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1948, quando gli italiani scoprirono la politica

Avagliano e Palmieri ripercorrono l’anno della svolta: fu l’inizio della partecipazione popolare alla vita pubblica

di Luigi Mascilli Migliorini

Non è certamente all’altezza del suo fratello maggiore, il1848, la primavera dei popoli che squassa le nazioni e impone ovunque se non nuovi poteri, almeno nuovi linguaggi: libertà, democrazia, persino socialismo se, come tutti ricordiamo, è allora che Karl Marx racconta nel suo Manifesto che uno spettro ( il proletariato oppresso) ha cominciato ormai ad aggirarsi in Europa. Ma il fratello minore, cent’anni più tardi, un posto importante nel calendario della storia se lo è guadagnato. È intorno al1948, infatti, che si dispongono le pedine principali, in Europa e nel mondo (basti pensare alla nascita dello Stato di Israele) di quel sommario equilibrio planetario post secondo conflitto mondiale che ci ha accompagnato fino alla caduta del muro di Berlino: la Guerra Fredda, insomma.

In Italia quelle pedine vanno più o meno a posto il 18 aprile di quell’anno, quando nelle elezioni politiche la Democrazia cristiana ottiene il 48% dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi inaugurando una egemonia politica che, con alterne vicende, sarebbe durata fino al 1992, quando, cioè, le ragioni di ordine internazionale che ne avevano aiutato il successo e la durata nel tempo crollavano, come il muro a Berlino, (le date sono in questo senso eloquenti) fragorosamente. Sono le prime vere elezioni per il Parlamento della nuova Italia repubblicana, dopo quelle che due anni prima avevano dato vita all’Assemblea Costituente e che si erano svolte in un clima di festoso ritorno alla democrazia, nella forte contrapposizione della scelta tra Monarchia e Repubblica e, dunque, con una attenuata percezione (le condizioni oggettive erano, peraltro, assai diverse da quelle del 1948) dello scontro tra le forze politiche.

Stavolta, invece, è proprio questo scontro a dominare la scena e a far riconoscere che in quel momento si offre all’attenzione degli italiani un sistema dei partiti che la Carta costituzionale aveva aiutato a prendere forma e che –come sistema dei partiti o non di partiti - era destinato, appunto a fare da cornice e guida politica dell’Italia uscita dalla catastrofe della guerra e messasi sulla strada dello sviluppo da grande potenza economica fino a quella che, non a caso, molti hanno voluto chiamare «fine della prima Repubblica». Nei suoi termini generali la storia di quell’anno esso pure–come il fratello- «mirabile» è stata più volte raccontata.

Ma il libro che hanno scritto ora Mario Avagliano e Marco Palmieri a settant’anni di distanza da quei giorni ha una originalità tutta particolare, rivelata più che dal titolo, quasi obbligato, dal sottotitolo: 1948. Gli Italiani nell’anno della svolta. Il tentativo, ben riuscito, è quello, dunque, di sorprendere la società italiana in quel momento per essa così decisivo e mettere il lettore di oggi in condizione di avvertire le correnti mobilissime che attraversarono quella società messa di fronte ad una scelta alla quale essa giungeva fresca, certo, dell’entusiasmo collettivo esploso all’indomani della caduta della dittatura e della fine della guerra, ma anche sostanzialmente impreparata. Nel libro, infatti, si insiste molto sulla maggiore capacità organizzativa dei partiti della sinistra, il Pci in particolare, il legame più forte con il territorio, l’esperienza maggiore ereditata dai decenni dell’antifascismo clandestino e poi della lotta resistenziale.

Si poteva prevedere, dunque, una vittoria del Fronte popolare e questo, forse, come percezione diffusa non è sempre immediatamente compresa da chi oggi, conoscendo lo straordinario successo riportato dalla Democrazia cristiana, è portato a credere ad una illusione da parte degli sconfitti e a una marcia trionfale da parte dei vincitori. Non fu né l’uno né l’altro. Fu piuttosto un corso acceleratissimo di politicizzazione a cui parteciparono tutti gli Italiani, anchilosati da una lunga dittatura e avviliti da una guerra persa, obbligati, però, ad apprendere in fretta quelle regole elementari di comportamento – discussioni, polemiche giornalistiche, comizi, propaganda e, dunque, partecipazione- senza le quali una democrazia rappresentativa si trasforma in una minestra scipita.

La ginnastica della politicizzazione permette ovviamente tutto, o quasi: promesse di redenzione sociale e minacce di dannazione eterna, zelanti amplificatori del paradiso sovietico e Madonne che lacrimano per le strade d’Italia temendo l’arrivo dei cosacchi in piazza San Pietro. Anche colpi bassi, come l’attacco apoplettico di cui–si racconta per qualche giorno- è vittima il leader socialista Pietro Mancini durante un comizio contro il quale si era scagliata la maledizione di un sacerdote, uno di quei sacerdoti-propagandisti di cui parla–lo si legge nel libro-la minuta informativa di un prefetto. È in questa dimensione, ricostruita qui con il prezioso ricorso a fonti sempre poco utilizzate, come appunto i resoconti sull’ordine pubblico regolarmente stilati dai prefetti - che matura – mi verrebbe da dire - una riemersione alla politica delle classi medie italiane che non è stata mai adeguatamente finora e correttamente messa in luce.

La calma, la tranquillità a cui quelle classi quasi inerzialmente ambiscono e che i prefetti mettono tante volte in evidenza nei loro rapporti, quella calma e quella tranquillità che sono, nel 1948, anche il prodotto di una stanchezza collettiva che è un sentimento pervasivo non meno delle ansie di rinnovamento da cui quell’anno è attraversato, non vengono, per di così, lasciate a casa. Sono obbligate, dalla eccezionalità della condizione, a uscire per strada, a misurarsi con le forme della politica, a diventare obiettivo militante. Assai più di tanti altri, giusti elementi, il 1948 appare, così, l’anno di un’Italia che sceglie l’affezione alla politica e la conserva stretta lungo i decenni migliori della sua storia repubblicana. Da lontano oggi, quella battaglia rissosa, quella propaganda e quelle parole d’ordine quasi ingenue nella loro perentoria aggressività, ci appaiono, così, il battesimo di una democrazia repubblicana che fatichiamo a ritrovare nelle pagine del presente. Il libro sarà presentato oggi, alle 18, a Roma, presso l’associazione Civita, in piazza Venezia.  

(Il Mattino, 2 febbraio 2018)

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