Paronetto, l'uomo chiave della costituzione economica dell'Italia libera

di Mario Avagliano

Consigliere ascoltato e amico di Alcide De Gasperi e di Giovanni Battista Montini (futuro papa Paolo VI); ghost-writer di Pio XII in materia economica e sociale; allievo prediletto di Donato Menichella; amico inseparabile di Ezio Vanoni e di Pasquale Saraceno; riferimento del giovane Guido Carli all’IRI e dopo; consulente economico di Giovanni Gronchi ministro dell’industria; ispiratore di numerosi futuri componenti dell’assemblea costituente, a cominciare da Giorgio La Pira; collaboratore della Resistenza e del Fronte militare clandestino di Montezemolo. Questo e altro è stato Sergio Paronetto (1911-1945), economista e manager IRI, morto a soli 34 anni, tra il 1940 e il 1945 uno dei protagonisti nell’opera di prefigurazione dell’Italia della Repubblica, esercitando una determinante influenza sui cinque grandi “ricostruttori” del Paese: Alcide De Gasperi, Giovanni Battista Montini, Ezio Vanoni, Donato Menichella, Luigi Einaudi. Alla sua figura, ancora poco conosciuta, è dedicato il libro Sergio Paronetto e il formarsi della costituzione economica italiana (Rubbettino, 2012, pp. 550), a cura di Stefano Baietti e Giovanni Farese, che ha il grande merito di sottrarlo al "cono d'ombra" storiografico nel quale finora era stato oscurato.

Il contributo di Paronetto è riconoscibile nel processo di modernizzazione nella continuità che getta un ponte tra la ricostruzione industriale degli anni Trenta e la ricostruzione del Paese negli anni Quaranta. Da lui originano i suggerimenti più penetranti per l’interpretazione della libertà economica e della democrazia economica come essenziali per la libertà e per la democrazia e per misure quali il mantenimento della legge bancaria del 1936; la conservazione dell’IRI e del sistema dell’azionariato di Stato, che avrebbe trovato pochi anni dopo l’auspicata espansione con l’ENI di Vanoni e Boldrini (e Mattei); la programmazione economica, che ha il suo punto più alto nello Schema Vanoni; la genesi del Piano per il Mezzogiorno (con la legge del 1950 scritta da Menichella e Vanoni); la concezione redistributiva del sistema tributario, condivisa con Ezio Vanoni e oggetto della legge del 1951; il sistema di welfare totale; la definizione di un ruolo per i corpi sociali intermedi, in particolare i sindacati, condivisa con l’amico Giulio Pastore; la messa in valore nel dopoguerra dei tanti piani giacenti nei cassetti degli enti fondati o governati da Alberto Beneduce (tra cui il piano Inacasa, il piano autostradale); la costituzione economica italiana attraverso la partecipazione attiva ai documenti che a essa sono propedeutici, quali le Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi e il Codice di Camaldoli.
Nel libro, mettendo al centro i fatti, le teorie, le istituzioni e gli uomini che gravitano attorno alla figura di Paronetto (Alberto Asquini, Enrico Cuccia, Alfredo De Gregorio, Francesco Giordani, Guido Gonella, Giovanni Gronchi, Raffaele Mattioli, oltre a quelli già citati), il fascio di luce sulla “stagione della politica economica” in cui prende forma la via italiana allo sviluppo e la più grande esperienza occidentale di partecipazione dello Stato al capitale delle imprese, assume una nuova riconoscibilità nel cui ambito la componente “cromatica” dell’apporto paronettiano è dominante almeno fino alla seconda metà degli anni Cinquanta.
Abbeveratosi negli anni Trenta a due fonti primarie – nella FUCI con Giovanni Battista Montini e nell’IRI con Donato Menichella –, Sergio Paronetto, è l’anima della rivista “Studium”, cui conferisce valenza e importanza enciclopedica, e dell’omonima casa editrice, e tra il 1940 e il 1945, anno della morte, dà un contributo fondamentale all’elaborazione di una forma per l’economia italiana del dopoguerra, esercitando una forte influenza, fin qui misconosciuta e dimenticata, su Alcide De Gasperi e su molti costituenti. Ben noto a Meuccio Ruini e al suo giovane capo della segreteria tecnica Federico Caffè, e da loro apprezzatissimo, Paronetto difende la necessità del piano quale strumento nel quale si indirizzano sapientemente e proficuamente le scelte di politica economica: responsabilità dello Stato, tuttavia, non passibile di essere un prodotto della burocrazia. La sua eredità in merito verrà proseguita dai fraterni amici e sodali Pasquale Saraceno ed Ezio Vanoni.
Non c’è solo il pensiero, ma anche l’azione (Ascetica dell’uomo d’azione è il titolo delle sue brevi memorie postume, con prefazione di Giovanni Battista Montini). Dopo l’8 settembre 1943, nominato vice direttore generale dell’IRI, collabora con il Fronte militare clandestino di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo e si spende contribuendo a salvare una parte rilevante del patrimonio industriale del Paese secondo le linee del Piano Menichella-Malvezzi, di cui è il garante presso l’Ufficio di Roma dell’IRI, la cui sede è stata trasferita al Nord, e fornendo ai partigiani basi logistiche nei compendi dell’IRI. Contemporaneamente, offre rifugio in casa sua a quanti lottano contro l’occupazione tedesca, correndo gravi rischi.
Al cuore del pensiero e dell’azione di Paronetto sta l’idea che non c’è libertà senza giustizia sociale (dove c’è povertà, non c’è giustizia, non c’è libertà), e che non c’è spazio possibile per la giustizia sociale senza sapiente gestione, sotto il profilo morale e il profilo tecnico, dell’economia, anzitutto dell’economia pubblica. In ciò, pur rispettando l’autonomia di ciascuna disciplina, rompe gli argini disciplinari: economia e società; economia e diritto; economia e statistica; economia e storia.
In quel periodo il giovane economista rompe anche gli argini che separano le tante cerchie chiuse del Paese: cattolici democratici (per Paronetto passa la strada che va da De Gasperi ai Laureati Cattolici e da Montini a Vanoni), comunisti (per Paronetto passa la strada che va da Rodano a Togliatti), liberali (per Paronetto passa la strada che va da Carli a Einaudi; nonché le strade incrociate: da Mattioli a Togliatti, da De Gasperi a Menichella, da De Gasperi a Mattioli).
Si trova durante la guerra, senza averne coltivato l’ambizione, al centro della raggiera che collega la linea dei cinque grandi “ricostruttori” (De Gasperi, Einaudi, Menichella, Montini, Vanoni) e la schiera di valorosi tecnici e politici chiamati, in Italia e all’estero, come ministri e non, a dare pratico corso alla ricostruzione (Andreotti, Boldrini, Campilli, Carli, Cuccia, Fanfani, Ferrari Aggradi, Giordani, Gonella, Gronchi, La Pira, Malagodi, Mattioli, Moro, Pastore, Saraceno, Taviani, Vito).
Paronetto vivo, riceve il pressante invito di De Gasperi a non fargli mancare mai il contributo della “sua coscienza illuminata della realtà” (Andreotti testimonia come Paronetto sia stato il consigliere economico in assoluto più stimato e ascoltato da De Gasperi); Paronetto morto, riceve il tributo di Vanoni, che ne scrive chiamandolo suo “maestro”, e di Menichella, che lo definisce “il più intelligente, preparato e amato tra i miei collaboratori”.

ARGOMENTO DEL LIBRO
Il volume ospita le riflessioni di ben sette ex ministri - Piero Barucci, Sabino Cassese, Francesco Forte, Giorgio La Malfa, Adriano Ossicini, Paolo Savona, Vincenzo Scotti -, di un governatore emerito della Banca d'Italia, Antonio Fazio, di un ex Presidente del CNEL, Giuseppe De Rita, di un ex direttore generale dell'Enciclopedia Treccani, Vincenzo Cappelletti, di un ex capoazienda nel Gruppo IRI ed ex direttore del dipartimento di Diritto privato e comunitario dell’Università di Roma Sapienza, Felice Santonastaso. Completano la squadra studiosi di storia economica, anche delle nuove leve (S. Baietti, S. Bocchetta, L. D’Antone, N. De Ianni, G. Di Taranto, G. Farese, F. Felice, M. Serio, T. Torresi). Pregnante è la testimonianza di Maria Luisa Valier Paronetto, la moglie di Sergio Paronetto, autrice della unica biografia sinora pubblicata (per i tipi di Studium) sulla figura dell’economista valtellinese. La materia generale è la storia economica italiana, in specie quella bancaria, finanziaria e industriale, con saggi riguardanti i fatti, le teorie, gli istituti e gli uomini intrinseci al mondo economico del periodo compreso tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, quali Alberto Asquini, Alberto Beneduce, Guido Carli, Enrico Cuccia, Alfredo De Gregorio, Francesco Giordani, Raffaele Mattioli, Donato Menichella, Pasquale Saraceno, Ezio Vanoni.
Tutto è letto attraverso la vicenda del protagonista cui è dedicata l'attenzione degli autori: Sergio Paronetto (1911-1945), economista di impresa e giovane vicedirettore generale dell'IRI, morto a soli 34 anni, uno degli estensori della legge bancaria del 1936 con Alberto Beneduce e Donato Menichella, incaricato da Giovanni Battista Montini, e anche da Alcide De Gasperi, che aveva già utilizzato l’amico valtellinese per Le Idee Ricostruttive, di pensare quello che diverrà nel 1943 il Codice di Camaldoli (riprodotto in Appendice al volume), destinato a essere la base dalla quale i costituenti trarranno in gran parte i lineamenti della costituzione economica.
Nella sua riflessione sull’economia e lo Stato non si ha traccia di una ideologia di partito o di integralismo religioso, anche se egli è stato, oltre che economista d’impresa e manager industriale, animatore della Fuci e del Movimento Laureati Cattolici, stretto amico e sodale di Giovanni Battista Montini, poi papa Paolo VI, e di Igino Righetti e con questi co-fondatore dello stesso Movimento Laureati. Editore della rivista “Studium”, gran parte dei suoi scritti sono concentrati nelle pagine di questa testata, su “Azione fucina” e nelle relazioni ufficiali dell'IRI, di cui Sergio Paronetto era sistematicamente il primo estensore.

I CURATORI

STEFANO BAIETTI, dirigente dell'Anas, dopo esserlo stato nel Gruppo IRI e in una controllata delle Ferrovie dello Stato, ha approfondito la storia della spesa pubblica nei sistemi infrastrutturali e la storia degli enti in cui ha prestato la sua opera. Con Giovanni Farese è autore di Sergio Paronetto and the Italian Economy between the Industrial Reconstruction of the Thirties and the Reconstruction of the Country in the Forties (in "The Journal of European Economic History", 2010) e della voce biografica Sergio Paronetto (1911-1945), economista e manager industriale (in “Enciclopedia della Banca, della Borsa, della Finanza”, 2011). È promotore della giornata di studi Sergio Paronetto.

GIOVANNI FARESE insegna Storia e teoria dello sviluppo economico nella LUISS "Guido Carli". Ricercatore nell'Università Europea di Roma, è Managing Editor di "The Journal of European Economic History", rivista distribuita in circa 90 Paesi. È autore del volume L'Imi di Azzolini e il governo dell'economia negli anni Trenta (Napoli, 2009) e ha curato, per Rubbettino, la pubblicazione del diario inedito di Giovanni Malagodi, Aprire l'Italia all'aria d'Europa. Il diario europeo, 1950-1951 (2011). È Aspen Junior Fellow dell'Aspen Institute Italia, socio della Società Italiana degli Storici Economici e della Società Italiana degli Economisti. È promotore della giornata di studi Sergio Paronetto.

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Storie - Il cattivo tedesco e il bravo italiano

di Mario Avagliano

Il nostro Paese fatica a liberarsi dal mito del fascismo buono e del “bravo italiano”. Al di là delle esternazioni dell’ex premier Silvio Berlusconi (convinto peraltro di interpretare il pensiero della maggioranza), quel macigno del passato, che fu analizzato da David Bidussa già nel 1994, continua ad essere il punto di vista di milioni di italiani, dando linfa vitale tra l’altro ai movimenti che si richiamano a quei valori.
L’idea che il fascismo sia stata una dittatura da “operetta”, i cui unici errori furono le leggi razziali e la partecipazione alla guerra, commessi peraltro solo per compiacere l’alleato Hitler, è molto più diffusa di quanto si pensi.
Lo ha ribadito lo storico Fililppo Focardi in un saggio uscito lo scorso mese e intitolato “Il cattivo tedesco e il bravo italiano” (Editori Laterza).

La narrazione nazionale della memoria, osserva Focardi, contrappone il “cattivo tedesco”, violento, antisemita, brutale, al “bravo italiano”, generoso, pronto a prodigarsi nel salvataggio degli ebrei e nel soccorso dei civili. Tacendo, minimizzando o negando il coinvolgimento del popolo italiano nel fascismo e nella persecuzione razziale e le responsabilità del paese nelle guerre fasciste e nei suoi numerosi crimini.
Negli ultimi anni la storiografia ha alzato il velo su diversi aspetti taciuti e rimossi, dalle responsabilità autonome dell’Italia nelle leggi razziali fino all’uso dei gas chimici in Etiopia e alle violenze dei militari italiani in Russia e nei Balcani. Ma i risultati di queste ricerche hanno prodotto, come rileva Focardi, “solo flebili effetti sull’opinione pubblica, toccata alla superficie”. E gli stessi manuali scolastici di storia ignorano il tema o lo trattano con sufficienza.
Manca ancora una riflessione collettiva nazionale sul fascismo e sulle responsabilità e le colpe italiane. Il 17 novembre di quest’anno ricorre il 75° anniversario delle leggi razziali. Può essere l’occasione giusta?

(L'Unione Informa, 5 febbraio 2013)

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Storie – Artisti, dissidenti ed ebrei in fuga dai nazisti in Francia

di Mario Avagliano

«Nell’agosto del 1940 lasciai New York per una missione segreta in Francia, una missione che molti dei miei amici consideravano pericolosa. Partii con le tasche piene di elenchi di uomini e donne che dovevo soccorrere e con la testa piena di suggerimenti su come farlo».

Quell’estate gli Usa non erano ancora entrati in guerra ma «un gruppo di cittadini americani, convinti che i democratici dovessero aiutare i democratici, senza badare alla nazionalità, creò subito l’Emergency Rescue Committee», con l’obiettivo di far espatriare il maggior numero di esuli europei - artisti, intellettuali, antifascisti, antinazisti, ebrei - che avevano trovato rifugio in Francia e che erano ricercati dalle polizie segrete italiane, tedesche e spagnole (Gestapo, Ovra e Seguridad) e dalla stessa Francia filonazista di Vichy, che una volta arrestati, spesso li consegnava direttamente alla Germania.
L’agente al quale viene affidata questa gigantesca operazione di salvataggio è un giovane giornalista liberal, Varian Fry, che viene mandato a Marsiglia, in Costa Azzurra. L’elegante e ostinato Fry, in appena tredici mesi, mette in piedi una rete clandestina, coinvolgendo una pattuglia di volontari, tra cui la bella ereditiera americana Mary Jayne Gold, e tenendo riunioni nei posti più impensati (dalle toilettes ai postriboli) per sfuggire alle intercettazioni.
Nonostante la ritrosia dei funzionari del consolato statunitense a Marsiglia a rilasciare i visti, Fry riesce, con mezzi legali e illegali, ad ottenere i permessi e ad organizzare la fuga in Usa di centinaia di persone (ne sono stati calcolate più di 1.500), tra cui grandi nomi dell'arte, della scienza e della cultura, quali Marcel Duchamp, André Breton, Marc Chagall, Max Ernst, Arthur Koestler, Hannah Arendt.
La sua azione febbrile in favore dei rifugiati non passa inosservata. A settembre 1941 Fry è costretto a lasciare l’Europa: la polizia di Vichy lo ha espulso dalla Francia e il consolato americano non gli ha rinnovato il passaporto. Tornato in Usa, scrive di getto il racconto delle sua esperienza e, non senza difficoltà, lo pubblica, poiché contiene aspre critiche all’atteggiamento degli Stati Uniti verso gli esuli.
Ora le sue memorie escono per la prima volta in Italia, per i tipi della Sellerio (Varian Fry, «Consegna su richiesta. Marsiglia 1940-1941. Artisti, dissidenti ed ebrei in fuga dai nazisti»).
Solo trent’anni dopo la sua morte, Varian Fry è stato riconosciuto come uno dei Giusti tra le nazioni, primo cittadino americano a comparire nella lista, e nel 1998 ha ricevuto la cittadinanza onoraria dello Stato di Israele. Dalla vicenda narrata nel suo libro è stato tratto il film Varian’s War, con William Hurt e Julia Ormond.

(L'Unione Informa, 19 febbraio 2013)

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Quel Fuhrer con una faccia da spot

di Mario Avagliano

Hitler simil-bambino, dipinto dall’estroso artista padovano Maurizio Cattelan in ginocchio e quasi in lacrime nel Ghetto di Varsavia ed esposto al pubblico col titolo “Him” (Lui) proprio nel quartiere della capitale polacca in cui molti ebrei furono uccisi o deportati nei campi di concentramento. Hitler testimonial di uno shampoo venduto in Turchia con lo slogan “per maschi al 100 per cento”. Hitler a cartoni animati, con un’acconciatura color ciliegia o in costume da panda e bracciale con la svastica, che spopola sulle magliette e sui muri di Bangkok, in Thailandia.
E ancora: Hitler miagolante, riprodotto in uno strano incrocio di gatti dal manto bianco, i Kitler, con macchie nere che rimandano ai baffi ed alla pettinatura del dittatore tedesco. Hitler scrittore best-seller in diversi paesi arabi, in funzione anti-Israele, con il suo manifesto razzista Mein Kampf.
C’era una volta il Male assoluto. Oggi Adolf Hitler non è più un tabù. E la sua immagine, il suo profilo, addirittura i suoi slogan deliranti e i suoi simboli minacciosi vengono utilizzati indifferentemente per motivi di marketing, per pubblicizzare prodotti di largo consumo, per ragioni di politica internazionale oppure col pretesto dell’arte, del cinema e della letteratura.
Insomma, Hitler Er Ist Wieder, vale a dire "È tornato", come titola il provocatorio romanzo dello scrittore esordiente Timur Vermes, pubblicato in Germania lo scorso anno con una copertina tutta bianca, ornata solo dalla celebre frangia nera del Führer. Un libro che in pochi mesi è schizzato a sorpresa in cima alle classifiche tedesche, è in via di pubblicazione in inglese, in francese e altre quindici lingue (in Italia per Bompiani) e presto forse sarà anche oggetto di una versione cinematografica.

Vermes ha immaginato un redivivo Hitler che si sveglia a Berlino, nella Germania di Angela Merkel, nell’estate del 2011, dopo un letargo durato 66 anni. Scambiato per un imitatore di mezza età che fa la caricatura del dittatore, partecipa a uno show televisivo di un turco-tedesco e grazie ai suoi tic, alle sue pose e ai suoi monologhi fuoco-e-fiamme, che scatenano grande ilarità nel pubblico, diventa una star della tv e del web. Su YouTube i post dei suoi video, in cui racconta barzellette politically-incorrect (proprio come faceva in privato, nella realtà storica), vengono cliccati da milioni di persone.
Si ride, ma a denti stretti, in quanto nella finzione del romanzo, dopo il trionfo come comico e show-man, Hitler torna alla politica. E la sua ricetta populista, da “eroe” dell’antipolitica (nel suo programma s’impegna, tra le altre cose, a combattere le cacche di cane e l’eccesso di velocità), fa breccia nel cuore dei tedeschi, tra chi è deluso dai partiti, chi ignora la storia e chi fatica a sopravvivere a causa della crisi economica.
La satira su Hitler non è una novità assoluta. Il primo a mettere alla berlina il Führer fu il grande comico ebreo Charlie Chaplin nell’irriverente film Il grande dittatore, uscito nel 1940. «Ridere fa bene, ridere degli aspetti più sinistri della vita e persino della morte», affermò Chaplin.
Tuttavia allora il mondo non conosceva l’orrore della Shoah e dei campi di sterminio. Ecco perché, nonostante la vena ironica dello script, il record di vendite del romanzo di Vermes, che ha superato in classifica gente del calibro di Ken Follet e Paulo Coelho, ha suscitato un acceso dibattito in Germania.
Operazione nostalgia? Il quarantaseienne Timur Vermes nega decisamente. Il suo intento, ha dichiarato alla stampa tedesca, è al contrario quello di spiegare che anche nel mondo di oggi esiste il pericolo di un novello Adolf Hitler, in versione 2.0, che sfrutti in chiave elettorale un mix esplosivo di comicità, internet e populismo.
Secondo il quotidiano Süddeutsche Zeitung, invece, il successo del romanzo Er Ist Wieder si spiega con la «strana ossessione per Hitler» che si è sviluppata negli ultimi tempi in Germania: «Hitler appare regolarmente sulle copertine delle riviste; invade i canali televisivi con una frequenza che ci impedisce di fare zapping senza vederlo alzare il braccio; e nelle riunioni familiari non manca mai una parodia del “Führrerrr” con due dita sotto il naso, garanzia di ilarità. Questa fissazione per Hitler – sulla figura comica o sull’uomo come incarnazione del male – rischia di far passare in secondo piano i fatti storici». Per dirla in altri termini, è come se, consciamente o inconsciamente, parlando in modo eccessivo di Hitler, si volessero oscurare le responsabilità del popolo tedesco, scaricandole tutte sul dittatore.
E a Berlino già si guarda con preoccupazione all’appuntamento del 2015, anno in cui scadranno i diritti di proprietà sul Mein Kampf del Land della Baviera e l’opera di Hitler (la cui diffusione e vendita è vietata dal dopoguerra in Germania) potrà essere pubblicata liberamente. Per evitare un uso improprio e rigurgiti del nazismo, la Baviera ha già incaricato uno storico affermato, Christian Hartmann, consulente del film La caduta, che raccontava gli ultimi giorni del Führer, di predisporre un'edizione critica commentata, mettendo in rilievo le manipolazioni e le menzogne di quel testo. Sarà sufficiente?

(Il Mattino, 19 febbraio 2013)

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Storie – La Rosa Bianca che si oppose ad Hitler

di Mario Avagliano

Spesso dimentichiamo che anche in Germania ci fu chi si oppose ad Hitler, al nazismo e alla persecuzione degli ebrei. Settant’anni fa, il 22 febbraio 1943, tre esponenti del movimento di resistenza della Rosa Bianca, (Sophie e Hans Scholl e Christoph Probst) furono processati e giustiziati dai nazisti. Il 10 marzo Rai Storia trasmetterà lo sceneggiato di Alberto Negrin (il regista della fiction su Giorgio Perlasca) sulla storia di quei giovani studenti tedeschi di ispirazione cristiana che tentarono di opporsi al regime hitleriano. Uno sceneggiato prodotto nel 1971 e scritto da Dante Guradamagna e Aldo Falivena consultando direttamente i diari allora inediti di Hans e Sophie Scholl e che vede tra i protagonisti un giovane Gabriele Lavia.

Ecco un brano del loro secondo volantino di denuncia:
«Non vogliamo scrivere, in questo foglio, della questione ebraica, né pronunciare discorsi in difesa. No, solo come esempio vogliamo ricordare brevemente il dato di fatto che, dalla occupazione della Polonia, trecentomila ebrei sono stati assassinati in quel Paese nel più bestiale dei modi. Qui noi vediamo il più orrendo delitto contro la dignità umana, un delitto che non ha confronti in tutta la storia dell'umanità. Anche gli ebrei sono uomini, qualunque sia la posizione che si vuole assumere sulla questione ebraica; e tutto questo è stato perpetrato contro degli uomini. […]
Perché il popolo tedesco è così inerte dinanzi a questi crimini, tanto orrendi e disumani? Quasi nessuno ci riflette. Il fatto viene accettato come tale e consegnato ad acta. E di nuovo il popolo tedesco cade nel suo ottuso e stupido sonno e dà a questi criminali fascisti il coraggio e l'occasione per continuare ad uccidere, ed essi lo fanno. È questo il segno che i tedeschi sono abbrutiti nei loro più intimi sentimenti umani? Che nessuna corda vibra in essi di fronte a simili azioni? Che sono ormai affondati in un sonno mortale dal quale nessun risveglio sarà più possibile, mai, giammai? Sembra così e così certamente è se i tedeschi non usciranno finalmente da questo torpore, se non protesteranno, dovunque e ogni volta che potranno, contro questa cricca di criminali, se non parteciperanno al dolore di queste centinaia di migliaia di vittime. E dovranno provare non solo compassione per questo dolore, no, ma molto di più: corresponsabilità.
Infatti, anche solo con il loro inerte atteggiamento essi danno a questi uomini oscuri la possibilità di agire così; essi sopportano questo "governo" che ha assunto su di sé una colpa infinita, certo, ma, soprattutto, essi stessi sono responsabili del fatto che tale governo ha potuto avere origine! Ogni uomo vuole dirsi estraneo a questo tipo di corresponsabilità, ognuno lo fa e poi ricade nel sonno con la coscienza più serena e migliore. Ma egli non potrà dirsi estraneo: ciascuno è colpevole, colpevole, colpevole!»
Credo che sia giusto ricordarli.

(L'Unione Informa, 26 febbraio 2013)

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16-18 marzo 1938: il bombardamento fascista di Barcellona

di Anna Foa

Sono in questi giorni settantacinque anni dal grande bombardamento di Barcellona effettuato dall'aviazione italiana nel corso della guerra civile spagnola: dal 16 al 18 marzo 1938 migliaia di bombe si rovesciarono sulla città, uccidendo un migliaio di persone e scatenando il panico nella popolazione che si diede alla fuga. Lo ricordano in contemporanea il Corriere della Sera di ieri e lo spagnolo La Vanguardia, sottolineando anche come, dopo l'attacco del 1937 su Guernica da parte dell'aviazione nazista, fosse la seconda volta che la guerra contro i civili, tanto tipica del Novecento, si operava dall'alto, attraverso i bombardamenti.

Un tragico preludio a quello che sarebbe successo, prima ad opera dell'aviazione tedesca sull'Inghilterra, poi ad opera dell'aviazione anglo-americana sulle città tedesche, nella successiva guerra mondiale. Tali bombardamenti in effetti non colpivano i civili solo come conseguenza indesiderata ed inevitabile delle operazioni militari, ma li colpivano appositamente per demoralizzare il nemico e spingerlo alla resa. Quanto al bombardamento di Barcellona, fu il primo momento di quell'attiva partecipazione, da parte italiana, allla guerra portata da Hitler all'Europa intera, che avrebbe visto l'Italia di nuovo schierata accanto ai nazisti e che avrebbe visto tanti episodi terribili di guerra contro i civili, dal cielo e dalla terra. I "buoni italiani" però non hanno mai chiesto scusa di quel bombardamento, a differenza della Germania, dove nel 1997 il presidente tedesco si è scusato formalmente per il bombardamento di Guernica. Forse, sarebbe il caso di farlo ora. Meglio tardi che mai.

(L'Unione Informa, 18 marzo 2013)

L'articolo di Dino Messina

Il mito degli Italiani brava gente e il bombardamwento di Barcellona del marzo 1938

Che nei cieli e per le strade di Barcellona tra il 16 e il 18 marzo 1938 fosse avvenuto qualcosa di terribile gli italiani lo appresero subito attraverso le corrispondenze del “Corriere della sera”, il più diffuso giornale italiano, dal 1925 controllato dal regime. Già il 18 marzo il quotidiano milanese titolava: «Il popolo di Barcellona chiede la resa», il 20 avvertiva: «Barcellona abbandonata da centinaia di migliaia di abitanti — scene di terrore e di rivolta». E il 21: «Barcellona stremata». I corrispondenti come lo scrittore Guido Piovene o l’inviato Mario Massai sottolinearono la gravità dell’impatto che i bombardamenti dell’aviazione italiana avevano avuto sul corso della guerra ma si guardarono bene dal denunciare, come fece il Times di Londra, che almeno seicento abitanti in tre giorni avevano perso la vita (in realtà circa il doppio), tantissimi bambini, per lo più residenti nei quartieri popolari. Fu subito chiaro, insomma, che la strage non era stata causale ma voluta, per un preciso ordine arrivato all’improvviso da Benito Mussolini in persona. Tutto scritto, tutto documentato dalle cronache dell’epoca, nelle pagine del diario del ministro degli Esteri italiano e genero del Duce, Galeazzo Ciano, nei libri scritti dagli storici italiani, da Giorgio Rochat (“Le guerre italiane 1935-1943″) a Lucio Ceva, “Spagne 1936-1939″.
Eppure ben poco della verità sull’orrore scatenato dai bombardieri italiani decollati dalle Baleari con l’ordine preciso di colpire e seminare terrore è giunto alla nostra opinione pubblica. Per prendere coscienza delle responsabilità italiane nel primo “civil bombing” di una grande città europea forse occorrerebbe un atto pubblico simile a quello compiuto dal presidente tedesco Roman Herzog che nel 1997, nel sessantesimo anniversario di Guernica (26 aprile 1937), chiese scusa alla gente spagnola. Guernica-Barcellona un paragone azzardato? Nient’affatto. Altri se ne potrebbero fare. Per esempio con Durango, la cittadina della Vizcaya che il 31 marzo 1937 venne attaccata da squadriglie italiane che distrussero case e uccisero 289 persone. Barcellona tuttavia resta una pietra miliare del terrore e forse è venuto il momento, dopo aver analizzato per circa un ventennio gli effetti che la «guerra ai civili» ha avuto sul suolo italiano (dai rastrellamenti nazisti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 ai bombardamenti dell’aviazione Alleata), che gli storici facessero uno sforzo pari in direzione diversa. Raccontarci, cioè, dall’Etiopia ai Balcani, dalla Grecia alla Spagna la guerra vista dalla parte delle vittime, con gli italiani nelle vesti di aggressori. Non che manchino studi di questo tipo, da Angelo del Boca in poi, ma si sente soprattutto in ambito divulgativo, una reticenza lontana. Quella che deriva dall’auto rappresentazione di «italiani brava gente», ma anche da una mancata Norimberga successiva al fascismo e, non ultimo, dal fatto di essere entrati nella Seconda guerra mondiale con una casacca e nell’esserne usciti con un’altra.
Il bombardamento di Barcellona, così come tutti gli altri atti di terrore dall’aria durante l’aggressione alla Repubblica spagnola, è il frutto ideologico, militare e politico di una storia tutta italiana. Il punto di vista militare e ideologico risale a Giulio Dohuet, che ben prima del britannico Hugh Trenchard, cioè negli anni Venti, con un’opera ancora oggi citata in tutti i manuali di strategia militare, “Il dominio dell’aria”, anticipò il concetto del «civil bombing»: «Immaginiamoci una grande città che, in pochi minuti, veda la sua parte centrale, per un raggio di 250 metri all’incirca, colpita da una massa di proiettili dal peso complessivo di una ventina di tonnellate…». Sembra la profezia di quanto sarebbe avvenuto a Barcellona dove i bombardieri Savoia Marchetti 79 in un paio di giorni sganciarono circa 44 tonnellate di esplosivi.
E a un’azione dimostrativa che seminasse terrore, come ha raccontato anche Edoardo Grassia, pensava Mussolini quando pochi minuti prima di pronunciare alla Camera il suo discorso in reazione all’Anschluss dell’Austria da parte delle truppe di Hitler, diede l’ordine al Capo di Stato Maggiore della Regia aeronautica di «iniziare azione violenta su Barcellona con martellamento diluito nel tempo». Nessuna consultazione con altri organismi militari, nemmeno con Franco. Fu una decisione di Mussolini per seminare terrore. E nelle intenzioni anche una cinica operazione mediatica per recuperare terreno rispetto all’iniziativa di Hitler e magari rimediare alla figuraccia ancora non dimenticata della disfatta di Guadalajara. La riprova delle intenzioni di Mussolini si ha nel diario di Galeazzo Ciano, quando annota la reazione del duce alle proteste di parte britannica: «Quando l’ho informato del passo di Perth (ambasciatore inglese a Roma, ndr), non se ne è molto preoccupato, anzi si è dichiarato lieto del fatto che gli italiani riescano a destare orrore per la loro aggressività anziché compiacimento come mandolinisti».
A Mussolini il progetto di trasformazione antropologica del popolo italiano non riuscì ma il fascismo portò «la brava gente» a macchiarsi di crimini di cui dobbiamo chiedere scusa.

(Corriere della Sera, 17 marzo 2013)

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Monuments Men. Gli eroi che salvarono l'arte da Hitler

di Mario Avagliano

George Clooney, in qualità di produttore, ha già pensato di trarne un film. E chissà, forse si ritaglierà anche un ruolo da protagonista. La storia in realtà è intrigante. Una via di mezzo tra Indiana Jones e Salvate il soldato Ryan. Dal 1943 al 1951, nel pieno della seconda guerra mondiale e anche dopo la fine delle ostilità, un manipolo di militari alleati, reclutati tra direttori di musei, artisti, archivisti, studiosi dell’arte, bibliotecari e architetti, con l’aiuto di francesi, italiani e anche di qualche tedesco illuminato, salvò alcuni dei capolavori dell’Occidente, come la Gioconda di Leonardo e la Madonna di Bruges di Michelangelo, recuperandoli e sottraendoli al saccheggio dei nazisti o alla distruzione.

La seconda guerra mondiale è stato il conflitto più devastante nella storia dell’umanità. Le principali città dell’Europa furono ridotte in macerie dai bombardamenti, con un numero di vittime impressionante. Eppure il museo Louvre a Parigi e la Cappella Sistina a Roma sono ancora lì, intatti. Come hanno fatto così tanti monumenti e opere d’arte a sopravvivere alla guerra e alla furia nazista?
Gli eventi principali del conflitto, Pearl Harbor, lo sbarco in Normandia, l’offensiva delle Ardenne, la battaglia di Stalingrado, la Shoah, la Resistenza al nazifascismo, sono entrati a far parte della nostra coscienza collettiva, così come i libri e i film (da Roma città aperta a Schindler’s List) e gli scrittori, gli attori e i registi (da Hemingway a Spielberg) che ci hanno fatto rivivere quei momenti epici o drammatici.
Ma è poco nota la vicenda di quel gruppo di circa 350 uomini e di donne di tredici nazionalità diverse, quasi tutti di mezza età, che, come afferma lo storico americano Robert Edsel, “hanno letteralmente salvato il mondo come lo conosciamo”. Persone senza mitra o carri armati, che non solo ebbero la lungimiranza di comprendere la gravissima minaccia che incombeva sulle opere d’arte, ma si schierarono anche in prima linea per evitarla.
Questi eroi sconosciuti erano i Monuments Men, come s’intitola il libro dello stesso Edsel, vale a dire «gli uomini della Monumenti», che prestarono servizio nella MFAA (Monuments, Fine Arts, and Archives), la sezione Monumenti, belle arti e archivi dell’esercito anglo-americano. All’inizio la loro responsabilità era limitare i danni al patrimonio artistico dovuti ai combattimenti, soprattutto quelli agli edifici storici: chiese, musei e monumenti. Con l’estendersi del conflitto, quando si varcò il confine tedesco, la loro missione si incentrò principalmente sulla localizzazione di opere d’arte trasportabili e altri beni trafugati dai nazisti o comunque dispersi.
Durante l’occupazione dell’Europa, infatti, i tedeschi avevano messo a segno il più grande furto della storia, confiscando oltre cinque milioni di opere d’arte e trasferendole nel Terzo Reich. Nell’agosto 1942 il feldmaresciallo Hermann Goering (che aveva una vera e propria ossessione per i quadri di Vermeer) dichiarò: “Una volta lo si chiamava saccheggio. Ma oggi le cose devono avere un aspetto più umano. A onta di ciò, io intendo saccheggiare, e intendo farlo in maniera totale”. Il sogno di Adolf Hitler era di edificare a Linz, in Austria, la più grande esposizione permanente d’arte dell’universo, tanto che commissionò al suo architetto Albert Speer il plastico del progetto e se lo portò nel suo bunker a Berlino.
In quegli anni gli uomini e le donne della MFAA condussero la più grande caccia al tesoro della storia, ricca di episodi grotteschi e straordinari. Fu anche una corsa contro il tempo, perché quando il Führer capì di aver perso la guerra, lanciò l’Operazione Nerone, che prevedeva tra l’altro di distruggere con gli esplosivi i tesori confiscati. E, nascosti in luoghi incredibili (castelli inaccessibili sulle Alpi o la miniera di Bernterode in Turingia, cinquecento metri sotto terra), c’erano decine di migliaia dei più importanti capolavori dell’umanità, incluse opere di Leonardo, Vermeer, Rembrandt, Picasso, Michelangelo e Donatello.
A questo libro, che riguarda in particolare le operazioni dei Monuments Men nel Nord Europa (in Francia, Germania, Austria e Paesi Bassi), ne farà seguito un altro, già annunciato da Edsle, in cui si narreranno le peripezie degli ufficiali Deane Keller e Frederick Hartt (americani) e John Bryan Ward-Perkins (inglese) durante il loro difficile incarico in Italia.
Una vicenda, quella della task force “italiana”, già raccontata di recente da Ilaria Dagnini Brey nel libro Salvate Venere! (Mondadori, pp. 328, euro 21). Anche nel nostro Paese, da Palermo a Napoli, da Montecassino alla Toscana e poi al Nord Italia, i Monuments Men percorsero centinaia di chilometri ispezionando chiese, ville e edifici storici, musei e gallerie, localizzando le opere in pericolo e trasferendole al sicuro, talvolta in modo rocambolesco. Una missione per salvare i simboli della civiltà occidentale.

(Il Messaggero, 25 marzo 2013)

Le dieci maestre del voto

di Mario Avagliano

Nei primi 85 anni di Stato unitario l’Italia è stata una monarchia misogina, nella quale hanno votato esclusivamente gli uomini. La nostra nazione è stata una delle ultime di Europa a concedere il diritto il voto alle donne, che fu esercitato per la prima volta solamente nel 1946. Un ritardo che è stato foriero di pessimi risultati, visto che nel periodo monarchico si sono avvicendati ben 64 governi, si sono registrati lunghi periodi di forte instabilità politica e sociale e l’istituto delle elezioni è stato alla fine abolito dal fascismo.

La storia italiana poteva andare diversamente se si fosse vestita anche di rosa? Difficile rispondere. Fatto sta che per una breve stagione le donne italiane coltivarono la speranza di poter dire la loro sul futuro politico della loro nazione. Infatti il 25 luglio del 1906, quando l’irruente Benito Mussolini era ancora un maestrino socialista di provincia, una sentenza della Corte di appello di Ancona, presieduta dal magistrato ebreo Lodovico Mortara, accordò il diritto di voto a dieci donne marchigiane, tutte maestre, che avevano presentato apposito ricorso.
La loro vicenda, che all’epoca fece scalpore e provocò un acceso dibattito in tutta Italia, è stata ricostruita e raccontata nel libro di Marco Severini, intitolato Dieci donne. Storia delle prime elettrici italiane (liberi libri, pp. 261, euro 15). Grazie al coraggio delle maestre marchigiane, Ancona divenne per qualche settimana il centro del mondo. Maria Montessori le dedicò addirittura un inno poetico.
Si trattò, come scrive lo stesso Severini, di “un evento eccezionale”, in quanto quel pugno di donne andò ad affiancarsi a un corpo elettorale composto da più di 2 milioni e mezzo di maschi. Ma l’illusione dell’emancipazione durò appena lo spazio di dieci mesi (la sentenza Mortara fu annullata dalla Corte di Cassazione) e purtroppo non si concretizzò in partecipazione al voto in quanto, per il ritorno al governo di Giovanni Giolitti, non vi furono elezioni politiche.
E così le dieci donne marchigiane che, con la conquista dell’iscrizione alle liste elettorali, avevano impresso una svolta impensata alla lotta per il suffragio femminile, raccogliendo l’entusiasmo delle numerose associazioni femminili, dei socialisti e dei repubblicani che si battevano da anni per l’emancipazione, tornarono purtroppo nell’anonimato.
Il saggio di Severini ha il merito di riportare alla luce la storia di quelle pioniere del voto alle donne, di cui vengono proposte per la prima volte le biografie, e delle portabandiera dell’emancipazione femminile made in Italy, come Anna Maria Mozzoni e Maria Montessori. Ma è anche un omaggio alla competenza giuridica e all’onestà intellettuale del giurista mantovano Lodovico Mortara, “personalmente contrario, giuridicamente favorevole” al suffragio femminile, e di quei politici maschi, come il repubblicano Roberto Mirabelli, che sulla scia del pensiero di Mazzini, grande fautore del voto alle donne, sostennero in Parlamento, con forza e determinazione, la causa dell’altra metà del cielo. Perché, come disse in aula Mirabelli il 25 febbraio 1907, la donna non fosse più “inchiodata alla croce delle secolari esclusioni”.
Quella battaglia, in quella fase storica perdente, avrebbe avuto sicuramente un esito positivo nella seconda metà degli anni Venti, sulla scia di quanto accaduto in altri Paesi europei. Ma l’avvento del fascismo e la sua concezione della donna come semplice “angelo del focolare” ritardarono di un ventennio la partecipazione femminile alla vita politica. Solo la Resistenza e poi la Costituente sanciranno finalmente la pari dignità delle donne, legittimandole al voto sia in qualità di elettrici che di elette.

(L'Unione Informa, 3 maggio 2013)

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