Storie - Cotignola, un altro paese di Giusti

di Mario Avagliano

Ci fu un altro “caso” Nonantola nel tragico periodo della Repubblica di Salò e dell’occupazione tedesca dell’Italia centro-settentrionale. Anche a Cotignola, piccolo centro della bassa Romagna, in provincia di Ravenna, tra l’autunno del ’43 e la primavera del ’45, l’intero paese di seimila persone si mobilitò per salvare 41 ebrei italiani dalla caccia all’uomo scatenata dai nazifascisti.

A dare protezione ai perseguitati, provenienti per lo più da Bologna e dal modenese, fu tutta la popolazione: le famiglie di Cotignola, il commissario prefettizio Vittorio Zanzi, gli impiegati dell’anagrafe comunale, la Curia, i partigiani e il locale comitato di liberazione nazionale. Zanzi, sfruttando il suo incarico, si occupò della logistica e degli spostamenti degli ebrei in varie abitazioni del centro e nelle campagne circostanti e riuscì a fornire falsi documenti d’identità ai perseguitati, facendole stampare da un dipendente della tipografia e poi compilare da funzionari dell’anagrafe. In questa opera di salvataggio, fu aiutato dalla moglie Serafina, da Luigi Varoli con la moglie Anna, dall'arciprete Giovanni Argnani e dai partigiani. Un esempio straordinario di impegno collettivo contro la barbarie e il terrore nazifascista. Ogni anno Cotignola celebra la memoria di quella generosa rete di accoglienza, che viene ora raccontata anche in un documentario, «Cotignola, il paese dei Giusti», realizzato da Nevio Casadio, giornalista vincitore del Premio Ilaria Alpi. Il documentario è stato presentato ieri in anteprima nazionale a Cotignola, presso l’Istituto Comprensivo “Don Stefano Casadio”, e andrà in onda domani su Rai 3 alle ore 10, nella puntata de "La storia siamo noi" di Gianni Minoli, in occasione della “Giornata dei Giusti” istituita dal Parlamento europeo nel 2012.
Con l’ausilio di interviste, di immagini di repertorio e di ricostruzioni storiche, vengono ripercorsi gli eventi di quei giorni e la storia dei quattro Giusti tra le Nazioni di Cotignola. Due coppie di italiani del 1943 che sentirono il dovere di agire, mettendo a rischio la propria vita, per salvare i connazionali ebrei dalla deportazione: il commissario prefettizio Vittorio Zanzi e la moglie Serafina e il pittore e insegnante Luigi Varoli e la moglie Anna.

(L'Unione Informa, 5 marzo 2013)

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Fosse Ardeatine. Vite perdute e ritrovate

di Mario Avagliano

Roma 24 marzo 1944, quarto giorno di primavera. In una cava di pozzolana sulla via Ardeatina, i tedeschi uccidono 335 uomini con un colpo di pistola alla nuca. Sono prigionieri politici e partigiani di tutte le forze antifasciste, ebrei, detenuti comuni e ignari cittadini estranei alla Resistenza, sacrificati in proporzione di dieci a uno (ma nella fretta e nella confusione ne vengono uccisi cinque in più), in rappresaglia per l’attacco partigiano del giorno prima in via Rasella, costato la vita a 33 militari della compagnia dell’SS Polizei Regiment Bozen. È il più grande massacro compiuto dai nazisti in un’area metropolitana d’Europa e segnerà profondamente la storia e la memoria italiana del dopoguerra.

Nella ricorrenza del 50° anniversario della scomparsa di Attilio Ascarelli, il medico legale ebreo che dall’estate all’autunno del 1944 diresse le attività di esumazione e di identificazione delle salme della strage delle Fosse Ardeatine, esce un libro intitolato I Martiri Ardeatini. Carte inedite 1944-1945 (AM&D Edizioni, pp. 331, euro 30). Il volume, curato da Martino Contu, Mariano Cingolani e Cecilia Tasca, propone per la prima volta le schede biografiche delle vittime che furono redatte all’epoca dalla commissione, accompagnate da un interessante saggio sui più recenti sviluppi storiografici relativi all’eccidio, una preziosa bibliografia sull’argomento, un profilo del professor Ascarelli, e l’inventario del Fondo a lui intestato e conservato presso l’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Macerata.
In qualità di direttore della commissione medico-legale, Ascarelli raccolse la documentazione prodotta in quei mesi (comprensiva di fotografie delle operazioni di recupero delle salme, dei cadaveri e delle lettere ritrovate sui corpi delle vittime), più altri documenti che via via aggiunse negli anni successivi.
In uno di questi corposi fascicoli, sono contenute 291 schede di martiri (su un totale di 335), alcune più ampie, alcune telegrafiche, che vengono pubblicate in questo volume e ci rivelano particolari inediti di alcuni di loro.
Nulla si sapeva, ad esempio, del commerciante Secondo Bernardini, democristiano, che fu arrestato dalle SS a Pisoniano assieme alle moglie e, dopo la devastazione della casa, venne tradotto nel carcere di via Tasso, dove entrambi «subirono immane torture tra le quali hanno avuto asportazioni delle unghie e fustigazioni sotto le piante dei piedi». Il sottotenente Marcello Bucchi, invece, rinchiuso a Regina Coeli assieme a don Giuseppe Morosini, quando ebbe un colloquio con la madre e questa gli chiese cosa avesse fatto, rispose: “Mamma, la Patria è un ideale tanto grande”.
Le schede rappresentano, come scrive Claudio Procaccia nella prefazione, “un punto di partenza per la creazione di un dizionario biografico delle persone assassinate il 24 marzo 1944”. Se infatti il susseguirsi degli eventi tra il 23 e il 24 marzo è stato ampiamente ricostruito dalla storiografia, così come si è indagato a fondo sull’impronta che l’eccidio ha lasciato nella memoria del dopoguerra (vedi il libro di Alessandro Portelli “L’ordine è già stato eseguito”), poco invece si conosce, ad eccezione di alcuni personaggi più noti, delle vicende individuali delle vittime, di cui oggi resta traccia – e non per tutti – solo in alcune pubblicazioni locali o a carattere familiare, nelle cerimonie e nelle lapidi presenti a Roma e nelle città di origine.
La ricostruzione delle biografie civili e politiche dei martiri – alcuni dei quali ancora non sono stati identificati – sarebbe invece un’operazione di grande interesse storico, anche perché da essa emergerebbe un microcosmo altamente rappresentativo dell'intera storia italiana di quel tempo, in uno dei suoi snodi più drammatici e cruciali, tra fascismo, occupazione nazista, Resistenza e liberazione.
Alle Fosse Ardeatine furono uccisi italiani originari di ogni parte della penisola, dalla Lombardia alla Sicilia (più alcuni stranieri: un belga, un francese, un libico, un turco, un ungherese, tre ucraini e tre tedeschi). Le vittime erano militari e civili e appartenevano a tutti i ceti sociali, dagli aristocratici ai poveracci venuti in città per sbarcare il lunario e sopravvivere alla miseria.
Erano impiegati, commessi, commercianti, avvocati, professori, studenti, militari, venditori ambulanti, artigiani, contadini, pastori, operai. Di ogni fascia d’età, dagli anziani ai giovanissimi. Di ogni livello d’istruzione, dagli analfabeti ai grandi intellettuali, compresi alcuni colpevoli di reati comuni, che stavano scontando la loro pena in carcere. Quanto al credo religioso, vi era un sacerdote, don Pietro Pappagallo, e anche 75 ebrei (per la maggior parte di essi, i documenti pubblicati in questo volume sono le uniche testimonianze biografiche sino ad ora note). Tra i politici, infine, c’erano esponenti di tutte le forze antifasciste, compresi alcuni degli esponenti più autorevoli del Fronte militare clandestino di Roma, a partire dal loro capo, il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo.
Il libro I Martiri Ardeatini, che sarà seguito a breve nel piano editoriale da altri due volumi tratti dal Fondo (uno sui verbali di esumazione della commissione medico-legale e un altro sulla figura del generale Simone Simoni, una delle vittime dell’eccidio), offre quindi la chiave e gli strumenti per riportare alla luce quelle vicende, “perché – come scrisse nel 1945 Ascarelli – si diffonda ovunque l’eco di tanta infamia e perché resti documentata una delle innumerevoli atrocità naziste che commosse la pubblica opinione del mondo civile!”.

(Il Messaggero, 23 marzo 2013)

In fuga dalla Shoah a bordo di un battello

di Mario Avagliano

Vi sono tante vicende della seconda guerra mondiale e della persecuzione degli ebrei ancora misconosciute o coperte dall’oblio, per i motivi più svariati, dalla reticenza dei protagonisti alla scomparsa o distruzione della documentazione. Una di queste è quella dei 520 ebrei (famiglie, adulti e giovani, compresi circa 30 bambini) appartenenti alla organizzazione sionista Betar, che il 18 maggio 1940 s’imbarcarono dal porto sul Danubio a Bratislava su uno scalcagnato battello fluviale a vapore, con le grandi ruote a mulino, denominato “Pentcho”, nella speranza di raggiungere la Palestina.
Molti dettagli inediti della storia dell’incredibile viaggio del “Pentcho” (descritta nel libro "Odyssey" di John Bierman) e del coraggioso salvataggio dei suoi passeggeri ad opera di una nave italiana e del suo comandante, il tenente napoletano Carlo Orlandi, sono stati ricostruiti di recente grazie allo straordinario collezionista Gianfranco Moscati, che già nel libro “Documenti e immagini dalla persecuzione alla Shoah” aveva proposto diversi documenti originali riferiti all'episodio, e alle ricerche appassionate di un docente di anatomia umana alla facoltà di medicina dell’Università di Perugia, Mario Rende, la cui famiglia è originaria di Tarsia, autore del saggio “Ferramonti di Tarsia. Voci da un campo di concentramento fascista”, edito tre anni fa da Mursia.

Rende si è recato in Israele, incontrando lo scorso 15 febbraio a Netanya i passeggeri e i discendenti del Pentcho presso il monumento che ricorda la nave e raccogliendo una straordinaria documentazione fotografica dei fatti fornita da uno dei sopravvissuti, Karl Schwarz, di cui proponiamo alcuni scatti in questo numero di Pagine Ebraiche.
La vicenda del Pentcho assomiglia per molti versi a quella delle tante carrette del mare cariche di immigrati che oggi dall’Africa tentano di raggiungere le coste italiane. Anche quel trasporto era “illegale”, come racconta l’ebreo tedesco Heinz Wisla, classe 1920, uno dei passeggeri della nave, in una memoria scritta conservata nel fondo Kalk del Cdec. E le analogie non si fermano qui: il battello era fatiscente, il viaggio aveva un costo (“in media circa 100 dollari USA a testa, che dovevano essere depositati in una banca svizzera”) e i passeggeri erano quasi del tutto privi di denaro e di mezzi di sussistenza.
Wisla ricorda così il momento della partenza: “Era uno spettacolo che faceva rizzare i capelli: su un vecchio rimorchiatore danubiano, che forse serviva una volta per il trasporto di bestiame o di grano e che per l'imminente viaggio avventuroso era provvisto di alcuni tavolati ed impalcature addizionali in legno, si pigiavano emigranti disperati dalla Slovacchia, dalla Boemia, dalla Germania, dall'Austria, dall'Ungheria, dalla Polonia, ecc. C'erano, tra di loro, circa 200 giovani idealisti e poi 200 persone adulte (coppie di sposi e persone sole) che non temevano privazioni di sorta, pur di poter rivedere i loro figli in Palestina. Si trovavano, inoltre, sulla nave, cento uomini già detenuti in vari campi di concentramento tedeschi e rilasciati alla condizione di abbandonare immediatamente la Germania”.
Il gruppo era comandato dal sionista Alexander Citron, che era riuscito ad ottenere un visto collettivo di espatrio per il Paraguay (come racconta lui stesso in un libro pubblicato in Israele). Tra i passeggeri vi era anche un ebreo ungherese, tale Imre Emerich Lichtenfeld, noto come Imi, che poi è passato alla storia come fondatore del metodo di combattimento e autodifesa krav maga. Un altro passeggero, invece, Schachun Wald, ebreo polacco, finirà invece assassinato assieme al figlio Paul dalle SS alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944.
Per quattro mesi e mezzo il battello scivolò, “dondolandosi” (parole di Wisla), lungo le acque del Danubio senza che nessuna delle nazioni attraversate (Jugoslavia, Bulgaria e Romania) consentisse ai rifugiati di approdare. Come testimonia Wisla, nessun paese voleva dare loro cibo, acqua e il prezioso olio combustibile necessario alla navigazione. Gli unici aiuti arrivarono dalle comunità ebraiche locali.
Un altro passeggero, Hans Goldberger, ha raccontato che potevano vedere i ristoranti sulle rive ed ascoltare la musica proveniente dai caffè mentre morivano di fame e che dipinsero sulla nave la parola “FAME” in tre lingue, ma nessuno portò loro del cibo (la storia di Hans è descritta nel libro di Ruth Gruber, Haven. The dramatic story of 1000 World War II refugees and how they came to America (Three River Press, New York 2000).
A settembre il Pentcho raggiunse finalmente il mar Nero, passando il Bosforo e raggiungendo Istanbul. Anche i turchi, però, non ebbero pietà dei passeggeri e ordinarono alla nave di proseguire il suo viaggio, nonostante che la sua riserva d'acqua potabile e la sua scorta di viveri stessero per terminare. Nei due giorni successivi, allorquando il "Pentcho" attraverso il Mar di Marmara e i Dardanelli raggiunse il Mar Egeo, “la fame e la sete erano già all'ordine del giorno”, racconta Wisla. Si pensò di puntare verso la Grecia, dove la comunità israelitica locale offerse in dono il giorno 4 ottobre 1940 viveri ed acqua ed anche un po' di olio combustibile, per riprendere il viaggio.
“Dopo tre giorni di navigazione – prosegue il racconto di Wisla - eravamo di nuovo in alto mare e potevamo intravedere sull'orizzonte alcuni piccoli isolotti, all'improvviso il mare si fece burrascoso e ciò determinò il destino della nave. Nei giorni 6, 7, 8, 9 ottobre, dopo un breve viaggio nel mare in tempesta con onde alte come una montagna che sballottolavano la nave come un giocattolo nelle insenature dei vari isolotti greci. Ed era, verso il mezzogiorno del 9 ottobre, allorquando il forte vento si era un po' calmato e la nave poteva di nuovo seguire la rotta sud-est stabilita in principio, avvenne la disgrazia: un guasto al motore ha impedito al "Pentcho" qualsiasi manovra. Si pensò allora di ricorrere alle vele, ottenute con la trasformazione di alcune lenzuola, ma la tempesta diventò sempre più forte. Poiché in lontananza si intravvedevano alcuni isolotti, si puntava verso questi. Il vento, però, diventò sempre più violento e poco dopo la mezzanotte del 10 ottobre il "Pentcho" urtò contro gli scogli dell'isolotto completamente disabitato Kamilonisi (50 Km a nord di Creta e circa 80 Km ad occidente del Dodecaneso italiano) e si fracassò. Per fortuna si è riusciti a gettare sull'isolotto alcune travi e scale, sicché abbiamo potuto, senza badare allo spumeggiare di grosse onde, passare dalla nave ormai fracassata all'isolotto, arrampicandoci sugli scogli e prendendo terra, ormai completamente esauriti”.
L’isolotto era privo di vegetazione e i naufraghi del Pentcho “soffrivano la fame ed erano in preda ad una mortale disperazione” (Wisla). Gli inglesi li avvistarono, ma non andarono in loro soccorso, perché la zona era minata. Per fortuna la loro presenza fu rilevata anche dall’aviazione italiana. Coraggiosamente la nave militare italiana “Camogli” (che era molto più distante dall’isola rispetto agli inglesi), comandata dal tenente Carlo Orlandi, attraversò indenne la zona minata, raggiungendo gli emigrati ebrei.
Nella sua memoria scritta Wisla conferma: “Finalmente è arrivata la salvezza: il giorno 20 ottobre era verso mezzogiorno, alcuni avieri italiani - era già in corso la guerra tra la Grecia e l'Italia - avvistarono il movimento e le segnalazioni di fumo sull'isola. Nella stessa serata accorse una nave italiana ed imbarcò tutti quanti i naufraghi. Dopo un viaggio tempestoso sbarcammo, il 23 ottobre 1940 sull'isola di Rodi nel Dodecaneso italiano dell'Egeo. In un primo tempo fummo internati in un campo di tende, ma successivamente - 24 dicembre 1940 - fummo trasferiti nei locali della caserma San Giovanni”.
A Rodi gli ebrei furono internati fino agli inizi del 1942. Uno di loro, Wisla, l’autore del memoriale conservato al Cdec, riuscì ad ottenere ad ottenere un visto per il Portogallo e a lasciare l’isola greca. Passò da Roma, dove fu ricevuto da Pio XII, al quale riferì la storia dei naufraghi del Pentcho rimasti a Rodi. Il papa si interessò della vicenda e grazie alla sua intercessione una nave della Croce Rossa prelevò i naufraghi e in due riprese (febbraio e marzo 1942) li trasportò in Italia. Un intervento provvidenziale, visto che le autorità italiane avevano chiesto ai nazisti di prendersi carico dell'intero gruppo per trasferirli in Germania. Gli ebrei furono destinati al campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia, in provincia di Cosenza, dove nel settembre 1943 furono liberati dagli alleati, sfuggendo così alla deportazione. I loro correligionari presenti a Rodi, invece, dopo l’occupazione tedesca dell’isola furono catturati, trasportati ad Atene e quindi deportati ad Auschwitz, da dove tornarono solo in 150 su un totale di 1800.
Nelle commemorazioni successive, i sopravvissuti del Pentcho riconobbero il comportamento generoso degli italiani nei loro confronti: “…hanno fatto tutto per soccorrerci nella nostra sventurata situazione. Se noi abbiamo conservato in quei anni la fede nell’umanità, lo dobbiamo al popolo italiano” (stralcio del discorso di Iehoshua Halevi al congresso degli ebrei ex internati a Ferramonti Tarsia e dei naufraghi del battello “Pentcho” tenutosi a Tel Aviv nel 1971, Fondo Kalk).
Fu diversa la sorte del tenente napoletano Carlo Orlandi (1888-1970), che all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre del 1943, fu catturato dai tedeschi e destinato come internato militare in uno Stammlager, come testimoniano i documenti e le fotografie raccolte da Gianfranco Moscati. Non vi sono prove dirette di una misura punitiva collegata al suo gesto di salvataggio degli ebrei. Fatto sta che Orlandi anche in questa situazione, dimostrando ancora una volta il suo coraggio, rifiutò di aderire al costituendo esercito della Repubblica Sociale di Mussolini e per questo fu trattenuto nel Reich fino al termine della guerra, subendo come gli altri IMI un trattamento ben peggiore dei prigionieri di guerra delle altre nazioni. Un eroe dimenticato che, come sostiene il professor Rende, meriterebbe di essere riconosciuto “Giusto fra le Nazioni”.

(Pagine Ebraiche, n. 4, 1° aprile 2013, pp. 30-31)

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Storie - La strada a Salerno intitolata a Sabato Visco primo firmatario dell'infame Manifesto della razza

di Mario Avagliano

“Cancellare le tracce” s’intitola un libro di Pierluigi Battista edito nel 2007 da Rizzoli. E in effetti alcuni dei protagonisti del razzismo e dell’antisemitismo di marca fascista hanno così bene celato o corretto il loro passato, che dopo la loro scomparsa sono stati celebrati con tutti gli onori dai loro territori di origine o dalle università o accademie in cui avevano operato.

È il caso di Sabato Visco, nato a Torchiara, in provincia di Salerno, il 9 aprile 1888 e morto a Roma il 1° maggio 1971, che non fu solo un illustre fisiologo e nutrizionista (direttore dell’Istituto di fisiologia generale dell’Università di Roma e dell'Istituto nazionale di biologia del Cnr) ma anche uno dei dieci scienziati firmatari del documento “Il Fascismo e i problemi della Razza”, pubblicato il 14 luglio 1938, conosciuto anche come “Manifesto della Razza”, e uno dei principali teorici della corrente nazional-spiritualistica del razzismo fascista.
Dal marzo 2006 una strada di Salerno è a lui intitolata, nel quartiere di Pastena, nella zona orientale della città, tra via San Leonardo e via Gandhi, per decisione dell’allora giunta municipale di centrosinistra guidata dal sindaco Mario De Biase, con tanto di avallo della Soprintendenza Baaas, della Società di Storia Patria e, ovviamente, della commissione toponomastica.
Visco fu una figura di primo piano dell’antisemitismo fascista: fu capo dell'Ufficio per gli studi e la propaganda sulla razza del Minculpop e membro del Consiglio superiore della demografia e della razza e girò in lungo e in largo l’Italia per diffondere il verbo razzista. In un intervento alla Camera, nella primavera del 1939, dichiarò che l'università italiana perdeva i docenti ebrei «con la più serena indifferenza», e che anzi ne guadagnava in «unità spirituale».
Dopo la liberazione, fu solo sfiorato dal processo di epurazione ed ebbe la faccia tosta di sostenere che si era opposto al Manifesto. Peraltro nel 1946 in difesa di Visco si mobilitarono ventidue docenti in tutta Italia, firmando un appello al ministero della Pubblica istruzione per la sua riassunzione. Non avevano fatto altrettanto nell’autunno del 1938, in favore dei colleghi ebrei espulsi dalle università.
Nel 2006 l’intitolazione della strada al “barone di razza” Sabato Visco passò sotto silenzio, senza proteste da parte di nessuno. Fino a quando, qualche giorno fa, un lettore del “Corriere del Mezzogiorno” non ha scritto al quotidiano, denunciando il fatto. E’ subito scoppiata la polemica. Nico Pirozzi e Lucia Valenzi della Fondazione Valenzi hanno immediatamente scritto all'amministrazione comunale: "Appare davvero singolare che, tra tanti nomi, che hanno reso lustro alla città di Salerno, si scelga proprio quello di un uomo moralmente responsabile della morte di migliaia di ebrei italiani, di cui almeno quaranta campani. Quel nome è un insulto alla memoria degli ebrei e di quanti hanno sofferto a causa delle leggi razziali".
È partita anche una petizione popolare on line per intitolare la strada non allo scienziato razzista ma al vigile del fuoco salernitano Marco Matteucci, morto durante le operazioni di salvataggio dell’alluvione di Sarno del 1998.
Il nostro auspicio è che l’attuale amministrazione comunale di Salerno, guidata da Vincenzo De Luca, provveda subito a cambiare il nome della strada, con pubbliche scuse. Magari organizzando in occasione del 75° delle leggi razziali (a novembre prossimo) un grande convegno, con la partecipazione delle scuole salernitane, per far conoscere chi era davvero Sabato Visco. E come è riuscito a “cancellare le tracce”.

(L'Unione Informa, 16 aprile 2013)

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Storie - La guerra di Claudio, il finanziere buono

di Mario Avagliano

Nel pieno della bufera razzista e della caccia agli ebrei, in Italia vi furono funzionari delle forze dell’ordine che con dignità, altruismo e coraggio si opposero al disegno nazifascista. Una figura poco conosciuta è quella del finanziere Claudio Sacchelli, al quale di recente il Museo Storico della Guardia di Finanza ha dedicato una monografia, “La guerra di Claudio”, a cura di Luciano Luciani e Gerardo Severino.

Sacchetti, dopo l’8 settembre del 1943, trovandosi di stanza a Villa di Tirano, in Valtellina, in territorio di frontiera, aderì alla brigata partigiana locale “Gufi” e collaborò con l’organizzazione clandestina di assistenza agli ebrei messa su da Armida Morelli e Arturo Borserini, aiutando diversi perseguitati politici e molti profughi ebrei, quasi tutti provenienti da Balcani e internati tra il 1941 e il 1943 ad Aprica, ad espatriare nella vicina Svizzera, per sfuggire alla cattura da parte delle SS e della polizia fascista. Il finanziere inoltre ospitò e nascose a casa sua due anziani coniugi israeliti, facendoli passare per i genitori della moglie.
La sua attività “antitedesca e antifascista” purtroppo fu scoperta, forse su delazione anonima, e il 7 aprile 1944 Claudio Sacchetti fu arrestato dalle autorità tedesche e rinchiuso in carcere. Quindi fu deportato nel campo di concentramento di Fossoli, il 21 luglio trasferito a Bolzano, nel blocco D, destinato ai deportati politici con il triangolo rosso, e infine il 5 agosto destinato al lager di Mauthausen, dove morì il 1° maggio 1945, pochi giorni prima della liberazione.
A Claudio Sacchetti è stata concessa l’anno scorso la medaglia d’oro al merito civile alla memoria dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Un partigiano da ricordare, alla vigilia del 25 aprile.

(L'Unione Informa, 23 aprile 2013)

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Quel 'segreto brutto' di Primo Levi

di Mario Avagliano

Ada Gobetti, moglie di Piero e autrice di quel Diario partigiano che narra le pulsioni, le contraddizioni e la complessità del movimento di liberazione, aveva ammonito gli storici a rappresentare la Resistenza senza «impacchettarla con un bel cartellino per mandarla al museo». E aggiungeva: «Se sapremo analizzare spregiudicatamente quel periodo con i suoi contrasti, i suoi limiti, i suoi errori, daremo ai giovani la possibilità di una scelta».
Preoccupazioni fondate. Nel dopoguerra l’epopea resistenziale è stata rappresentata con un’aurea di romanticismo e qualche eccesso di retorica. Almeno fino al 1991, anno di uscita di Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza (Bollati Boringhieri) di Claudio Pavone. Da allora la storiografia ha fatto passi da gigante nella direzione di un’analisi più veritiera di quel periodo, che ne esaltasse il carattere patriottico ma indagasse anche sui limiti, le divisioni e le violenze del movimento (vedi l’eccidio di Porzus, in cui persero la vita tra gli altri Francesco De Gregori, zio del cantautore, e Guido Pasolini, fratello del poeta) e sulle vendette del dopoguerra. Cosa che la letteratura aveva già fatto da tempo, con i romanzi di Italo Calvino, Carlo Cassola e Beppe Fenoglio.
Ora, alla vigilia del 25 aprile, giunge in libreria un nuovo saggio, Partigia. Una storia della Resistenza, di Sergio Luzzatto (Mondadori), lanciato da una lunga e documentata recensione di Paolo Mieli sul Corriere della Sera, che si occupa della breve stagione partigiana di Primo Levi, l’autore di Se questo è un uomo, sulle montagne di Amay, in Valle d’Aosta, tra l’ottobre 1943 e il febbraio 1944, e che ancora prima dell’uscita ha già infiammato il dibattito tra intellettuali e storici, suscitando aspre polemiche.

Partigia è il termine gergale con cui in Piemonte venivano chiamati i combattenti antifascisti e Luzzatto racconta l’apprendistato da ribelle del giovane dottore in chimica torinese che, giunto lì da “sfollato”, si unisce ad una banda composta da comunisti e anarchici, fino alla cattura assieme a Luciana Nissim e Vanda Maestro, ebree come lui, al trasferimento a Fossoli e al viaggio verso Auschwitz.
L’episodio centrale che viene scandagliato da Luzzatto è la fucilazione da parte della banda di partigiani di Levi, all’alba del 9 dicembre 1943, su un campo innevato del Col de Joux, sopra Saint-Vincent, di due giovanissimi elementi della stessa formazione, Fulvio Oppezzo di Cerrina Monferrato e Luciano Zabaldano di Torino, di 18 e 17 anni, per l’accusa di furto. Un’esecuzione a freddo, senza un processo istruttorio. I due nel dopoguerra verranno fatti passare per vittime dei fascisti e diventeranno martiri della Resistenza.
La storia non è inedita ed era stata già ricostruita da Frediano Sessi in Il lungo viaggio di Primo Levi (Marsilio), uscito in libreria lo scorso gennaio e, prima ancora, nel 2008, dal ricercatore piemontese Roberto Gremmo sulla rivista Storia ribelle.
«La necessità in cui i partigiani si trovarono durante la Resistenza di sopprimere uomini entro le loro stesse file, per le ragioni più diverse e variamente gravi – spiega Luzzatto -, ha rappresentato a lungo un tabù della storiografia».
Lo stesso Levi si vergognava di quell’episodio. In un passaggio di un suo libro, Sistema periodico, uscito nel 1975, nel capitolo Oro, aveva accennato alla fucilazione e l’aveva definita «un segreto brutto» che aveva spento in lui e nei suoi amici «ogni volontà di resistere, anzi di vivere». Ma in una sorta di autocensura, non aveva citato i nomi e le circostanze di quanto accaduto.
Luzzatto non è nuovo a operazioni di smitizzazione di personaggi simbolo della storia italiana. Lo aveva già fatto con un saggio dissacrante sulla figura di Padre Pio. Non c’è da scandalizzarsi. È giusto inquadrare anche un protagonista della cultura italiana e mondiale come Primo Levi nella sua umanità e nelle sue debolezze, testimoniate dalla tragica fine per suicidio nel 1987. Peraltro il senso di colpa e lo smarrimento che emergono dalla sue parole e dal suo comportamento non offuscano la sua figura che, come osserva Ernesto Ferrero, «anche da questo episodio esce più grande che mai».
Tuttavia a molti, come ad esempio Marco Revelli, figlio del partigiano Nuto, e autore dell'Einaudi al pari di Luzzatto, non è piaciuto «l’uso scandalistico» di questa vicenda storica. Gad Lerner su la Repubblica si è detto turbato, difendendo Primo Levi e definendolo un Maestro. Guido Vitale, direttore di Pagine Ebraiche, ha anticipato che il periodico dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane dedicherà gran parte del prossimo numero di maggio all’affaire Levi, con un saggio di Alberto Cavaglion in cui si criticano «senza mezzi termini i grandi rischi che le operazioni a effetto possono comportare, confondendo in definitiva le acque sulla figura di Levi e sul ruolo della Resistenza».
Anche lo storico Giovanni De Luna, sempre sulle colonne di la Repubblica, ha espresso un giudizio severo: «Non accetto nel revisionismo questa continua enfasi sulla rottura della cosiddetta "vulgata resistenziale", sulle scoperte di "verità tenute nascoste". Sono argomenti privi di fondamento. Tutto ciò era emerso da tempo».
Sul fronte opposto, quotidiani come Libero e Il Giornale hanno applaudito alla «svolta» di Luzzatto, citando anche le pagine del suo libro dedicate al clima di violenze e di vendette dell’immediato dopoguerra a Casale Monferrato, e lodando la sorta di «mano tesa» a Giampaolo Pansa e alle sue tesi, soprattutto dopo le critiche feroci che lo stesso Luzzatto gli aveva rivolto negli anni scorsi.
Non c’è dubbio che la ricerca storica debba essere libera e senza censure, raccontando anche gli episodi imbarazzanti o scabrosi della Resistenza. A settant’anni dai fatti (proprio quest’anno ricorre l’anniversario), gioverebbe però ricordare i valori di fondo della guerra di liberazione e la lezione di Italo Calvino nel romanzo Il Sentiero dei Nidi di Ragno: «Dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c'erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l'Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c'era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, ché di queste non ce ne sono».

(Il Messaggero, 28 aprile 2013)

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Storie – Papa Francesco pronto ad aprire gli archivi vaticani su Pio XII?

di Mario Avagliano

Papa Francesco sarebbe pronto ad aprire gli archivi del Vaticano relativi al pontificato di Pio XII durante la seconda guerra mondiale, cioè per il periodo che va dal 1939 al 1945, mettendo la documentazione a disposizione degli studiosi. Lo ha affermato il rabbino Abraham Skorka, rettore del seminario rabbinico Latino-americano in Argentina e grande amico di Jorge Mario Bergoglio, in un’intervista alla rivista inglese The Tablet (ripresa dal quotidiano The Telegraph). «È una questione terribilmente delicata, ma lui dice che deve essere indagata a fondo», ha detto Skorka, aggiungendo: «Non ho alcun dubbio che egli si muoverà per aprire gli archivi».
Le dichiarazioni di Skorka, rilanciate in Italia dal giornalista Francesco Peloso della rivista on line Linkiesta, sono importanti, anche perché il rabbino è autore insieme all’ex arcivescovo di Buenos Aires di un libro intervista, intitolato “Il cielo e la terra”, nel quale si tocca anche il tema della Shoah e delle responsabilità della Chiesa. In queste pagine, a Skorka che solleva interrogativi sull’operato di Pio XII, Bergoglio risponde difendendo il papa ma anche concordando con il rabbino sulla necessità di aprire gli archivi sulla seconda guerra mondiale: «Quello che lei dice sugli archivi della Shoah mi sembra giustissimo. È giusto che si aprano e si chiarisca tutto. Che si scopra se si sarebbe potuto fare qualcosa e fino a che punto. E se abbiamo sbagliato in qualcosa dovremmo dire: “Abbiamo sbagliato in questo”. Non dobbiamo avere paura di farlo. L’obiettivo deve essere la verità».

(L'Unione Informa, 30 aprile 2013)

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Album di famiglia con nazi-genitori

di Mario Avagliano

Che cosa hanno in comune il fine intellettuale Günter Grass, premio Nobel della letteratura, e l’ispettore di polizia Derrick, alias Horst Tappert, l’attore che lo ha interpretato nelle celebre serie tv andata in onda dal 1974 al 1998? Entrambi avevano un passato nazista. E anche l’alter ego dell’ispettore, al pari di Grass, a venti anni fece parte delle SS, come ha riportato qualche giorno fa il Frankfurter Allgemeine Zeitung.

La notizia non deve aver sorpreso più di tanto i tedeschi, giunta com’è a cavallo dell’inaspettato successo della fiction Unsere Mütter, unsere Väter, ovvero Le nostre madri, i nostri padri, trasmessa sullo Zdf, il secondo canale tv tedesco, che secondo il settimanale Der Spiegel, grazie ad una martellante pubblicità, è già stata vista da più di 20 milioni di telespettatori.
Tre puntate dirette dal giovane regista Philipp Kadelbach, per un totale di 270 minuti, che hanno scosso il pubblico e provocato i commenti di critici cinematografici e di storici, provando a raccontare il passato scomodo e la complicità ai crimini del nazismo da parte dei tanti mamma e papà dei tedeschi di oggi. Sulla scia della serie tv, il popolare giornale berlinese Bz ha pubblicato tre pagine di confessioni di cento cittadini della capitale sotto il titolo “Cosa hai fatto tu”, illustrato da un elmetto con la svastica nazista.
Nel dopoguerra il processo di Norimberga condannò a morte i capi del nazismo, attribuendo le responsabilità essenzialmente ad Adolf Hitler e ai gerarchi del partito e delle SS. E così a lungo la storiografia tedesca ha ignorato le colpe della popolazione e perfino della Wehrmacht, l'esercito.
La correzione di rotta degli storici, che nell’ultimo ventennio hanno approfondito con studi, convegni e mostre il rapporto morboso che legò i tedeschi al nazismo, ora approda anche in tv. Il successo di pubblico della serie televisiva è nell’aver saputo confezionare, con i cliché di una normale fiction, un prodotto che mischia eventi storici reali e vicende private romanzate, narrando gli eccidi di civili compiuti dalla Wehrmacht sul fronte orientale e la complicità dei normali cittadini allo sterminio degli ebrei.
La fiction segue le vicende di cinque giovani berlinesi, tre ragazzi e due ragazze, che si trovano di fronte alle barbarie dei loro connazionali nazisti. Il messaggio di fondo è che le colpe non riguardarono solo i governanti di allora. I cattivi non furono sempre dei mostri riconoscibili, ma in moltissimi casi erano cittadini comuni, come aveva già scritto Hanna Arendt nel suo libro La banalità del male. Così nel film la bella e seducente infermiera, che all’apparenza sembra simpatica e dolce, non esita a denunciare la sua dottoressa perché ebrea, causandone la deportazione ad Auschwitz.
La serie televisiva ha anche provocato una polemica internazionale. I partigiani polacchi, infatti, vi vengono infatti dipinti come antisemiti, permettendo ad esempio che un treno proceda verso i campi di concentramento, nonostante intuiscano la presenza di ebrei sui vagoni. Alcune associazioni polacche hanno rivolto un appello al ministro degli Esteri Radoslaw Sikorski, chiedendo di adottare misure decise contro la diffusione di questa "serie televisiva diffamatoria". E il settimanale Uwazam Rze, in segno di protesta, ha sbattuto in copertina un fotomontaggio irriverente della cancelliera Angela Merkel vestita col pigiama a righe dei deportati nei lager e con il filo spinato sullo sfondo, titolando: "Falsificazione della storia: come i tedeschi si sono resi vittime della seconda guerra mondiale”.
Le polemiche hanno indotto l'ambasciatore polacco in Germania, Jerzy Marganski, a scrivere una lettera alla Zdf in cui spiega che "l'immagine della Polonia e della resistenza polacca agli occupanti tedeschi, così come raccontata dalla serie, è stata percepita dai cittadini polacchi come ingiusta e offensiva" e lamentando l’omissione di qualsiasi riferimento alla rivolta di Varsavia del 1944, in cui duecentomila civili polacchi persero la vita, di cui molti prestarono aiuto agli ebrei.
In Italia, Einaudi propone proprio ora il libro dello storico tedesco Götz Aly Perché i tedeschi? Perché gli ebrei? (pp. 284, euro 32), in cui tira in ballo il passato nazista di suo padre Ernst e dei suoi nonni e zii, spiegando attraverso le proprie vicende familiari come i tedeschi hanno sostenuto fino all’ultimo Hitler ed erano partecipi della Shoah. Da parte sua il settimanale inglese The Economist, in un articolo intitolato “Bentornati al Terzo Reich”, si interroga sullo strano fenomeno della ricomparsa sulla tv tedesca di veterani della seconda guerra mondiale che, dopo il successo di Le nostre madri, i nostri padri, sono invitati sempre più spesso nei talk show per raccontare il loro disagio e come fossero stati “costretti” a uccidere ebrei.

(Il Mattino, 3 maggio 2013)

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