Elezioni, qua succede un 48

di

 

1948. Gli italiani nell’anno della svolta, l’ultima fatica letteraria di Mario Avagliano e Marco Palmieri, pubblicata da poche settimane da Il Mulino è tutto da leggere per diversi motivi. Prima di tutto perché è un libro scritto bene, che si fa leggere e che spiega raccontando con un linguaggio piano e comprensibile un periodo complicatissimo della vita nazionale. Poi perché – come si è detto -, fornisce gli elementi conoscitivi utili per capire meglio anche quello che sta accadendo oggi.

Avagliano e Palmieri – da storici -, ripercorrono passo dopo passo l’avvicinarsi alla giornata elettorale del 18 aprile del ’48, lo svolgimento della giornata stessa e poi cosa accadde dopo. E lo raccontano guardando a tutti gli aspetti (la propaganda delle parti, le pressioni internazionali, il vissuto degli italiani, l’atteggiamento delle Istituzioni, quello della Chiesa), e utilizzando tutto il materiale possibile, spesso inedito. Scorrono così sotto gli occhi di chi legge diari, lettere, interviste, relazioni delle autorità e di pubblica sicurezza, carte di partito, documenti internazionali, giornali, volantini permettono di ricostruire il quadro complesso dell’Italia dell’epoca, illuminando anche molte questioni che hanno caratterizzato i decenni successivi, fino ai nostri giorni.

Ma non basta. Perché gli autori – da giornalisti –, scrivono quasi in presa diretta, non fanno sconti a nessuno, raccontano senza giudicare. Fanno cioè quello che ogni buon storico e ogni buon giornalista dovrebbe fare. Ciò che emerge è, appunto, un racconto ma anche la collezione di una serie di strumenti per capire il passato e il presente, scoprendone le differenze così come le analogie. Si susseguono così episodi della grande e della piccola politica. Anche a Torino e in Piemonte. Curiosa, per esempio, è la vicenda raccontata da Diego Novelli, futuro sindaco, allora 17enne espulso dalla Messa perché “cattolico di sinistra” (pagg. 121-122). Drammatica, invece, la cronaca di quanto accadde a Torino subito dopo l’attentato a Togliatti e la dichiarazione di sciopero generale, con le fabbriche bloccate, la Fiat occupata: “A Mirafiori i lavoratori bloccano in fabbrica sedici persone, tra cui l’amministratore delegato Vittorio Valletta” (pag. 309).

Certo, il 1948 davvero condizionò e cambiò (forse) il futuro del Paese; difficile dire adesso se il 2018 avrà lo stesso ruolo. Ma certamente “1948” di Avagliano-Palmieri  ha già un ruolo chiaro: metterci in condizione di capire di più e meglio cosa sta accadendo.

Bella, poi, la citazione di Paolo Monelli posta in quarta di copertina del libro, che dà in poche righe il senso di quanto accadde e – tutto sommato – di ciò che in qualche modo accade anche oggi: «Un tumulto, un’agitazione, un ondeggiare di folle sempre maggiore, da una piazza all’altra, da un comizio all’altro, e blaterare di altoparlanti, e sbocciare di manifesti l’uno sull’altro, e gualdane di attacchini arditi e petulanti come guerrieri d’assalto…».

(pubblicato su lospiffero.com)

Presentazione del libro "1948. Gli italiani nell'anno della svolta"

Presentazione del libro "1948. Gli italiani nell'anno della svolta" di Mario Avagliano e Marco Palmieri (edito dal Mulino)

A cura di Pantheon e Valentina Pietrosanti

Organizzatori: 
Istituto Europeo di Cultura Politica Italide
 
Registrazione video del dibattito dal titolo "Presentazione del libro "1948. Gli italiani nell'anno della svolta" di Mario Avagliano e Marco Palmieri (edito dal Mulino)", registrato a Roma giovedì 12 aprile 2018 alle 17:45.

Dibattito organizzato da Istituto Europeo di Cultura Politica Italide.

Sono intervenuti: Antonella Freno (presidente dell'Istituto Europeo Cultura Politica Italide), Francesco Verderami (giornalista del Corriere della Sera), Paolo Mieli (giornalista e storico), Caterina Misasi (attrice), Antonio Tallura (attore), Lucio Villari (storico), Pippo Baudo (artista), Mario
Avagliano (scrittore), Giorgio Marchesi (attore).

Tra gli argomenti discussi: Dc, De Gasperi, Libro, Pci, Politica, Sindacato, Storia, Togliatti.
 
  • Pubblicato in News

“1948 Gli italiani nell’anno della svolta” di Mario Avagliano e Marco Palmieri

“1948 Gli italiani nell’anno della svolta” di Mario Avagliano e Marco Palmieri

La campagna elettorale? Tante bugie e forzature, frasi semplici, ripetute insistentemente, slogan di facile comprensione, che fanno leva su paure, esigenze, ostilità degli elettori italiani. Parliamo delle recenti Politiche (lavoro, sicurezza, reddito di cittadinanza)? No, si tratta delle drammatiche elezioni del 18 aprile 1848 per il primo Parlamento repubblicano, il cui clima e significato sono tra i contenuti di rilievo del volume “1948. Gli italiani nell’anno della svolta” (collana Biblioteca storica, Il Mulino, 2018, pp. 452, edizione a stampa euro 25,00, ebook euro 16,99), a firma dei giornalisti, storici e saggisti Mario Avagliano e Marco Palmieri.
Non ci sono state consultazioni elettorali più risolutive, non c’è stato un anno più decisivo. Uno scontro manicheo, tra bianchi e rossi: da una parte la Democrazia Cristiana, dall’altra il fronte social-comunista. Due mondi contrapposti, democrazia e totalitarismo sovietico, blocco occidentale e blocco orientale, USA e URSS, capitalismo e anticapitalismo, cattolicesimo e ateismo. Del tutto evaporata la concordia responsabile dei partiti della Resistenza.

Qual era la società italiana chiamata a decidere il futuro politico nelle prime elezioni dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e prime anche della Guerra Fredda? I due saggisti la inquadrano perfettamente: è un paese povero, 47 milioni di cittadini (29 milioni chiamati alle urne, a suffragio universale) feriti da venti anni di fascismo, cinque di conflitto mondiale e due di guerra civile. Non si contano le case ancora distrutte, nel 25% delle abitazioni manca l’acqua corrente e nel 73% addirittura il bagno. Dilaga la disoccupazione, molte famiglie sono quasi alla fame. Quattro milioni gli analfabeti, più dei diplomati insieme ai laureati (questi meno di mezzo milione). Il resto ha un tasso di scolarizzazione insignificante, a malapena sanno leggere e fare i conti minimi. Ma c’è tanta voglia di riprendere: i cinema sono affollati, si va in Lambretta e Vespa, si diffondono i dischi a 33 giri.
Il risultato investe del compito di governo la Democrazia Cristiana, forte di un mai più raggiunto 48% dei voti. Lo eserciterà per oltre quarant’anni, alleandosi con altri partiti. In effetti, decide soprattutto il “sistema di valori” nel quale si muoverà la ricostruzione del Paese, favorita dal Piano Marshall, il colossale programma di aiuti economici avviato dagli Stati Uniti per l’Europa e che naturalmente si estende all’Italia, dimostratasi insensibile alle sirene sovietiche. Un miliardo e mezzo di dollari: significa industrie, case, strade, ferrovie, acquedotti, infrastrutture. Lavoro.
Gli aiuti americani rafforzano la simpatia degli italiani per la cultura, il costume, il cinema d’oltreoceano. Un’attrazione consolidata dai contatti con i nostri emigrati e dal ricordo della generosità dei “liberatori”, i militari USA che regalavano pane, cioccolata, scatolette di carne, latte condensato, sigarette e chewingum.

Solo a dicembre era scaduto il piano Unrra delle Nazioni Unite, che aveva consentito letteralmente di sfamare un Paese vinto e discinto dalla guerra.
Nasceva quindi un’Italia certamente libera, una democrazia parlamentare affidabile. E tuttavia si intravedevano i guasti che caratterizzeranno l’Italia dei partiti: diventano un’interfaccia obbligata tra lo Stato e i cittadini, elargiscono favori e prebende, intermediano tra domanda e offerta di lavoro, soprattutto pubblico, la politica si fa mestiere, la burocrazia diventa elefantiaca. Raccomandazioni. Corruzione. Concussione. Interessi privati. Bustarelle. Ed un ruolo lo esercita anche un’invadenza insistente della componente cattolica e curiale.
La DC è il garante di un sistema che doveva restare immutabile. Un Paese congelato in quegli anni, immobile. Di fronte c’è il più forte Partito comunista dell’Europa occidentale, a sua volta stretto tra anime concorrenti, più o meno fedeli alla voce di Mosca. Si è creato quel modello di “democrazia bloccata” che durerà non poco, superando qualche tentativo di apertura reciproca, uno dei quali frustrato dall’omicidio di Aldo Moro nel 1978.

E questo ci porta all’attentato a Palmiro Togliatti. Il 14 luglio, il segretario del Pci è gravemente ferito a colpi di pistola all’uscita da Montecitorio. In Italia la protesta comunista divampa ben oltre il controllo del partito, somiglia a un’insurrezione popolare. Fabbriche occupate, cortei nelle città, dimostrazioni violente, assalti alle caserme dei Carabinieri. Tornano in circolazione le armi partigiane nascoste, l’Amiata diventa una repubblica rossa.
Togliatti stesso invita alla calma, non è tempo di rivoluzione per il PCI. E nemmeno per la CGIL, il forte sindacato di sinistra, guidato con grande senso di responsabilità da Di Vittorio. La classe media e i partiti più moderati non si muovono, ma non approvano il clima di rivolta. Non alimentata politicamente, la protesta si esaurisce. A seguire, il ministro dell’interno Scelba avvia un periodo di repressione. Il bilancio degli incidenti è incerto: almeno 16 morti, 9 dei quali tra le forze dell’ordine, che hanno anche 500 feriti. Si contarono oltre 5100 arrestati e denunciati.

 (pubblicato su sololibri.net)

 

 

“1948. Gli italiani nell’anno della svolta” di Mario Avagliano e Marco Palmieri

“1948. Gli italiani nell’anno della svolta” di Mario Avagliano e Marco Palmieri

Dott. Mario Avagliano, Lei è autore insieme a Marco Palmieri del libro 1948. Gli italiani nell’anno della svolta edito dal Mulino: perché possiamo considerare il 1948 un anno di svolta?
1948. Gli italiani nell'anno della svolta, Mario Avagliano, Marco PalmieriIl 1948 è stato un anno cruciale, un autentico spartiacque nella storia politica e sociale italiana. Dopo vent’anni di dittatura fascista, culminati nella disastrosa partecipazione alla seconda guerra mondiale e nella drammatica e feroce guerra civile, l’Italia era un paese materialmente e moralmente devastato, ma con un futuro istituzionale, politico, economico e sociale tutto da costruire davanti a sé. Le laceranti vicende degli anni precedenti, naturalmente, non potevano essere cancellate con un colpo di spugna e in particolare quelle del biennio 1943-45.

Il 1° gennaio del 1948 è già un giorno storico, poiché entra in vigore la Costituzione della Repubblica italiana, licenziata a larghissima maggioranza dall’Assemblea Costituente eletta il 2 giugno 1946, contestualmente alla consultazione referendaria che aveva sancito la scelta della forma istituzionale repubblicana rispetto a quella monarchica. È però l’ultimo atto concorde dei partiti protagonisti della Resistenza.
Tuttavia lo spirito costituente di cui il testo è figlio, e che per circa due anni ha animato e appassionato tutte le forze politiche rinate dopo il fascismo, si è ormai esaurito. L’alleanza di governo tra i partiti antifascisti che si è forgiata nella Resistenza e ha contribuito a traghettare il paese verso la libertà e la democrazia, è bruscamente naufragata qualche mese prima, quando il leader democristiano De Gasperi ha estromesso i partiti di sinistra, Pci e Psi, dalla compagine di governo, complice anche il mutato clima internazionale.
Le successive elezioni politiche del 18 aprile 1948, le prime della guerra fredda, insieme al complesso delle vicende che caratterizzano quei mesi, segnano dunque una cesura tra due fasi storiche. Il risultato delle urne consacra la Democrazia Cristiana quale partito centrale del governo per i successivi quarant’anni e definisce il sistema di valori all’interno del quale si svolgeranno di lì in avanti le vicende politiche e socio-economiche dello Stato.

Il 18 aprile 1948, il popolo italiano non è chiamato a scegliere solo fra due coalizioni politiche, ma fra due diversi modelli, due diverse visioni, due ideologie contrapposte e alternative tra loro: Occidente e Oriente, comunismo e democrazia. E vengono raggiunti livelli di tensione e di drammaticità che probabilmente non saranno toccati mai più nella storia successiva repubblicana, la cui evoluzione sarà a lungo condizionata proprio dall’esito e dagli sviluppi del confronto del ’48.

Quali vicende accompagnarono la prima campagna elettorale della guerra fredda?
L’8 febbraio 1948, con la pubblicazione del decreto di «convocazione dei comizi» per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, viene fissata la data del 18 aprile per il voto e prende ufficialmente il via una delle più incerte e tese campagne elettorali della storia politica italiana, la prima della guerra fredda. Gli schieramenti contrapposti sono ormai ben definiti: da un lato le forze di sinistra, essenzialmente il Pci e il Psi, riuniti nel Fronte popolare; dall’altro la Dc e i suoi alleati di governo.
Gli italiani che si apprestano ad andare alle urne sono oltre 29 milioni. Il sistema elettorale con il quale si va al voto è proporzionale e, grazie all’introduzione del suffragio universale, sono coinvolti tutti i cittadini maggiorenni (21 anni) di entrambi i sessi. Ne deriva, per i partiti in lizza, la necessità di organizzare una campagna elettorale moderna e di massa, con l’impiego di ingenti risorse, l’utilizzo di svariati mezzi di comunicazione (comizi, manifesti, volantini, lettere, giornali, trasmissioni radiofoniche, produzioni cinematografiche) e la nascita della figura prima sconosciuta del militante, cioè l’attivista del partito impegnato a fare proseliti. La mobilitazione elettorale, inoltre, riguarda tutto il territorio nazionale, dai grandi centri urbani alle campagne più remote. E lo scontro politico assume le sembianze di una radicale e ultimativa scelta di campo, tra opposti inconciliabili – democrazia-comunismo, blocco occidentale-blocco orientale, Usa-Urss, capitalismo-anticapitalismo, cattolicesimo-ateismo – perché, come spiega tra gli altri il dirigente comunista Gian Carlo Pajetta, è «un momento della guerra fredda».

Le principali forme di comunicazione e di propaganda sono i comizi, in cui gli oratori tengono accorati e argomentati discorsi sulle proprie ragioni e sui rischi di un’affermazione degli avversari. Ai classici comizi nelle piazze, si aggiungono anche gli incontri con piccoli gruppi di elettori, organizzati o casuali, come i comizi volanti, improvvisati in qualsiasi luogo e momento.
Per affrontarli al meglio, i partiti principali spingono gli attivisti ad imparare a parlare in pubblico, fornendo loro dei manuali o degli schemi tematici per affrontare il contraddittorio con gli avversari. Inoltre si punta molto sulla reiterazione di slogan sintetici, semplici, facili da decodificare e di grande impatto emotivo attraverso altoparlanti fissi e mobili, manifesti, scritte murali e volantini, per far leva sulla sensibilità, l’istinto e la paura (in caso di vittoria degli avversari) più che sulle riflessioni approfondite e per raggiungere un pubblico ampio e trasversale per ceto sociale e livello culturale, analfabeti compresi. Soprattutto al Sud, dove la percentuale di elettori che non sanno leggere e scrivere è più alta, si rivela di grande efficacia il giornale parlato, che permette di diffondere oralmente idee, notizie, programmi e dottrine.

Le foto d’epoca – al netto del sonoro, che s’intuisce – restituiscono un ritratto eloquente: muri tappezzati in ogni dove di manifesti e scritte, piazze gremite di folla che assiste ai comizi con bandiere e cartelli e tutti i punti di ritrovo – dai bar, alle osterie, alle chiese – coinvolti nella lotta. Sui muri, spesso ancora segnati dai bombardamenti, in ogni angolo della penisola, è guerra di manifesti con simboli dei partiti, slogan e vignette satiriche il più delle volte attaccati gli uni sugli altri con la farina di grano al posto della colla sintetica che scarseggia.
D’altra parte l’esito delle urne è incerto. Si arriva al voto con la convinzione diffusa, supportata dai risultati delle precedenti elezioni amministrative in Sicilia, a Roma e a Pescara, che i partiti di sinistra riuniti nel Fronte popolare possano ottenere la maggioranza o comunque un’affermazione talmente decisa da rendere difficile un governo senza di loro, che dall’esecutivo erano stati estromessi nel corso dell’anno precedente dal leader democristiano e presidente del consiglio De Gasperi. Il diffuso disagio sociale ed economico dovuto alla cattiva congiuntura e ai disastri lasciati in eredità dalla guerra sembrano del resto spingere in questa direzione.

Come si articolarono l’intervento americano e il Piano Marshall?
Il 5 giugno 1947, in un discorso tenuto in occasione del conferimento delle lauree all’università di Harvard, il segretario di Stato americano George Cattlet Marshall aveva annunciato un colossale piano di aiuti economici per la ricostruzione dell’Europa. La cifra, astronomica per l’epoca, raggiungeva i 12 miliardi di dollari in quattro anni, di cui all’Italia sarebbe toccato circa un miliardo e mezzo di dollari, con cui ricostruire industrie, case, strade, ferrovie, acquedotti e altre infrastrutture distrutte dai bombardamenti. Tuttavia, dopo la rottura con l’Urss, la condizione non scritta ma necessaria per beneficiare delle ingenti risorse americane è la collocazione chiara e stabile del paese nel blocco occidentale guidato dagli Usa, senza rischi di svolte comuniste, a cominciare dal risultato delle elezioni.

L’annuncio del Piano Marshall, dunque, rappresenta un passo ulteriore verso la divisione del mondo in blocchi contrapposti. Il Piano, infatti, se da un lato ha una chiara funzione anti-sovietica, volta a contenere l’espansione della sua sfera d’influenza, dall’altro presuppone la ricostruzione del mondo occidentale sulla base di un modello di capitalismo integrato a guida, immagine e somiglianza di quello americano.

L’influenza americana che gli aiuti materiali contribuiranno ad innescare non sarà solo di natura politica, diplomatica ed economica, ma anche culturale in senso più ampio. Il fascino degli Usa, con la sua conseguente incidenza sulle scelte elettorali degli italiani, infatti, si propaga anche attraverso i miti che si irradiano da oltreoceano, dalle star di Hollywood a quelle della musica, dai romanzi di grande successo come quelli di Hemingway alle immagini scintillanti delle moderne metropoli. Non a caso in un manifesto della Dc si evidenzia che «anche gli attori di Hollywood sono in linea nella lotta contro il comunismo!!», con le foto di Rita Hayworth, Spencer Tracy, Bing Crosby, Clark Gable, Gary Cooper e Tyrone Power.

Miti che si saldano con i racconti dei parenti emigrati negli Stati Uniti e con l’immagine ancora viva negli occhi di molti italiani dei soldati americani che avevano contribuito a riportare la libertà nel paese dopo gli anni della dittatura fascista, distribuendo al loro arrivo pane, tavolette di cioccolata e sigarette, dimostrando di essere una nazione grande, giovane e generosa, che ora si fa carico anche dell’aiuto per la ricostruzione materiale.

Il tema della scelta di campo internazionale e quello ad esso strettamente connesso della possibilità di beneficiare degli aiuti americani per la ricostruzione e il benessere futuro, diventano inevitabilmente elementi centrali della contesa elettorale italiana e chiaramente giocano un ruolo rilevante in favore della Dc.

Per scongiurare l’eventualità di una vittoria comunista alle elezioni italiane gli Usa organizzano una massiccia campagna di propaganda. La principale leva utilizzata, come detto, è quella degli aiuti economici. Tuttavia i tempi tecnici per far affluire concretamente le risorse del Piano Marshall in Italia prima del voto non ci sono. Nel frattempo, quindi, il Governo americano adotta due misure d’emergenza in sostituzione del programma Unrra  terminato in dicembre, che destinano all’Italia oltre 290 milioni di dollari che vengono destinati per lo più all’acquisto di generi di prima necessità che, insieme agli aiuti materiali scaricati dalle navi americane che cominciano ad affluire in numero sempre maggiore nei porti italiani, servono all’ambasciatore Dunn per promuovere attivamente l’immagine degli Usa nelle settimane decisive prima del voto. In vista del 18 aprile, infatti, Dunn si dedica a un febbrile programma di pubbliche relazioni, di cerimonie nei porti dove attraccano le navi cariche di aiuti e di inaugurazioni di case e infrastrutture finanziate con fondi americani, alle quali sono sempre presenti anche esponenti del Governo, della Dc e dei partiti alleati.

Per sfruttare al meglio l’impatto emotivo degli aiuti sull’opinione pubblica italiana il giornalista Drew Pearson aveva già partorito l’idea del Friendship Train, il treno dell’amicizia, vale a dire un convoglio partito da Los Angeles il 7 novembre 1947 e arrivato a New York dopo aver raccolto lungo il tragitto viveri e altri prodotti per un valore di oltre 40 milioni di dollari, che arriva in Italia e attraversa con grande successo la penisola.

La campagna per influenzare il voto in Italia coinvolge anche la popolosa comunità italoamericana. A questo scopo vengono potenziate le trasmissioni radiofoniche di Voice of America per l’Italia, che mettono in evidenza tutte le notizie positive relative agli aiuti e ai buoni rapporti tra Italia e Stati Uniti. Appositi programmi, volti a orientare favorevolmente l’opinione pubblica italiana, vengono fatti registrare da personaggi famosi, come Frank Sinatra, Gary Cooper, il sindaco di New York Vincent Impellitteri e il campione dei pesi medi Rocky Graziano.

Ma la principale leva propagandistica messa in atto per mezzo della comunità italoamericana è quella delle lettere ai familiari in patria, che inizia spontaneamente il 10 novembre 1947, quando George J. Spatuzza, leader dell’influente Order Sons of Italy in America di Chicago, lancia un appello agli italiani residenti negli Usa affinché inviino ai propri connazionali in patria messaggi con l’invito a non votare per i candidati di sinistra. L’iniziativa delle lettere, anche ciclostilate, si diffonde in tutti gli stati dove risiedono italoamericani e conterà un milione di messaggi come: «Svegliatevi, combattete il Comunismo! Esso vi porta alla rovina, mentre l’America vuole soltanto la vostra salvezza. Fate conoscere a tutti la verità». Oppure: «L’ora della grande decisione si avvicina. Il 18 aprile sarà una data fatidica per l’Italia e stabilirà se essa dovrà continuare ad essere una grande nazione, libera, indipendente e arbitra dei suoi futuri destini o dovrà essere soggiogata in catene al carro di Stalin. Non vi fate infinocchiare dalle menzogne dei comunisti […]. I comunisti italiani lottano e tramano solo per la Russia».

Quali conseguenze produsse il risultato delle elezioni del 18 aprile?
Il risultato delle urne consegna il paese alla Dc, che ottiene un irripetibile 48% dei voti, raccogliendo molti consensi anche a destra,, e ai suoi alleati centristi e riformisti, col concorso rilevante di fattori esterni: la mobilitazione capillare della Chiesa cattolica e delle sue emanazioni, come l’Azione cattolica e i Comitati civici di Luigi Gedda, che determinano una massiccia «sovrapposizione tra aspetti religiosi e quelli politici» e uno straordinario «coinvolgimento del sacro», testimoniato anche dal moltiplicarsi di apparizioni, statue lacrimanti e miracoli vari che, se non possano essere pensati come una strategia ecclesiastica prestabilita, sono senza dubbio l’effetto di una campagna elettorale fortemente ideologizzata, che arriva ad assumere le sembianze dell’atavica lotta tra il bene e il male; il supporto americano, basato sull’influenza culturale dei suoi miti e modelli, e soprattutto sull’elargizione di ingenti aiuti materiali con l’implicita minaccia di farli venir meno e di escludere il paese dai benefici del piano Marshall in caso di vittoria delle sinistre; l’impatto emotivo delle notizie internazionali, come il colpo di stato comunista in Cecoslovacchia e la promessa anglo-franco-statunitense di restituire Trieste all’Italia.

La «nuova Lepanto», come è stato definito il risultato elettorale del 1948, assumerà nei decenni successivi un valore periodizzante, avviando una nuova e lunga fase politica basata sulla definizione dei rapporti di forza tra i partiti ex alleati nella fase dell’unità resistenziale, e in particolare tra la Dc e il Pci, oltre che del sistema di valori all’interno del quale da quel momento in poi si sarebbero svolte le vicende politiche, sociali ed economiche nazionali. La Dc, uscita vittoriosa da quello scontro, saprà infatti consolidarsi e gettare le basi per una duratura permanenza in posizione egemone nella democrazia italiana, che sarà poi chiamata ad affrontare anche momenti drammatici come gli anni di piombo e il terrorismo.

Al tempo stesso, però, il sistema che si delinea in quell’anno cruciale è minato al suo interno anche da alcuni germi già nati e proliferati, in modi e forme diverse, ai tempi del fascismo, come l’affermazione della politica-mestiere, la sovrapposizione fra interessi dello Stato e del partito, e in seno al partito dei privati, l’appartenenza politica come benemerenza in grado di garantire accesso a opportunità e privilegi, l’esistenza di una burocrazia parallela sovrapposta o in certi casi coincidente con quella degli enti dello Stato ma facente capo al partito stesso, la concezione del partito come dispensatore di favori e di vantaggi materiali.

«La Dc – come è stato osservato – introiettava abilmente una parte del paese che intendeva la nuova congiuntura della guerra fredda come l’occasione perfetta per congelare la situazione senza pericolose innovazioni: una sorta di iniziale “partito dell’immobilismo”». Un quadro, questo, che ne ridisegna il ruolo all’interno di un blocco conservatore e anticomunista di cui è la forza egemone, imprigionandola in una sorta di gabbia – molto remunerativa però sul piano elettorale – che se da un lato le consente di perpetuare la guida e il controllo della vita politica italiana, «per altro verso ne frenava le spinte riformatrici pur presenti al suo interno».

Quanto al fronte opposto, i partiti di sinistra, specie il Pci che Togliatti tenta di affermare come «partito nuovo», sono a loro volta ingabbiati nella difficoltà di rendere compatibile l’eredità del leninismo, profondamente radicata nel movimento operario, e il rigido ruolo guida del comunismo internazionale assunto dall’Urss, con la realtà e le specificità della democrazia italiana, inserita nel blocco occidentale al di qua della cortina di ferro. Di contro in molti italiani che si riconoscono nei partiti di sinistra si manifesta la delusione per gli esiti della Resistenza, che cominciano ad apparire palesemente limitati e riduttivi rispetto alle speranze nutrite a quel tempo, per l’impossibilità di portare a compimento quella che era stata immaginata come una rivoluzione democratica e per non aver tenuto fede a quei presupposti di rinnovamento, anche sociale, che in essa sembravano ben iscritti.

In un paese prigioniero della guerra fredda, che impedisce di fatto una fisiologica alternanza tra gli schieramenti, nasce così quella che è stata definita una «democrazia bloccata», che Aldo Moro nel 1973 etichetterà anche come «difficile», spaccata in due, e che tale rimarrà per circa mezzo secolo, ad eccezione di una breve parentesi caratterizzata dal tentato ritorno alla collaborazione emergenziale riportando il Pci nell’area delle responsabilità di governo, per contrastare le strategie eversive e il terrorismo negli anni di piombo, attraverso un «compromesso storico» che però fallirà anche a causa del rapimento e dell’assassinio dello stesso Moro da parte delle Brigate Rosse.

Quali risvolti aveva l’attentato a Togliatti?
Dopo la lunga fase elettorale e la formazione del nuovo Governo, il primo a guida democristiana legittimato dal voto popolare, il confronto politico italiano rimane aspro. Uno dei principali motivi di scontro è l’avvio del Piano Marshall. Il 28 giugno, infatti, il Governo ratifica l’Accordo di cooperazione economica tra Italia e Stati Uniti d’America senza ricorrere al parere delle Camere, suscitando l’ira delle sinistre. Il dibattito parlamentare divampa nei giorni seguenti, tra il 9 e il 10 luglio, quando alla Camera dei deputati va in discussione l’approvazione della ratifica dell’accordo. In quell’occasione Nenni attacca il Governo spiegando che Dottrina Truman e Piano Marshall sono «due aspetti di una stessa politica», «in funzione anticomunista», mentre Togliatti sostiene che il Piano Marshall, legando l’Italia alla politica estera degli Usa, porta il paese sulla strada delle guerra. Ma la ratifica passa a grande maggioranza, con 297 voti a favore e 96 contrari.

Gli strascichi dello scontro proseguono anche fuori dal Parlamento. Il 13 luglio, sul giornale del Psli «L’Umanità», in un articolo sopra le righe intitolato Paranoia, a firma del direttore Carlo Andreoni, si leggono queste parole: «prima che i comunisti possano consumare per intero il loro tradimento, prima che armate straniere possano giungere sul nostro suolo per conferire ad essi il miserabile potere “Quisling” al quale aspirano, il Governo della Repubblica e la maggioranza degli italiani avranno il coraggio, l’energia e la decisione sufficienti per inchiodare al muro del loro tradimento Togliatti ed i suoi complici, e per inchiodarveli non metaforicamente». E, in effetti, dalle metafore c’è chi passa ai fatti: mercoledì 14 luglio il leader comunista Palmiro Togliatti viene gravemente ferito in un attentato all’uscita dalla Camera.

Non appena la notizia dell’attentato viene diffusa dal giornale radio delle 13 sul paese cala una cappa di tensione. Lo sciopero e le manifestazioni iniziano spontaneamente, senza attendere alcun ordine dai vertici di partito e sindacali. Ma la geografia della protesta mette subito in evidenza un quadro non uniforme, con la spaccatura tra zone industriali e agricole, tra città e campagne e, con le dovute eccezioni, tra nord e sud della penisola.

La partecipazione dei lavoratori alla protesta, specie nelle regioni settentrionali dove è maggiore la presenza comunista, raggiunge tassi elevati. L’intensità della protesta, peraltro, si spinge ben oltre le stesse aspettative e intenzioni del Pci, assumendo i connotati di una potenziale insurrezione popolare anche se lo stesso Pietro Secchia, leader dell’ala rivoluzionaria del partito, subito dopo l’attentato, esprime dubbi su un’eventuale azione di forza.

Lo sciopero e le occupazioni delle fabbriche portano anche a disordini e violenti incidenti, specie nelle grandi città del nord, dando la netta sensazione di essere di fronte ad un principio di insurrezione e al rischio di una guerra civile. Sensazione rafforzata dal fatto che in molte zone d’Italia alle manifestazioni partecipano ex partigiani spesso armati, da Torino alla cintura milanese, e poi a Genova, La Spezia, in Bassa Polesine, in provincia di Vicenza, a Schio, Venezia, Piacenza, Massa, Siena, Livorno, Grosseto, in val di Chiana, a Pescara. In tutta la penisola scoppiano manifestazioni di violenza, che «in qualche località, assumono vero e proprio carattere insurrezionale», come osserva un rapporto dei Carabinieri: scioperi spontanei, occupazioni di fabbriche, manifestazioni e cortei che spesso sfociano in violenti scontri con le forze dell’ordine, assalti alle prefetture, alle questure, alle sedi dei partiti di governo e di destra, blocchi stradali e interruzioni ferroviarie.

Solo la responsabilità della classe dirigente del Pci (Togliatti in primis) e della Cgil di Di Vittorio impediscono guai peggiori.

Il bilancio finale degli incidenti è incerto. Il ministro Scelba dirà alla stampa e al Senato nei giorni successivi che ci sono stati 16 morti, di cui 9 appartenenti alle forze dell’ordine, 204 feriti, di cui 120 agenti, che da successivi controlli saliranno complessivamente a 500. L’immagine di un paese intero in rivolta, così com’è passata alla storia, non è però del tutto veritiera o comunque non è l’unica possibile. C’è anche quella che Walter Tobagi chiama una «seconda Italia», che non scende in piazza. Anche dalle relazioni post-sciopero delle federazioni del Pci emerge il dissenso espresso dai ceti medi e dai partiti più moderati in quelle ore. Vi sono poi zone d’Italia, soprattutto al Mezzogiorno, dove l’adesione allo sciopero è parziale o addirittura nulla.

Le conseguenze di questa sollevazione sono di vario tipo. Innanzitutto la fine dello sciopero e dell’ondata di proteste e incidenti coincide con l’inizio di una dura fase repressiva, sotto la regia del ministro Scelba. Alla fine, secondo le stime del ministero dell’Interno, si conteranno 5.113 arrestati e denunciati (rispettivamente 681 e 4.432), anche se nei mesi successivi circolano cifre più altre, fino a quasi 7.000.

Lo sciopero del 14-16 luglio, al di là dei risultati contingenti, ha poi una decisa valenza politica poiché rende palese che nonostante la sconfitta elettorale del 18 aprile le forze di sinistra, e in particolare il Pci, possono comunque contare su un forte seguito popolare. Tra i comunisti, però, resta aperta la questione della mancata insurrezione. Le velleità insurrezionali, infatti, hanno trovato nuova linfa proprio nel buon esito dello sciopero generale e nella prova di forza che esso ha rappresentato in termini di adesioni e partecipazione. Concluso lo sciopero e rientrata l’emergenza seguita all’attentato a Togliatti, nelle settimane e nei mesi seguenti in una parte della dirigenza e della base comunista continua quindi a sedimentare la delusione per la sospensione dello sciopero e per il suo mancato sbocco insurrezionale. Si registrano perfino casi di abbandono del partito. Il dibattito interno fa emergere lo scontro tra le due principali correnti del Pci: quella moderata, rappresentata da Togliatti, Amendola e Di Vittorio, che insiste più sugli «errori» degli scioperanti che su quelli del partito, e quella operaista e rivoluzionaria, che fa capo a Secchia, critica l’insufficienza direzionale del partito più che la sollevazione spontanea dei militanti.

Infine lo sciopero segna, anche formalmente, la fine dell’unità sindacale sancita dal patto di Roma del 9 giugno 1944, che era già andata in crisi di pari passo con il tramonto del paradigma consociativo. Poche settimane dopo, tra il 16 e il 18 ottobre, la scissione è cosa fatta: la corrente sindacale democristiana crea la Libera Confederazione italiana del lavoro. Giulio Pastore è eletto segretario. La nuova formazione sindacale si richiama alle istanze della scuola sociale cristiana e nel 1950 confluirà nella Cisl, la Confederazione italiana sindacato lavoratori.

(pubblicato su letture.org)

1948. Gli italiani nell'anno della svolta

1948. Gli italiani nell'anno della svolta

Mario Avagliano, Marco Palmieri, il Mulino

di Redazione

Più d’una volta – e più d’un esponente politico dell’uno o dell’altro partito in lizza – è stato ricordato al popolo elettore nei mesi scorsi che le elezioni del 4 marzo sarebbero state importanti quanto quelle del 18 aprile del 1948, le prime dell’Italia liberata dal ventennio fascista e non più divisa tra monarchici e repubblicani, tra devoti del duce di Salò e ammiratori convinti del vecchio Josif Stalin. Hanno ragione Mario Avagliano e Marco Palmieri quando scrivono, nell’Introduzione di questo volume, che le elezioni di quell’anno “sono state un passaggio epocale, dall’esito tutt’altro che scontato, che ha sancito la fine della travagliata transizione dal fascismo alla democrazia e l’inizio di una fase politica nuova”.

Tutto vero ma anche abbastanza noto. E però il libro racconta soprattutto altro, amplia questa constatazione per così dire “storica” e assodata e ne indaga le ragioni, scandagliando con rigore e perizia il terreno sul quale fu preparato quel voto. Un voto, ed è bene ricordarlo, il cui esito era tutt’altro che scontato, nonostante quanto si sia detto negli ultimi decenni. Gli italiani provati dalla guerra furono messi dinanzi a un’alternativa secca: o il mondo occidentale a guida americana o quello comunista. Ma i connazionali come vissero quelle settimane? Come si avvicinarono alla scelta decisiva, destinata a segnarne il futuro politico? Prima di arrivare al momento clou, gli autori ripercorrono i temi sul tavolo della campagna elettorale, che giocoforza si intersecavano con le grandi questioni che il Dopoguerra aveva aperto.

Oltre alla scelta di campo da compiere, c’era il Piano Marshall (Togliatti non lo voleva, De Gasperi ovviamente sì), le terre di confine ancora contese, le tensioni sociali e gli scontri non rari tra gli italiani stessi che non avevano ancora del tutto nascosto le armi della guerra civile. Ma soprattutto, vi era la fine dello spirito costituente. Una fine annunciata, la cui gestazione è durata mesi: “Le grandi manovre per la rottura dei governi di unità nazionale, sostenuti da tutti i partiti della Resistenza, erano di fatto iniziate il 3 gennaio 1947, quando il leader della Dc e presidente del Consiglio Alcide De Gasperi si reca in visita negli Stati Uniti”, si legge. Da lì in poi, la tensione tra le forze politiche salì in modo inesorabile. E non si esaurì neppure con il voto del 18 aprile, che consegnò alla Dc le chiavi del governo con una maggioranza netta.

Tant’è che si ricordano le discussioni aspre sulla Dottrina Truman e il Piano Marshall, nonostante poi siano entrambe state approvate con larghissime maggioranze parlamentari. Il momento che avrebbe potuto segnare una svolta, anche nella storia d’Italia, reca la data del 14 luglio, quando Antonio Pallante, appena fuori Montecitorio, sparò quattro colpi di pistola contro Palmiro Togliatti che (uscito dalla Camera) stava andando a prendersi una “granita di caffè”. Sono le parole di Nilde Iotti a ricordare quella mattinata, con il leader comunista che prima di entrare in sala operatoria continuava a dire: “State calmi, state calmi”. Non era il momento di esasperare di nuovo gli animi, di far ripiombare il paese nella guerra intestina.

Il saggio è completo, l’apparato bibliografico è ricco, le note confermano l’ampio e documentato lavoro di ricerca. Apprezzabili le riproduzioni dei manifesti della campagna elettorale del 1948, che bene fanno comprendere al lettore anche non avvezzo alla lettura di libri storici, quale fosse il clima di quei mesi di totale incertezza. In un’epoca in cui non c’erano sondaggi né sondaggisti, il conto alla rovescia per l’apertura delle urne era davvero vissuto con pathos.

1948

Mario Avagliano e Marco Palmieri

Il Mulino, 435 pp., 25 euro

(pubblicato da Il Foglio, 2 maggio 2018)

https://www.ilfoglio.it/libri/2018/05/02/news/1948-gli-italiani-nell-anno-della-svolta-192460/

1948: come gli italiani vissero l’anno della scelta di campo

1948: come gli italiani vissero l’anno della scelta di campo

di Gabriele Parenti

Firenze – Il 1948 è stato  uno spartiacque  nella storia dell’Italia postbellica. Il libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri  che ha vinto di recente la nona edizione del Premio Fiuggi  e che  s’intitola, appunto,  1948. Gli italiani nell’anno della svolta (Il Mulino ediz) analizza in modo approfondito e da molteplici punti d’ osservazione quali furono gli avvenimenti, gli aspetti del dibattito politico, le caratteristiche della campagna elettorale che sancì l’inizio di una fase politica nuova destinata a durare a lungo.

Ma il libro esamina anche gli eventi successivi come l’attentato a Togliatti, che portò il  Paese sull’orlo della guerra civile,  la  politica internazionale segnata dalla contrapposizione tra i blocchi, vicende della vita economica come il Piano Marshall e aspetti del costume come la vittoria di Bartali al Tour de France.

Soprattutto come vissero gli italiani quel passaggio tumultuoso? Quali ideali li animarono? Quali stati d’animo, passioni e condizionamenti ne indirizzarono l’orientamento politico? Diari, lettere, interviste, relazioni delle autorità e di pubblica sicurezza, carte di partito, documenti internazionali, giornali, volantini permettono di ricostruire il quadro complesso dell’Italia dell’epoca, illuminando anche molte questioni che hanno caratterizzato i decenni successivi, fino ai nostri giorni.

Abbiamo intervistato lo storico e giornalista Mario Avagliano.

Avete scritto che la collocazione   dell’Italia in un mondo diviso in   due  blocchi contrapposti non era poi così scontata 

Avagliano  Sì, la collocazione internazionale dell’Italia era in dubbio. Secondo gli accordi tra Usa e Urss l’Italia era sotto la sfera d’influenza americana, ma la sua posizione geografica al confine della Jugoslavia di Tito e la presenza del partito comunista più forte di occidente, potevano far cambiare le cose. Anche perché le truppe alleate non erano più sul nostro territorio nazionale.

Anche con l’ausilio di foto dei manifesti elettorali  avete sottolineato che la campagna elettorale ebbe toni assai più  accesi  rispetto al 1946 .  Quali i temi più significativi?

Avagliano  Gli italiani vissero con grande partecipazione emotiva le elezioni del 18 aprile del 1948. Anche i toni della campagna elettorale furono molto accesi e ci fu un’affluenza alle urne quasi totalitaria. Andarono a votare anche le persone molto anziane e i malati. Come emerge dalle lettere, i diari e le  relazioni delle prefetture che abbiamo citato, si capì che era in gioco la democrazia e il futuro dell’Italia.

Oltre al Piano Marshall  che aveva un importante rilievo politico,  quali le influenze più rilevanti ? 

 Avagliano  Un ruolo significativo fu recitato dalla Chiesa cattolica che, su direttiva del Papa Pio XII, si mobilitò in favore della DC e contro il Fronte popolare delle sinistre. Si formarono comitati civici in tutte le parrocchie, i sacerdoti parlarono delle elezioni nelle omelie, spesso minacciando le pene dell’inferno a chi votava per il simbolo di Garibaldi, le associazioni cattoliche fecero un lavoro capillare, casa per casa.

Nel libro si legge che  nel Fronte Popolare  c’era  ottimismo. Perché ?

Avagliano  I militanti del Fronte pensavano di poter vincere le elezioni. Proprio qualche giorno prima del voto, fu diffuso un manifesto che recitava: “Il Fronte vince”. Questa previsione, poi rivelatasi errata, era originata da diversi fattori: i consensi raccolti da PCI e Psi il 2 giugno del 1946, pari a oltre il 40%: la vittoria delle sinistre in tutte le tornate di elezioni amministrative che si erano svolte dopo il referendum istituzionale, compreso le elezioni a Pescara del febbraio 1948; la partecipazione popolare di massa ai comizi degli esponenti del Fronte. Fu all’indomani del 18 aprile che fu coniato il motto “Piazze piene, urne vuote”.

L’eredità del 1948 pesa tuttora sul dibattito politico del nostro Paese. In senso positivo perché ancora oggi c’è una forte partecipazione popolare al voto e alle campagne elettorali; se è vero che le piazze fisiche non sempre sono così piene, tuttavia lo sono le piazze virtuali dei canali social, dove gli italiani si confrontano sui vari temi. In senso negativo perché le fake news, la personalizzazione dello scontro politico, la demonizzazione degli avversari sono caratteristiche che hanno attraversato la storia del dopoguerra e purtroppo sono presenti anche oggi.

Il libro ha di recente  ottenuto il Premio Fiuggi. Una bella soddisfazione… 

Avagliano  Siamo molto contenti del Premio Fiuggi Storia come miglior saggio di storia del 2018. È uno straordinario riconoscimento che premia i nostri sforzi di ricerca e il nostro progetto storiografico di raccontare pagine di storia contemporanea dell’Italia attraverso i sentimenti, le opinioni, le cronache degli italiani dell’epoca, raccolti attraverso le lettere, i diari, le relazioni delle autorità pubbliche.

 

(www.stamptoscana.it, 24 dicembre 2018)

Premio Fiuggi Storia 2018 a Avagliano e a Palmieri

Premio Fiuggi Storia 2018 a Avagliano e a Palmieri per il miglior libro di saggistica dell’anno

Consegnati martedì 4 dicembre 2018, in una cerimonia presso la Biblioteca Militare Centrale dello Stato Maggiore dell’Esercito di Via XX Settembre a Roma, i riconoscimenti della nona edizione del Premio FiuggiStoria. Il Premio è promosso dalla Fondazione “Giuseppe Levi-Pelloni” in collaborazione con il Comune di Fiuggi e con i patrocini del Senato della Repubblica, Camera dei Deputati e Presidenza della Regione Lazio. Questa edizione del Premio è stata dedicata allo storico Giuseppe Galasso, ricordato da Alfredo Arpaia, presidente della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo.

Mario Avagliano, giornalista e storico, originario di Cava de’ Tirreni, collaboratore del Mattino e del Messaggero, direttore responsabile di Cavanotizie, e Marco Palmieri con il libro “1948. Gli italiani nell’anno della svolta” (Il Mulino) sono i vincitori della nona edizione del Premio Fiuggi Storia per la saggistica. Il libro è stato selezionato dalla giuria tra una cinquina di finalisti in cui c’erano anche Luciano Canfora, Paolo Mieli, Guido Melis, Vittorio Robbiati Bendaud e Claudio Vercelli.

(Ansa.it, 5 dicembre 2018)

  1. Gli italiani nell’anno della svolta è un viaggio nel cuore di un anno decisivo della storia italiana, per capire gli stati d’animo alla vigilia delle elezioni più significative della vita del Paese, la difficile transizione dal fascismo alla democrazia, le strategie dei partiti, il valore dei leader quali lo statista Alcide De Gasperi, padre costituente, fautore del piano Marshall  e precursore della nascita del centrismo con la clamorosa affermazione della Democrazia Cristiana, gli aiuti americani e l’ingresso dell’Italia nella Nato, gli effetti della guerra fredda, il ruolo della Chiesa nella propaganda elettorale e nella mobilitazione delle coscienze, i riflessi sovietici e l’attentato a Togliatti, i fermenti e le ribellioni, esaminati attraverso lettere e diari privati, rapporti delle autorità di pubblica sicurezza, la stampa e i cinegiornali dell’epoca. L’Italia di De Gasperi, Bartali, Togliatti, Nenni, Pio XII, Aldo Moro, e l’Italia dei giovani di allora, tra cui un inedito Silvio Berlusconi e un imprevisto Umberto Eco, è ricostruita attraverso la briosa rivisitazione di Avagliano e Palmieri per offrire occasioni di riflessione ed intessere un sottilissimo filo con la postmodernità. Molti anche gli episodi e i personaggi relativi a Napoli e alla Campania.
  • Pubblicato in News

Quando Mussolini incantò Hemingway

di Mario Avagliano
 
Il grande bluff del fascismo e di Benito Mussolini abbagliò non solo milioni di italiani, ma anche buona parte della stampa internazionale (oltre che politici di lungo corso o alle prime armi, da Winston Churchill al giovane John Kennedy). I corrispondenti americani nel Belpaese, dopo la marcia su Roma, per diversi anni fecero a gara a intervistare il dittatore italiano ed espressero la loro ammirazione per il duce dal “famoso cipiglio stampato sul volto”, come lo definì nel 1923 lo scrittore Ernest Hemingway, futuro premio Nobel per la letteratura.
 
Lo stesso Hemingway, che anni più tardi in Spagna si scaglierà con veemenza contro i fascisti di Franco, già nel giugno del 1922, dalle colonne del “Toronto Daily Star”, aveva difeso Mussolini dagli attacchi di violenza politica: “È un uomo grande, dalla faccia scura, con una fronte alta, una bocca lenta nel sorriso e mani grandi, non è il mostro che è stato dipinto, non è come viene descritto, non è un rinnegato socialista, ha avuto molte buone ragioni per lasciare il partito”.
 
E se Hemingway fu tra i primi a capire chi fosse realmente Mussolini e a ritrattare le sue posizioni, stigmatizzandolo come «il più grande bluff d’Europa», ci fu invece chi rimase a lungo ottenebrato dal duce e ne tessé le lodi fino alla vigilia della seconda guerra mondiale, come racconta il saggio di Mauro Canali intitolato “La scoperta dell’Italia” (Marsilio, pp. 480), vincitore del Premio Fiuggi Storia.
 
In effetti il movimento fascista, inventato in Italia (spesso ci si dimentica di questo non invidiabile primato nazionale) e poi esportato all’estero, fenomeno nuovo e sconosciuto alla cultura politica del mondo occidentale, si rivelò agli occhi della stampa estera un enigma difficile da decifrare e narrare. E diversi giornalisti presero lucciole per lanterne, ignorando la soppressione delle libertà imposta dal regime fascista ed arrivando ad attribuire a Mussolini una riforma del capitalismo unita all’umanitarismo sociale, almeno prima che la guerra in Etiopia e le leggi razziste del 1938 rivelassero la vera identità del fascismo.
 
Furono numerose le testate statunitensi, dal Chicago Daily News al Chicago Tribune, dal Public Ledger di Filadelfia al New York Herald Tribune al New York Times, che ospitarono articoli favorevoli al fascismo, come risulta dalla ricerca di Mauro Canali. Anzi l’arrivo al potere del fascismo indusse molte agenzie e giornali ad aprire uffici di corrispondenza a Roma (sottoposti peraltro a sorveglianza dal regime). II duce venne descritto dai giornalisti americani come un dittatore buono, un vero “Man of People”, un uomo di governo abile, spregiudicato e dinamico, conquistando anche corrispondenti di sicura fede democratica, come Walter Lippmann, vincitore poi di due premi Pulitzer e schieratosi negli anni Sessanta contro la guerra in Vietnam; Ida Tarbell, detta la «rossa radicale» per la vicinanza alle posizioni del movimento socialista americano; Anne O’Hare McCormick, che sul supplemento domenicale del New York Times definì il fascismo giusta espressione della rivolta dei giovani «stanchi degli armeggi dei parlamenti»; e perfino la marxista e femminista Louise Bryant, moglie di John Reed, che era stata con lui in Russia nei giorni della Rivoluzione d’Ottobre.
 
Per molti anni Mussolini, si legge nel saggio di Canali, “godette di grande popolarità presso la stampa americana”, che esaltò il decisionismo, l’iperattivismo e la ferrea volontà del giovane dittatore nell’imporre regole a un popolo che in fondo consideravano anarchico, paragonandolo addirittura a Theodore Roosevelt. Le cause dell’abbaglio? Il merito attribuito al duce di aver salvato l’Italia dal “red scare”, il pericolo rosso, e di averla modernizzata, ma anche la scelta del regime fascista dell’intervento statale nell’economia, sul modello del New Deal di Roosevelt, e della risoluzione dei conflitti sociali attraverso il corporativismo.
 
Ma vi fu anche chi non cadde affatto nella trappola verbale di Mussolini, come il romanziere Francis Scott Fitzgerald, che giunto a Roma nel 1924 con la moglie Zelda, parlò subito di Italia come una terra morta e criticò lo pseudodinamismo del duce, definendolo un “tiranno”.
 
(Il Mattino, 22 febbraio 2018)
Sottoscrivi questo feed RSS