Mario Avagliano

Mario Avagliano

Patria, coraggio, illusioni: le parole degli italiani dal fronte

di Fabio Isman 
 
Mica tanto «brava gente»: le lettere degli italiani mandati sui fronti della seconda guerra mondiale ne dimostrano, per un buon tratto, la sostanziale accettazione del conflitto, e di chi l’aveva voluto; le prime resipiscenze, soprattutto sulle sorti belliche, cominciano ad affiorare già verso il tardo 1940 (ma la censura le blocca: non le fa arrivare ai famigliari dei mittenti); e soltanto nelle ultime settimane del fascismo, a metà del 1943, la critica si fa più aperta. Ma prima, è quasi soltanto «vincere e vinceremo», «spezzare le reni alla Grecia », una rivalsa verso le demoplutocrazie (così vengono chiamate, perfino dai teatri di guerra).
Due bravi ricercatori, Mario Avagliano e Marco Palmieri, hanno scandagliato ogni possibile fonte, anche tra le missive che la censura ha stoppato, e ne hanno tratto un compendio e un campionario assai ricchi e doviziosi: 375 pagine d’un libro (Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte, 1940-1943 Il Mulino ed.) che si legge tutto d’un fiato, e racconta tante singolarità.
 
L’«ora delle decisioni irrevocabili» affascina molti, e reprime ogni dubbio: anche se gli aerei, come il trimotore Savoia-Marchetti, sono solo «scatole di sardine»; anche se mancano i carri, e si va in regioni fredde vestiti di tela. Ma «tra pochi mesi sarò accanto a te»: l’italiano è ancora poco diffuso. L’attimo dell’attacco è solenne; lo è anche per Genserico Fontana, ufficiale dei granatieri che a Campo Imperatore, a luglio ’43, custodirà Mussolini a Campo Imperatore; e poi, terminerà la vita alle Fosse Ardeatine.
ANGOSCE
Si cerca di tranquillizzare chi sta a casa; dopo, saranno le angosce perché la guerra è arrivata anche nella Penisola. Se si racconta troppo, la lettera non arriva. Quando si limita soltanto alle speranze e agli slogan, invece sì. «Arriverà il giorno in cui le nostre forze e il nostro ardimento vendicheranno i nostri morti e feriti». Sarà una prolungata illusione: in Africa, in Grecia, e perfino in Russia. Caldo, «pidocchi, l’eterna scatoletta e galletta, i due litri di acqua al giorno che talora puzzano di benzina» non bastano, a lungo, per la presa di coscienza. L’Inghilterra resta la «oscena mantenuta col sangue e l’oro altrui», perché tanto profondo è stato l’indottrinamento. Anche dalla prigionia, sono in pochi ad ammettere che «sono trattato benissimo e ben curato; gli inglesi sono gentili, mi trattano in guanti bianchi, meglio degli italiani» (ma a casa non leggeranno). Va avanti così, magari con «i rossi cui far vedere i sorci verdi», fin quasi alla vigilia della disfatta: il soldato crede di essere il milite di uno scontro tra civiltà. E la sua, s’intende, è quella «giusta»: deve «imporsi ». 
Fino al 1943, i tedeschi sono «camerati» affidabili. In Russia è la svolta. «La morte è in agguato ad ogni angolo», scrive il tenente geniere Ezo Gilardino: l’indomani, non ci sarà più. Drammatici i racconti dal «generale inverno»; non ce la fa più a contenerli perfino la stessa diga della censura. 
Chi era partito con entusiasmo e convinzione, li perde. Arriva ormai ben altro, dai fronti, che gli
slogan di pochi anni prima. Non è soltanto la voglia, sempre più prorompente, di tornare a casa: comincia già l’antifascismo. Il generale Giulio Tamassia scrive che «fa impressione questo abbandono improvviso di tutti i più accesi sostenitori del fascismo»: anche dalle ceneri di una guerra assai mal combattuta, dalle sofferenze di mille soldati assai mal in arnese, sta nascendo la nuova Italia.
 
(Il Messaggero, 13 gennaio 2015)

Fascisti e contenti: tutti gli italiani vollero la guerra del Duce

La recensione di Sololibri.net
 
di Felice Laudadio
 
10 giugno 1940: la notizia delle decisioni irrevocabili entusiasma la Nazione intera, inconsapevole dell’orrore che avrebbe affrontato, debole e impreparata. Ma quell’ora segnata dal destino aveva tanti padri e tante madri, non solo Mussolini. La folla plaudente sotto il balcone di Piazza Venezia condivideva appieno la scelta di regolare i conti con le potenze demoplutocratiche che avevano mutilato la vittoria italiana del 1918. E se non era il dispetto per Francia e Inghilterra a giustificare l’approvazione, era la convinzione che Hitler aveva ormai piegato gli anglofrancesi e avrebbe fatto sua tutta l’Europa, quindi meglio stare dalla sua parte.
Gli italiani si erano cacciati in un guaio e di lì all’estate 1943 avrebbero perso la guerra delle armi (le nostre, superate e insufficienti) ma vinto quella della memoria, con la rimozione dell’entusiastico sostegno all’alleanza coi tedeschi. Lo spiegano, indagando sulla corrispondenza dei nostri militari, il giornalista Mario Avagliano e il saggista Marco Palmieri, autori di un saggio storico ampio ma accessibile, edito da il Mulino: “Vincere e vinceremo. Gli italiani al fronte 1940-43”, 376 pagine 25 euro.
 
Le lettere di soldati, graduati e ufficiali rappresentano una fonte di prima mano per verificare il consenso. Una mole ingentissima, una vera alluvione, quasi 9milioni 300mila nel solo primo anno. Per uomini di ogni età, di tutta Italia, di qualsiasi livello culturale e sociale, comunicare con mogli, fidanzate, genitori, parenti, amici, madrine di guerra era una necessità primaria, come il rancio, come le munizioni, come la vita stessa.
La guerra della memoria, per Avagliano e Palmieri, è quella guerra civile del ricordo, delle celebrazioni e degli studi, che ha dirottato l’attenzione sulla lotta di liberazione, mettendo in ombra l’adesione alle guerre fasciste, come se non facessero parte della storia nazionale e non vi fosse stata una fervida partecipazione popolare alle politiche aggressive del regime. Come se avessero subito l’oppressione mordendo il freno. Questo vale per il 1944 e ancora più per il 1945, ma non certo per gli anni fino al 1940, quando il piglio guerrafondaio mussoliniano eccitava militari e civili ed era sostenuto da tutti, per primi gli industriali e compresi i cattolici.
Nelle lettere, con sorpresa anche per la censura, l’adesione al fascismo e al conflitto risultano l’atteggiamento prevalente, insieme alla convinzione in buona fede della bontà della causa per cui si combatteva. I militari lontani sembrano nonostante tutto più motivati dei connazionali a casa, soggetti a disagi e privazioni meno facili da accettare, per non dire dell’effetto demoralizzante dei bombardamenti dell’aviazione alleata sulle città.
La guerra, del resto, quale atto eroico per difendere la Patria, la famiglia ed anche la fede cristiana, era stata inculcata dal regime in generazioni di italiani dalle scuole elementari. Concetto ben accolto anche dalla Chiesa, ribadito dall’oratorio al catechismo, finanche dal pulpito. È da sfatare, quindi, l’opinione che il consenso al fascismo declinasse presto tra i militari. Nel 1940 era certamente plebiscitario, poi perse intensità lentamente – decadde più rapidamente tra i civili, si è detto – lo dimostrano le sincere attestazioni di fiducia nella vittoria finale e nelle italiche ragioni.
I contenuti epistolari documentano che la svolta si è avuta solo alla vigilia della fine del ventennio (25 luglio 1943). Sul Mussolini ha sempre ragione si era abbattuta l’esperienza devastante in Russia, l’ennesima tragica constatazione della debolezza del nostro apparato bellico (mancavano cannoni capaci di fermare i carri armati medi) e della violenza razzista dei tedeschi. Eppure il regime aveva fatto di tutto per nascondere i pochi sfiniti reduci dalla ritirata nelle steppe. Era riuscito quasi fino in fondo ad oscurare la verità.
Lo stesso esito, mascherare i fatti - sia pure perseguendo un risultato di segno opposto: regalare una patente antifascista alla maggioranza degli italiani - è stato conseguito dalla rimozione nazionale dell’altra verità: fino a poco prima erano stati tutti fascisti e contenti.
 
(Sololibri.net del 15 gennaio 2015)

Shoah, ecco i disegni dell'orrore

di Mario Avagliano
 
Sulla difficoltà di raccontare l'orrore dei lager, si sono esercitati in passato diversi storici, qualificati sociologi e gli stessi ex deportati. C'è un confine delicato e invalicabile tra ciò che riesce ad esprimere la parola orale o scritta e ciò che invece è per sua natura "indicibile". Ma dove non arriva la parola, possono soccorrere i disegni di chi ha vissuto l'inferno dei campi di concentramento, che "hanno la forza cruda dell'occhio che ha visto e che trasmette la sua indignazione". 
Così scriveva nel 1981 Primo Levi nella prefazione al lavoro di ricerca di questa preziosa documentazione visiva sui lager nazisti condotto dal ragionier Arturo Benvenuti, originario di Oderzo, bancario di professione e per hobby poeta e pittore. Una raccolta straordinaria, rimasta praticamente inedita per trent'anni, e che solo ora, in occasione del settantesimo della liberazione di Auschwitz e alla vigilia della Giornata della Memoria, vede finalmente la luce in libreria, con il titolo "K.Z. Disegni degli internati nei campi di concentramento nazifascisti" (edizioni BeccoGiallo, pp. 272, euro 26), a cura di Roberto Costella. Una parte di questi disegni sarà esposta per un mese a Roma, in una mostra aperta al pubblico, presso la Libreria Fandango, dal 27 gennaio al 27 febbraio. 
 
Nel settembre 1979, il cinquantaseienne Benvenuti si mise in viaggio con la moglie a bordo di un camper per una sorta di via crucis, di pellegrinaggio laico e riparatore lungo le "stazioni" di Auschwitz, Terezín, Mauthausen-Gusen, Buchenwald, Dachau, Gonars, Monigo, Renicci, Banjica, Ravensbrück, Jasenovac, Belsen, Gürs, visitando archivi, musei, biblioteche del Vecchio continente, incontrando decine di sopravvissuti, recuperando testimonianze perdute e fotografando centinaia di disegni, per lo più realizzati dagli internati negli stessi lager con spezzoni di matita e su fogli di fortuna, qualcuno dipinto dai superstiti nell'immediato dopoguerra o da chi entrò nei campi come liberatore e volle fermare la memoria su carta. 
Ne nacque un volume concepito come un "frammento di memoria universale", al quale Primo Levi eccezionalmente concesse l'onore della prefazione. All'epoca Benvenuti lo stampò fuori commercio in poche centinaia di copie e meritoriamente oggi viene pubblicato e messo a disposizione di un pubblico più vasto. 
Dai bozzetti, le ombre, i chiaroscuri delle 250 opere in bianco e nero selezionate con cura e passione da Benvenuti, emerge il quadro grigio e desolante della vita, anzi della non vita di uomini e donne di tutte le nazionalità in quel particolare microcosmo, dominato dall'annullamento di ogni tratto di umanità e dall'incubo perenne e incombente della morte. 
Si resta colpiti soprattutto dal fatto che le figure dei deportati sembrano sospese nel nulla, in un'atmosfera irreale, quali fantasmi scheletrici indistinguibili, che vagano come ombre tra le baracche, non di rado con i lineamenti deformi o deformati o ancora coprendosi il volto con le mani. Un'umanità dolente e senza identità, accatastata nei campi, privata della libertà e della dignità, ridotta in schiavitù dalla terrificante macchina dello sterminio messa in piedi da Adolf Hitler, con il suo apparato di carcerieri delle SS e cani ringhianti. 
Benvenuti, che oggi ha 91 anni, nell'introduzione afferma che il libro costituisce "un contributo alla giusta 'rivolta' da parte di chi sente di non potersi rassegnare, nonostante tutto, ad una realtà mostruosa, terrificante". Quello dei prigionieri artisti fu insomma un tentativo di resistere all'orrore (i disegni venivano nascosti e gli autori rischiavano la vita) e anche di testimoniare a futura memoria ciò che è stato, senza "vuote parole, senza retorica". Contro chi avrebbe cercato, come poi purtroppo è avvenuto, di cancellare, negare, mistificare, minimizzare. Con la forza dell'arte e del documento visivo, di fronte al quale davvero viene da pensare e da chiedersi, citando l'opera più famosa di Primo Levi, "se questo è un uomo".
 
(Il Mattino, 25 gennaio 2015)

 

Quando eravamo fascisti

(Mario Avagliano – Marco Palmieri, Vincere e vinceremo!, Il Mulino, Bologna, 2014) 
 
di Andrea Rossi
 
Avagliano e Palmieri proseguono il lavoro di scavo nella storia dell’Italia fascista, e dopo aver illustrato nel loro precedente studio quanto fossero diffusi e radicati gli stereotipi razzisti nel nostro paese, gettano ora una luce sinistra sul “comune sentire” degli italiani durante il secondo conflitto mondiale, attraverso l’indagine della corrispondenza inviata da tutti i fronti di guerra dal 1940 al 1943. L’affresco che ne emerge è impietoso, fin dal titolo, quel “vincere e vinceremo” con cui decine di migliaia di italiani chiudevano le proprie missive dall’Africa come dalla Russia o dai Balcani; una locuzione che nessuno obbligava a inserire nella propria corrispondenza privata, e che rivela quanto gli italiani in larghissima parte fossero entusiasti dell’entrata in guerra del paese, mutuando spesso dalla propaganda fascista i temi e la retorica. 
 
Il mito del presunto e progressivo distacco dal regime mussoliniano fin dai primi rovesci sul fronte albanese e africano, è ampiamente smentito dall’accurata indagine degli autori: i nostri soldati combatterono, soffrirono e morirono non per un Italia qualsivoglia, ma per l’Italia fascista, come emerge da un numero impressionante di lettere; la fede nella vittoria restò inscalfibile almeno fino alla fine del 1942, così come l’adesione totale alle versioni di comodo della propaganda ufficiale: su tutto ci restano impressi gli scritti dei componenti del nostro corpo di spedizione in Unione sovietica, i quali, più che manifestare entusiasmo per sopravvissuti all’inverno russo, parevano realmente convinti di aver assestato durissimi colpi all’armata rossa, tanto da attendere nel giro di qualche mese il crollo del regime comunista. 
Se già in diversi studi dell’ultimo decennio si era ben compreso che la nostra occupazione nei Balcani era stata tutt’altro che “allegra”, impressionano le narrazioni delle operazioni contro i partigiani di Tito, da cui emerge un abbruttimento morale delle nostre truppe davvero sconcertante; così come lascia sgomenti l’insensibilità diffusa alla sofferenza delle popolazioni civili vittime della nostra brutalità. 
Se il 1943 è l’anno di svolta delle vicende belliche, i segnali di insofferenza diffusa iniziarono a comparire soltanto dopo la catastrofe nel teatro di guerra dell’Africa settentrionale e – soprattutto – dopo il rientro dei reduci dalla campagna di Russia; comunque, ancora dopo la caduta del regime, una consistente minoranza delle nostre forze armate restava convinta della necessità di proseguire a oltranza la guerra assieme ai nazisti, confermando come le motivazioni di molti dei futuri aderenti alla RSI fossero preesistenti all’armistizio dell’8 settembre. 
In conclusione, il lavoro di Avagliano e Palmieri si rivela fonte preziosa per arricchire il dibattito storico attorno alla guerra degli italiani, sfrondandolo da versioni oleografiche che, davvero, a settant’anni dalla fine del conflitto non hanno più ragione di esistere; fa riflettere semmai come il mito degli “italiani brava gente” è tuttora duro a morire. Evidentemente l’autoassoluzione collettiva è una delle scorciatoie per affrontare il passato. E anche il presente.
 
(Orientamenti Storici, 26 gennaio 2015)
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