Storie - I Paggi di Pitigliano

di Mario Avagliano

Una famiglia, i Paggi. Una città, Pitigliano (e la vicina Sorano). Un ramo della diaspora ebraica, i Sefarditi. La storia è fatta di microstorie, di frammenti di memoria, di vicende di persone. Un frammento familiare che racconta molte cose della vita degli ebrei italiani a cavallo tra il Cinquecento e il Novecento è la preziosa ricostruzione delle vicende dei Paggi realizzata, con spirito da cronista e con passione civile, da Vera Paggi nel libro “Il vicolo degli Azzimi. Dal ghetto di Pitigliano al miracolo economico” (Panozzo editore).

Le origini del cognome Paggi sono abbastanza misteriose. Qualcuno sostiene che i Paggi fossero ebrei originari della Spagna, da dove fuggirono verso la fine del 1400 per salvarsi dalle persecuzioni. E dalla Spagna sarebbero sbarcati in Toscana, per poi trovare rifugio e protezione a Pitigliano. Un’altra fonte, invece, sostiene che i Paggi ebrei fossero in Italia da molto tempo prima delle persecuzioni spagnole, e il cognome deriverebbe dalla posizione che occupavano alla corte dei Papi da dove furono costretti - come molti altri ebrei dell'Italia Centrale, ad esempio i Servi - a fuggire dopo la metà del XVI secolo, anche qui incalzati dalle persecuzioni. A Pitigliano sarebbero stati accolti dagli Orsini. Ma Vera Paggi indica un’altra fonte interessante, il libro I cognomi Sardi di origine ebraica, da cui risulterebbero Paci, Paxi e il sefardita Pache e Pace come traduzione italiana di Shalom.

Colpisce come già nel Cinquecento gli ebrei a Pitigliano, dopo la buona accoglienza riservata loro dagli Orsini, sotto i Medici fossero non solo costretti a costruire a proprie spese il ghetto nel quale vennero rinchiusi (delimitato su un lato dal vicolo degli Azzimi, che dà il titolo al libro e ora si chiama vicolo Marghera), ma avessero l’obbligo di indossare un segno di riconoscimento (l’anteprima della stella gialla): un cappello rosso per gli uomini e una manica dello stesso colore per le donne.

A Pitigliano la prima emancipazione degli ebrei è datata alla fine del Settecento, grazie al governo illuminato del granduca lorenese Pietro Leopoldo. All’epoca le famiglie più note di mercanti e bottegai ebrei sono Ajò, Della Pergola, Paggi, Sadun, Servi, Spizzichino, che gestiscono il rifornimento di prodotti industriali, anche lungo le strade del contrabbando dallo Stato pontificio, e lo smercio dei prodotti agricoli e zootecnici locali.

Il racconto di Vera Paggi segue vari personaggi della saga familiare. Uno dei più simpatici è Salomone, classe 1848, alto quasi due metri, che aveva fama di essere l’uomo più bello della Maremma e che mangiava frittate anche di quaranta uova. Come molti Paggi, anche lui era appassionato di gioco e di scommesse e pare che fosse un grande giocatore di Ruota. Il giuoco della Ruota consisteva nel far rotolare grandi forme di formaggio per i vicoli di Pitigliano. Scommettitore, nella sua ultima puntata avrebbe mangiato 18 uova e bevuto 18 bicchieri di vino uno dietro l’altro. Uno stile di vita godereccio - testimoniato da numeri quasi da cabala in perfetto pregiudizio antiebraico - che gli costò caro perché rimase 18 anni paralizzato, e quindi morì. Era il 29 aprile 1915.

Nella galleria sfilano altri personaggi: Gastone Paggi, che verrà ucciso con il suocero nella strage nazista di Civitella della Chiana il 29 giugno 1944; il socialista Filiberto, fondatore del partito a Scansano e perseguitato dai fascisti; il professore universitario Bruno, nel 1923 il più giovane medico d’Italia. Imprenditori, professionisti, mercanti.

Fino alle leggi razziste del 1938, che cambia il corso delle loro vite. Il professor Bruno Paggi viene cacciato dall’università di Pisa ed è costretto ad emigrare all’estero (come altri membri della famiglia), Oliviero Paggi non può continuare la sua carriera nell’esercito come sognava.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, la figura che emerge nella famiglia è quella di Claudio, diciottenne antifascista, che già all’indomani della caduta di Mussolini, il 25 luglio del 1943, abbatte il busto del Duce al calzificio Passigli, la fabbrica dove lavorava come operaio. A metà settembre decide di tentare la fuga verso Sud oltre le linee, nell’Italia liberata dallo sbarco degli Alleati e raggiunge Bari, dove cerca di arruolarsi nell’esercito alleato. Rifiutato, a Carbonara incontra un altro ebreo di Firenze, partito dalla Garfagnana, e animato dallo stesso desiderio di impegnarsi nella Resistenza: Franco Luzzatto. Il campo di Carbonara è anche un centro di arruolamento della resistenza jugoslava. Il 20 ottobre del 1943 vengono formate due brigate, una in sostegno di Re Pietro, l’altra, la Prima Brigata Oltremare, a sostegno della Resistenza jugoslava in appoggio a Tito. Entrambe otterranno il beneplacito delle autorità inglesi, che forniranno ai giovani arruolati le divise e l’appoggio logistico per l’addestramento. I giovani andranno a combattere in Jugoslavia contro i tedeschi. A Claudio non resta che l’arruolamento nella Prima Brigata Oltremare, ma è una decisione sofferta, che segue dopo molte esitazioni. I volontari che aderiscono alla Prima Brigata Oltremare sono tanti. Fra questi, ci sono numerosi ebrei slavi, alcuni che provenivano dal più grande campo di concentramento italiano il Ferramonti di Tarsia a Cosenza, in Calabria. In tutto sono ventidue ebrei. Per questo viene deciso di costituire in seno alla Brigata, un Plotone Speciale Ebraico. Claudio morirà in Bosnia nel febbraio 1944.

Gli altri membri della famiglia vivono esistenze in bilico, separate: storie di fughe in Svizzera, di clandestinità, di paura, fino al momento della liberazione, al difficile dopoguerra, al reintegro in una Nazione che li aveva considerati cittadini di serie B e li aveva perseguitati. Una famiglia spezzata dal fascismo e dalla guerra, raccontata attraverso le lettere, i documenti, i diari e i ricordi che una generazione ha tenuto per quasi mezzo secolo protetti in un cassetto.

(L'Unione Informa e Moked.it dell'8 aprile 2014)

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Storie - I volontari ebrei combattenti nella guerra civile spagnola e la compagnia Botwin

di Mario Avagliano

Pochi conoscono il contributo degli ebrei alla Guerra di Spagna del 1936-1938. Nelle Brigate Internazionali, che contarono un totale di 35-40 mila volontari, gli ebrei furono 7.760 (388 italiani, tra i quali Carlo Rosselli, Leo Valiani, Sergio Ali, Aldo Jacchia), più di ogni altro contingente nazionale, ad eccezione dei francesi, che erano 8.500 (di cui però 1.043 ebrei).

Proprio nel corso di quel conflitto si costituì, nel 1937, il primo nucleo organizzato di soli combattenti ebraici della storia del Novecento, la compagnia “Botwin” (forse anche sulla base di quel modello, qualche anno più tardi si sarebbe formata la Brigata ebraica, che si fece onore nella campagna d’Italia del 1944-1945).

A ricostruire la storia è un prezioso volumetto di Gianfranco Moscati e Gustavo Ottolenghi, “I volontari ebrei combattenti nella guerra civile spagnola e la compagnia Botwin”, che propone in appendice immagini e documenti inediti della Collezione Gianfranco Moscati, conservati presso l’Imperial War Museum di Londra.

L’idea di una compagnia ebraica venne al polacco Albert Nahumi Weiz che, nel maggio 1937, ad Albacete, riuscì a radunare 15 volontari ebrei provenienti da altre formazioni, ispirandosi per l’organizzazione al gruppo fondato da Max Friedemann a Madrid nel 1935, composto solo da ebrei, costituito in difesa dell’ordinamento repubblicano spagnola minacciato dalla componente fascista alle Cortes e intitolato ad Ernst Thaelmann, primo segretario del partito comunista tedesco, ucciso dai nazisti a Monaco nel 1933.

Nel dicembre del 1937 i volontari ebrei erano saliti a 80, della più diversa nazionalità, e per iniziativa dello stesso Nahumi e di Gershom Dua-Bogen, Janek Barwinski e Stakh Matuszaczack, si costituì a Tardienta la “Compagna ebraica combattente”, che fu ufficialmente aggregata alla 2ªCompagnia del Battaglione Palafox della 13ª Brigata polacca Dombrowski, che faceva parte delle Brigate Internazionali.

La compagnia fu intitolata a Naftali Botwin, giovane polacco di 18 anni, membro di un sindacato comunista, impiccato nell’agosto 1925 a Varsavia e raccolse volontari ebrei polacchi, spagnoli, belgi, greci, tedeschi e un italiano (Elias Bendith Cohen), sino a raggiungere un organico massimo di 152 uomini, di cui solo la metà scampò alla fine della guerra. Tutti i suoi sette comandanti, tranne l’ultimo, morirono in combattimento contro i franchisti, tra il gennaio e il settembre 1938.

Ottolenghi ci ricorda che la compagnia partecipò ad alcune delle battaglie più importanti della guerra civile spagnola. Tra le imprese più importanti, si possono citare la distruzione del ponte sul Guadalquivir (che poi avrebbe ispirato Ernst Hemingway per il protagonista del romanzo “Per chi suona la campana”), l’occupazione di Cordoba, il deragliamento del treno di Los Rosales, la liberazione di prigionieri a Motril e la cattura di un intero stato maggiore franchista a Tremp. I fotografi ebrei Robert Capa e Gera Taro (caduta a Gualajara) ritrassero numerose azioni della compagnia per i loro reportage di guerra.

Gli ebrei che morirono in guerra in Spagna nelle Brigate Internazionali furono 265, di cui 86 italiani e 66 della compagnia “Botwin”. Atri 43 ebrei italiani parteciparono al conflitto militando nelle divisioni italo-spagnole di Mussolini e di Franco e di essi 7 caddero in combattimento.

Un cippo a ricordo dei combattenti della “Botwin” caduti sul campo si trova oggi in un parco di Barcellona e fu inaugurato nel 1990 alla presenza dell’allora presidente di Israele Chiam Herzog.

 (L'Unione Informa e Moked.it del 29 aprile 2014)

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Storie - Sarfatti in tedesco

di Mario Avagliano

E’ dalla scorsa settimana in libreria in Germania il saggio "Gli ebrei nell'Italia fascista" di Michele Sarfatti (Einaudi), finalmente disponibile oltre che in traduzione inglese ("The Jews in Mussolini's Italy") anche in lingua tedesca. Il titolo è "Die Juden im Faschistischen Italien. Geschichte,Identität, Verfolgung", De Gruyter,Berlin 2014, con la traduzione di Thomas Vormbaum e Loredana Melissari.

Un bel riconoscimento per lo storico italiano che più di ogni altro ha scandagliato le vicende della persecuzione degli ebrei nel nostro Paese. E un modo per far conoscere meglio anche in Germania le leggi razziste del 1938 e la persecuzione delle vite successiva all‘8 settembre 1943.

(L'Unione Informa e Moked.it del 10 giugno 2014)

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Vecchie caste antichi scandali

di Mario Avagliano

La corruzione della politica italiana non è una vicenda storica e giudiziaria solo dei giorni nostri o degli anni di Tangentopoli. Gli scandali della casta, che in queste settimane sono sulla bocca di tutti, hanno interessato lo Stato unitario fin dai suoi albori. Alla fine dell’Ottocento fu la stagione del trasformismo a dischiudere le porte alla mala politica, che ebbe uno degli episodi più eclatanti nell’affaire della Banca Romana. Qualche anno più tardi, nel 1910, Gaetano Salvemini rivolgeva un durissimo j’accuse a Giovanni Giolitti, definendolo «Il ministro della mala vita».
Per capire le radici della corruzione della politica in Italia, una lettura utile, oltre che piacevole, è il romanzo «I misteri di Montecitorio» di Ettore Socci, la cui prima edizione risale al 1899 e che è stato ora ristampato da Studio Garamond, con introduzione di Saverio Fossati (176 pp, 12 euro).

Il pisano Ettore Socci, classe 1846, era un valente giornalista e scrittore, ma anche un politico impegnato. Mazziniano convinto, studiò a Firenze e combatté come volontario a fianco di Garibaldi in varie campagne tra il 1866 e il 1871. Diresse due giornali progressisti, Satana e Il grido del popolo. Venne arrestato e assolto più volte per via delle sue idee rivoluzionarie. Nel 1878 si trasferì a Roma, dove divenne amico intimo di Carducci e Cavallotti. Nel 1892 venne eletto deputato per il collegio di Grosseto.Il romanzo di Socci, che uscì a puntate sul giornale La Democrazia da lui stesso fondato, provocando non poco clamore, racconta l’irresistibile ascesa politica dell’avvocato Alfredo Guidi, anch’egli reduce garibaldino, che da giovane professionista di provincia diventa deputato romano.
Irriverente, caustico, spietato, «I misteri di Montecitorio», attraverso le vicende di Guidi, esplora ogni sfaccettatura dell’esperienza politica di un uomo qualunque catapultato dalla al centro della scena pubblica, che arriva nella capitale e scopre la realtà della politica italiana, che è molto diversa da quella che si aspettava. Il voto parlamentare è condizionato dalle lobbies e tutto quello che si decide è sulla base di un tornaconto personale.
E lo stesso ruolo di deputato è ridotto a quello di «una macchinetta semovente e parlante, il cui manubrio è a disposizione di tutti gli amidi di fede. Deve mangiare, bere, vestir panni e camminare come vuole il partito: guai a lui se frequenta certe persone, se bazzica in certi caffè, se parla come gli detta il suo cuore e non come esige la ragione di parte!»
L’avvocato Guidi, dalle prime, timide manovre per vincere la campagna elettorale fino alla vita mondana, le vacanze, l’amante ufficiale Adele, ci mostra quanto il potere riesca a trasformare anche il migliore degli uomini immaginabili nella più bieca e opportunista delle creature. E il suo collega Salvatore, patriota che era stato nelle carceri dei Borbone e aveva contribuito all’Unità d’Italia, rappresenta la goccia di bene che non corregge il lago dell’ipocrisia e dell’affarismo che occupa l’emiciclo di Montecitorio, e viene ridotto alla miseria da uno Stato che preferisce i furbi agli eroi. Cento anni prima degli scandali della Casta, il giornalista-deputato Socci narra in presa diretta corruzione, sotterfugi, miserie umane della classe politica italiana, inventando un genere, il romanzo parlamentare (che poi vedrà protagonisti anche Matilde Serao e Federico De Roberto), e offrendo, per la prima volta in Italia, un quadro umano e sociale che sconvolge per le rispondenze con le cronache odierne.

(Il Messaggero, 18 giugno 2014)

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Salotti di piombo, gli amici dei Br

di Mario Avagliano

Fotografie ingiallite degli anni Settanta e Ottanta. Quando mezza Italia, nei giornali, nelle università e nelle fabbriche, flirtava con il terrorismo rosso. “Eravamo clandestini per il potere ma non per le masse”, diceva l’ex brigatista Prospero Gallinari (deceduto il 14 gennaio 2013). E il brigatista romano Germano Maccari, soprannominato Gulliver, autore del primo truce episodio di “gambizzazione”, affermava compiaciuto: «Voi non mi credereste se vi dicessi in quante case di persone che oggi hanno un ruolo molto importante nell'informazione, o comunque un ruolo importante nella società, si faceva a gara per avere a cena uno come me».

Benvenuti, si fa per dire, ne La Zona Grigia, come è intitolato il pamphlet di Massimiliano Griner (chiarelettere, p. 304, euro 16), che – in attesa delle ulteriori rivelazioni che potranno venire fuori dalla desecretazione degli archivi di Stato, promessa dal presidente del Consiglio Matteo Renzi - ci ricorda, con dovizia di dettagli, il fenomeno transgenerazionale di un esercito di italiani che in modo ambiguo aiutò, ospitò oppure tifò per chi aveva scelto l’opzione senza ritorno della lotta armata e della clandestinità.
Donne e uomini che, in quegli anni di piombo, non di rado si erano regalati, per dirla con Miguel Gotor, “il brivido di un sanpietrino, il crepitio di una molotov, la sofferenza di una manganellata o il fragore di una vetrina infranta”. E che pur tuttavia si erano fermati sull’orlo dell’abisso, evitando di impugnare le armi, ma fornendo al partito della sovversione quel retroterra confortevole senza il quale non avrebbe potuto né operare con sanguinaria efficacia né resistere a una repressione progressivamente crescente.

Un libro scomodo che ha già suscitato polemiche e un acceso dibattito sui social network. Perché racconta, senza reticenze o riverniciature della memoria, la folle stagione del terrorismo rosso, nella quale furono assassinate 232 persone e altre 75 furono invalidate a colpi di pistola. Una stagione che vide protagonisti (e in qualche modo colpevoli) non solo i circa 4.200 terroristi condannati e i circa 20 mila italiani inquisiti, ma una rete assai più vasta di intellettuali, professori, giornalisti, avvocati, magistrati, operai.
Il viaggio di Griner in questo bacino torbido rivela infatti che l’Italia è stato il paese occidentale, tra quelli che hanno conosciuto la lotta armata, che ha dato al terrorismo il numero maggiore di fiancheggiatori. L’autore ne arriva a stimare oltre 600 mila, citando in prefazione una ricerca dell’intelligence americana del 1983. Non a caso il capo delle Brigate rosse Mario Moretti ebbe a dire: “Il numero dei nostri militanti è sempre stato relativo, quello che cresceva era la nostra influenza. Le Br nuotavano in quest’acqua tumultuosa”.
Qualche nome? Griner ne elenca a bizzeffe, alcuni sorprendenti. Si va dal poeta Franco Fortini, che scandiva slogan come “Guerra no! Guerriglia si!”, allo scrittore Erri De Luca, che andava in giro con la pistola (e ora è militante dei No-Tav), al giudice Franco Marrone, che dichiarò nel corso di un'assemblea di Lotta Continua che la giustizia altro non era che uno strumento della borghesia, fino al filosofo Norberto Bobbio, che presentò il libro di Irene Invernizzi Il carcere come scuola di rivoluzione.

Il grande editore Giulio Einaudi dedicò una collana ai bestseller degli intellettuali vicini al mondo del terrorismo, con titoli come L'estremismo, rimedio alla malattia senile del comunismo di Cohn-Bendit, mentre Giangiacomo Feltrinelli propose un testo intitolato Il Sangue dei Leoni, contenente un “elenco meticoloso di tecniche di guerriglia e sabotaggio”.
Il fiancheggiamento è durato anche oltre la stagione del terrorismo, come attesta la vicenda del terrorista e latitante Cesare Battisti. L’appello in suo favore è stato sottoscritto da scrittori come Valerio Evangelisti, Giuseppe Genna, Massimo Carlotto e persino un giovanissimo Roberto Saviano (che ritirerà la sua adesione nel 2009) e la sua causa appoggiata da riviste on line come Carmilla e da giornalisti come Gianni Minà.
Certo, l’Italia di quegli anni, osserva Griner, “era squassata da stragi di marca fascista, e lo scontro tra la sinistra extraparlamentare e lo Stato, sempre più repressivo, era durissimo”. Senza dimenticare che, soprattutto dopo il golpe di Pinochet in Cile e l’avanzata del Pci nel 1975 e nel 1976, anche una parte della sinistra parlamentare si sentiva minacciata da un possibile colpo di stato fascista. Ma il contesto storico non assolve chi appoggiò la lotta armata e quei tanti, la maggioranza, che nel “dopoguerra” non hanno fatto né una riflessione sul proprio operato, né un ripensamento o un’ammissione di responsabilità. Un velo che La Zona Grigia contribuisce finalmente a squarciare.

(Il Messaggero, 18 luglio 2014)

 

 

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La Grande Guerra. Poveri diavoli ed eroi, le storie dei combattenti

di Mario Avagliano

L'ultimo reduce della Grande Guerra del '15-'18, il bersagliere Delfino Borroni, è scomparso nel 2008 all'età di 110 anni. E gli eroi italiani della prima guerra mondiale, pur essendo l'Italia uscita vittoriosa da quel conflitto, sono nomi sconosciuti e poco o per niente giocati nel discorso politico e storico del nostro Paese, pur essendo presenti nella toponomastica di tutte le città d'Italia, con l'intitolazione di vie, piazze, scuole e istituzioni.
Il 4 novembre, giorno del trionfo italiano nel 1918, dopo la battaglia di Vittorio Veneto, non è neppure più festa. E anche il bellissimo film di Mario Monicelli con Alberto Sordi e Vittorio Gassman, intitolato appunto "La Grande Guerra", che contribuì alla demitizzazione della storiografia patriottica e romantica di quel conflitto, è inspiegabilmente tra i meno programmati dalle reti televisive.
Avvicinarsi a quegli italiani dell'Ottocento, sbattuti in trincea in quella prima immane carneficina massificata della Storia, non è affatto semplice, anche perché essi furono "oggetto di manipolazione e costruzione postuma a uso e consumo di questa e quella causa", in particolare quella fascista, come osserva Paolo Brogi in "Eroi e poveri diavoli della Grande Guerra" (Imprimatur, pp. 208, euro 15). C'è infatti un problema di fonti e di versioni dalle quali ricavare criticamente ciò che ci resta di quelle gesta.

È quel che prova a fare il libro di Brogi, che raccoglie una ventina di storie di eroi molto diversi fra loro, che costituiscono un campione rappresentativo di quell'esercito di italiani, 5 milioni e 200 mila, spediti al fronte, su un totale di 10 milioni di uomini validi. In pratica, uno su due, di cui 650 mila morirono in battaglia e un altro milione rimase ferito o mutilato per il resto della vita (22 mila ciechi, 75 mila storpi, 12 mila invalidi totali).
Seguiamo così la vita romanzesca di Enrico Toti, il bersagliere-ciclista con la gruccia, esemplare iperrealistico con quella sua menomazione dovuta a un incidente sul lavoro, il suo interventismo estremo, le sue imprese ciclistiche in giro per il mondo e la sua tenacia combattentistica ad ogni costo, nonostante gli fosse stata negata la matricola di militare a causa della sua inabilità.
Come non emozionarsi di fronte al coraggio dell' "irridente" Cesare Battisti - nulla a che fare col terrorista rosso, per carità - cittadino di quel Trentino che era ancora sotto l'Austria, che fu tra gli alfieri dell'intervento italiano e concluse il suo comizio al Campidoglio con l'invocazione: "Italiani! Tutti alla frontiera con la spada e col cuore!" Catturato dagli austriaci, fu processato per alto tradimento e impiccato il 12 luglio del 1916.
E poi il leggendario asso dell'aviazione Francesco Baracca, eroe gentiluomo, che dopo aver abbattuto un velivolo nemico, andava a soccorrere i piloti nemici, e sul suo aereo aveva fatto disegnato il cavallino rampante che poi divenne il logo della Ferrari. Il volontario quindicenne Roberto Sarfatti, ebreo, morto caporale in un'azione di attacco e figlio di quella Margherita Sarfatti, giornalista e scrittrice, che nel dopoguerra sarà amante di Benito Mussolini e contribuirà alla sua fama nel mondo con il libro-biografia "Dux", tradotto in varie lingue. Fino agli intellettuali e fini letterati Renato Serra e Scipio Slataper, depositari anche di accenti critici verso la guerra, oltre che di dedizione alla causa.
Non manca un accenno alle donne, come la maestra Luigia Guappi di Bologna e la pollivendola Gioconda Girelli di Milano che avevano vestito l'abito del soldato per recarsi a combattere.
Ma Brogi non ricorda solo gli eroi. Ogni guerra, Grande o piccola che sia, porta con sé drammi umani, atti di violenza, senso di orrore e di impotenza e anche gesti contrari, testimonianze a volte estreme di voglia di pace.
Non si può ignorare, in occasione del centenario del primo conflitto mondiale, il fenomeno dei renitenti alla leva (470 mila) e dei disertori (350 mila), molti dei quali motivati da sincero pacifismo. Un migliaio di loro, come ricordano Alberto Monticone e Enzo Forcella in "Plotone di esecuzione", pagò questa scelta con la fucilazione. Come il fante torinese, operaio, che scrisse in punta di morte: "Compagni la morte non mi fa paura, se anche i miei superiori mi dissero che questo è un posto d'onore, il mio sangue vorrò spenderlo per una causa giusta e leale, per far risorgere la vera società di fratellanza e di umanità".
E accanto agli eroi, ci sono i tantissimi italiani che sotto le bombe e il fuoco di trincea persero di fatto la vita, inghiottiti nel buco nero della follia. L'ultimo denso paragrafo del libro di Brogi è dedicato ai soldati usciti di senno in battaglia, per lo choc della guerra, che furono emarginati dalla società e, a volte, per il mal di vivere si suicidarono.
Si è detto, giustamente, che le trincee della Grande Guerra furono il campo-scuola in cui si forgiò l'Italia, perché per la prima volta piemontesi e siciliani, lombardi e campani, laziali ed emiliani, si incontrarono e fraternizzarono.
Ma l'altra faccia della medaglia, oltre ai morti, è rappresentata da quegli oltre 40 mila soldati che finirono nella rete dei manicomi di guerra, le cui vicende Brogi racconta con l'ausilio di documenti inediti, come le cartelle cliniche rintracciate nell'archivio dell'ospedale psichiatrico di Cogoleto a Genova. Con un termine inglese oggi questo insieme di disordini mentali è stato catalogato come post traumatic stress discorder. Allora, nel '15-'18, la definizione fu più cruda: "scemi di guerra".

(Una versione più breve è stata pubblicata su Il Messaggero del 27 luglio 2014)

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Da Orbetello a Chicago per ricordare la trasvolata di Balbo

di Mario Avagliano

Ci fu un’epoca in cui l’Arma azzurra, l’aviazione italiana, era ai vertici mondiali, con recordman dell’aria come Francesco De Pinedo e Arturo Ferrarin. La più grande impresa della storia dell'aviazione civile mondiale di tutti i tempi, e cioè la trasvolata atlantica che partendo da Orbetello il 1° luglio del 1933 portò 24 idrovolanti italiani S55 Savoia Marchetti a percorrere per la prima volta la rotta artica oggi utilizzata da tutti gli aerei di linea tra l’Europa e gli Stati Uniti, fu compiuta da una squadra di 107 piloti italiani (due morirono durante il viaggio) guidata da Italo Balbo detto “pizzo di ferro”.
Quell’impresa mitica, durata 43 giornate, rivive ottanta anni dopo in una mostra inaugurata a Orbetello il 26 luglio scorso e in un libro in due lingue, italiano e inglese, intitolato "Mari e cieli di Balbo" (Edizioni del Girasole, pp. 256, euro 20), a cura di Ivan Simonini, con prose letterarie del giornalista e scrittore Alberto Guarnieri, che propone una preziosa sezione di 350 documenti del periodo (immagini, grafici, comunicati, telegrammi, telefonate, radio intercettazioni), in parte inediti e in parte a colori, ed è arricchito da quindici litografie in tecnica mista realizzate per l’occasione dal pittore emiliano Nani Tedeschi e da un ampio apparato storico-critico (con postfazione di Paolo Mieli).

ll protagonista del racconto di Guarnieri è il generale Balbo, classe 1896. Un personaggio controverso. Originario di Ferrara, repubblicano, interventista nella Grande Guerra e decorato per meriti bellici, esponente di spicco dello squadrismo agrario e quadrumviro della marcia su Roma, guidò le squadracce fasciste contro gli arditi del popolo comunisti a Ferrara, Ravenna e Parma. Ma quale sottosegretario per l’Aeronautica, a partire dal novembre 1926, fu il vero fondatore dell’Arma azzurra, dandole un’anima ed esaltando la tecnologia made in Italy.
L’avventura di Balbo al centro del libro è la trasvolata oceanica, la cosiddetta crociera del decennale della marcia su Roma. Per ironia della sorte, proprio nel 1922 il Commissariato dell’Aeronautica aveva bocciato il primo esemplare degli S55. Fu Balbo a trasformare gli idrovolanti da brutti anatroccoli in celesti metallici cigni e scegliere come motori gli Isotta Fraschini, nonostante le proteste della Fiat.
L’aereo di Balbo si chiamava I-Balb e la formazione a punta di lancia utilizzata per la trasvolata ancora oggi è denominata “un balbo”.
Quando la “centuria alata” ammarò a Montreal, in Canada, poi a Chicago dove era in corso l’Esposizione Universale e infine a New York, Balbo e i piloti italiani furono accolti da festeggiamenti colossali, con ali di folla ad applaudirli e organizzazioni di parate. A Chicago li portarono in un stadio, a New York sfilarono sulla 5° Strada e al Madison Square Garden c’erano 400 mila persone ad ascoltare il discorso del gerarca. Suscitando l’irritazione e la gelosia di Benito Mussolini, Balbo fu ricevuto a Washington, con onori da capo di stato, dal presidente americano Roosevelt.
Il giorno dopo il ritorno degli eroi del volo a Ostia Lido, il 13 agosto del 1933 il duce riservò ai Balbo-boys il passaggio sotto l’Arco di Costantino. Ma la popolarità di Balbo in Italia e all’estero faceva ombra a Mussolini e così appena qualche mese dopo egli fu inviato in esilio dorato in Africa, con l’incarico di governatore della Libia. Dopo di lui l’aviazione italiana perse il contatto con l’evoluzione tecnologica ed iniziò una lunga fase di declino. Il gerarca-aviatore morì in volo su Tobruk, il 28 giugno 1940, all’inizio della seconda guerra mondiale, colpito in circostanze oscure dalla nostra contraerea.
La mostra "Mari e cieli di Balbo" volerà oltreoceano il 10 agosto a Montreal e il 14 agosto a Chicago, punto di arrivo degli “aeronauti”, dove ancora c’è una strada a lui intitolata, Balbo Avenue. La trasferta è stata organizzata in collaborazione con gli Istituti Italiani di Cultura delle due città, in occasione della Settimana Italiana di Montreal e della Festa Italiana di Chicago. Sarà l’occasione per il sindaco di Orbetello, Monica Paffetti, di lanciare la proposta di un concorso di idee internazionale per recuperare l'idroscalo della città, da cui partì l’impresa, per farne magari un museo della trasvolata.

(Versione più sintetica pubblicata su Il Messaggero del 30 luglio 2014)

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Storie - "La guerra che non ho combattuto"

di Mario Avagliano

Come si stava dalla parte di chi è perseguitato durante una guerra violenta come quella del 1939-1945? Ce lo racconta il diario di Giulio Supino, “Diario della guerra che non ho combattuto. Un italiano ebreo tra persecuzione e Resistenza”, appena uscito per i tipi di Aska Edizioni, a cura di Michele Sarfatti, che firma anche la prefazione.
Supino, professore di Idraulica espulso dall’Università nel 1938 perché ebreo, appuntò su alcuni taccuini nel 1939-1940 e nel 1943-1945 (per il periodo intermedio sono conservati fogli sparsi) le sue impressioni sulla vita di quegli anni a Bologna, le vicende belliche, la persecuzione antiebraica, l'inizio del suo impegno antifascista, e poi la Resistenza nelle fila del Partito d'Azione, la partecipazione alla vita sociale, lo studio, la rete amicale, la vita clandestina con la famiglia a Firenze nel 1943-1944, e l'impegno nella ricostruzione, fino al rientro a Bologna appena liberata.
Annotazioni che riflettono lo stato d’animo di chi è perseguitato, come quando nell’agosto del 1939, ripensando alla campagna di stampa che parla di “ebrei guerrafondai”, Supino di fronte all’opportunità che la consorte Camilla torni da Londra in Italia, scrive: “io non mi sento di affidare moglie e figlia a questi f.(ascisti)”.

Dal diario emerge il comportamento indifferente e spesso complice di gran parte della popolazione italiana (con delle eccezioni, per fortuna) sia di fronte all’applicazione delle leggi razziste del ’38 e sia, a seguito dell’armistizio del settembre ‘43, di fronte alla persecuzione delle vite messa in atto dai tedeschi con l’aiuto dei fascisti di Salò. Quando si scatena la caccia agli ebrei, l’impiegato della questura Vincenzo Attanasio, col quale è in contatto per conto della Resistenza, gli confessa: “Non avete idea della cattiveria umana. Valanga di lettere anonime. Spie ebree”.

L'inusuale "non" contenuto nel titolo rimarca il suo non aver combattuto nell'esercito italiano, perché ebreo, e non aver partecipato militarmente alla Liberazione di Firenze, perché ferito. Ma come scrive Sarfatti nella prefazione, in realtà Supino, che era reduce della Grande Guerra, combatté “varie guerre: quella per difendere e conservare la dignità propria e dei famigliari calpestata dall’antisemitismo di Stato, nonché la sua specifica dignità di studioso preparato e appassionato; quella per riaffermare i valori della democrazia; quella per la giustizia e la libertà reclamate dal PdA; quella per salvare la vita del suo nucleo famigliare, dei parenti prossimi, di altri ebrei braccati”.
Cronache di guerra e di persecuzione. Rare e quindi preziose. Da leggere con attenzione, con un occhio al presente, alla nostra Europa dove purtroppo sembra soffiare di nuovo un vento antisemita.

(L'Unione Informa e Moked.it del 12 agosto 2014)

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