Storie – Stati Uniti 1938, una nuova terra promessa

di Mario Avagliano

Nelle pieghe della memoria, per molti versi sbiadita, delle leggi razziali in Italia, è conservata una vicenda individuale e collettiva: l’emigrazione forzata di circa duemila ebrei italiani negli Stati Uniti. Professori universitari, medici, avvocati, scienziati, giornalisti, artisti ma anche gente comune, costretti dai provvedimenti persecutori ad abbandonare la patria che li aveva disconosciuti come cittadini e a rifarsi una vita al di là dell’Oceano Atlantico, spesso ottenendo prestigiosi riconoscimenti. Dai premi Nobel Salvador Luria e Franco Modigliani all’architetto Giorgio Cavaglieri, dall’artista Leo Castelli al musicista Mario Castelnuovo Tedesco, dal cardiologo Massimo Calabresi al fisico Emilio Segrè e ai manager Giorgio Padovani, Giorgino Funaro ed Enrico Pavia. Il loro dramma è stata ricostruito nel libro America nuova terra promessa. Storie di ebrei italiani in fuga dal fascismo (Francesco Brioschi editore, pp. 192) di Gianna Pontecorboli, giornalista italiana che vive a New York e collabora con il Centro Primo Levi.
Attraverso le interviste ai testimoni e ai loro parenti, la Pontecorboli racconta la corsa ad ostacoli per ottenere il visto per l’America (impresa non facile, anche per l’opposizione di un potente funzionario americano, Breckinridge Long, ex ambasciatore a Roma e ammiratore di Mussolini), l’impatto con il nuovo continente, che non sempre li accetta bene, il legame indissolubile con l’Italia, l’adesione di molti di loro alla causa dell’antifascismo (ad esempio nell’ambito della Mazzini Society), il contributo dato alla Liberazione del nostro paese e al processo di ricostruzione ma anche la decisione della maggior parte di quegli italiani traditi di restare negli Stati Uniti, la nazione che aveva dato loro la possibilità di una vita dignitosa e senza persecuzioni. Una pagina di storia importante anche per comprendere, come scrive Furio Colombo nell’introduzione, le responsabilità dell’Italia e degli italiani non ebrei, senza indulgere, come si continua a fare, nell’auto-assoluzione. Tanto più in vista del 75° anniversario delle leggi razziali del novembre 2013.

(L'Unione Informa e portale Moked.it, 6 agosto 2013)

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Il narciso Curzio Malaparte, camaleonte dalle mille vite

di Mario Avagliano

Aveva fatto costruire una villa a Capri su un irto promontorio roccioso a picco sul mare e l’aveva battezzata «Casa come me». Qui nel 1944 Curzio Malaparte spesso incontrava Palmiro Togliatti oppure venivano a trovarlo alcuni giovani comunisti di Napoli, come Giorgio Napolitano, Eugenio Reale, Velio Spano. Ma a giugno, liberata Roma, Mario Alicata impose l’alt alla frequentazione, a causa dei trascorsi fascisti dello scrittore. È uno degli episodi inediti della vita del grande autore di Kaputt, di Tecnica del colpo di Stato e de La pelle raccontati nella monumentale biografia di Maurizio Serra, Malaparte. Vite e leggende, edita l’anno scorso in Francia e pubblicata ora anche in Italia per i tipi della Marsilio (592 pagine, euro 25). Un aneddoto rivelato proprio da Giorgio Napolitano, nel colloquio con Serra che chiude il volume.
Forte di testimonianze di prima mano e di una vasta documentazione d’archivio, tra cui i rapporti della polizia francese e alcune lettere di Henry Miller e di Céline, Maurizio Serra, ambasciatore italiano all'Unesco, ma anche storico della cultura, ne traccia un profilo esaustivo, in cui lo scrittore toscano, originario di Prato, appare da un lato un intellettuale «di respiro autenticamente internazionale», d’altro canto un «Narciso intriso della tragicità del mondo», un dandy gelido, anzi quasi «minerale», per il quale l’Io è il solo faro nella notte, e conta più di ogni cosa. Più delle donne e più della politica. Nazionalista e cosmopolita, pacifista e bellicista, élitario e populista, scrittore politico dalla nitida scrittura e romanziere dall’immaginazione barocca, arcitaliano e antitaliano, talvolta un po’ ciarlatano (scrisse e riscrisse più volte la sua autobiografia, farcendola di menzogne), Kurt Erich Suckert, divenuto dopo il 1925 Curzio Malaparte, non finisce di sconcertarci per la sua modernità e per le sue continue sfide a ogni convenzione. Ma Malaparte è anche un camaleonte dalle mille vite. E come altrimenti definire un intellettuale che fu interventista combattente nella Grande Guerra, sostenne con entusiasmo il fascismo rivoluzionario totalitario, ma al tempo stesso era amico di Piero Gobetti. Uno che diresse a soli 30 anni La Stampa, dalla quale fu cacciato perché ebbe una relazione con Virginia Agnelli, testimoniò in favore degli assassini di Matteotti, lodò Mussolini e i suoi gerarchi finché furono al potere, per poi denigrarli e presentarsi come un perseguitato dal regime dopo la caduta del fascismo, dichiarando a Togliatti nel 1944 che il comunismo era stato «motivo dominante di tutta la mia attività intellettuale». Né le giravolte politiche di Malaparte cessarono allora. Dopo il 1946 divenne anticomunista, denunciò il «fascismo degli antifascisti» e fu accanito supporter di Alcide De Gasperi alle elezioni del 1948. Concludendo la sua esistenza terrena nel 1957, esaltando Mao e il comunismo cinese, accettando la tessera del Pci, e in punto di morte forse convertendosi (come sostenne padre Lombardi) alla Chiesa cattolica. Malaparte disse, e la frase fa da sottotitolo al saggio di Serra, «Perderò a Austerlitz e vincerò a Waterloo». E in effetti, dopo la sua riscoperta in Francia, dove l’anno scorso gli sono stati dedicati appassionati convegni e il saggio di Serra ha vinto il Prix Casanova e il Prix Goncourt de la Biographie, ora lo scrittore toscano vive il suo momento di rinnovata gloria anche in Italia. Perché, come afferma Serra, esistono «molte ragioni, tutte legittime, per non amare Malaparte, uomo, scrittore e personaggio. Ma nessuna per negargli un posto di primo piano tra gli interpreti più singolari di un ventesimo secolo le cui inquietudini si prolungano nel nostro», profetizzando in anticipo la decadenza dell’Europa.

(Blog Mario Avagliano, 15 dicembre 2012, @ diritti riservati)

La fabbrica del consenso. Il libro sul falso mito di Mussolini nelle lettere degli italiani

di Mario Avagliano

Nella storia d’Italia non vi è stato un uomo politico così passionalmente e visceralmente amato (ma anche così detestato) come Benito Mussolini. Il duce, come lui stesso si definì, ha segnato un’epoca, tracciando la strada del totalitarismo fascista in Europa e nel mondo, che da Hitler a Franco e ai dittatori sudamericani, tanti emuli avrebbe avuto nel Novecento. Durante il Ventennio, la fabbrica del consenso messa in piedi dal regime si concentrò nell’esaltazione di Mussolini, avvolgendo la sua figura di un alone di divinità e di immortalità (anche grazie ai numerosi attentati a cui era sopravvissuto), oltre che del crisma dell’infallibilità, in coerenza con l’architettura para-religiosa del fascismo.
La penetrazione capillare del mito del duce nelle menti e nel cuore degli italiani è testimoniata dal corpus straordinario (anche nei numeri) di lettere, cartoline, telegrammi a lui diretti che è conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato e che costituisce l’oggetto del libro «Duce! Tu sei un Dio!» (Baldini & Castoldi, pp. 320, euro 16,90) di Alberto Vacca, che ne propone un’accurata e intelligente selezione antologica, suddivisa cronologicamente dal 1932 al 1943 e per temi e suggestioni.

In modo singolare, lo stesso Mussolini denominò «Sentimenti per il duce» la serie dei fascicoli che raccoglieva questo tipo di corrispondenza. E in effetti il sentimento è la cifra prevalente di queste missive, che rappresentano un termometro attendibile di quel che pensavano milioni di italiani dell’epoca del duce. Gli aggettivi e le definizioni altisonanti accostate al suo nome e alla sua figura si sprecano, a volte con ricchezza espressiva, a volte con l’eccesso di retorica del tempo: «amatissimo», «sommo», «buono, grande, sapiente, intelligente e generoso», «augusto», «magnifico», «Prode», «Giusto», «santo», «benedetto». In percentuale a scrivere di più sono le donne, che, come rileva Vacca, subirono in modo particolare il fascino del duce («ti amo tanto, più di me stessa […] ardo dal desiderio di conoscerti», scrive una diciassettenne). Ma molte lettere sono anche di sacerdoti o monaci, e numerosi bambini e adolescenti, sull’onda del coinvolgimento emotivo delle organizzazioni giovanili di regime, delle sfilate, del mito della romanità e dell’Impero.
I toni delle lettere, lo stile di scrittura (ufficiale o informale), la qualità stessa dei messaggi variano a seconda della personalità del mittente, dell’estrazione sociale e del suo livello di istruzione. Ed è davvero impressionante in questa antologia la ripetitività del concetto di investitura divina del duce – giustamente ripreso nel titolo del libro – da parte dei mittenti delle più varie categorie sociali e classi anagrafiche. Questo è un elemento conosciuto ma spesso sottaciuto dalla storiografia, anche se non sorprendente, visto che lo stesso papa Pio XI, dopo la firma del Concordato del 1929, definì Mussolini «l’uomo della Provvidenza» che era riuscito a ridare «Dio all’Italia e l’Italia a Dio».
È interessante esaminare quali altre rappresentazioni abbia avuto la figura del duce nell’immaginario degli italiani. Vacca ha individuato tre ulteriori importanti categorie: il «Salvatore d’Italia», al quale affidare ciecamente le chiavi del destino della Patria; il «Difensore della civiltà romana e cristiana», «Artefice della Conciliazione fra la Chiesa e lo Stato»; e almeno fino al 1939-1940, l’«Angelo della pace». L’approvazione a Mussolini continuò anche duranti gli anni della guerra mondiale e perfino in quel 1943 che segnò la fine del suo regime. Ancora in aprile un domenicano chiamato in servizio come cappellano militare gli mandava a dire: «Sei il nostro Padre. Noi ti amiamo e siamo pronti a dare la vita per Te. Tu sei la Patria che crede, combatte e vincerà».
Certo, nel corso del Ventennio, i sentimenti degli italiani non furono unanimemente improntati al consenso a Mussolini. L’adesione dell’opinione pubblica al fascismo fu altissima ma non monolitica. Lo stesso Vacca, in un altro saggio, Duce truce, ha analizzato e antologizzato le lettere dei critici del fascismo. Una minoranza di italiani, anche se più consistente di quanto si possa pensare. Peraltro, dopo il primo anno di guerra, a seguito dei rovesci militari sui vari fronti esteri e delle pesanti difficoltà economiche, anche il popolo che aveva mitizzato Mussolini iniziò a interrogarsi su di lui. Ma le menzogne della propaganda dell’epoca sulle sue capacità quasi divine, il suo buonismo, la sua generosità, hanno attraversato il lungo dopoguerra repubblicano e sopravvivono tuttora nel sottostrato di ampie fasce dell’opinione pubblica. Il duce resta quindi una presenza ingombrante, con cui il nostro Paese non ha ancora fatto del tutto i conti. Questo libro contribuisce a svelare le ragioni di fondo della longevità del mito di Mussolini e della sua eredità scomoda e pesante.

(Il Messaggero, 19 settembre 2013)

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Diario proibito. L'Aquila anni Quaranta e la RSI

di Mario Avagliano

Quando mi è stato proposto di scrivere la prefazione per il romanzo storico di Mario Fratti, Diario Proibito. L'Aquila anni Quaranta (grauseditore), ambientato all’epoca della Repubblica Sociale e del primo dopoguerra, ho provato molta curiosità. Cosa spingeva un drammaturgo di fama mondiale, che vive dal 1963 a New York, vincitore di ben sette “Tony Award” (l’Oscar del teatro), autore di decine di opere, spesso a fondo sociale, rappresentate in tutti i teatri del mondo (tra i quali il musical Nine, liberamente ispirato al film 8½ di Federico Fellini, che ha superato la cifra record di duemila repliche), a ripescare dai cassetti un testo scritto negli anni Cinquanta? Pagina dopo pagina, ho capito che Fratti, al pari di quanto fatto in alcune sue opere teatrali (da Tangentopoli a Mafia), in questo suo primo (e per ora unico) testo narrativo, con il suo stile crudo, privo di pudicizia, che spesso colpisce duro alla testa come una sassata, fatto di dialoghi serrati e di frasi secche come fucilate, aveva un intento di denuncia. Sotto tiro c’è l’Italia di ieri e di oggi. L’Italia complice di Mussolini e del nazismo, delle sue violenze e delle sue bestialità. L’Italia che non ha mai epurato i fascisti, anzi li ha riciclati nei posti di comando. L’Italia che tuttora stenta a fare i conti con il Ventennio e con Salò, propagandando il mito di un fascismo buono.
Siamo nel dopoguerra inoltrato. Il protagonista del romanzo è un giovane adulto, impiegatuccio senza infamia e senza gloria, che vivacchia in quel di Venezia, affittuario di una camera nell’appartamento di due donne sole, ossessionato in modo quasi compulsivo dal sesso, solitario o a pagamento. La febbre lo costringe a restare a casa e mentre mette in ordine una vecchia valigia dei documenti, spunta fuori un quaderno dalla copertina scura: il suo diario proibito e dimenticato. Fogli di quando, imberbe sedicenne, aveva aderito a Salò, anche per lo sfizio di vestire la divisa lucida da soldato e uscire armato con una scintillante pistola nella fondina. Fogli vecchi che puzzano, in ogni senso, non solo all’olfatto, e che se qualcuno li avesse trovati nel ’45, avrebbero provato che chi li aveva vergati era un ufficiale “nero”. La scelta dell’io narrante e della sua identificazione nell’adolescente fascista (al quale Fratti arriva addirittura ad attribuire la sua età dell’epoca e il suo nome, Mario) a primo acchito è spiazzante e imbarazza chi legge. L’autore, abruzzese di nascita, come ha spiegato nell’introduzione, utilizza per costruire la sua storia molti ricordi autobiografici ma in realtà già da ragazzo era tutt’altro che seguace di Mussolini. Era animato da vividi sentimenti antifascisti e i suoi amici del cuore erano i partigiani che poi vennero chiamati i “Nove Martiri di L’Aquila”, anche se lui non trovò il coraggio di seguirli in montagna. Tuttavia, man mano che il romanzo va avanti, l’identificazione tra l’autore e il ragazzo di Salò (poi adulto) protagonista della storia mostra tutta la sua potenza evocativa. All’imbarazzo iniziale del lettore, subentra la vergogna. È come guardarsi allo specchio e non piacersi, anzi provare disprezzo per se stessi. È come guardare allo specchio, da italiani, una pagina di storia che abbiamo voluto dimenticare (e che qualcuno addirittura vuole equiparare alla Resistenza), e che invece Fratti ci costringe a rimestare. Inchiodandoci, senza possibilità di scampo, alla lettura di torture, vessazioni, violenze di ogni tipo che subiscono gli oppositori politici, le donne, tutti coloro che finiscono nelle grinfie del Comando di Presidio fascista guidato da un maggiore che per il suo sadismo e il suo opportunismo ricorda da vicino gli aguzzini della banda Koch. Il panorama del collaborazionismo fascista dipinto da Fratti è putrido e fosco. Le pagine del romanzo sono affollate da puttane, delatori, spie, approfittatori, antisemiti o gente che è pronta a mutare atteggiamento verso i fascisti o i ribelli a seconda dell’andamento della guerra. Un panorama che fa ribrezzo, ma di cui vi sono numerose testimonianze storiche. D’altronde Fratti, proprio all’epoca della stesura del romanzo, si era documentato sulle violenze fasciste ai partigiani, per scrivere il radiodramma “Il nastro”, vincitore del premio Rai ma mai trasmesso alla radio. Certo, va detto che non fu sempre così: la Repubblica Sociale non fu solo un covo di violenti, sadici o opportunisti. Ci fu chi, pur nell’errore della scelta, mantenne un contegno dignitoso e aderì alla Rsi in buona fede oppure facendosi gabbare dalla propaganda fascista e nazista che, come è descritto bene nel romanzo, fece di tutto per alimentare l’odio verso gli Alleati. Sullo sfondo, e neppure tanto sullo sfondo delle pagine di Fratti, emerge anche un’altra Italia, quella dei partigiani animati da amor di patria che resistono fieri alle torture e di chi si oppone con coraggio alla barbarie nazista e fascista. Italiani che, in qualche modo, colpiscono anche il ragazzo di Salò, che a volte simpatizza con loro ma, fino alla fine, mai trova la forza di emanciparsi dall’influenza magnetica e dal condizionamento psicologico del maggiore. Il romanzo si conclude con un pugno nello stomaco, nel pieno degli anni Cinquanta. L’ex ragazzo di Salò, ora impiegatuccio, torna al lavoro dopo la malattia e rivela l’identità del suo capo: il maggiore fascista, diventato ricco imprenditore, che forse ha goduto dell’amnistia Togliatti e nell’Italia che si avvia verso il miracolo economico finanzia in parti uguali Msi e Dc, frequentando i comitati civici anticomunisti e le sacrestie. Il commento amaro finale è: “Qualcosa mi lega ancora a lui. Quello che ho taciuto”. Il silenzio della Storia. Un silenzio che dura ancora oggi. E che lega irrimediabilmente l’Italia fascista a quella del ventunesimo secolo.

(Prefazione al libro di Mario Fratti)

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Storie – Il silenzio sulle leggi razziste

di Mario Avagliano

Settantacinque anni fa, giovedì 17 novembre 1938, il regime fascista varava il Regio Decreto Legge n. 1728, intitolato Provvedimenti per la difesa della razza italiana, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 264 del 19 novembre. Due giorni prima era stato approvato il Regio decreto legge intitolato n. 1779, intitolato Integrazione e coordinamento in unico testo delle norme già emanate per la difesa della razza nella Scuola italiana (GU n. 272, 29 novembre 1938). Proprio in questi giorni, quindi, Benito Mussolini e il suo governo dittatoriale davano il via al pacchetto complessivo delle cosiddette leggi razziali (meglio sarebbe dire razziste).

Il 75° anniversario, però, è passato in Italia quasi sotto silenzio. Le iniziative di ricordo di quei fatti sono state organizzate quasi soltanto in ambito ebraico. A parte la significativa iniziativa del comune di Trieste del 18 settembre scorso, tra le poche eccezioni citerei il convegno “A 75 anni dalle leggi razziali. Nuove indagini sul passato, ancora lezioni per il futuro”, in programma il giorno 10 dicembre 2013, dalle ore 9,30, presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tre (Sala del Consiglio, I piano, Via Ostiense 161). Nel corso dell’incontro verranno presentati i volumi di Michael A. Livingston, The Fascists and the Jews of Italy. Mussolini’s Race Laws, 1938–1943 (Cambridge University Press, 2013) e di Giuseppe Speciale (ed.), Le leggi antiebraiche nell’ordinamento italiano (Patron Editore, 2013).
Tra le rare prese di posizione dei politici, va registrata quella del sindaco di Firenze Matteo Renzi che, nel corso della cerimonia nella sinagoga di Firenze per la consegna della medaglia e dell'attestato di ''Giusto fra le Nazioni'' a Gino Bartali, ha giustamente dichiarato: "Le leggi razziali furono un'atrocità immane, che noi troppo spesso facciamo finta di dimenticare. E' vero che c'è stato il nazismo, è vero che l'ideologia folle nasce da Hitler ma è anche vero che l'Italia fu colpevole di aver proclamato delle leggi razziali che poi entrarono nel vivo della vita quotidiana".
Il 2013 non è ancora terminato. Il mio auspicio personale è che ci siano altre occasioni per riflettere sulla responsabilità dell’Italia e degli italiani in questa pagina nera della nostra storia. Un capitolo col quale dobbiamo ancora fare i conti.

(L’Unione Informa e Moked.it del 19 novembre 2013)

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Storie - L'arte di Bruno Canova e le leggi razziste

di Mario Avagliano

Si può denunciare l’orrore della Shoah, delle leggi razziste del 1938, dei fascismi e della guerra anche attraverso l’arte. Ne è uno straordinario esempio il grande incisore e pittore Bruno Canova, scomparso lo scorso anno, uno dei più importanti esponenti della Scuola romana e pioniere della riflessione autocritica degli italiani su quel periodo storico.

Canova, che nel 1944-1945 era stato prigioniero in Germania per la sua attività partigiana, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta dedicò al tema della responsabilità italiana nella persecuzione degli ebrei e alla tragedia della Shoah delle opere d’arte di grande forza evocativa che oggi, grazie agli studi compiuti dagli storici, appaiono davvero lungimiranti.
A questo ciclo di dipinti, quadri e bassorilievi, alcuni dei quali realizzati con la tecnica del collage, è dedicata una mostra nel museo romano del Casino dei Principi di Villa Torlonia, che sarà inaugurata il 14 dicembre fino al 26 gennaio 2014, dal titolo Bruno Canova. La memoria di chi non dimentica (aperta tutti i giorni, dalle ore 9 alle 19). Consiglio vivamente di non perderla.

(L'Unione Informa e Moked.it del 10 dicembre 2013)

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Canova, quelle urla dal buio trasformate in pittura

di Mario Avagliano

L’arte pittorica ha una forza evocativa di denuncia degli orrori della Storia che spesso travalica le altre forme artistiche, comprese la letteratura e il cinema. Guernica di Pablo Picasso resterà per sempre scolpito nella memoria della cultura occidentale come opera di condanna delle bombe sui civili. Una voce modernissima, eppure in questi suoi aspetti ancora misconosciuta, è quella del grande incisore e pittore Bruno Canova, classe 1925, bolognese di nascita e romano d’adozione (amava la periferia della capitale e aveva scelto di vivere a Centocelle), scomparso lo scorso anno. Al suo straordinario ciclo di opere sul fascismo, le leggi razziste del 1938, la Shoah e la seconda guerra mondiale, sarà dedicata una preziosa mostra nel museo romano del Casino dei Principi di Villa Torlonia, che sarà inaugurata il 14 dicembre fino al 26 gennaio 2014, dal titolo Bruno Canova. La memoria di chi non dimentica (aperta tutti i giorni, dalle ore 9 alle 19).

La mostra, promossa dall’Assessorato alla Cultura del Comune e dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e curata da Maurizio Calvesi, uno dei massimi storici dell’arte viventi, cade significativamente nel 70° anniversario della Resistenza e nel 75° delle leggi razziali. Essa raccoglie una selezione di disegni, quadri e bassorilievi di Canova, che fu uno degli esponenti più apprezzati della cosiddetta Scuola Romana tra gli anni Sessanta e Settanta, frequentando, tra gli altri, Mario Mafai, Alberto Ziveri, Renato Guttuso, Renzo Vespignani, Ugo Attardi, Pier Paolo Pasolini. Arrestato nel 1944 per avere tentato di organizzare un nucleo partigiano a La Spezia e internato in un campo di lavoro tedesco nei Sudeti, Bruno Canova, dopo essere stato testimone in prima persona degli orrori delle dittature e della guerra, adoperò il linguaggio delle arti visive affinché le generazioni future non corressero il rischio di perderne la memoria. Nel lavoro dell’artista hanno dunque importanza particolare le opere dedicate alle leggi razziste del 1938, alla persecuzione degli ebrei e alla Shoah, di intensa forza espressiva e dolente partecipazione, in cui i simboli non sono fredde evocazioni ma testimonianza drammatica di una sofferta capacità di evocare fatti talmente spaventosi da giungere alla soglia dell’indicibile. Come scrive Calvesi nell’introduzione del catalogo, “questo è evidente soprattutto nelle emozionanti tavole trattate a collage e tecnica mista, grandi anche di misura, come urlate da una voce che viene dal buio mai dimenticato, un buio che sa farsi pittura, straordinariamente efficaci nell'uso non formalistico ma anche documentario del collage: degne assolutamente di costituire il nucleo artistico (insieme a pochissimi altri esempi) di un museo dedicato alla memoria della Shoah e agli orrori della guerra”. A questo scopo sono previsti, durante tutto il periodo di apertura, incontri didattici con gli studenti delle scuole della capitale dedicati alle questioni storiche affrontate dalle opere esposte. Il ciclo di opere presentato nella mostra, raccolto e ordinato dal figlio Lorenzo Canova, docente all’Università del Molise, fu eseguito in prevalenza tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta ed è stato portato avanti dall’artista fino al termine della sua vita, dando vita a un libro del 1972 e a una mostra itinerante in moltissime città italiane. In questi lavori Canova unisce la sua formazione di avanguardia, legata alla grafica di Albe Steiner, Max Huber e alla fotografia di Luigi Veronesi, a una personale rielaborazione del collage futurista e dadaista e alla sua vocazione iconica di disegnatore e pittore. Dopo lunghe ricerche storiche, Canova utilizzò manifesti, ritagli di giornale e documenti originali inseriti nel corpo dell’opera, elementi verbali e visivi, campiture quasi informali, disegni e parti dipinte. Dimostrando di essere non solo un artista innovativo ma un pioniere della denuncia delle responsabilità italiane nella vicenda della persecuzione degli ebrei. Una pagina nera della nostra storia ancora dimenticata, che questa eccezionale mostra ci sbatte in faccia con la forza, i colori e l’energia della pittura e dei documenti.

(Il Messaggero, 14 dicembre 2013)

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Storie - L'Eredità su RaiUno e i Mostri della Memoria

di Mario Avagliano

Frequentando le scuole da anni per i miei tour della Memoria, la paradossale scena di qualche giorno fa nel corso della trasmissione “L’Eredità” su Rai Uno, condotta da Carlo Conti, in cui tutti i giovani concorrenti non hanno saputo indicare la data di nomina a cancelliere di Adolf Hitler (1933), scegliendo ciascuno le altre improbabilissime opzioni (1948, 1964, 1979), non mi ha sorpreso più di tanto. Proprio un paio di settimane fa, in una scuola del Lazio, in un’aula magna colma di studenti, ho provato a chiedere la data della marcia su Roma delle camicie nere di Mussolini (1922), dando per scontato che qualcuno la conoscesse, e invece in sala è calato un imbarazzante silenzio.
Carlo Conti ha commentato in diretta: “Sono senza parole. Io farei un ripassino di storia”, e il video dell’Eredità, giustamente, ha fatto il giro dei social network, ricevendo circa 800 mila click su Youtube e suscitando indignazione in molti. Ma indignarsi non basta. L’ignoranza genera mostri della Memoria, come le affermazioni dell’esponente dei Forconi sui banchieri ebrei che egemonizzerebbero il nostro Paese. E’ evidente quindi che la scuola, gli storici, i giornalisti, le associazioni e anche le istituzioni abbiano molto lavoro da fare. Lo stesso Giorno della Memoria va ripensato, in modo meno rituale e stanco, rendendolo più vivo, partecipato, informato. E utilizzando meglio lo strumento libro e l’approfondimento e l’analisi storica. Un segnale positivo lo ha dato il governo varando una norma che, se sarà confermata, come è il mio auspicio, consentirà di detrarre fiscalmente per il 19% l’acquisto di libri nel corso dell’anno per una spesa massima di 2mila euro. Una delle armi che ci resta, è la lettura. Citando Woody Allen: “Leggo per legittima difesa”.

(L'Unione Informa e Moked.it del 17 dicembre 2013)

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