"Una Resistenza senz'armi" vissuta dai prigionieri IMI. Intervista a Mario Avagliano del quotidiano L'Adige

di Paolo Campostrini

Orazio Leonardi lavorava nella sartoria del papà, in piazza Vittoria. Era salito a Bolzano da Padova, con i suoi. Succedeva a tanti italiani delle "vecchie provine intorno al '33. Un negozio avviato, nel centro nuovo. Poi, nell'estate del'43, a 19 anni, arriva la lettera di chiamata per il servizio militare. Mesi complicati per tutti, quelli. Il 25 luglio Mussolini era stato deposto, il re e Badoglio avevano detto che la guerra doveva continuare ma intanto preparavano l'armistizio dell'8 settembre. 119 Orazio viene catturato dai tedeschi. Seguirà la sorte di tanti suoi commilitoni. L'arresto in caserma, gli ufficiali lasciati senza ordini che non sanno come reagire, lui e centinaia di altri militari ammassati allo stadio Druso prima di essere avviati a Standbostel, un lager in Germania. Lì, diventerà un IMI, un "internato militare italiano". Passano settimane di ansia sospesa. Che ci faranno? Come verremo trattati? Perchè la loro posizione è ambigua. Prima alleati ed ora? Prigionieri di guerra in una guerra coi tedeschi mai combattuta? I tedeschi progettano di arruolare i meno renitenti nelle "Ss". Poi, salgono al campo gli emissari della neonata Rsi, la Repubblica sociale guidata da un Mussolini già stanco e forse disilluso dopo essere stato liberato dai tedeschi sul Gran Sasso che vogliono lui per creare uno stato fantoccio che continui a supportarli nel conflitto. I repubblichini hanno un compito: arruolare più soldati possibile. Certo, sono tanti gli internati. Oltre 600mila, un esercito. Se aderissero, la guerra potrebbe continuare ancora a lungo, nel Nord Italia. Li chiamano nei cortili davanti alle baracche, offrono loro un salario, una divisa, riconoscimenti e aiuti alle famiglie: "Chi vuole tomare a combattere per l'onore e per l'Italia finalmente libera dai Savoia faccia un passo avanti!". Aspettano. Aspetteranno a lungo. Solo in pochi lo fanno, quel passo. Neppure Orazio Leonardi lo farà. Verrà sbattuto al lavoro coatto. I fascisti li chiameranno "imboscati". Ma quei soldati sanno cosa li attende: percosse, violenze, fame. Ma insistono nel rifiuto. Saranno considerati nemici. Orazio tornerà a Bolzano e sarà insignito di una medaglia d'onore dal Quirinale. La conserverà per tutta la vita.

Ma tanti non lo faranno, quel ritorno a casa. 50mila IMI morti per fame, percosse e malattie, ecco l'entità del sacrificio. Resisteranno. Oggi, quel loro gesto, il passo non fatto, è finalmente considerato uno dei primi episodi resistenziali. Sarà, la loro, "La Resistenza senza armi'. Oggi è anche il titolo di un libro di Mario Avagliano, che lo ha scritto in collaborazione con Marco Palmieri. Avagliano è uno specialista nelle ricerche sul fascismo e la seconda guerra mondiale, è stato vicepresidente dell'Anpi laziale, membro dell'Irsifar, l'Istituto per la storia del fascismo edella resistenza. Ha scritto una infinità di saggi. Guido Margheri lo ha invitato a Bolzano nei giorni anniversari di quell'8 e 9 settembre del '43, pure nel ricordo di Orazio Leonardi. Sarà venerdì alla biblioteca Civica ore 18, in dialogo con Maurizio Ferrandi) in un evento collegato a Bolzano città della Memoria, dal titolo, appunto "Resistenza senz'armi'.

Mario Avagliano, a lungo quel rifiuto dei 600mila nei Lager non è stato considerato resistenza.

"Molto a lungo. Si è dovuto attendere gli anni Novanta".

Le ragioni?

"Tante. Innanzitutto il clima di guerra fredda che aveva avvolto l'Europa dopo la guerra. Come per l'armadio della vergogna, quei tanti dossier che documentavano le stragi dei tedeschi in Italia, anche la storia degli internati era stata rimossa ' .

Magari per ragioni opposte?

"Ciascuna parte politica difendeva le sue posizioni. La contrapposizione ideologica tagliava l'Europa e l'Italia in due. La sinistra, ad esempio, si voleva fosse l'unica protagonista della resistenza armata, quella delle montagne, quella avvenuta in Italia tra il '43 e il '45 fino alla liberazione".

Ma, in realtà, neppure quella fu combattuta in esclusiva, no?

"Certamente. C'erano non solo comunisti ma liberali, cattolici, monarchici badogliani, repubblicani. Anch'io ho scritto del sacrificio di Montezemolo, un nobile sabaudo piemontese che combatté i tedeschi e venne ucciso. La sinistra si era intestata la resistenza e divenne difficile valutare quando accadde allora tra i prigionieri italiani in Germania".

Cosa avevano gli IMI di così difficile da valutare?

"Erano, all'inizio, apolitici. Ma il loro gesto fu importante proprio ai fini strategici, come contributo alla guerra anche degli alleati".

In che senso?

"Erano quasi 650mila. Avessero aderito alla Rsi, non dico che le sorti della guerra sarebbero cambiate, ma un tale esercito al fronte avrebbe potuto far proseguire la guerra ancora per mesi. O anni. E provocare altri lutti e stragi. La stessa liberazione sarebbe stata molto più lenta".

Ma il loro peso fu solo militare?

"Assolutamente no. Fu un segno ideale, una frattura col passato dell'Italia fascista".

Cioè, hanno detto no pur provenendo da una cultura e da una istruzione che avrebbe dovuto farli scegliere altrimenti?

"Era una generazione cresciuta a libro e moschetto. Fin da piccoli per loro esisteva solo Mussolini e il fascismo. Non avevano mai sentito nominare gli altri partiti".

E dunque con quali motivazioni rifiutarono?

"Fu una scelta molto complessa proprio per l'assenza di un apparato ideologico diverso da quel - lo fascista. Ciò nonostante non fecero un passo in avanti".

Cosa non li fece muovere e non aderire alla Rsi?

"Molti per lealtà al giuramento fatto al re. Non lo avevano prestato a Mussolini o al partito. E questo interessò in particolare moltissimi ufficiali. Anche giovanissimi. La gran massa disse no perché rifiutò la guerra. Già dopo la campagna di Russia migliaia di soldati avevano verificato la follia di quel conflitto. Non c'erano ragioni nazionali, non c'era spirito risorgimentale in quelle invasioni di popoli stranieri che non ci minacciavano".

C'era pure del livore nei confronti dei tedeschi?

"Anche. Gli alpini avevano visto il loro comportamento in Russia, come abbandonavano i soldati italiani feriti, le violenze sui russi, le uccisioni degli ebrei. Lo si verificherà nella memorialistica, poi".

E dunque perché oggi consideriamo quella dei 600 mila Resistenza a tutti gli effetti?

"Perché il rifiuto della Rsi divenne a poco a poco consapevolezza antifascista. Nelle baracche ci si parlava, si scrivevano testi, si provava a collegarsi. Alessandro Natta, che fu un IMI prima di diventare dirigente del Pci, parlò poi di quei mesi come di una "scuola di democrazia".

Gli emissari della Repubblica sociale continuavano ad arrivare per chiedere adesioni?

"Fino alla fine".

Contando evidentemente sulle sofferenze che stavano aumentando per i prigionieri?

"Soprattutto su quello. Sul cedimento fisico e psicologico. Ma ormai il no divenne generale. Ci furono assemblee, discussioni. Io ritengo che quello degli IMI, dei soldati e ufficiali italiani prigionieri possa essere considerato a pieno titolo il primo referendum democratico".

Intende un referendum prima di quello istituzionale?

"Nei fatti si. Compiuto in segreto, E anche nella coscienza di ognuno".

Nonostante i morti?

"Furono tantissimi. Ce lo siamo scordato per troppo tempo. Furono 50mila, in pratica oltre il 10% degli IMI non tornò".

Altro che imboscati...

"Appunto, altro che".

Ma perché, al di là del tardivo riconoscimento politico e storico del loro sacrificio da considerarsi come resistenziale, tanti di loro non parlarono?

"C'era amarezza. Voglia di dimenticare. E presa d'atto che anche il Paese voleva evidentemente fare altrettanto in quegli anni del dopoguerra. A volte neppure i famigliari vennero messi a conoscenza di quanto accaduto ai prigionieri. Oggi proviamo a porre rimedio" .

(L'Adige, 9 settembre 2022)

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