Premio Acqui Storia, “Vincere e vinceremo!” tra i finalisti

di Federica Balza

Arrivano i magnifici sei dell'Acqui Storia, premio che, ancora una volta, propone una rosa vasta e interessante fra cui sarà scelto il vincitore. La Giuria della Sezione scientifica ha scelto i seguenti finalisti: Mario Avagliano - Marco Palmieri, «Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte, 1940-1943», ed. Il Mulino; Riccardo Calimani, «Storia degli ebrei italiani. Nel XIX e nel XX secolo», ed. Mondadori; Antonio De Rossi, «La costruzione delle Alpi. Immagini e scenari del pittoresco alpino (1773-1914)», Donzelli editore; Marcello Flores, «Traditori. Una storia politica e culturale», ed. Il Mulino; Mario Arturo Iannaccone, «Persecuzione. La repressione della Chiesa in Spagna fra Seconda Repubblica e Guerra Civile (1931-1939)», ed. Lindau.

Ma c'è di più. La Giuria della Sezione divulgativa ha indicato come maggiormente significativi i seguenti volumi: Franco Cardini, «L'appetito dell'Imperatore. Storie e sapori segreti della Storia», ed. Mondadori; Simona Colarizi, «Novecento d'Europa. L'illusione, l'odio, la speranza, l'incertezza», Editori Latenza; Roberto Floreani, «I Futuristi e La Grande Guerra», Campanotto Editore. E POI Paolo Isotta, «La virtù dell'elefante. La musica, i libri, gli amici e San Gennaro», Marsilio Editori; Angelo Ventrone, «Grande guerra e Novecento. La storia che ha cambiato il mondo», Donzelli Editore.
La Giuria della Sezione Romanzo Storico ha designato come finalisti: Licia Giaquinto, «La briganta e lo sparviero», Marsilio Editori; Ketty Magni, «Arcimboldo, gustose passioni», Cairo Editore; Marina Plasmati, «Il viaggio dolce. Il soggiorno di Leopardi a Villa Ferrigni», ed. La Lepre; Davide Rondoni, «E se brucia anche il cielo. Il romanzo di Francesco Baracca. L'amore, la guerra», ed. Frassinelli; Paolo Rumiz, «Come cavalli che dormono in piedi», ed. Feltrinelli.
I vincitori saranno premiati sabato 17 ottobre ad Acqui Terme al Teatro Ariston. L'attuale edizione del Premio Acqui Storia ha registrato una grande partecipazione con 167 volumi in concorso a fronte di una media di circa 30 delle prime 40 edizioni, confermandosi, anno dopo anno, un ambito riconoscimento da parte di autori ed editori, grazie anche alla preziosa regia del responsabile esecutivo del premio Carlo Sburlati.

(“Acqui Storia, i finalisti”, Il Giorno, 8 luglio 2015)

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Storie – I migranti del 1939 a Ventimiglia

di Mario Avagliano

Tra la fine del 1938 e il 1939 le leggi razziste costrinsero molti ebrei, specie stranieri, a lasciare l’Italia fascista. Una delle vie di fuga fu Ventimiglia, esattamente come avviene oggi per i migranti provenienti dall’Africa, in direzione della Francia, dove non c’era una dittatura, per poi eventualmente spiccare il volo verso la Gran Bretagna o gli Stati Uniti. Ma anche allora i francesi non gradivano l’intrusione e spesso respingevano i clandestini al confine.

Questa storia poco conosciuta viene raccontata da Paolo Veziano in “Ombre al confine. L’espatrio clandestino degli ebrei stranieri dalla Riviera dei Fiori alla Costa Azzurra 1938-1940″ (Fusta Editore), libro emozionante in cui, come scrive Alberto Cavaglion nella prefazione, “la figura geometrica dominante è la ‘serpentina’, o meglio bisognerebbe dire le serpentine, che da Ventimiglia conducevano i profughi ebrei in fuga dall’Italia fascista in direzione di Garavan, il quartiere di Mentone prossimo alla frontiera”.
Vicende drammatiche di famiglie sballottate tra l’Italia di Mussolini, che emanava provvedimenti di espulsione per gli ebrei stranieri e, cautamente, ne favoriva l’espatrio per liberarsi dalla loro presenza, e la Francia democratica che in realtà non li voleva, costringendoli ad entrare clandestinamente attraverso passaggi impervi, come il tristemente celebre “passo della morte” vicino al confine di Ponte San Luigi.
E anche all’epoca in quel traffico di uomini e di donne non mancavano persone senza scrupoli, gli scafisti degli anni Trenta, pescatori o non, che cercavano di trarre il massimo profitto da quei viaggi della speranza.
La storia si ripete. Tragicamente.

(L’Unione Informa e Moked.it del 23 giugno 2015)

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Fascismo. La rimozione delle colpe

di Mario Avagliano

Disquisendo della memoria della seconda guerra mondiale, lo storico inglese Tony Judt parla di “eredità maledetta”. Per lo scontro di civiltà che incarnò quel conflitto globale e per le sue truculente appendici (la Shoah, le deportazioni, la bomba atomica). Ma anche per il racconto mitizzato di quelle vicende. Con la (comoda) attribuzione alla Germania nazista di tutte le responsabilità e la presunzione di innocenza degli altri. Compreso chi, come l’Italia, vantava la primogenitura mondiale del fascismo e aveva collaborato strettamente con Hitler e i suoi atroci crimini.

A distanza di settant’anni da quei fatti, il nostro Paese non si è ancora liberato di quell’ “eredità maledetta”. E la visione autoassolutoria, con il corollario dello stereotipo de Il cattivo tedesco e il bravo italiano, come titola il saggio di Filippo Focardi (Editori Laterza, pp. 288, euro 24), resiste nell’immaginario collettivo.Per dirla altrimenti, ampi settori dell’opinione pubblica italiana condividono il giudizio buonista su Benito Mussolini formulato da Silvio Berlusconi il 27 gennaio scorso (salvo rettifiche serali). Bastava ascoltare ieri mattina le telefonate di consenso di molti ascoltatori alle parole dell’ex premier, nel corso della trasmissione condotta da Platinette su Radio Montecarlo.

E infatti “il mito del bravo italiano”, analizzato da David Bidussa già nel 1994, ha viaggiato (e viaggia) di pari passo con l’idea che il fascismo sia stata una dittatura all’acqua di rose, tenera verso gli oppositori e gli ebrei, i cui unici errori furono le leggi razziali e l’ingresso in guerra, e solo per compiacere l’alleato Hitler.
Così, alla figura esecrabile del “cattivo tedesco”, barbaro, imbevuto di ideologia razzista e pronto ad eseguire gli ordini con brutalità, è stata contrapposta quella del “bravo italiano”, pacifista, non antisemita, generoso anche quando veste i panni dell’occupante, prodigandosi nel salvataggio degli ebrei e nel soccorso dei civili. Tacendo, minimizzando o negando il coinvolgimento del popolo italiano nel fascismo e le responsabilità del paese nelle guerre fasciste e nei suoi numerosi crimini.
Quando questa narrazione assurge ad architrave della memoria pubblica nazionale? Focardi ritiene che le sue fondamenta siano state poste già fra l’armistizio del settembre 1943 e il 1947, quale strategia condivisa di un fronte composto dai partiti antifascisti, dal re e dal governo Badoglio, che utilizzarono la differenza tra Italia e Germania (e il contributo della Resistenza alla liberazione) “ai fini di autolegittimazione politica, di mobilitazione bellica e soprattutto di salvaguardia degli interessi nazionali”, per evitare una pace punitiva nei confronti del nostro Paese.
La mancanza di una “Norimberga italiana”, cioè il fallimento della prevista azione penale contro i circa 850 presunti criminali di guerra italiani individuati dalle Nazioni Unite, e l’amnistia per i reati politici (compreso il collaborazionismo con i tedeschi) concessa nel 1946 dal ministro della Giustizia Palmiro Togliatti, segretario del partito comunista, con il conseguente stop al processo di epurazione, completarono l’opera di rimozione.
Questa rappresentazione dei fatti è stata alimentata nei decenni successivi a livello storiografico, attraverso i giudizi autoassolutori di Renzo De Felice (celebre l’intervista del 1987 a Giuliano Ferrara, sul Corriere della Sera, in cui affermava che “il fascismo italiano è fuori dal cono d'ombra dell'Olocausto”) e di altri saggisti di fama, come Indro Montanelli e Arrigo Petacco. Ma ha trovato una sponda – come ci racconta Focardi – anche “sul piano della cultura popolare e di massa legata ai rotocalchi, al cinema, alla televisione e alle canzoni”. Fino al recente film Mediterraneo di Gabriele Salvatores, premio Oscar del 1992.
Intendiamoci, il mito del bravo italiano ha un suo nucleo di verità. Ci sono stati diversi Giusti italiani, che hanno salvato centinaia di ebrei dalle deportazioni, e nelle zone di occupazione spesso (anche se non sempre) le nostre truppe hanno trattato con umanità gli ebrei perseguitati, a volte rifiutandosi di consegnarli ai tedeschi. “Ma il confronto con la malvagità tedesca – spiega Focardi – ha funzionato, volutamente o no, come un perfetto alibi, permettendo di rinviare una riflessione pubblica sulla violenza fascista nel suo complesso: le politiche razziste e antisemite, i progetti espansionistici, le occupazioni militari, le repressioni e i crimini di guerra”. A differenza, ad esempio, di quanto si è fatto in Francia.
Negli ultimi anni la storiografia ha compiuto molti passi avanti nel colmare le lacune di conoscenza sul regime fascista e le sue guerre, alzando il velo su aspetti taciuti e rimossi, dalle responsabilità autonome dell’Italia nelle leggi razziali fino all’uso dei gas chimici in Etiopia e alle violenze dei militari italiani in Russia e nei Balcani. Ma i risultati di queste ricerche hanno prodotto, come rileva Focardi, “solo flebili effetti sull’opinione pubblica, toccata alla superficie”. E gli stessi manuali scolastici di storia ignorano il tema o lo trattano con sufficienza.
Manca ancora una riflessione collettiva nazionale sul fascismo e sulle responsabilità e le colpe italiane. I tedeschi continuano ad essere “una grande risorsa per la tranquillità della nostra coscienza”, come temeva Vittorio Foa. E c’è chi, come il comune di Affile, innalza addirittura mausolei a un criminale di guerra (il maresciallo Rodolfo Graziani). Nell’aprile 2002 l’ex presidente tedesco Joannes Rau si recò assieme al presidente Ciampi alle commemorazioni della strage di Marzabotto. A quando, si chiede Focardi, una visita ufficiale italiana all’isola di Raab in Croazia, sede di un famigerato campo di concentramento italiano per slavi, o a Debrà Libanòs in Etiopia, dove le nostre truppe fucilarono circa 2000 persone?

(Il Messaggero, 29 gennaio 2013)

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Storie - Il cattivo tedesco e il bravo italiano

di Mario Avagliano

Il nostro Paese fatica a liberarsi dal mito del fascismo buono e del “bravo italiano”. Al di là delle esternazioni dell’ex premier Silvio Berlusconi (convinto peraltro di interpretare il pensiero della maggioranza), quel macigno del passato, che fu analizzato da David Bidussa già nel 1994, continua ad essere il punto di vista di milioni di italiani, dando linfa vitale tra l’altro ai movimenti che si richiamano a quei valori.
L’idea che il fascismo sia stata una dittatura da “operetta”, i cui unici errori furono le leggi razziali e la partecipazione alla guerra, commessi peraltro solo per compiacere l’alleato Hitler, è molto più diffusa di quanto si pensi.
Lo ha ribadito lo storico Fililppo Focardi in un saggio uscito lo scorso mese e intitolato “Il cattivo tedesco e il bravo italiano” (Editori Laterza).

La narrazione nazionale della memoria, osserva Focardi, contrappone il “cattivo tedesco”, violento, antisemita, brutale, al “bravo italiano”, generoso, pronto a prodigarsi nel salvataggio degli ebrei e nel soccorso dei civili. Tacendo, minimizzando o negando il coinvolgimento del popolo italiano nel fascismo e nella persecuzione razziale e le responsabilità del paese nelle guerre fasciste e nei suoi numerosi crimini.
Negli ultimi anni la storiografia ha alzato il velo su diversi aspetti taciuti e rimossi, dalle responsabilità autonome dell’Italia nelle leggi razziali fino all’uso dei gas chimici in Etiopia e alle violenze dei militari italiani in Russia e nei Balcani. Ma i risultati di queste ricerche hanno prodotto, come rileva Focardi, “solo flebili effetti sull’opinione pubblica, toccata alla superficie”. E gli stessi manuali scolastici di storia ignorano il tema o lo trattano con sufficienza.
Manca ancora una riflessione collettiva nazionale sul fascismo e sulle responsabilità e le colpe italiane. Il 17 novembre di quest’anno ricorre il 75° anniversario delle leggi razziali. Può essere l’occasione giusta?

(L'Unione Informa, 5 febbraio 2013)

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16-18 marzo 1938: il bombardamento fascista di Barcellona

di Anna Foa

Sono in questi giorni settantacinque anni dal grande bombardamento di Barcellona effettuato dall'aviazione italiana nel corso della guerra civile spagnola: dal 16 al 18 marzo 1938 migliaia di bombe si rovesciarono sulla città, uccidendo un migliaio di persone e scatenando il panico nella popolazione che si diede alla fuga. Lo ricordano in contemporanea il Corriere della Sera di ieri e lo spagnolo La Vanguardia, sottolineando anche come, dopo l'attacco del 1937 su Guernica da parte dell'aviazione nazista, fosse la seconda volta che la guerra contro i civili, tanto tipica del Novecento, si operava dall'alto, attraverso i bombardamenti.

Un tragico preludio a quello che sarebbe successo, prima ad opera dell'aviazione tedesca sull'Inghilterra, poi ad opera dell'aviazione anglo-americana sulle città tedesche, nella successiva guerra mondiale. Tali bombardamenti in effetti non colpivano i civili solo come conseguenza indesiderata ed inevitabile delle operazioni militari, ma li colpivano appositamente per demoralizzare il nemico e spingerlo alla resa. Quanto al bombardamento di Barcellona, fu il primo momento di quell'attiva partecipazione, da parte italiana, allla guerra portata da Hitler all'Europa intera, che avrebbe visto l'Italia di nuovo schierata accanto ai nazisti e che avrebbe visto tanti episodi terribili di guerra contro i civili, dal cielo e dalla terra. I "buoni italiani" però non hanno mai chiesto scusa di quel bombardamento, a differenza della Germania, dove nel 1997 il presidente tedesco si è scusato formalmente per il bombardamento di Guernica. Forse, sarebbe il caso di farlo ora. Meglio tardi che mai.

(L'Unione Informa, 18 marzo 2013)

L'articolo di Dino Messina

Il mito degli Italiani brava gente e il bombardamwento di Barcellona del marzo 1938

Che nei cieli e per le strade di Barcellona tra il 16 e il 18 marzo 1938 fosse avvenuto qualcosa di terribile gli italiani lo appresero subito attraverso le corrispondenze del “Corriere della sera”, il più diffuso giornale italiano, dal 1925 controllato dal regime. Già il 18 marzo il quotidiano milanese titolava: «Il popolo di Barcellona chiede la resa», il 20 avvertiva: «Barcellona abbandonata da centinaia di migliaia di abitanti — scene di terrore e di rivolta». E il 21: «Barcellona stremata». I corrispondenti come lo scrittore Guido Piovene o l’inviato Mario Massai sottolinearono la gravità dell’impatto che i bombardamenti dell’aviazione italiana avevano avuto sul corso della guerra ma si guardarono bene dal denunciare, come fece il Times di Londra, che almeno seicento abitanti in tre giorni avevano perso la vita (in realtà circa il doppio), tantissimi bambini, per lo più residenti nei quartieri popolari. Fu subito chiaro, insomma, che la strage non era stata causale ma voluta, per un preciso ordine arrivato all’improvviso da Benito Mussolini in persona. Tutto scritto, tutto documentato dalle cronache dell’epoca, nelle pagine del diario del ministro degli Esteri italiano e genero del Duce, Galeazzo Ciano, nei libri scritti dagli storici italiani, da Giorgio Rochat (“Le guerre italiane 1935-1943″) a Lucio Ceva, “Spagne 1936-1939″.
Eppure ben poco della verità sull’orrore scatenato dai bombardieri italiani decollati dalle Baleari con l’ordine preciso di colpire e seminare terrore è giunto alla nostra opinione pubblica. Per prendere coscienza delle responsabilità italiane nel primo “civil bombing” di una grande città europea forse occorrerebbe un atto pubblico simile a quello compiuto dal presidente tedesco Roman Herzog che nel 1997, nel sessantesimo anniversario di Guernica (26 aprile 1937), chiese scusa alla gente spagnola. Guernica-Barcellona un paragone azzardato? Nient’affatto. Altri se ne potrebbero fare. Per esempio con Durango, la cittadina della Vizcaya che il 31 marzo 1937 venne attaccata da squadriglie italiane che distrussero case e uccisero 289 persone. Barcellona tuttavia resta una pietra miliare del terrore e forse è venuto il momento, dopo aver analizzato per circa un ventennio gli effetti che la «guerra ai civili» ha avuto sul suolo italiano (dai rastrellamenti nazisti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 ai bombardamenti dell’aviazione Alleata), che gli storici facessero uno sforzo pari in direzione diversa. Raccontarci, cioè, dall’Etiopia ai Balcani, dalla Grecia alla Spagna la guerra vista dalla parte delle vittime, con gli italiani nelle vesti di aggressori. Non che manchino studi di questo tipo, da Angelo del Boca in poi, ma si sente soprattutto in ambito divulgativo, una reticenza lontana. Quella che deriva dall’auto rappresentazione di «italiani brava gente», ma anche da una mancata Norimberga successiva al fascismo e, non ultimo, dal fatto di essere entrati nella Seconda guerra mondiale con una casacca e nell’esserne usciti con un’altra.
Il bombardamento di Barcellona, così come tutti gli altri atti di terrore dall’aria durante l’aggressione alla Repubblica spagnola, è il frutto ideologico, militare e politico di una storia tutta italiana. Il punto di vista militare e ideologico risale a Giulio Dohuet, che ben prima del britannico Hugh Trenchard, cioè negli anni Venti, con un’opera ancora oggi citata in tutti i manuali di strategia militare, “Il dominio dell’aria”, anticipò il concetto del «civil bombing»: «Immaginiamoci una grande città che, in pochi minuti, veda la sua parte centrale, per un raggio di 250 metri all’incirca, colpita da una massa di proiettili dal peso complessivo di una ventina di tonnellate…». Sembra la profezia di quanto sarebbe avvenuto a Barcellona dove i bombardieri Savoia Marchetti 79 in un paio di giorni sganciarono circa 44 tonnellate di esplosivi.
E a un’azione dimostrativa che seminasse terrore, come ha raccontato anche Edoardo Grassia, pensava Mussolini quando pochi minuti prima di pronunciare alla Camera il suo discorso in reazione all’Anschluss dell’Austria da parte delle truppe di Hitler, diede l’ordine al Capo di Stato Maggiore della Regia aeronautica di «iniziare azione violenta su Barcellona con martellamento diluito nel tempo». Nessuna consultazione con altri organismi militari, nemmeno con Franco. Fu una decisione di Mussolini per seminare terrore. E nelle intenzioni anche una cinica operazione mediatica per recuperare terreno rispetto all’iniziativa di Hitler e magari rimediare alla figuraccia ancora non dimenticata della disfatta di Guadalajara. La riprova delle intenzioni di Mussolini si ha nel diario di Galeazzo Ciano, quando annota la reazione del duce alle proteste di parte britannica: «Quando l’ho informato del passo di Perth (ambasciatore inglese a Roma, ndr), non se ne è molto preoccupato, anzi si è dichiarato lieto del fatto che gli italiani riescano a destare orrore per la loro aggressività anziché compiacimento come mandolinisti».
A Mussolini il progetto di trasformazione antropologica del popolo italiano non riuscì ma il fascismo portò «la brava gente» a macchiarsi di crimini di cui dobbiamo chiedere scusa.

(Corriere della Sera, 17 marzo 2013)

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Libri e giornali, l'ossessione del Duce

di Mario Avagliano

L’abitudine delle note a margine a matita blu, da pedante maestrino di provincia, e la forma mentis da giornalista, Benito Mussolini non le perse mai, neppure quando l’Italia divenne un “Impero”. Anzi, durante tutto il Ventennio il duce coltivò una vera e propria ossessione per l’editoria. E forse anche per appagare le sue ambizioni d’intellettuale autodidatta, riservò una parte della sua attività quotidiana al monitoraggio della stampa e dei libri in uscita. Nessun capo del governo europeo e nessun dittatore, compresi Hitler, Stalin e Franco, dedicarono una simile attenzione (come rilevò anche il capo della polizia Carmine Senise) alla produzione editoriale del proprio paese.

Insomma il duce si comportò da severo controllore dell’editoria italiana, sempre attento a cosa si diceva e soprattutto a cosa si scriveva, come ci racconta Guido Bonsaver nel suo nuovo libro Mussolini censore. Storie di letteratura, dissenso e ipocrisia (Laterza, pp. 231, euro 18). E così, quando riceveva segnalazioni su libri da parte dalle strutture ministeriali, le esaminava con cura e vergava il suo responso, seguito dall’iniziale «M». Oppure ordinava alle prefetture l’immediato sequestro di un volume o che il funzionario di turno comunicasse a editori e scrittori la sua volontà.
L’apparato censorio diretto dal duce ebbe come prima vittima l’opposizione intransigente di Piero Gobetti e dell’editoria di parte socialista. Gobetti, che aveva fondato l’omonima casa editrice e dirigeva il periodico “La Rivoluzione Liberale”, era considerato da Mussolini uno dei suoi più pericolosi nemici. Il duce si occupò ripetutamente di lui, chiedendo al prefetto di Torino di rendergli la vita “difficile”, fino all’atto finale: la “diffida a cessare da qualsiasi attività editoriale”, che costrinse il suo giovane oppositore ad emigrare a Parigi.
A partire dal 1925-1926, quando il potere di Mussolini si fu consolidato, egli strinse rapporti controversi con gli editori più importanti, da Arnoldo Mondadori (che finanziava il suo movimento fin dal 1919) a Bompiani, e con personalità della cultura italiana, come Brancati, Moravia, Pirandello, Vittorini e altri. Ma continuò ad esercitare con pignoleria un’opera di censura, per motivi di opportunità politica, di decoro morale e, a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, anche di razzismo.
Nel 1934 fu la pubblicazione di Sambadù, amore negro della scrittrice Maria Volpi (in arte Mura) a provocare la sua sdegnata reazione e la direttiva a tutte le prefetture di sorvegliare le pubblicazioni che avvenivano nei territori di competenza sotto il profilo della decenza morale.
Ma la storia di Mussolini censore non è la storia di contrapposizione tra un regime burbero e liberticida e gli intellettuali oppositori. Già nel 1975, lo storico italo-americano Philip Cannistraro, nel saggio La fabbrica del consenso. Fascismo e mass-media, si soffermò sulle enormi dimensioni della «zona grigia» della cultura italiana, cioè di quell’ambigua, larga fascia di intellettuali che navigavano a metà tra collaborazionismo e opposizione. Un caso interessante è quello di Elio Vittorini, l’autore del più famoso romanzo censurato nell’Italia fascista, Conversazione in Sicilia, di cui Bonsaver ricostruisce il sofferto passaggio dalla militanza fascista, con la protezione di Alessandro Pavolini, sino alla disillusione e all’aperto antifascismo.
Questo saggio ci aiuta a capire, una volta di più, che durante il fascismo, anche nel settore dell’editoria il regime godette dell’apporto di schiere di intellettuali, chi in convinta militanza, chi per quelle inevitabili incrostazioni di parassitismo che ogni centro di potere chiama a sé, chi semplicemente accettando di fare il proprio lavoro nel contesto di un’Italia fascista. In un simile quadro, i concreti atti di protesta da parte di personaggi come Piero Gobetti, Roberto Bracco, Benedetto Croce e gli editori Laterza risaltano ancor di più, proprio perché appaiono come “picchi isolati in una distesa di piatto conformismo e di compromessi opportunistici”.
La censura riguardò tutti i campi del vivere civile e toccò il suo culmine con le leggi razziali del 1938 e la successiva “bonifica” dalle librerie, dalle biblioteche e dai programmi scolastici dei testi di autori ebrei e il divieto per questi di pubblicare libri. Negli anni di guerra, poi, oggetto del controllo del duce e dei suoi funzionari fu anche quello che oggi si chiamerebbe politically correct. Così quando nel gennaio 1941 Luigi Pirandello chiese l’autorizzazione a una trasmissione radiofonica della sua commedia Come tu mi vuoi, oltre al passaggio dal “lei” al “voi”, gli fu ordinato di eliminare ogni riferimento alla brutalità dei soldati austriaci e tedeschi durante la prima guerra mondiale. Per riguardo all’alleato Adolf Hitler, che con le sue truppe uncinate stava mettendo a ferro e a fuoco mezza Europa.
Dopo la caduta del fascismo del 25 luglio 1943 e la violenta stagione di Salò, “l’Italia del libro – come osserva Bonsaver – sopravvisse al proprio dittatore-censore e dimenticò presto i propri trascorsi durante il Ventennio”. Editori e intellettuali si rifecero la verginità e molti di loro passarono nelle file dell’antifascismo più acceso, cancellando le tracce del loro oscuro passato.

(Il Mattino, 7 aprile 2013)

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Le dieci maestre del voto

di Mario Avagliano

Nei primi 85 anni di Stato unitario l’Italia è stata una monarchia misogina, nella quale hanno votato esclusivamente gli uomini. La nostra nazione è stata una delle ultime di Europa a concedere il diritto il voto alle donne, che fu esercitato per la prima volta solamente nel 1946. Un ritardo che è stato foriero di pessimi risultati, visto che nel periodo monarchico si sono avvicendati ben 64 governi, si sono registrati lunghi periodi di forte instabilità politica e sociale e l’istituto delle elezioni è stato alla fine abolito dal fascismo.

La storia italiana poteva andare diversamente se si fosse vestita anche di rosa? Difficile rispondere. Fatto sta che per una breve stagione le donne italiane coltivarono la speranza di poter dire la loro sul futuro politico della loro nazione. Infatti il 25 luglio del 1906, quando l’irruente Benito Mussolini era ancora un maestrino socialista di provincia, una sentenza della Corte di appello di Ancona, presieduta dal magistrato ebreo Lodovico Mortara, accordò il diritto di voto a dieci donne marchigiane, tutte maestre, che avevano presentato apposito ricorso.
La loro vicenda, che all’epoca fece scalpore e provocò un acceso dibattito in tutta Italia, è stata ricostruita e raccontata nel libro di Marco Severini, intitolato Dieci donne. Storia delle prime elettrici italiane (liberi libri, pp. 261, euro 15). Grazie al coraggio delle maestre marchigiane, Ancona divenne per qualche settimana il centro del mondo. Maria Montessori le dedicò addirittura un inno poetico.
Si trattò, come scrive lo stesso Severini, di “un evento eccezionale”, in quanto quel pugno di donne andò ad affiancarsi a un corpo elettorale composto da più di 2 milioni e mezzo di maschi. Ma l’illusione dell’emancipazione durò appena lo spazio di dieci mesi (la sentenza Mortara fu annullata dalla Corte di Cassazione) e purtroppo non si concretizzò in partecipazione al voto in quanto, per il ritorno al governo di Giovanni Giolitti, non vi furono elezioni politiche.
E così le dieci donne marchigiane che, con la conquista dell’iscrizione alle liste elettorali, avevano impresso una svolta impensata alla lotta per il suffragio femminile, raccogliendo l’entusiasmo delle numerose associazioni femminili, dei socialisti e dei repubblicani che si battevano da anni per l’emancipazione, tornarono purtroppo nell’anonimato.
Il saggio di Severini ha il merito di riportare alla luce la storia di quelle pioniere del voto alle donne, di cui vengono proposte per la prima volte le biografie, e delle portabandiera dell’emancipazione femminile made in Italy, come Anna Maria Mozzoni e Maria Montessori. Ma è anche un omaggio alla competenza giuridica e all’onestà intellettuale del giurista mantovano Lodovico Mortara, “personalmente contrario, giuridicamente favorevole” al suffragio femminile, e di quei politici maschi, come il repubblicano Roberto Mirabelli, che sulla scia del pensiero di Mazzini, grande fautore del voto alle donne, sostennero in Parlamento, con forza e determinazione, la causa dell’altra metà del cielo. Perché, come disse in aula Mirabelli il 25 febbraio 1907, la donna non fosse più “inchiodata alla croce delle secolari esclusioni”.
Quella battaglia, in quella fase storica perdente, avrebbe avuto sicuramente un esito positivo nella seconda metà degli anni Venti, sulla scia di quanto accaduto in altri Paesi europei. Ma l’avvento del fascismo e la sua concezione della donna come semplice “angelo del focolare” ritardarono di un ventennio la partecipazione femminile alla vita politica. Solo la Resistenza e poi la Costituente sanciranno finalmente la pari dignità delle donne, legittimandole al voto sia in qualità di elettrici che di elette.

(L'Unione Informa, 3 maggio 2013)

Lo strano patto tra Stalin, Hitler e Mussolini

di Mario Avagliano

Nell’agosto del 1939, quando fu siglato iI Trattato Molotov-Ribbentrop tra Terzo Reich e Urss, i giornali britannici pubblicarono irriverenti vignette che raffiguravano Adolf Hitler e Josif Stalin che si salutavano sul cadavere della Polonia, dandosi della “feccia della terra” e del “sanguinario oppressore dei lavoratori”, oppure si scambiavano una stretta di mano con la sinistra, mentre con la destra, dietro la schiena, impugnavano una pistola. Quando il 22 giugno 1941 le colonne corazzate tedesche irruppero in territorio sovietico, sembrò che il sarcasmo inglese avesse colto nel segno. E per oltre cinquant’anni una consolidata tradizione storiografica ha ribadito che quel trattato fu un accordo provvisorio attraverso il quale il Cremlino guadagnò il tempo sufficiente per prepararsi a sconfiggere il Moloch nazista. È andata proprio così? Un documentato saggio di Eugenio Di Rienzo e Emilio Gin, intitolato Le Potenze dell’Asse e l’Unione Sovietica. 1939-1945 (Rubbettino, pp. 514, € 17), avanza una tesi alternativa. Unione Sovietica e Germania, mentre si combattevano epicamente, sbandierando due visioni ideologiche opposte del mondo, trattavano sottobanco per formare una “Coalizione planetaria” destinata a comprendere anche Italia e Giappone e a distruggere il predominio mondiale anglo-sassone.
I due storici, facendo ricorso alle corrispondenze diplomatiche giapponesi, ai documenti di guerra dei National Archives di Washington, ai verbali del War Cabinet britannico, e spulciando i diari dei diplomatici italiani Luca Pietromarchi e Attilio Tamaro, ricostruiscono il lavorio dietro le quinte dell’Urss e delle forze dell’Asse, compresa l’Italia, teso a creare un blocco euroasiatico centrato sull'alleanza fra il nazionalsocialismo e il bolscevismo contro il nemico comune: la società capitalistico-borghese e l’odiato Occidente. L’idea accarezzata da Hitler, Stalin e Mussolini era quella di un’intesa politica invulnerabile sul piano militare, in grado di avere ragione della Gran Bretagna, con tutti i suoi Dominions, e degli Stati Uniti, con i Paesi dell’America Latina. D’altronde la Russia e il Reich, come aveva comunicato Ribbentrop a Molotov già nell’agosto del 1939, riportando testualmente una dichiarazione di Hitler, dovevano prepararsi per tempo a porre le basi di «una difesa emisferica contro l’aggressione americana che si sarebbe sicuramente materializzata tra 1970 e 1980».
Fu la polveriera balcanica a provocare la dissoluzione del blocco nazi-bolscevico e in particolare la disponibilità di Mosca a siglare il Trattato di amicizia e non aggressione con Belgrado, nell’aprile del 1941, alla quale Berlino rispose con l’immediata invasione della Jugoslavia. Nonostante la guerra, i rapporti sotterranei e clandestini tra Urss e forze dell’Asse proseguirono, soprattutto grazie alla mediazione del Giappone che aveva firmato, il 13 aprile 1941, un trattato di non aggressione con la Russia. Anche Palazzo Venezia e Palazzo Chigi svolsero un ruolo incisivo, dinamico e tutt’altro che marginale, iniziato subito dopo la fortunata contro-offensiva russa dell’inverno del 1941, per arrivare ad una pace di compromesso tra il colosso comunista e l’Europa sottomessa al Nuovo Ordine nazista.
Dopo aver assunto l’interim degli Esteri, il Duce scriverà tra il marzo e aprile 1943 due lunghe lettere a Hitler per spingerlo a «chiudere il capitolo russo». E sul tema tornerà ancora nei colloqui di Klessheim (7-10 aprile 1943), poi in quelli di Feltre (19 luglio), e, infine, nel mattino del 25 luglio, poco prima di essere arrestato, incontrandosi con l’ambasciatore giapponese a Roma. Mussolini insisteva sulla necessità di stipulare una tregua d’armi con Stalin e sapeva che, nonostante le apparenze, Hitler non era del tutto sordo alle sue richieste e che importanti gerarchi nazisti (Göring e Goebbels) erano favorevoli ad accettare quella soluzione. E il Cremlino non si sottraeva a quelle suggestioni. Insomma, il libro di Di Rienzo e Gin ci rivela che la «Grande Alleanza» antinazista era meno solida di quanto comunemente si creda (esattamente come non lo era l’Asse Roma-Berlino-Tokio) e che Stalin, sull’altare della realpolitik, prese in considerazione l’ipotesi di mollare Gran Bretagna e Usa al loro destino. Tutti questi sforzi fallirono. La “pace di Mussolini” non ebbe luogo e per fortuna non nacque l’Euroasia nazista-fascista-bolscevica immaginata dai leader dell’epoca. Il vecchio continente era però destinato ancora a soffrire e a dividersi. La fine del secondo conflitto mondiale portò alla “pace di Stalin” che, sui campi di battaglia e al tavolo della diplomazia, riuscì nel disegno di restituire alla Russia la statura imperiale dell’età zarista, provocando la lunga «guerra fredda», destinata a terminare solo nel novembre del 1989.

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