Internati italiani, nuovi documenti

di Dino Messina

   Il soldato Raffaele Uccellari, originario di Montemarciano, in provincia di Ancona, venne catturato dai tedeschi il 15 settembre 1943 a Rodi, dopo l’armistizio dell’8 settembre, e deportato in uno dei Lager nell’attuale territorio della Bielorussia, allora in mano ai nazisti. Raffaele era uno di quei tanti soldati italiani che non avevano accetato di collaborare con l’ex alleato e per questo assieme a migliaia di commilitoni venne deportato nei campi dove gli Imi (Internati militari italiani) erano posti al gradino più basso della gerarchia di reietti, venivano solo prima degli ebrei, al pari degli zingari, e dopo i prigionieri russi. Il loro compito era lavorare fino allo stremo e quando venivano considerati inservibili finivano in una fossa. Per Raffaele Uccellari e altri dodicimila internati le pene non ebbero termine con la liberazione. Alcuni riuscirono a fuggire, altri si affidarono alle sicure mani degli Alleati, altri ancora furono presi in consegna a paritre dal 1944 dai sovietici e portati in altri campi di prigionia all’interno della Russia: alcuni vennero rilasciati tra il ’45 e il ’46, circa undicimila rientrarono nel 1954, assieme a diecimila prigionieri dell’Armir. Un migliaio di internati non sopravvisse alla seconda prigionia.

Leggiamo questa storia nel bel saggio che Maria Teresa Giusti ha pubblicato su “Ventunesimo secolo”, la rivista diretta da Gaetano Quagliariello, come introduzione a parte dei documenti tradotti e editati che furono donati il 30 novembre 2009 dal presidente Bielorusso Aleksander Lukasenko al premier italiano Silvio Berlusconi in visita di Stato a Minsk. Tra i faldoni c’erano un paio di elenchi di prigionieri nei campi della regione di Glubokoe, a Nord del Paese, e di Grodno, ai confini con la Polonia. Interessanti sono soprattutto le interviste a testimoni locali raccolte tra il 1964 e il 1965 e custodite negli ex archivi del kgb di Misk. Un ritratto toccante sulle condizioni di vita dei prigionieri italiani, malnutriti, malvestiti, costretti a scavare le trincee dove restavano come vittime inermi o fucilati accanto ai prigionieri russi in fosse comuni.

(lanostrastoria.corriere.it 29 luglio 2012)

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Storie - I dimenticati dell'8 settembre

di Mario Avagliano

L’8 settembre 1943 non è una data qualsiasi del calendario della memoria dell’Italia. Settant’anni fa l’annuncio dell’armistizio segnò davvero una svolta, aprendo la strada al riscatto di una nazione che aveva conosciuto vent’anni di dittatura fascista, la soppressione delle libertà politiche e civili e le leggi razziali, e si era alleata con la Germania di Adolf Hitler.
Anche in questo anniversario, si è parlato troppo poco della vicenda dei circa 650 mila internati militari italiani che rifiutarono di aderire alle SS tedesche e poi all’esercito della Rsi del redivivo Mussolini, pagando la loro scelta con il campo di concentramento, il lavoro obbligatorio e, a volte, con la morte, a seguito degli stenti, delle malattie, della fame o del comportamento brutale dei carcerieri tedeschi.

Eppure la loro fu una scelta di resistenza, un tentativo di salvare l’Italia, di non farla tornare ad essere “una semplice espressione geografica”, restituendole un ”governo democratico”, come chiarisce uno di loro, il sottotenente friulano degli Alpini Giovanni Malisani, in una pagina del suo diario dell’epoca, che sarà presentato il prossimo 20 settembre a Udine.
Un’altra storia poco conosciuta è quella dei militari italiani prigionieri nei campi degli Alleati che all’indomani dell’armistizio decisero, non senza difficoltà ed ostacoli da parte degli angloamericani, di cooperare alla lotta per la libertà. Così commentava la fine della guerra uno di loro, il calabrese Antonino Corigliano, da un campo di prigionia in India, nel suo taccuino pubblicato dal figlio Gregorio (I diari di mio padre 1938-1946, Luigi Pellegrini Editore): “Le forze del bene hanno trionfato su quelle del male, schiacciando i serpenti che, con le loro spire, tentavano di stritolare le potenze amanti della pace, del lavoro e della libertà. Ed a fianco di questi popoli forti e vittoriosi, ha marciato in 20 mesi di lotta il popolo italiano, togliendo una parte di quel fango che ci era stato gettato, da parte di un regime d’oppressione e di falsità”.

È proprio grazie agli internati militari, ai cooperatori, alle forze armate del ricostituito esercito italiano del Regno del Sud, ai deportati politici e, naturalmente, ai partigiani (tra i quali ci furono tantissimi ebrei), che l’8 settembre non fu la data della vergogna o della morte dell’Italia, bensì della sua rinascita.
Ma l’armistizio, come ha sottolineato giustamente Anna Foa, a seguito dell’occupazione tedesca e della politica razzista della Repubblica Sociale di Mussolini, nelle regioni del centro-nord segnò anche il tragico passaggio dalla persecuzione dei diritti alla persecuzione delle vite degli ebrei. Alla quale collaborarono molti loro connazionali italiani, così come avevano fatto al tempo dell’applicazione delle leggi razziali. Anche questo va ricordato.

(L'Unione Informa e il portale moked.it del 10 settembre 2013)

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