di Mario Avagliano
Il feeling tra il fascismo e l’Islam non è una novità storiografica. Già Stefano Fabei, ad esempio, ne aveva scritto in passato nel saggio «Il fascio, la svastica e la mezzaluna» (Mursia). Un libro appena uscito, «Mussolini e i musulmani. Quando l'Islam era amico dell'Italia» (Mondadori, pp. 150, euro 19), di Giancarlo Mazzuca e Gianmarco Walch, ci aiuta a ripercorrerne le tappe e a comprenderne le motivazioni e la pesante eredità per l’Italia di oggi, con il piglio e la scorrevolezza del «buon giornalismo storico», come scrive Roberto Balzani nella premessa.
Nella ricostruzione fatta da Mazzuca e Walch il rapporto di amorosi sensi tra Benito Mussolini e l’Islam ebbe origine da un misto di ragioni di carattere personale e di politica estera. A propiziarlo, nel 1913, quando Mussolini era ancora direttore dell’«Avanti!» ed era del tutto a digiuno di storia islamica, fu l'affettuosa amicizia che egli intrattenne a Milano con la giornalista Leda Rafanelli, detta l’Odalisca, di fede musulmana, che vestiva spesso una gelabiat (una specie di caffettano), e alla quale il futuro duce, dopo aver chiesto con una gaffe se era buddista, promise di leggere «Nietzsche e il Corano».
Due anni prima, nel 1911, Mussolini era finito in galera assieme ad un altro romagnolo doc, Pietro Nenni, per avere partecipato alla manifestazione di protesta a Forlì contro la guerra agli ottomani sferrata da Giolitti, deciso ad annettersi i territori libici e colonizzare i musulmani. Secondo l’allora compagno Benito, si trattava di mire imperialistiche da parte italiana: un’usurpazione vera e propria nei confronti dei poveri indigeni islamici.
La simpatia per l’Islam mise altre solidi radici nell’Italia fascista degli anni Venti, attraversata da un sentimento di rivalsa verso la «vittoria mutilata» sancita dal trattato di Versailles del 1919, condiviso anche dai paesi arabi, ancora sotto il giogo coloniale franco-inglese.
Più tardi, negli anni Trenta, l’antisionismo spinse Mussolini e gli islamici a trovarsi dalla stessa parte della barricata contro il progetto di spartizione della Palestina, fino a trovare un altro terreno di comunanza ideologica nella promulgazione in Italia delle leggi razziste contro gli ebrei.
In quegli anni il duce guardò all’Islam con sempre maggiore attenzione, imponendo già nel 1934 a Radio Bari di trasmettere programmi in lingua araba e curando i rapporti commerciali con i paesi dell'Islam, tanto che lo Yemen dell'imam Yahyà si trasformò, di fatto, in un protettorato italiano.
Il duce venne ricambiato con fervore dai paesi arabi, nei quali nacquero diversi movimenti (le Falangi libanesi, le Camicie Verdi, il Partito Giovane Egitto, le Camicie azzurre) che seguivano il fascismo con particolare interesse, come alternativa al modello della Gran Bretagna e della Francia e come scorciatoia per nazionalizzare le masse per via autoritaria, evitando i rischi della democrazia occidentale. Non a caso di recente Hamed Abdel-Samad, politologo e storico tedesco nato al Cairo, ha dato alle stampe un saggio dal titolo significativo: «Il fascismo islamico».
La stessa guerra di conquista dell'Etiopia nel 1936, definita da Indro Montanelli, che vi partecipò, «una bella lunga vacanza dataci dal Grande Babbo in premio di tredici anni di scuola», e ottenuta anche con l’impiego dei gas tossici, venne presentata come la guerra santa contro il Negus Hailé Selassié, nemico dichiarato dei musulmani. Tanto è vero che, ricordano Mazzuca e Walch, il 20 marzo 1937, testimone Italo Balbo, Mussolini fece ingresso a Tripoli su uno splendido cavallo sguainando la famosa Spada dell'Islam, un gioiello in oro massiccio, cesellato da artigiani fiorentini.
«Il Messaggero» dell’epoca, al pari degli altri giornali italiani, titolò: «La spada dell’Islam al fondatore dell’Impero», citando alcuni brani del discorso del duce: «L’Italia Fascista intende assicurare alle popolazioni mussulmane della Libia e dell’Etiopia la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto alle leggi del Profeta e vuole inoltre dimostrare la sua simpatia all’Islam ed ai mussulmani del mondo intero». Tra i pochi commenti negativi, ci fu quello di Leo Longanesi, che sentenziò: «Sbagliando s'impera».
Balbo, da governatore della Libia, aprì nuove frontiere al mondo arabo e intensificò il dialogo con i musulmani, costruendo la via Balbia, istituendo la Gioventù araba del littorio e facendo ottenere nel 1939 la cittadinanza speciale italiana a tutti i libici islamici della costa, a differenza dei beduini e degli ebrei che restavano cittadini di serie B.
Il feeling tra il regime fascista e i musulmani, raccontano Mazzuca e Walch, proseguì anche negli anni di guerra, con il progetto di costituire in Italia una legione araba fedele alle forze dell’Asse, con la benedizione del Gran Mutfì di Gerusalemme, il quale - dialogando anche con Hitler - ambiva a creare un superstato in grado di riunire Iraq, Siria, Palestina e Transgiordania, contro britannici ed ebrei. Il progetto di una legione araba, accarezzato fin dal 1941, prese corpo nel maggio del 1942, e il primo nucleo, peraltro esiguo, di volontari musulmani giurò di «combattere contro le Forze britanniche e i loro alleati fino alla completa liberazione dei Paesi Arabi del Vicino Oriente». Saranno poi impiegati a partire dal gennaio 1943 in Africa settentrionale, accanto alle truppe italiane.
Qualche anno prima Mussolini, nel settembre del 1936, come risulta da un appunto conservato nella sua segreteria particolare, si era anche dichiarato disponibile a fornire al Gran Mutfì di Gerusalemme, postosi alla testa di un’infiammata rivolta araba, il materiale e il personale necessari per avvelenare l’acquedotto di Tel Aviv, la città in cui si era stabilito il maggior numero degli ebrei arrivati in Palestina. Per fortuna il piano fu poi abbandonato, anche se al Mutfì arrivarono dal governo italiano 138 mila sterline.
(pubblicato in versione più sintetica su "Il Messaggero" del 22 aprile 2017)