Storie – La famiglia Klein-Sacerdoti e il pacchettino che attraversò la guerra

di Mario Avagliano

Ci sono microstorie della Shoah che commuovono e appassionano in modo particolare. Una di queste, è la vicenda della famiglia Klein-Sacerdoti, raccontata da Giorgio Sacerdoti nel libro Nel caso non ci rivedessimo (Archinto), con l’ausilio di lettere dell’epoca.
I Klein sono di Colonia, in Germania, i Sacerdoti originari di Modena, ma vivono a Milano. Il destino delle due famiglie s’incrocia nel 1939 su un campo da tennis a Parigi, dove sboccia l’amore tra il giovane Piero Sacerdoti, dipendente della Ras assicurazioni, e l’affascinante Ilse Klein, segretaria d’ufficio. I due si sposano il 14 agosto 1940 a Marsiglia, nella Francia del Sud occupata.
Sono tempi bui. L’Europa è sotto il segno della svastica e delle persecuzioni. Dopo la Notte dei Cristalli del novembre 1938, i genitori di Ilse, l’avvocato Siegmund Klien e la moglie Helene Meyer, decidono di riparare ad Amsterdam, dove si trova già l’altro figlio Walter. Da qui intrecciano una complicata corrispondenza con la figlia (il servizio postale tra Olanda e Francia del Sud è sospeso), per il tramite di una cugina di Helene che vive in Svizzera, Anni, che da Zurigo smista le lettere.
Negli anni successivi anche in Olanda, a seguito dell’occupazione nazista, la situazione degli ebrei precipita. Walter nel maggio 1942 tenta di fuggire a Marsiglia, per raggiungere la sorella, ma viene catturato dai nazisti al confine con la Francia. Le sue lettere dal carcere sono cariche di disperazione. Piero s’adopera in ogni modo per salvarlo, ma il suo destino è scritto e la mattina del 26 agosto il giovane viene deportato ad Auschwitz, assieme ad altri 948 sfortunati.
La madre Helene per il dolore si ammala e il 14 gennaio 1943 muore in un ospedale di campagna, dopo aver tentato il suicidio. Qualche settimana prima, però, assieme al marito, avendo saputo che la figlia Ilse è incinta, ha fatto in tempo a confezionare amorevolmente un pacchettino con il corredino per il nipotino in arrivo, Giorgio Sacerdoti. Il pacchetto attraversa l’Europa in guerra e, dato per disperso, dopo tre mesi giunge incredibilmente a destinazione, quando la donna è già morta.
La scomparsa di Helene verrà nascosta ad Ilse dal padre per quasi un anno. Solo il 16 ottobre papà Siegmund, che sente la fine vicina, chiederà ai parenti di rivelare la verità ad Ilse. Tre giorni dopo verrà arrestato e dopo un paio di cartoline dal campo di raccolta di Westerbok, anche lui caricato come una bestia su un convoglio per Auschwitz, dove morirà all’età di 69 anni.
Intanto la giovane coppia costituita da Piero ed Ilse, con il piccolo Giorgio nato a marzo, fugge da Nizza in un villino sul lago Maggiore, unendosi ai genitori Sacerdoti, papà Nino e mamma Gabriella. L’incubo non è finito. Dopo l’8 settembre, anche in Italia parte la caccia all’ebreo. I Sacerdoti riescono fortunosamente a passare la frontiera svizzera a Vieggiù e poi si trasferiscono a Ginevra, dove trovano la sospirata salvezza. Ma l’orrore di quegli anni e la perdita di mezza famiglia segnerà per sempre la loro vita.

(L'Unione Informa e portale moked.it del 3 settembre 2013)

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Storie - Giuseppe Bolgia e l'Angelo del Tiburtino

di Mario Avagliano

Quando David Bidussa, nel suo acuto saggio Dopo l’ultimo testimone, s’interrogò su quale sarebbe stato il futuro della Memoria dopo la scomparsa di chi aveva vissuto in prima persona la Shoah, la Resistenza, il fascismo, l’occupazione tedesca e la seconda guerra mondiale, si riferiva certamente anche ai loro figli.Anche a me è capitato, in giro per l’Italia a parlare di questi temi, di conoscere di frequente figli di deportati, di perseguitati politici e razziali, di partigiani, di internati militari, che hanno raccolto l’eredità dei genitori, con passione e coraggio civile.
Purtroppo il tempo passa e anche i figli cominciano a scomparire. È il caso di Giuseppe Bolgia, morto ieri a Roma, a pochi giorni dalla cerimonia di ricollocamento presso la Stazione Tiburtina della lapide in ricordo del padre, la medaglia d’oro al merito civile Michele Bolgia, in programma il 16 ottobre alle ore 12, presso il binario 1.

La storia di Giuseppe è drammatica. Appena dodicenne, aveva perso la mamma, durante i bombardamenti alleati del 19 luglio 1943. Dopo l’armistizio, il padre Michele, ferroviere, decise di non potere essere testimone inerte del delitto della deportazione di migliaia di persone, che partivano dalla Stazione Tiburtina per essere avviati ai campi di lavoro e di sterminio.
Così, in collaborazione con la formazione partigiana della Guardia di Finanza, in più occasioni riuscì ad aprire i portelloni dei carri ferroviari, togliendo il piombo dai vagoni sigillati e salvando molte persone dalla deportazione. Fu catturato su delazione di fascisti e fu ucciso dai nazisti alle Fosse Ardeatine. La sua vicenda è stata ricostruita di recente da Gerardo Severino nel libro L’angelo del Tiburtino.
Giuseppe si è battuto in questi anni affinché la memoria di quei fatti non si spegnesse, partecipando a tutte le commemorazioni e non smettendo mai di raccontare la sua storia nelle scuole e nelle piazze. Anche lui era un Testimone. Il suo impegno e gli atti di eroismo del padre saranno ricordati il 16 ottobre, alle ore 17, all’Isola Tiberina, presso l’Ospedale Fatebenefratelli.

(L'Unione Informa e moked.it dell'8 ottobre 2013)

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Storie – La dimenticanza del Miur sui Triangoli rossi

di Mario Avagliano

Segnala Tiziana Valpiana, vicepresidente nazionale dell’Aned, che ancora una volta lo Stato si è dimenticato dei deportati politici, che nei lager venivano contrassegnati con un triangolo rosso. Lo attesta una comunicazione inviata in questi giorni dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca alle scuole e relativa ad un corso di aggiornamento "Storia e didattica della Shoah" organizzato dalla Rete Universitaria per il Giorno della Memoria e rivolto a insegnanti delle scuole secondarie di primo e secondo grado, in cui si citano solo “le vittime della Shoah, i militari italiani internati per via del loro rifiuto di aderire alla milizia nazi-fascista e, infine, qualsiasi persona discriminata su base etnica, razziale, religiosa o sessuale".
Com’è noto, la Legge istitutiva del Giorno della Memoria del 20 luglio 2000, n. 211, all’articolo 2 recita testualmente: “In occasione del Giorno della Memoria di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere”. All’epoca alcuni parlamentari, tra cui la stessa Valpiana, s’impegnarono per far includere nella memoria anche i deportati politici e gli internati militari. Altri emendamenti che intendevano nominare anche gli zingari, gli omosessuali, i testimoni di Geova e altre categorie purtroppo non furono approvati, anche se è evidente che lo spirito della legge è quello di ricordare la tragedia della deportazione e dello sterminio nella sua globalità.
E’ ovvio che un corso di aggiornamento rivolto agli insegnanti, che si tiene sotto l’egida del Ministero, non possa, anzi non debba ignorare la deportazione politica e con essa l’antifascismo e la Resistenza. In verità questa dimenticanza non è una grande novità. Il silenzio delle istituzioni sulle vicende della deportazione politica e dell’internamento militare è durato decenni.
L’occasione del 70° anniversario della resistenza e del 75° delle leggi razziali è propizia per proporre a chi di dovere che d’ora in poi la formazione degli insegnanti su questo tema, prendendo spunto da un acuto saggio di Claudio Vercelli, punti ad analizzare il tema complessivo delle “deportazioni” e dell’universo concentrazionario nazista, nel quale finirono, con diverse gradazioni di trattamento e di condizioni, ebrei, zingari, omosessuali, Testimoni di Geova, politici, militari, malati di mente, resistenti, handicappati, renitenti alla leva, disertori. La stessa Valpiana sottolinea che non si tratta di fare “una graduatoria fra gli orrori”. Tuttavia anche la memoria della Shoah sarebbe monca se non si studiasse il sistema che la generò, che tendeva ad isolare e perseguitare tutte le diversità, tutti coloro che “deviavano” in qualche modo da quel modello di società “ariana” e dal pensiero unico imposto dal nazismo e dal fascismo.

(L'Unione Informa e portale Moked.it, 15 ottobre 2013)

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Storie – La Shoah raccontata ai bambini

di Mario Avagliano

E’ possibile parlare della persecuzione degli ebrei ai bambini? Quale linguaggio, quali parole, quali immagini utilizzare? Dopo il fortunato libro ad illustrazioni sulla Resistenza (Fulmine un cane coraggioso), Anna Sarfatti e Michele Sarfatti firmano un altro pregevole volume, intitolato L’albero della memoria. La Shoah raccontata ai bambini (Mondadori, pp. 64), impreziosito dai disegni di Giulia Orecchia.
Il libro segue in versi e disegni, con sensibilità e tenerezza e con il supporto di un appendice storico-documentaria, le vicissitudini di Samuele Finzi (detto Sami) e della sua famiglia, che vivono a Firenze, dove conducono una vita serena, secondo i precetti della tradizione ebraica. Nel giardino della loro casa c’è un vecchio olivo, nella cui cavità Sami ripone i suoi “tesori” di bambino.

Nel 1938, con le leggi razziali, la vita dei Finzi cambia per sempre: i genitori devono abbandonare il lavoro, Sami la scuola e gli amici, gli zii sono costretti ad emigrare. Con lo scoppio della guerra il clima persecutorio nei confronti degli ebrei si fa sempre più duro e, dopo l’armistizio e l’occupazione tedesca, i Finzi entrano in clandestinità. Sami trova rifugio in collina, col falso nome di Emilio Zini, presso i nonni dell’amichetta Francesca. I genitori vengono arrestati e spariranno nel buio dei lager. I tesori di Sami restano nell’olivo. Dopo la liberazione, tornerà a Firenze a recuperarli, trovando una vecchia fotografia che lo ritrae assieme ai genitori e il vecchio orologio del padre, che fa ancora tic tac e che accosta al cuore.
Il libro ad illustrazioni di Anna e Michele Sarfatti è un modo intelligente di parlare di Shoah ai bambini della scuola dell’infanzia e primaria, senza indulgere alla retorica e alle immagini crude o forti, e riflettendo anche sul periodo delle leggi razziali e delle responsabilità fasciste e italiane, che spesso è trascurato o messo in ombra. E i due autori colgono l’occasione per utilmente spiegare anche alcune nozioni di cultura ebraica, dalla sukkàh al Bar Mitzvà.

(L'Unione Informa e Moked.it del 12 novembre 2013)

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Storie - L'arte di Bruno Canova e le leggi razziste

di Mario Avagliano

Si può denunciare l’orrore della Shoah, delle leggi razziste del 1938, dei fascismi e della guerra anche attraverso l’arte. Ne è uno straordinario esempio il grande incisore e pittore Bruno Canova, scomparso lo scorso anno, uno dei più importanti esponenti della Scuola romana e pioniere della riflessione autocritica degli italiani su quel periodo storico.

Canova, che nel 1944-1945 era stato prigioniero in Germania per la sua attività partigiana, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta dedicò al tema della responsabilità italiana nella persecuzione degli ebrei e alla tragedia della Shoah delle opere d’arte di grande forza evocativa che oggi, grazie agli studi compiuti dagli storici, appaiono davvero lungimiranti.
A questo ciclo di dipinti, quadri e bassorilievi, alcuni dei quali realizzati con la tecnica del collage, è dedicata una mostra nel museo romano del Casino dei Principi di Villa Torlonia, che sarà inaugurata il 14 dicembre fino al 26 gennaio 2014, dal titolo Bruno Canova. La memoria di chi non dimentica (aperta tutti i giorni, dalle ore 9 alle 19). Consiglio vivamente di non perderla.

(L'Unione Informa e Moked.it del 10 dicembre 2013)

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Canova, quelle urla dal buio trasformate in pittura

di Mario Avagliano

L’arte pittorica ha una forza evocativa di denuncia degli orrori della Storia che spesso travalica le altre forme artistiche, comprese la letteratura e il cinema. Guernica di Pablo Picasso resterà per sempre scolpito nella memoria della cultura occidentale come opera di condanna delle bombe sui civili. Una voce modernissima, eppure in questi suoi aspetti ancora misconosciuta, è quella del grande incisore e pittore Bruno Canova, classe 1925, bolognese di nascita e romano d’adozione (amava la periferia della capitale e aveva scelto di vivere a Centocelle), scomparso lo scorso anno. Al suo straordinario ciclo di opere sul fascismo, le leggi razziste del 1938, la Shoah e la seconda guerra mondiale, sarà dedicata una preziosa mostra nel museo romano del Casino dei Principi di Villa Torlonia, che sarà inaugurata il 14 dicembre fino al 26 gennaio 2014, dal titolo Bruno Canova. La memoria di chi non dimentica (aperta tutti i giorni, dalle ore 9 alle 19).

La mostra, promossa dall’Assessorato alla Cultura del Comune e dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e curata da Maurizio Calvesi, uno dei massimi storici dell’arte viventi, cade significativamente nel 70° anniversario della Resistenza e nel 75° delle leggi razziali. Essa raccoglie una selezione di disegni, quadri e bassorilievi di Canova, che fu uno degli esponenti più apprezzati della cosiddetta Scuola Romana tra gli anni Sessanta e Settanta, frequentando, tra gli altri, Mario Mafai, Alberto Ziveri, Renato Guttuso, Renzo Vespignani, Ugo Attardi, Pier Paolo Pasolini. Arrestato nel 1944 per avere tentato di organizzare un nucleo partigiano a La Spezia e internato in un campo di lavoro tedesco nei Sudeti, Bruno Canova, dopo essere stato testimone in prima persona degli orrori delle dittature e della guerra, adoperò il linguaggio delle arti visive affinché le generazioni future non corressero il rischio di perderne la memoria. Nel lavoro dell’artista hanno dunque importanza particolare le opere dedicate alle leggi razziste del 1938, alla persecuzione degli ebrei e alla Shoah, di intensa forza espressiva e dolente partecipazione, in cui i simboli non sono fredde evocazioni ma testimonianza drammatica di una sofferta capacità di evocare fatti talmente spaventosi da giungere alla soglia dell’indicibile. Come scrive Calvesi nell’introduzione del catalogo, “questo è evidente soprattutto nelle emozionanti tavole trattate a collage e tecnica mista, grandi anche di misura, come urlate da una voce che viene dal buio mai dimenticato, un buio che sa farsi pittura, straordinariamente efficaci nell'uso non formalistico ma anche documentario del collage: degne assolutamente di costituire il nucleo artistico (insieme a pochissimi altri esempi) di un museo dedicato alla memoria della Shoah e agli orrori della guerra”. A questo scopo sono previsti, durante tutto il periodo di apertura, incontri didattici con gli studenti delle scuole della capitale dedicati alle questioni storiche affrontate dalle opere esposte. Il ciclo di opere presentato nella mostra, raccolto e ordinato dal figlio Lorenzo Canova, docente all’Università del Molise, fu eseguito in prevalenza tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta ed è stato portato avanti dall’artista fino al termine della sua vita, dando vita a un libro del 1972 e a una mostra itinerante in moltissime città italiane. In questi lavori Canova unisce la sua formazione di avanguardia, legata alla grafica di Albe Steiner, Max Huber e alla fotografia di Luigi Veronesi, a una personale rielaborazione del collage futurista e dadaista e alla sua vocazione iconica di disegnatore e pittore. Dopo lunghe ricerche storiche, Canova utilizzò manifesti, ritagli di giornale e documenti originali inseriti nel corpo dell’opera, elementi verbali e visivi, campiture quasi informali, disegni e parti dipinte. Dimostrando di essere non solo un artista innovativo ma un pioniere della denuncia delle responsabilità italiane nella vicenda della persecuzione degli ebrei. Una pagina nera della nostra storia ancora dimenticata, che questa eccezionale mostra ci sbatte in faccia con la forza, i colori e l’energia della pittura e dei documenti.

(Il Messaggero, 14 dicembre 2013)

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Palatucci, si riaprono gli archivi

di Mario Avagliano

Prima riunione per il “Gruppo di ricerca su Fiume-Palatucci 1938-1945” convocato su impulso di Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano con l'obiettivo di far luce sulla figura del Giusto tra le Nazioni Giovanni Palatucci (nell'immagine), che fu questore di Fiume e che fu ucciso a Dachau nell'inverno del 1945.
L'incontro, svoltosi nei locali del Cdec, ha visto la partecipazione di tutti i componenti dell'organo: Michele Sarfatti (Fondazione CDEC; coordinatore del Gruppo), Mauro Canali (Università di Camerino), Matteo Luigi Napolitano (Università degli Studi Guglielmo Marconi), Marcello Pezzetti (Fondazione Museo della Shoah di Roma), Liliana Picciotto (Fondazione CDEC), Micaela Procaccia (dirigente della Direzione generale per gli archivi del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo), Susan Zuccotti (Centro Primo Levi, New York).
Numerosi gli aspetti messi a fuoco già a partire da questa prima riunione, compreso l'avvio di una significativa ricognizione degli archivi noti o ancora da consultare. Al termine dei lavori, previsti in sei mesi, il Gruppo pubblicherà una relazione sui risultati delle ricerche con allegati i documenti rilevanti.

(L'Unione Informa e Moked.it del 20 dicembre 2013)

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Storie – Zi’ Mario Limentani, il testimone di Mauthausen

di Mario Avagliano

Lo chiamano ancora oggi «il Veneziano», anche se vive ininterrottamente a Roma dai primi anni Trenta, a parte la drammatica parentesi dei due anni di deportazione. Mario Limentani, detto Zi’ Mario, a 90 anni di età è uno dei pochi sopravvissuti di quei circa 1.700 ebrei della comunità più popolosa d’Italia che, durante i nove mesi di occupazione tedesca della capitale, tra il settembre del 1943 e il giugno del 1944, vennero estirpati a forza dalle loro case e tradotti nell’inferno dei Lager del Reich. La sua storia, per tanti aspetti unica ed esemplare, è stata per la prima volta raccontata in modo organico e completo nel libro intitolato “La scala della morte. Mario Limentani da Venezia a Roma, via Mauthausen” (Marlin editore), scritto da Grazia Di Veroli, che con delicatezza e rispetto della sfera privata dell’interlocutore, ha sapientemente collazionato i suoi ricordi di oggi con le interviste rilasciate dallo stesso Limentani negli ultimi venti anni, a partire da quelle al Cdec e alla Shoah Foundation di Spielberg. Il saggio sarà presentato dal Centro di Cultura Ebraica, l’Aned di Roma e la Libreria Ebraica “Kiryat Sefer” giovedì 9 gennaio 2014, alle 20.30, presso il Museo Ebraico di Roma (via Catalana/Largo 16 ottobre). Intervengono, oltre al sottoscritto, Anna Foa e Marcello Pezzetti. Saranno presenti l’autrice e Mario Limentani.

Nel libro-intervista, che esce significativamente nel 70° anniversario della deportazione da Roma del 4 gennaio 1944 (ricordato domenica scorsa dall’Aned a Regina Coeli), scorrono le immagini dell’infanzia di Limentani, originario di Venezia ma trasferitosi nella capitale giovanissimo - par di sentirlo, nella sua classica parlata in romanesco verace impastata di inflessioni venete - fino all’impatto scioccante con le leggi razziste del 1938. E poi la guerra, la fame, i bombardamenti, la caduta del fascismo, l’occupazione tedesca, la raccolta dell’oro e la tragica alba del 16 ottobre del 1943, con la retata degli ebrei in tutta Roma, durante la quale i Limentani si nascondono in uno scantinato e si sottraggono alla cattura da parte delle SS di Herbert Kappler. Purtroppo il ventenne Mario Limentani, come centinaia di altri ebrei romani, finirà comunque tra le grinfie dei nazisti, qualche settimana dopo, a fine dicembre del 1943, nei pressi della Stazione Termini, forse a causa di una delazione della celebre spia ebrea Celeste Di Porto, detta la Pantera Nera. E ad arrestarlo e a consegnarlo ai tedeschi saranno alcuni fascisti, a testimonianza di quanto pesò il collaborazionismo italiano nella vicenda della Shoah. Incarcerato a Regina Coeli, il 4 gennaio del 1944 Mario viene condotto al binario n. 1 della Stazione Tiburtina e caricato su un vagone piombato in partenza per il Reich, assieme a circa 300 deportati. I suoi compagni di viaggio sono in maggioranza politici, dai nipoti di Badoglio, Pietro e Luigi Valenzano, al gruppo dei comunisti, tra i quali spicca la figura di Filippo D’Agostino, uno dei fondatori del partito comunista d’Italia. Ma vi sono anche una decina di ebrei. All’arrivo a Mauthausen, a Limentani, che pure viene registrato come ebreo, viene cucita sulla tuta a righe «una stella fatta con due triangoli: uno rosso con IT nero perché ero italiano e m’avevano portato con i politici e uno giallo perché ero ebreo». Quasi ad attestare il destino in parte comune che toccava a chi si era opposto al nazifascismo e a chi era perseguitato per il solo fatto di essere ebreo. La particolarità dell’esperienza di Limentani (come quella degli altri del suo gruppo) trae origine proprio da qui. Egli infatti, a differenza della maggior parte degli ebrei italiani, non viene deportato ad Auschwitz, ma a Mauthausen, uno dei Lager simbolo della deportazione politica, più avanti trasferito nel sottocampo di Melk, poi di nuovo a Mauthausen e infine nell’altro sottocampo di Ebensee. Nell’immaginario collettivo, quando si pensa alla Shoah, soprattutto per quanto riguarda gli ebrei italiani, il pensiero va subito al Lager di Auschwitz, dove furono deportati oltre 6mila di loro (su un totale di poco più di 6.800). Forse anche per questo motivo le vicende dei circa 800 ebrei che furono deportati in altri Lager, hanno avuto – ingiustamente – un’attenzione minore da parte della storiografia e dell’opinione pubblica. Il racconto dei due anni nei Lager nazisti è commovente, ma – come è nello stile asciutto e privo di retorica di Limentani – non indulge mai al pietismo e non insiste sui dettagli più crudi, mantenendo sempre un certo pudore e lasciando confinato ciò che è indicibile nella sfera dell’inesprimibile. Tra le pagine più toccanti delle memorie di Limentani, raccolte e verificate dalla Di Veroli, ci sono quelle sulla famosa «scala della morte» di Mauthausen, dalla quale prende il titolo questo libro: i 186 gradini, ripidi e scivolosi, che portano alla cava e che i deportati sono costretti a salire e scendere più volte al giorno, con un pesante carico di massi di granito.Molti di loro muoiono su quella scala, privi di forze, rotolando sui gradini oppure facendo un tragico volo nel burrone sul quale la scala si protende. Limentani sarà uno dei pochi ebrei romani a sopravvivere alla soluzione finale e a tornare a casa. E nel dopoguerra, diventerà una delle colonne portanti dell’Aned capitolino e uno dei principali testimoni italiani della deportazione razziale e politica.

(L'Unione Informa e Moked.it del 7 gennaio 2014)

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