma non sono umani”, avvenne quando Eva aveva 17 anni ed ebbe come teatro l’atelier di Heinrich Hoffmann, fotografo ufficiale del partito nazionalsocialista, dove nel settembre 1929 era stata assunta come commessa e apprendista fotografa. Appena dopo un mese, Adolf nota la bella ragazzotta dalle splendide gambe ed inizia il corteggiamento, con regali, baciamani e complimenti galanti. 

La relazione, per qualche anno platonica e comunque altalenante, venne tenuta all'oscuro dei genitori di Eva. Hitler, nel frattempo, frequentava anche altre donne, come la bellissima nipote Angelica Maria Raubal, Geli per gli amici, che poi si ucciderà con un colpo di pistola al cuore. E d’altra parte il padre di Eva, Fritz Braun, considerava il futuro genero “un tipo senza arte né parte, un imbecille che vorrebbe riformare il mondo”, e non sapeva delle passeggiate dei due all’Englische Garten, il più bel giardino di Monaco, o delle gite a Stanberg, sul lago, a bordo di una scintillante Mercedes nera da 22 mila marchi, dono della Daimler-Benz, né dei concerti di opera alla Staatsoper o dei pranzi all’Osteria Bavaria.Solo all’inizio del 1932, un anno prima dell'ascesa al potere di Hitler, la bionda assistente fotografa diventò ufficialmente l’amante del leader nazista. Una relazione tormentata. Hitler non aveva un'alta opinione di lei e d'altra parte il suo successo in politica gli procurava uno stuolo di ammiratrici e occasioni a go go. Tanto che Eva, forse proprio per gelosia, il 1° novembre tentò di suicidarsi sparandosi un colpo in gola. Ripeterà il tentativo nel maggio 1935, ingerendo una extra dose di sonnifero, ma sarà salvata in tempo dalla sorella Ilse. Proprio quell’anno il Führer l’inserirà nello staff della sua segreteria e le regalerà una villetta a Monaco, arredata fra l’altro con gli acquerelli dello stesso Hitler, pittore fallito, bocciato in gioventù all’Accademia delle Belle Arti. Eva non aveva il carattere e la sensualità di Claretta Petacci, l’amante numero uno del duce italiano Benito Mussolini. Era un tipo scialbo, carina ma non esuberante, amava i viaggi e il cinema ma non si occupava di politica.

Insomma, corrispondeva perfettamente all’ideale di Hitler, a cui le donne che pensavano con la loro testa davano sui nervi (“Gli uomini molto intelligenti - confessò - devono prendersi una donna primitiva e stupida”). Le voleva belle e sciocche, silenziose e adoranti. Forse fu proprio questo il segreto della durata della sua relazione con Hitler, al fianco del quale rimase durante tutta la tragica avventura bellica scatenata dalla Germania e sino agli ultimi giorni nel bunker di Berlino. In quella città alla deriva, distrutta dai bombardamenti, con i russi dentro le mura, alle due del mattino di domenica 29 aprile 1945 la bionda bavarese, forse di origine ebraica, coronò il suo sogno d’amore, sposando Hitler nel bunker sotto la Cancelleria e diventando così la signora Eva Hitler. Il giorno dopo, nel primo pomeriggio, i due novelli sposi si suicidarono e i loro corpi, cosparsi di benzina da Erich Kempka, l’autista del Führer, vennero bruciati. Una fine per certi versi simile a quella di Claretta Petacci, il cui corpo fu esposto nel Piazzale Loreto a Milano assieme a quello del duce (anche lui, peraltro, aveva avuto un’amante ebrea: Margherita Sarfatti). Entrambe, Eva e Claretta, poterono dire del loro uomo: “Il mio destino è il suo”. 

(Il Messaggero e Il Mattino del 6 aprile 2014)

I cervelli nazisti da Hitler allo Zio Sam

di Mario Avagliano

Chi l’avrebbe mai detto che dietro la mitica navicella spaziale Apollo 11, che il 20 luglio 1969 alle ore 20.18 atterrò sulla Luna, si nascondesse lo zampino di Adolf Hitler! Ebbene sì, perché il progetto del razzo statunitense Saturn V fu elaborato e diretto dal barone nazista Wernher Magnus Maximilian von Braun. Il geniale inventore dei razzi V1 e V2, che colpirono Londra e il Belgio nell’autunno del 1944 e che nelle intenzioni del Füehrer dovevano costituire l’arma segreta della Germania per raggiungere la sospirata Endsieg (la vittoria finale).
La storia di von Braun e del gruppo di scienziati nazisti (fisici, chimici, medici) arruolati da Zio Sam nell’immediato dopoguerra nell’esercito a stelle e strisce è stata ricostruita in un libro da poco uscito con grande clamore negli Stati Uniti, firmato da Annie Jacobsen, reporter del «Los Angeles Times Magazine» e già autrice del bestseller «Area 51», la base super segreta usata come poligono per centinaia di esperimenti nucleari.
Il saggio, uscito in Italia per i tipi della Piemme, s’intitola «Operazione Paperclip» (pp. 588, euro 20), nome in codice della missione dei servizi segreti americani (prima l’Oss e poi la Cia) che si pose l’obiettivo di sottrarre i cervelli tedeschi e i loro segreti scientifici all’Unione Sovietica. Paperclip si traduce in italiano «graffetta», allusione abbastanza scoperta ai dossier degli scienziati, che furono sapientemente ripuliti dai servizi segreti americani.

Tale operazione, come ricostruisce la Jacobsen, venne condotta con grande spregiudicatezza e consentì di salvare anche veri e propri criminali di guerra. Le nuove identità degli scienziati venivano allegate ai fascicoli con delle graffette, da cui il nome della missione. Fino agli anni Settanta, furono almeno duemila gli scienziati stipendiati e coccolati dalle istituzioni americane, ricoperti di premi e riconoscimenti.
La ricerca della Jacobsen, attraverso la documentazione inedita di archivi anche tedeschi, interviste e testimonianze, segue le vicende post-guerra di 21 di questi cervelloni tedeschi dal passato non proprio irreprensibile: 8 di loro erano stati stretti collaboratori di Hitler, Himmler o Goering, 15 avevano aderito al partito nazista e 10 facevano parte del corpo delle SS.
Gli anni oscuri delle loro esistenza furono cancellate, con la promessa dell’oblio in cambio dei loro servigi scientifici. I servizi segreti statunitensi erano infatti convinti che tra comunisti e nazisti, fossero i secondi il male minore.
La figura simbolo di questo cinico riciclaggio di cervelli è quella del barone von Braun, nato nel 1912 a Wirsitz in Prussia e seppellito con tutti gli onori ad Alexandria in Virginia nel 1977, da cittadino naturalizzato americano.
Von Braun si era iscritto la partito nazista nel 1937 e tre anni dopo era diventato ufficiale delle SS. Himmler lo promosse tre volte, fino al grado di maggiore. Il brillante scienziato progettò i missili V2 (Vergeltungswaffe 2, o arma di rappresaglia 2), che fecero migliaia di vittime nella capitale britannica. Per produrre i suoi razzi, von Braun non si fece scrupolo di costringere forzatamente migliaia di deportati del lager di Mittelbau-Dora a lavorare in condizioni disumane (e spesso a morire) in fabbriche che erano nascoste nel cuore della montagna per sfuggire ai bombardamenti alleati.
Nella primavera del 1945 von Braun si consegnò assieme alla sua équipe all’esercito americano, entrò nell’organico militare Usa e venne poi assunto definitivamente alla Nasa, l’agenzia governativa creata per contrastare l’egemonia dell’Urss nella corsa allo spazio. Qui l’ex ufficiale delle SS divenne direttore del nuovo Marshall Space Flight Center e progettista del veicolo di lancio Saturn V, il superpropulsore che portò la missione Apollo sulla Luna. Alla sua morte è stato definito «il più grande scienziato dei tecnica missilistica ed aerospaziale della storia».Due altri casi emblematici. Il primo è quello di Otto Ambros, ingegnere chimico, inventore dei gas letali utilizzati dai nazisti, che sperimentò nei laboratori di Auschwitz con cavie umane. Nonostante la sentenza di condanna al processo di Norimberga, Ambros nel 1952 fu liberato e spedito con biglietto di sola andata in Usa a lavorare per l’azienda chimica W.R. Grace e per il dipartimento Usa dell’energia.
Il secondo è quello di Theodor Benzinger, che sotto il Terzo Reich era stato un medico di solida fede nazista, responsabile di un centro sperimentale della Luftwaffe. Alla sua morte, nel 1999, il «New York Times» gli dedicò un appassionato necrologio in cui lo si lodava per l’invenzione del termometro auricolare.
Due dei tanti curriculum whitewashed, ripuliti e resi immacolati, in nome della sicurezza nazionale e della logica spietata della guerra fredda.

(Il Mattino, 21 luglio 2014)

 

 

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Storia Stragi naziste la Germania riapre le indagini su Stazzema

di Mario Avagliano

Sarà fatta finalmente giustizia sulla strage nazifascista di Sant’Anna di Stazzema? Forse. Qualche spiraglio almeno si apre. A settant'anni esatti da quei tragici fatti, la Procura federale di Karlsruhe, in Germania, ha deciso la riapertura delle indagini sull'eccidio, annullando una decisione precedente della Procura generale di Stoccarda. Ma ora bisognerà attendere l’esito del processo, che non è affatto scontato, visto i precedenti. "E' una buona notizia, ma ora bisogna far presto. Siamo tutti troppo vecchi", ha commentato Enrico Pieri, uno dei superstiti della strage (nella quale vennero uccisi i suoi genitori e le sue due sorelle) e presidente dell'associazione fra i familiari dei martiri, che due anni fa ha avuto il merito di proporre testardamente ricorso alla decisione della magistratura di Stoccarda di archiviare il caso.
Quella mattina del 12 agosto del 1944, in Versilia, quattro compagnie delle SS tedesche salirono a Sant’Anna di Stazzema, accompagnati da collaborazionisti fascisti italiani, e circondarono il paese. Gli uomini si rifugiarono nei boschi, temendo di essere deportati, mentre donne, anziani e bambini rimasero nelle case. Fu un terribile massacro. In circa tre ore le SS trucidarono brutalmente 560 persone, compreso il sacerdote don Innocenzo, che implorava i soldati nazisti perché risparmiassero la sua gente, e gli otto fratellini Tucci, con la loro mamma. La vittima più giovane, Anna Pardini, aveva appena 20 giorni.
Quella strage è rimasta finora impunita. Nel 1948 sfuggì al carcere il generale Max Simon, comandante della XVI Panzergrenadierdivision SS, prima condannato a morte per fucilazione (pena commutata nell’ergastolo), e poi graziato. Il maggiore Walter Reder, nel processo celebrato nel 1951 a Bologna, per l’eccidio fu assolto per “insufficienza di prove”.
Da allora, la strage di Sant’Anna di Stazzema è caduta in una sorta di oblio della memoria. Fino a quando, nel maggio del 1994, il casuale rinvenimento di 695 fascicoli relativi alle stragi nazifasciste, conservati a Palazzo Cesi, in un armadio nei sotterranei della Procura Militare di Roma (il cosiddetto armadio della vergogna), riaccese i riflettori sull’eccidio.
Nel 1996, anche grazie alle richieste del Comune di Stazzema e del Comitato per le Onoranze ai Martiri di Sant’Anna, la Procura Militare di La Spezia riaprì le indagini. E a dare un contributo decisivo all’identificazione dei responsabili, fu la ricerca della giornalista Cristiane Kohl negli archivi militari tedeschi, in collaborazione con lo storico Carlo Gentile, pubblicata sul quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung.
Il processo ai responsabili dell’eccidio di Sant’Anna si concluse il 22 giugno 2005. Il Tribunale Militare di La Spezia dichiarò colpevoli tutti i dieci imputati, ex ufficiali delle SS, condannandoli alla pena dell’ergastolo e al risarcimento dei danni. Le sentenze furono confermate dalla Cassazione, ma mai eseguite. Il primo ottobre del 2012, infatti, la procura di Stoccarda decise di non chiedere l'imputazione degli otto ex SS all'epoca ancora in vita per l'impossibilità di provare, nonostante le indagini svolte, le loro responsabilità individuali e l'aggravante della premeditazione.
Ora sono tre gli ex ufficiali delle SS ancora in vita, ma la decisione della corte federale di Karlsruhe apre la possibilità di una incriminazione per il solo Gerhard Sommer, 93enne capo di una delle compagnie delle SS che si resero protagoniste dell'eccidio, poiché gli altri due sono stati ritenuti "incapaci di stare in giudizio". Sarà la volta buona?

(Il Messaggero, 6 agosto 2014)

Storie - Il Memoriale di Berlino sul progetto T4 e i disabili

di Mario Avagliano

Il genocidio nazista iniziò dai disabili. Furono essi le prime cavie delle tecniche di annientamento, sterilizzazione e eutanasia sviluppate poi dalla Germania di Hitler nella Shoah. "Quelle dei disabili – affermò il Führer – erano vite indegne di essere vissute” .
Oggi a Berlino apre il Memoriale dedicato alle vittime del programma T4 del nazismo, che prevedeva l’eliminazione sistematica (l’eutanasia di massa) delle persone affette da problemi congeniti e da malformazioni fisiche e causò la morte di decine di migliaia di innocenti.
Il primo passo della Germania nazista fu quello di assassinare centinaia di bambini disabili mentali e fisici con l’uso di farmaci . Successivamente, con l’avvio del Progetto T4, il genocidio fu esteso agli adulti, nei centri di sterminio di Brandeburg, Sonnenstein, Grafeneck, Hartheim, Bernburg e Hadamar, tutti dotati di camera a gas e crematorio.
Il nuovo luogo commemorativo a Berlino sarà costituito da un lungo muro di vetro azzurro, disegnato dagli architetti Ursula Wilms e Heinz Hallman e dall’artista Nikoalus Koliusis.

(L'Unione Informa e Moked.it del 2 settembre 2014)

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Eichmann era un cinico nazista, non 'la banalità del Male'

di Mario Avagliano

Adolf Eichmann, ovvero il Male non banale. A 51 anni dalla pubblicazione del libro di Hannah Arendt “Eichmann in Jerusalem”, proposto in Italia da Feltrinelli con il titolo “La banalità del male”, una nuova ricerca demolisce le tesi della studiosa tedesca naturalizzata americana, che nel 1961 seguì per la rivista New Yorker le 121 udienze del processo in Israele a uno dei principali responsabili della macchina della soluzione finale, condannato a morte e impiccato l’anno dopo. E capovolge la rappresentazione del criminale di guerra nazista fatta dalla Arendt come "un esangue burocrate” che si limitava ad eseguire gli ordini e ad obbedire alle leggi.
A firmare il saggio, uscito questa settimana negli Stati Uniti per i tipi di e già recensito con grande rilievo dal New York Times, è una filosofa tedesca che vive ad Amburgo, Bettina Stangneth, che ha lavorato attorno alla figura di Eichmann per oltre un decennio, scavando a fondo sulla sua storia. Ne è venuto fuori un libro provocatoriamente intitolato “Eichmann prima di Gerusalemme. La vita non verificata di un assassino di massa”, già pubblicato con scalpore in Germania.
Se ascoltando Eichmann a Gerusalemme, la Arendt rimase impressionata dalla sua "incapacità di pensare", invece analizzando l’Eichmann capo della sezione ebraica della Gestapo, e poi in clandestinità in Sudamerica, la Stangneth vede all’opera un abile manipolatore della verità, tutt’altro che un “funzionario d’ordine” o “un piccolo ingranaggio dell’enorme macchina di annientamento di Hitler”, come si autodefinì nel corso del suo processo. Adolf, insomma, non fu un signore qualunque chiamato dallo Stato tedesco a fare un lavoro sporco, ma fu invece un carrierista rampante e ambizioso e un nazista fanatico e cinico, che agì con incondizionato impegno per difendere la purezza del sangue tedesco dalla “contaminazione ebraica”.
In passato già vari ricercatori avevano seriamente messo in discussione le conclusioni della Arendt (che però, come ci ricorda un libro pubblicato di recente dalla Giuntina, “Eichmann o la banalità del male”, venne difesa da un grande storico del calibro di Joachim Fest). Ma con questo libro la Stangneth le "frantuma" definitivamente, come ha dichiarato Deborah E. Lipstadt, storica alla Emory University e autrice di un libro sul processo Eichmann.
La Stangneth sostiene che la Arendt, morta nel 1975, fu ingannata dalla performance quasi teatrale di Eichmann al processo. E aggiunge che forse "per capire uno come Eichmann, è necessario sedersi e pensare con lui. E questo è il lavoro di un filosofo". La filosofa tedesca ha però lavorato come uno storico, rovistando in ben 30 archivi internazionali e consultando migliaia di documenti, come le oltre 1.300 pagine di memorie manoscritte, note e trascrizioni di interviste segrete rilasciate da Eichmann nel 1957 a Willem Sassen, un giornalista olandese ex nazista residente a Buenos Aires.
Un libro che rivela tanti dettagli inediti, come la lettera aperta scritta nel 1956 da Eichmann al cancelliere tedesco occidentale, Konrad Adenauer, per proporre di tornare in patria per essere processato e informare i giovani su ciò che era realmente accaduto sotto Hitler (conservata negli archivi di stato tedeschi), oppure la riluttanza dei funzionari dell’intelligence della Germania Ovest - che sapevano dove si trovava Eichmann già nel 1952 – ad assicurare lui e altri ex gerarchi nazisti alla giustizia.
Ma il cuore del libro è il ritratto di Eichmann “esule” in Argentina, dove venne scovato e arrestato dagli agenti segreti del Mossad. All’apparenza era diventato un placido allevatore di conigli, con il nome di Ricardo Klement. In realtà l’ex gerarca nazista aveva conservato l’arroganza di un tempo e non era niente affatto pentito, tanto da spiegare la sua “attività” con una tirata che a leggerla lascia inorriditi. “Se 10,3 milioni di questi nemici fossero stati uccisi - disse degli ebrei - allora avremmo adempiuto il nostro dovere”.
Altrettanto interessante è la descrizione del cerchio magico di ex nazisti e simpatizzanti nazisti che lo circondava in Sudamerica. Personaggi che formavano una sorta di perverso club del libro, che s’incontrava quasi ogni settimana a casa di Willem Sassen per lavorare nell’ombra contro la narrazione pubblica emergente della Shoah, discutendo animatamente su ogni libro o articolo che usciva sull’argomento Con l’obiettivo di fornire materiale per un libro che avrebbe raffigurato l’Olocausto come una esagerazione ebraica, "la menzogna dei sei milioni" di morti.

(Il Messaggero, 4 settembre 2014)

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