Storie - Sul processo Eichmann

di Mario Avagliano

 Mezzo secolo fa, nel 1961, a Gerusalemme si celebrò lo storico processo ad Adolf Eichmann, catturato in Argentina dai servizi segreti israeliani. Il processo a Eichmann fu il primo procedimento giudiziario per crimini nazisti celebrato in Israele e il primo ad essere trasmesso integralmente in televisione, con il coinvolgimento di mass media di tutto il mondo.

Lo Stato d'Israele, nato nel 1948, volle celebrare il processo davanti a una Corte di giustizia ordinaria, per dimostrare a tutte le Nazioni cosa fosse stata la Shoah. Fu quindi un processo storico, che segnò un discrimine fondamentale nella ricostruzione della storia della persecuzione degli ebrei. Eppure, nonostante la sua importanza, il processo ancora oggi è assai poco conosciuto nelle sue mille storie e testimonianze, molte delle quali relative all’Italia.

È merito di una piccola casa editrice di Fidenza, la Mattioli 1885, aver avviato un prezioso progetto editoriale, che ha ricevuto anche il patrocinio dell’Ucei, volto a pubblicare tutti gli atti e le testimonianze del Processo Eichmann: 13mila cartelle in varie lingue, principalmente in ebraico, che per la prima volta sono state tradotte e organizzate in una pubblicazione, curata da Livio Crescenzi.

Vista la vastità del materiale, i documenti sono stati suddivisi in tre volumi tematici: uno dedicato agli italiani, uno ai bambini e uno alle parole di Eichmann stesso, con un dvd che raccoglie tutti i filmati del processo. Nel primo volume, intitolato Cinquanta chili d’oro (Mattioli 1885, pp. 230), sono raccolte le storie degli ebrei italiani e dei nazisti che operarono in Italia, attraverso le deposizioni dei testimoni raccolte da oscuri cancellieri nelle aule dei tribunali. Tra i tanti materiali e documenti proposti nel libro, si segnala in modo particolare la lunga deposizione di Herbert Kappler, resa nel carcere di Gaeta, dalla quale emerge con evidenza il ruolo fondamentale avuto dalle forze dell’ordine della Rsi negli arresti degli ebrei dopo la retata del 16 ottobre 1943. In appendice, vengono pubblicate due deposizioni rese da Primo Levi, l'una nel 1960 (relativa al processo Eichmann) e l'altra nel 1971 (relativa al processo contro Friedrich Bosshammer).

Un libro utilissimo per capire la macchina della persecuzione nazista, il collaborazionismo fascista e anche la storia italiana di quegli anni.

 (L'Unione Informa e Moked.it del 4 marzo 2014)

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D-Day, il giorno più lungo per l'Europa

di Mario Avagliano

Quasi un bis di quell’alba storica del 6 giugno 1944, illuminata da una pallida luna di fine primavera. Prima della cerimonia ufficiale di ieri con il presidente americano Barack Obama e gli altri capi di stato, il cielo azzurrissimo della Normandia è tornato ad essere “invaso” da uno sciame di paracadutisti, che hanno toccato terra sulle spiagge dorate della costa francese.
E a volare sulla costa, come 70 anni fa, assieme ad altre centinaia di reduci, c’era anche l'ex parà scozzese Jock Hutton, 89 anni, che intervistato dal Daily Telegraph, ha ricordato: "Saltammo da oltre 150 metri e non c'era quindi il tempo per aprire un paracadute di riserva. Se il principale non si fosse aperto, buonanotte!".
Lo sbarco in Normandia, nome in codice Operazione Overlord, segnò la svolta della seconda guerra mondiale, portando alla liberazione dell’Europa dall’incubo nazista.
"La guerra si giocherà sulle spiagge nel giorno più lungo", aveva previsto il feldmaresciallo Erwin Rommel, uno dei più fini strateghi militari tedeschi, non a caso definito la “volpe del deserto”, chiedendo di concentrare diverse divisioni corazzate a difesa della costa. Adolf Hitler, che pure gli aveva affidato il compito di fermare gli alleati sul "bagnasciuga", non volle dargli ascolto. "Vengono a farsi divorare dal Grande Lupo", aveva commentato beffardo.
L’Operazione Overland aveva preso le mosse il 14 gennaio 1943, alla Conferenza di Casablanca in Marocco, dove gli Alleati partorirono l’idea di un piano di liberazione dell'Europa nord-occidentale. Il comando strategico venne affidato al generale statunitense Dwight D. Eisenhower, detto Ike, futuro presidente Usa, e il comando delle truppe di terra al generale inglese Bernard Law Montgomery.
Il 6 giugno 1944 fu davvero il giorno più lungo del conflitto, quello che gli americani chiamarono il D-Day, dove D sta per decision.
Lo sbarco avvenne su un fronte di 60 km, in cinque spiagge diverse. La scelta dei nomi in codice delle spiagge fu affidata ai comandanti alleati. Gli americani scelsero un loro stato (Utah) e una loro città (Omaha) di cui erano originari due sottufficiali. Il generale britannico Montgomery propose due nomi di pesce: goldfish (pesce rosso) e swordfish (pesce spada), poi abbreviati in Gold (oro) e Sword (spada). Il tenente colonnello canadese Dawnay scelse Juno, il nome della moglie.
Fu la più grande operazione militare di tutti i tempi. Gli alleati solo in quel giorno misero in campo 155 mila soldati, con 1.200 navi da guerra, 4.120 mezzi da sbarco, 950 carri armati e 13 mila aerei. A fronteggiarli trovarono 50 mila tedeschi, con 890 aerei, 21 navi, 127 carri armati, che si erano preparati alla battaglia piantando i famosi “asparagi” di Rommel (pali alti e acuminati, conficcati al suolo per sventare l’attacco dall’alto) e scavando bunker e trincee nel cosiddetto Vallo atlantico, il sistema di fortificazioni naziste che dalla Norvegia arrivava fino a Bordeaux.
L'annuncio dello sbarco venne dato alla resistenza francese il girono prima, con una frase in codice trasmessa da Radio Londra, utilizzando i primi versi della poesia "Chanson d'automne" di Paul Verlaine.
L’operazione iniziò in coincidenza con l’arrivo dell’alta marea. Toccò prima ai paracadutisti, con l’obiettivo di conquistare i ponti e altri punti strategici in territorio nemico. Poi fu la volta dei mezzi da sbarco. Sulle spiagge di Sword, Juno, Gold e Utah (dove combatté anche Jerome David Salinger, il futuro autore de Il giovane Holden) gli alleati ebbero vita facile. A Omaha Beach, invece, chiamata poi la “spiaggia dell'inferno”, la resistenza tedesca fu sanguinosa. La Big Red One, la prima divisione dei marines, venne decimata.
Nei 76 giorni successivi di guerra gli alleati persero 70.000 soldati mentre i tedeschi ebbero 200.000 morti e 200.000 prigionieri. Il 26 agosto 1944, dopo due mesi e mezzo di battaglie attraverso la Francia, le forze anglo-americane liberavano Parigi.
Oggi questo tratto di splendida costa, chiamato Côte de Nacre, ovvero di madreperla, conserva le tracce della battaglia, con i buchi lasciati dai bombardamenti e cimiteri e musei di guerra visitati da turisti di tutto il mondo che testimoniano l’orrore che qui si è consumato.
Lo sbarco in Normandia è stato raccontato da Ernest Hemingway, intrepido cronista al seguito delle truppe americane, e fotografato da Robert Capa e ha ispirato film e canzoni: dalla pellicola premio Oscar di Steven Spielberg “Salvate il soldato Ryan” (1998) alla serie tv “Band of brothers” (2001), fino alla hit del gruppo heavy metal britannico Iron Made “The Longest Day” (2006).
Ma pochi sanno che in quei giorni in Normandia c’erano anche diversi italiani, come ha ricostruito qualche anno fa il documentario “D-Day - Lo sbarco in Normandia. Noi italiani c'eravamo” (2009) diretto da Mauro Vittorio Quattrina. Tra di loro c’erano internati militari che scelsero con dignità e coraggio di non aderire alla Repubblica Sociale e furono costretti ai lavori forzati dai tedeschi ma anche italiani che fecero la scelta opposta e si arruolarono nella Wehrmacht e nella Luftwaffe e furono impiegati nelle batterie antiaeree.

(Il Mattino, 7 giugno 2014)

Salotti di piombo, gli amici dei Br

di Mario Avagliano

Fotografie ingiallite degli anni Settanta e Ottanta. Quando mezza Italia, nei giornali, nelle università e nelle fabbriche, flirtava con il terrorismo rosso. “Eravamo clandestini per il potere ma non per le masse”, diceva l’ex brigatista Prospero Gallinari (deceduto il 14 gennaio 2013). E il brigatista romano Germano Maccari, soprannominato Gulliver, autore del primo truce episodio di “gambizzazione”, affermava compiaciuto: «Voi non mi credereste se vi dicessi in quante case di persone che oggi hanno un ruolo molto importante nell'informazione, o comunque un ruolo importante nella società, si faceva a gara per avere a cena uno come me».

Benvenuti, si fa per dire, ne La Zona Grigia, come è intitolato il pamphlet di Massimiliano Griner (chiarelettere, p. 304, euro 16), che – in attesa delle ulteriori rivelazioni che potranno venire fuori dalla desecretazione degli archivi di Stato, promessa dal presidente del Consiglio Matteo Renzi - ci ricorda, con dovizia di dettagli, il fenomeno transgenerazionale di un esercito di italiani che in modo ambiguo aiutò, ospitò oppure tifò per chi aveva scelto l’opzione senza ritorno della lotta armata e della clandestinità.
Donne e uomini che, in quegli anni di piombo, non di rado si erano regalati, per dirla con Miguel Gotor, “il brivido di un sanpietrino, il crepitio di una molotov, la sofferenza di una manganellata o il fragore di una vetrina infranta”. E che pur tuttavia si erano fermati sull’orlo dell’abisso, evitando di impugnare le armi, ma fornendo al partito della sovversione quel retroterra confortevole senza il quale non avrebbe potuto né operare con sanguinaria efficacia né resistere a una repressione progressivamente crescente.

Un libro scomodo che ha già suscitato polemiche e un acceso dibattito sui social network. Perché racconta, senza reticenze o riverniciature della memoria, la folle stagione del terrorismo rosso, nella quale furono assassinate 232 persone e altre 75 furono invalidate a colpi di pistola. Una stagione che vide protagonisti (e in qualche modo colpevoli) non solo i circa 4.200 terroristi condannati e i circa 20 mila italiani inquisiti, ma una rete assai più vasta di intellettuali, professori, giornalisti, avvocati, magistrati, operai.
Il viaggio di Griner in questo bacino torbido rivela infatti che l’Italia è stato il paese occidentale, tra quelli che hanno conosciuto la lotta armata, che ha dato al terrorismo il numero maggiore di fiancheggiatori. L’autore ne arriva a stimare oltre 600 mila, citando in prefazione una ricerca dell’intelligence americana del 1983. Non a caso il capo delle Brigate rosse Mario Moretti ebbe a dire: “Il numero dei nostri militanti è sempre stato relativo, quello che cresceva era la nostra influenza. Le Br nuotavano in quest’acqua tumultuosa”.
Qualche nome? Griner ne elenca a bizzeffe, alcuni sorprendenti. Si va dal poeta Franco Fortini, che scandiva slogan come “Guerra no! Guerriglia si!”, allo scrittore Erri De Luca, che andava in giro con la pistola (e ora è militante dei No-Tav), al giudice Franco Marrone, che dichiarò nel corso di un'assemblea di Lotta Continua che la giustizia altro non era che uno strumento della borghesia, fino al filosofo Norberto Bobbio, che presentò il libro di Irene Invernizzi Il carcere come scuola di rivoluzione.

Il grande editore Giulio Einaudi dedicò una collana ai bestseller degli intellettuali vicini al mondo del terrorismo, con titoli come L'estremismo, rimedio alla malattia senile del comunismo di Cohn-Bendit, mentre Giangiacomo Feltrinelli propose un testo intitolato Il Sangue dei Leoni, contenente un “elenco meticoloso di tecniche di guerriglia e sabotaggio”.
Il fiancheggiamento è durato anche oltre la stagione del terrorismo, come attesta la vicenda del terrorista e latitante Cesare Battisti. L’appello in suo favore è stato sottoscritto da scrittori come Valerio Evangelisti, Giuseppe Genna, Massimo Carlotto e persino un giovanissimo Roberto Saviano (che ritirerà la sua adesione nel 2009) e la sua causa appoggiata da riviste on line come Carmilla e da giornalisti come Gianni Minà.
Certo, l’Italia di quegli anni, osserva Griner, “era squassata da stragi di marca fascista, e lo scontro tra la sinistra extraparlamentare e lo Stato, sempre più repressivo, era durissimo”. Senza dimenticare che, soprattutto dopo il golpe di Pinochet in Cile e l’avanzata del Pci nel 1975 e nel 1976, anche una parte della sinistra parlamentare si sentiva minacciata da un possibile colpo di stato fascista. Ma il contesto storico non assolve chi appoggiò la lotta armata e quei tanti, la maggioranza, che nel “dopoguerra” non hanno fatto né una riflessione sul proprio operato, né un ripensamento o un’ammissione di responsabilità. Un velo che La Zona Grigia contribuisce finalmente a squarciare.

(Il Messaggero, 18 luglio 2014)

 

 

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I cervelli nazisti da Hitler allo Zio Sam

di Mario Avagliano

Chi l’avrebbe mai detto che dietro la mitica navicella spaziale Apollo 11, che il 20 luglio 1969 alle ore 20.18 atterrò sulla Luna, si nascondesse lo zampino di Adolf Hitler! Ebbene sì, perché il progetto del razzo statunitense Saturn V fu elaborato e diretto dal barone nazista Wernher Magnus Maximilian von Braun. Il geniale inventore dei razzi V1 e V2, che colpirono Londra e il Belgio nell’autunno del 1944 e che nelle intenzioni del Füehrer dovevano costituire l’arma segreta della Germania per raggiungere la sospirata Endsieg (la vittoria finale).
La storia di von Braun e del gruppo di scienziati nazisti (fisici, chimici, medici) arruolati da Zio Sam nell’immediato dopoguerra nell’esercito a stelle e strisce è stata ricostruita in un libro da poco uscito con grande clamore negli Stati Uniti, firmato da Annie Jacobsen, reporter del «Los Angeles Times Magazine» e già autrice del bestseller «Area 51», la base super segreta usata come poligono per centinaia di esperimenti nucleari.
Il saggio, uscito in Italia per i tipi della Piemme, s’intitola «Operazione Paperclip» (pp. 588, euro 20), nome in codice della missione dei servizi segreti americani (prima l’Oss e poi la Cia) che si pose l’obiettivo di sottrarre i cervelli tedeschi e i loro segreti scientifici all’Unione Sovietica. Paperclip si traduce in italiano «graffetta», allusione abbastanza scoperta ai dossier degli scienziati, che furono sapientemente ripuliti dai servizi segreti americani.

Tale operazione, come ricostruisce la Jacobsen, venne condotta con grande spregiudicatezza e consentì di salvare anche veri e propri criminali di guerra. Le nuove identità degli scienziati venivano allegate ai fascicoli con delle graffette, da cui il nome della missione. Fino agli anni Settanta, furono almeno duemila gli scienziati stipendiati e coccolati dalle istituzioni americane, ricoperti di premi e riconoscimenti.
La ricerca della Jacobsen, attraverso la documentazione inedita di archivi anche tedeschi, interviste e testimonianze, segue le vicende post-guerra di 21 di questi cervelloni tedeschi dal passato non proprio irreprensibile: 8 di loro erano stati stretti collaboratori di Hitler, Himmler o Goering, 15 avevano aderito al partito nazista e 10 facevano parte del corpo delle SS.
Gli anni oscuri delle loro esistenza furono cancellate, con la promessa dell’oblio in cambio dei loro servigi scientifici. I servizi segreti statunitensi erano infatti convinti che tra comunisti e nazisti, fossero i secondi il male minore.
La figura simbolo di questo cinico riciclaggio di cervelli è quella del barone von Braun, nato nel 1912 a Wirsitz in Prussia e seppellito con tutti gli onori ad Alexandria in Virginia nel 1977, da cittadino naturalizzato americano.
Von Braun si era iscritto la partito nazista nel 1937 e tre anni dopo era diventato ufficiale delle SS. Himmler lo promosse tre volte, fino al grado di maggiore. Il brillante scienziato progettò i missili V2 (Vergeltungswaffe 2, o arma di rappresaglia 2), che fecero migliaia di vittime nella capitale britannica. Per produrre i suoi razzi, von Braun non si fece scrupolo di costringere forzatamente migliaia di deportati del lager di Mittelbau-Dora a lavorare in condizioni disumane (e spesso a morire) in fabbriche che erano nascoste nel cuore della montagna per sfuggire ai bombardamenti alleati.
Nella primavera del 1945 von Braun si consegnò assieme alla sua équipe all’esercito americano, entrò nell’organico militare Usa e venne poi assunto definitivamente alla Nasa, l’agenzia governativa creata per contrastare l’egemonia dell’Urss nella corsa allo spazio. Qui l’ex ufficiale delle SS divenne direttore del nuovo Marshall Space Flight Center e progettista del veicolo di lancio Saturn V, il superpropulsore che portò la missione Apollo sulla Luna. Alla sua morte è stato definito «il più grande scienziato dei tecnica missilistica ed aerospaziale della storia».Due altri casi emblematici. Il primo è quello di Otto Ambros, ingegnere chimico, inventore dei gas letali utilizzati dai nazisti, che sperimentò nei laboratori di Auschwitz con cavie umane. Nonostante la sentenza di condanna al processo di Norimberga, Ambros nel 1952 fu liberato e spedito con biglietto di sola andata in Usa a lavorare per l’azienda chimica W.R. Grace e per il dipartimento Usa dell’energia.
Il secondo è quello di Theodor Benzinger, che sotto il Terzo Reich era stato un medico di solida fede nazista, responsabile di un centro sperimentale della Luftwaffe. Alla sua morte, nel 1999, il «New York Times» gli dedicò un appassionato necrologio in cui lo si lodava per l’invenzione del termometro auricolare.
Due dei tanti curriculum whitewashed, ripuliti e resi immacolati, in nome della sicurezza nazionale e della logica spietata della guerra fredda.

(Il Mattino, 21 luglio 2014)

 

 

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Storie - Musiche dai lager

di Mario Avagliano

Le Monde gli ha dedicato un’intera pagina, intitolata «Le juif de Barletta» (l'ebreo di Barletta). Il ministero della cultura francese, nel dicembre 2013, lo ha insignito del titolo di cavaliere dell’Ordine des Art set Lettres. Eppure Francesco Lotoro, il barbuto pianista pugliese, classe 1964, che in ventitre anni di viaggi per il mondo ha recuperato migliaia e migliaia di partiture, documenti, diari e manoscritti provenienti dai lager e dai campi di concentramento, in Italia è misconosciuto e nessuno finanzia le sue ricerche.

Con sua moglie Grazia Tiritiello ha fondato l’Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, che raccoglie le opere musicali scritte nei campi di concentramento d’Europa, Africa settentrionale e coloniale, Asia, Oceania, Usa e Canada dal 1933 al 1945.

Anche nei lager nazisti vi furono casi di orchestre formate dai deportati. Famoso il caso di Terezin, dove l’attività musicale era diffusa. Il violinista Karel Fröhlich a Theresienstadt, nel maggio 1944, suonò Sarasate e Paganini pur sapendo di avere di fronte un pubblico composto da deportati che il giorno dopo sarebbero stati trasferiti ad Auschwitz e annotò nel suo quaderno: «per quelli che sopravviveranno, tutto questo avrà un senso».
E perfino ad Auschwitz la violinista Alma Rosè, nipote di Gustav Mahler, diresse un’orchestra di sessanta strumentiste, voluta da Hoss, maggiore delle SS, che aveva il compito di accompagnare le detenute al lavoro, "accogliere" ogni nuovo arrivo di deportati, e suonare per gli ufficiali SS ogni qualvolta lo richiedessero. Ne ha parlato una delle sopravvissute, la pianista e cantante Fania Fenélon, nel suo diario "Ad Auschwitz c' era un' orchestra", scritto dopo la sua liberazione, nel quale scrive che suonare e cantare una musica "è la cosa migliore ad Auschwitz-Birkenau in quanto procura oblio e divora il tempo, ma è anche la peggiore perché ha un pubblico di assassini".

Lotoro è un vero e proprio cacciatore di musiche, scritte su quaderni o fogli di fortuna, ricordate a voce dai sopravvissuti o anche «incise» a carbonella su carta igienica, come la composizione di Rudolf Karel, prigioniero della resistenza polacca. Ad oggi sono più di 4 mila le opere da lui trovate e trascritte su pentagramma, grazie ad indagini presso memoriali, musei, archivi, biblioteche, librerie specializzate in Italia, Israele, Germania, Austria, Polonia, Repubblica Ceca e alla collaborazione con i principali musicisti di riferimento di questa produzione musicale (Joza Karas e Bret Werb negli Usa, David Bloch in Israele, Robert Kolben e Gabriele Knapp in Germania, la recentemente scomparsa Blanka Cervinkova in Repubblica Ceca).

L’obiettivo di Lotoro è riuscire a pubblicare entro il 2015 i dieci volumi dell’Enciclopedia Thesaurus Musicae Concentrationariae (Kz Music), enciclopedia in quattro lingue contenente centinaia di partiture scritte nei lager corredate di introduzione storica, analisi critica delle opere e CD. Un’impresa titanica, che meriterebbe un’attenzione da parte delle istituzioni italiane.

(L'Unione Informa e Moked.it del 22 luglio 2014)

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La Grande Guerra. Poveri diavoli ed eroi, le storie dei combattenti

di Mario Avagliano

L'ultimo reduce della Grande Guerra del '15-'18, il bersagliere Delfino Borroni, è scomparso nel 2008 all'età di 110 anni. E gli eroi italiani della prima guerra mondiale, pur essendo l'Italia uscita vittoriosa da quel conflitto, sono nomi sconosciuti e poco o per niente giocati nel discorso politico e storico del nostro Paese, pur essendo presenti nella toponomastica di tutte le città d'Italia, con l'intitolazione di vie, piazze, scuole e istituzioni.
Il 4 novembre, giorno del trionfo italiano nel 1918, dopo la battaglia di Vittorio Veneto, non è neppure più festa. E anche il bellissimo film di Mario Monicelli con Alberto Sordi e Vittorio Gassman, intitolato appunto "La Grande Guerra", che contribuì alla demitizzazione della storiografia patriottica e romantica di quel conflitto, è inspiegabilmente tra i meno programmati dalle reti televisive.
Avvicinarsi a quegli italiani dell'Ottocento, sbattuti in trincea in quella prima immane carneficina massificata della Storia, non è affatto semplice, anche perché essi furono "oggetto di manipolazione e costruzione postuma a uso e consumo di questa e quella causa", in particolare quella fascista, come osserva Paolo Brogi in "Eroi e poveri diavoli della Grande Guerra" (Imprimatur, pp. 208, euro 15). C'è infatti un problema di fonti e di versioni dalle quali ricavare criticamente ciò che ci resta di quelle gesta.

È quel che prova a fare il libro di Brogi, che raccoglie una ventina di storie di eroi molto diversi fra loro, che costituiscono un campione rappresentativo di quell'esercito di italiani, 5 milioni e 200 mila, spediti al fronte, su un totale di 10 milioni di uomini validi. In pratica, uno su due, di cui 650 mila morirono in battaglia e un altro milione rimase ferito o mutilato per il resto della vita (22 mila ciechi, 75 mila storpi, 12 mila invalidi totali).
Seguiamo così la vita romanzesca di Enrico Toti, il bersagliere-ciclista con la gruccia, esemplare iperrealistico con quella sua menomazione dovuta a un incidente sul lavoro, il suo interventismo estremo, le sue imprese ciclistiche in giro per il mondo e la sua tenacia combattentistica ad ogni costo, nonostante gli fosse stata negata la matricola di militare a causa della sua inabilità.
Come non emozionarsi di fronte al coraggio dell' "irridente" Cesare Battisti - nulla a che fare col terrorista rosso, per carità - cittadino di quel Trentino che era ancora sotto l'Austria, che fu tra gli alfieri dell'intervento italiano e concluse il suo comizio al Campidoglio con l'invocazione: "Italiani! Tutti alla frontiera con la spada e col cuore!" Catturato dagli austriaci, fu processato per alto tradimento e impiccato il 12 luglio del 1916.
E poi il leggendario asso dell'aviazione Francesco Baracca, eroe gentiluomo, che dopo aver abbattuto un velivolo nemico, andava a soccorrere i piloti nemici, e sul suo aereo aveva fatto disegnato il cavallino rampante che poi divenne il logo della Ferrari. Il volontario quindicenne Roberto Sarfatti, ebreo, morto caporale in un'azione di attacco e figlio di quella Margherita Sarfatti, giornalista e scrittrice, che nel dopoguerra sarà amante di Benito Mussolini e contribuirà alla sua fama nel mondo con il libro-biografia "Dux", tradotto in varie lingue. Fino agli intellettuali e fini letterati Renato Serra e Scipio Slataper, depositari anche di accenti critici verso la guerra, oltre che di dedizione alla causa.
Non manca un accenno alle donne, come la maestra Luigia Guappi di Bologna e la pollivendola Gioconda Girelli di Milano che avevano vestito l'abito del soldato per recarsi a combattere.
Ma Brogi non ricorda solo gli eroi. Ogni guerra, Grande o piccola che sia, porta con sé drammi umani, atti di violenza, senso di orrore e di impotenza e anche gesti contrari, testimonianze a volte estreme di voglia di pace.
Non si può ignorare, in occasione del centenario del primo conflitto mondiale, il fenomeno dei renitenti alla leva (470 mila) e dei disertori (350 mila), molti dei quali motivati da sincero pacifismo. Un migliaio di loro, come ricordano Alberto Monticone e Enzo Forcella in "Plotone di esecuzione", pagò questa scelta con la fucilazione. Come il fante torinese, operaio, che scrisse in punta di morte: "Compagni la morte non mi fa paura, se anche i miei superiori mi dissero che questo è un posto d'onore, il mio sangue vorrò spenderlo per una causa giusta e leale, per far risorgere la vera società di fratellanza e di umanità".
E accanto agli eroi, ci sono i tantissimi italiani che sotto le bombe e il fuoco di trincea persero di fatto la vita, inghiottiti nel buco nero della follia. L'ultimo denso paragrafo del libro di Brogi è dedicato ai soldati usciti di senno in battaglia, per lo choc della guerra, che furono emarginati dalla società e, a volte, per il mal di vivere si suicidarono.
Si è detto, giustamente, che le trincee della Grande Guerra furono il campo-scuola in cui si forgiò l'Italia, perché per la prima volta piemontesi e siciliani, lombardi e campani, laziali ed emiliani, si incontrarono e fraternizzarono.
Ma l'altra faccia della medaglia, oltre ai morti, è rappresentata da quegli oltre 40 mila soldati che finirono nella rete dei manicomi di guerra, le cui vicende Brogi racconta con l'ausilio di documenti inediti, come le cartelle cliniche rintracciate nell'archivio dell'ospedale psichiatrico di Cogoleto a Genova. Con un termine inglese oggi questo insieme di disordini mentali è stato catalogato come post traumatic stress discorder. Allora, nel '15-'18, la definizione fu più cruda: "scemi di guerra".

(Una versione più breve è stata pubblicata su Il Messaggero del 27 luglio 2014)

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Da Orbetello a Chicago per ricordare la trasvolata di Balbo

di Mario Avagliano

Ci fu un’epoca in cui l’Arma azzurra, l’aviazione italiana, era ai vertici mondiali, con recordman dell’aria come Francesco De Pinedo e Arturo Ferrarin. La più grande impresa della storia dell'aviazione civile mondiale di tutti i tempi, e cioè la trasvolata atlantica che partendo da Orbetello il 1° luglio del 1933 portò 24 idrovolanti italiani S55 Savoia Marchetti a percorrere per la prima volta la rotta artica oggi utilizzata da tutti gli aerei di linea tra l’Europa e gli Stati Uniti, fu compiuta da una squadra di 107 piloti italiani (due morirono durante il viaggio) guidata da Italo Balbo detto “pizzo di ferro”.
Quell’impresa mitica, durata 43 giornate, rivive ottanta anni dopo in una mostra inaugurata a Orbetello il 26 luglio scorso e in un libro in due lingue, italiano e inglese, intitolato "Mari e cieli di Balbo" (Edizioni del Girasole, pp. 256, euro 20), a cura di Ivan Simonini, con prose letterarie del giornalista e scrittore Alberto Guarnieri, che propone una preziosa sezione di 350 documenti del periodo (immagini, grafici, comunicati, telegrammi, telefonate, radio intercettazioni), in parte inediti e in parte a colori, ed è arricchito da quindici litografie in tecnica mista realizzate per l’occasione dal pittore emiliano Nani Tedeschi e da un ampio apparato storico-critico (con postfazione di Paolo Mieli).

ll protagonista del racconto di Guarnieri è il generale Balbo, classe 1896. Un personaggio controverso. Originario di Ferrara, repubblicano, interventista nella Grande Guerra e decorato per meriti bellici, esponente di spicco dello squadrismo agrario e quadrumviro della marcia su Roma, guidò le squadracce fasciste contro gli arditi del popolo comunisti a Ferrara, Ravenna e Parma. Ma quale sottosegretario per l’Aeronautica, a partire dal novembre 1926, fu il vero fondatore dell’Arma azzurra, dandole un’anima ed esaltando la tecnologia made in Italy.
L’avventura di Balbo al centro del libro è la trasvolata oceanica, la cosiddetta crociera del decennale della marcia su Roma. Per ironia della sorte, proprio nel 1922 il Commissariato dell’Aeronautica aveva bocciato il primo esemplare degli S55. Fu Balbo a trasformare gli idrovolanti da brutti anatroccoli in celesti metallici cigni e scegliere come motori gli Isotta Fraschini, nonostante le proteste della Fiat.
L’aereo di Balbo si chiamava I-Balb e la formazione a punta di lancia utilizzata per la trasvolata ancora oggi è denominata “un balbo”.
Quando la “centuria alata” ammarò a Montreal, in Canada, poi a Chicago dove era in corso l’Esposizione Universale e infine a New York, Balbo e i piloti italiani furono accolti da festeggiamenti colossali, con ali di folla ad applaudirli e organizzazioni di parate. A Chicago li portarono in un stadio, a New York sfilarono sulla 5° Strada e al Madison Square Garden c’erano 400 mila persone ad ascoltare il discorso del gerarca. Suscitando l’irritazione e la gelosia di Benito Mussolini, Balbo fu ricevuto a Washington, con onori da capo di stato, dal presidente americano Roosevelt.
Il giorno dopo il ritorno degli eroi del volo a Ostia Lido, il 13 agosto del 1933 il duce riservò ai Balbo-boys il passaggio sotto l’Arco di Costantino. Ma la popolarità di Balbo in Italia e all’estero faceva ombra a Mussolini e così appena qualche mese dopo egli fu inviato in esilio dorato in Africa, con l’incarico di governatore della Libia. Dopo di lui l’aviazione italiana perse il contatto con l’evoluzione tecnologica ed iniziò una lunga fase di declino. Il gerarca-aviatore morì in volo su Tobruk, il 28 giugno 1940, all’inizio della seconda guerra mondiale, colpito in circostanze oscure dalla nostra contraerea.
La mostra "Mari e cieli di Balbo" volerà oltreoceano il 10 agosto a Montreal e il 14 agosto a Chicago, punto di arrivo degli “aeronauti”, dove ancora c’è una strada a lui intitolata, Balbo Avenue. La trasferta è stata organizzata in collaborazione con gli Istituti Italiani di Cultura delle due città, in occasione della Settimana Italiana di Montreal e della Festa Italiana di Chicago. Sarà l’occasione per il sindaco di Orbetello, Monica Paffetti, di lanciare la proposta di un concorso di idee internazionale per recuperare l'idroscalo della città, da cui partì l’impresa, per farne magari un museo della trasvolata.

(Versione più sintetica pubblicata su Il Messaggero del 30 luglio 2014)

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Storia Stragi naziste la Germania riapre le indagini su Stazzema

di Mario Avagliano

Sarà fatta finalmente giustizia sulla strage nazifascista di Sant’Anna di Stazzema? Forse. Qualche spiraglio almeno si apre. A settant'anni esatti da quei tragici fatti, la Procura federale di Karlsruhe, in Germania, ha deciso la riapertura delle indagini sull'eccidio, annullando una decisione precedente della Procura generale di Stoccarda. Ma ora bisognerà attendere l’esito del processo, che non è affatto scontato, visto i precedenti. "E' una buona notizia, ma ora bisogna far presto. Siamo tutti troppo vecchi", ha commentato Enrico Pieri, uno dei superstiti della strage (nella quale vennero uccisi i suoi genitori e le sue due sorelle) e presidente dell'associazione fra i familiari dei martiri, che due anni fa ha avuto il merito di proporre testardamente ricorso alla decisione della magistratura di Stoccarda di archiviare il caso.
Quella mattina del 12 agosto del 1944, in Versilia, quattro compagnie delle SS tedesche salirono a Sant’Anna di Stazzema, accompagnati da collaborazionisti fascisti italiani, e circondarono il paese. Gli uomini si rifugiarono nei boschi, temendo di essere deportati, mentre donne, anziani e bambini rimasero nelle case. Fu un terribile massacro. In circa tre ore le SS trucidarono brutalmente 560 persone, compreso il sacerdote don Innocenzo, che implorava i soldati nazisti perché risparmiassero la sua gente, e gli otto fratellini Tucci, con la loro mamma. La vittima più giovane, Anna Pardini, aveva appena 20 giorni.
Quella strage è rimasta finora impunita. Nel 1948 sfuggì al carcere il generale Max Simon, comandante della XVI Panzergrenadierdivision SS, prima condannato a morte per fucilazione (pena commutata nell’ergastolo), e poi graziato. Il maggiore Walter Reder, nel processo celebrato nel 1951 a Bologna, per l’eccidio fu assolto per “insufficienza di prove”.
Da allora, la strage di Sant’Anna di Stazzema è caduta in una sorta di oblio della memoria. Fino a quando, nel maggio del 1994, il casuale rinvenimento di 695 fascicoli relativi alle stragi nazifasciste, conservati a Palazzo Cesi, in un armadio nei sotterranei della Procura Militare di Roma (il cosiddetto armadio della vergogna), riaccese i riflettori sull’eccidio.
Nel 1996, anche grazie alle richieste del Comune di Stazzema e del Comitato per le Onoranze ai Martiri di Sant’Anna, la Procura Militare di La Spezia riaprì le indagini. E a dare un contributo decisivo all’identificazione dei responsabili, fu la ricerca della giornalista Cristiane Kohl negli archivi militari tedeschi, in collaborazione con lo storico Carlo Gentile, pubblicata sul quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung.
Il processo ai responsabili dell’eccidio di Sant’Anna si concluse il 22 giugno 2005. Il Tribunale Militare di La Spezia dichiarò colpevoli tutti i dieci imputati, ex ufficiali delle SS, condannandoli alla pena dell’ergastolo e al risarcimento dei danni. Le sentenze furono confermate dalla Cassazione, ma mai eseguite. Il primo ottobre del 2012, infatti, la procura di Stoccarda decise di non chiedere l'imputazione degli otto ex SS all'epoca ancora in vita per l'impossibilità di provare, nonostante le indagini svolte, le loro responsabilità individuali e l'aggravante della premeditazione.
Ora sono tre gli ex ufficiali delle SS ancora in vita, ma la decisione della corte federale di Karlsruhe apre la possibilità di una incriminazione per il solo Gerhard Sommer, 93enne capo di una delle compagnie delle SS che si resero protagoniste dell'eccidio, poiché gli altri due sono stati ritenuti "incapaci di stare in giudizio". Sarà la volta buona?

(Il Messaggero, 6 agosto 2014)

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