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Intervista a Bianca Pucciarelli Menna (Tomaso Binga), artista e poetessa

di Mario Avagliano

 

Una delle voci più interessanti dell'arte visuale e della poesia performativa e sonora internazionale è una donna salernitana che, curiosamente, ha un nome d’arte maschile: Tomaso Binga. Binga nel senso di Bianca, e Tomaso come l’adorato Filippo Marinetti. Si tratta di Bianca Pucciarelli Menna, moglie del critico d’arte Filiberto Menna. Animatrice dal 1974 dello spazio poliartistico "Lavatoio contumaciale", che ha avuto il merito, tra gli altri, di lanciare l’allora semisconosciuto Roberto Benigni, nel corso della sua lunga carriera Bianca Menna ha realizzato centinaia di quadri, video-poesie e audio-poesie, di chiara derivazione futurista e surrealista. Ha tra i suoi estimatori il grande semiologo e scrittore Umberto Eco e ha partecipato a decine di mostre e festival da Parigi a New York, da Madrid a Sydney, da Vienna a Rio de Janeiro, promuovendo iniziative di intersezione tra poeti e pittori. Intervistata da la Città, racconta i suoi anni salernitani e parla con affetto del marito Filiberto e del suocero Alfonso Menna, storico sindaco di Salerno.

La sua famiglia è salernitana?

Sì, mio padre Nicola Pucciarelli era ragioniere al Comune di Salerno, ed era un artista mancato. Mia madre Maria Bucciano era casalinga, e aveva una grande passione per la botanica. Erano genitori molto aperti e generosi.

Fu suo padre ad iniziarla al mondo dell’arte?

Mio padre da giovane era emigrato in America, dove era diventato un apprezzato decoratore di vetrate liberty. Tornò in Italia per sposare mia madre, ma proprio allora furono chiuse le frontiere. Così, per mantenere la famiglia, fu costretto a trovare un altro lavoro. Fu lui ad insegnarmi i primi rudimenti del disegno e soprattutto mi fece leggere i libri di Filippo Tomaso Marinetti, per il quale subii una vera e propria attrazione fatale che dura tuttora.

Com’era la Salerno della sua infanzia?

I miei ricordi d’infanzia sono legati a una Salerno che non c’è più, alla strada dove abitavo, via Pio XI, che all’epoca era una delle più belle della città, con le sue villette in stile liberty, i giardini, i fiori, gli alberi, il ruscelletto Rastafio. Poi negli anni Sessanta le villette furono abbattute e furono sostituite da casermoni. Ricordo che d’estate facevamo i bagni allo stabilimento I Elisa, dietro al Porto. Qualche volta andavamo in carrozza, e questo per noi ragazzi era un avvenimento eccezionale.

Poi la giovane Bianca approdò sui banchi del Liceo…

Al Tasso. Sono stati anni molto divertenti. Organizzavamo festicciole in casa, uscivamo insieme. Salerno allora era una città accogliente, amichevole, anche abbastanza aperta.

E dopo la maturità, che accadde nella sua vita?

Mio padre mi convinse a prendere anche la licenza magistrale e così andai ad insegnare prima a Roma, poi in alcune scuole elementari della provincia di Salerno (a Petito, a Montesano), e infine di nuovo nella capitale.

Dove conobbe Filiberto Menna…

Per la verità ci conoscevamo già. Lui da ragazzo bazzicava dalle mie parti, perché aveva degli amici cari che abitavano nel mio palazzo. Però, è vero, l’occasione di rivederci si presentò proprio a Roma. Ci incontrammo per caso a Piazza di Spagna. All’inizio eravamo soltanto amici, poi dopo qualche anno ci fidanzammo e nel 1959 convolammo a nozze.

Che tipo era Filiberto Menna?

Allora Filiberto non era ancora un critico d’arte. Era laureato in medicina, ma non esercitava la professione e lavorava presso l’Alto Commissariato della Sanità a Roma. Rimasi colpita dalla sua grande cultura letteraria, filosofica e artistica. Andavamo in giro per mostre, per musei. Era una persona coltissima, ma anche molto semplice, ironica, giocosa. Il nostro rapporto si sviluppò proprio su questo versante, visto che anche io - caratterialmente - amo il gioco. L’altra cosa che mi piaceva di lui, era la dolcezza, l’affettuosità, sia con me che con la sua famiglia, in particolare con la madre.

E con il padre Alfonso, che allora era sindaco di Salerno, che rapporti aveva?

Il padre era assai rigido, era severo con tutti, forse anche per l’abitudine che aveva al comando, ma amava moltissimo Filiberto e lui lo ricambiava. Tutto ciò, nonostante che tra di loro vi fossero profonde diversità di opinione, sia politiche che artistiche.

Lei ha conosciuto Alfonso Menna nel privato. Un giudizio spassionato?

Era un uomo dell’Ottocento, e quindi un po’ all’antica, per esempio aborriva i pantaloni e le minigonne alle donne. Però aveva grandi qualità. Lui viveva per Salerno, era il suo  primo pensiero. Aiutava tutti, era vicino a tutti, e infatti era votato sia da quelli di destra che da quelli di sinistra. E poi era un uomo onestissimo. Negli ultimi anni della sua esistenza, viveva solo con la sua pensione, non aveva un centesimo in banca.

C’è anche chi ha criticato il suo modo di amministrare.

Avrà fatto anche lui degli errori, ma ha sempre dimostrato nei fatti un fortissimo impegno per la sua città. Ricordo che una volta chiese a Filiberto di fare una passeggiata al porto. Era agosto, l’orologio segnava quasi la mezzanotte. Quando lo accompagnammo lì, ci rendemmo conto che in realtà non voleva fare una passeggiata, ma voleva controllare se gli operai erano al lavoro. Ecco, Alfonso Menna era fatto così…

Proprio in quegli anni suo marito Filiberto passava dalla medicina all’arte…

Frequentando le gallerie e le mostre, Filiberto si appassionò di più all’arte che al suo lavoro. Dopo aver conseguito la Libera Docenza in Storia dell’arte Moderna e Contemporanea presso l’Università La Sapienza di Roma, nel 1960 cominciò a scrivere come critico d’arte sul Mattino e poi su “Paese Sera” dove, caso abbastanza raro nei quotidiani italiani, curò una pagina interamente dedicata all’arte. Intorno al 1965-1966 fu chiamato a tenere lezioni all’Università di Salerno, alla Facoltà di Magistero. Poi nel ’72 fu nominato professore straordinario e nel ’75 professore ordinario.

Gli anni Settanta furono un periodo straordinario per Salerno. Achille Bonito Oliva sostiene che “l’attuale rinascimento salernitano è dovuto a una classe politica che si è formata in quel clima culturale, animato da Filiberto Menna”.

Non so dire se la sua analisi è giusta, certo è che Salerno negli anni Settanta era una città ricca di fermenti e la sua Università aveva un corpo docente eccezionale, grazie alla presenza di intellettuali come Edoardo Sanguineti, Giacomo Marramao, Gabriele De Rosa, lo stesso Achille Bonito Oliva, Pino Cantillo, Angelo Trimarco, Rino Mele. L’arte e la letteratura d’avanguardia erano di casa a Salerno, e lo dimostrava il pubblico che affollava le mostre, le rassegne teatrali e cinematografiche organizzate da mio marito Filiberto, da Bartolucci e da altri ancora.

A proposito di Bonito Oliva, vi frequentate ancora?

Achille ha mangiato e dormito a casa nostra. Per me e Filiberto è stato quasi un figlio e ha ricambiato sempre il nostro affetto. E’ una personalità di alto livello della critica d’arte italiana, veramente geniale.

Un altro dei “discepoli” di Filiberto Menna è stato Angelo Trimarco.

Angelo è un altro grosso personaggio. Pensi che aveva una tale stima nei confronti di Filiberto, che penso sia l’unico dei suoi allievi prediletti che non è mai riuscito a dargli del “tu”. Credo che abbia dato molto e continui a dare molto alla cultura salernitana.

In quegli stessi anni, a Roma, precisamente nel 1970, lei iniziava la sua carriera artistica, con lo pseudonimo di Tomaso Binga. Come mai scelse un nome d’arte maschile?

Eravamo nel 1970, negli anni del femminismo. Scelsi questo nome un po’ per gioco, un po’ perché volevo ribellarmi al privilegio maschile nel campo dell'arte. L'artista non è un uomo o una donna ma una persona. Una mia dichiarazione di poetica, esplicativa del mio lavoro di quegli anni, così declamava: "Non sono un uomo/Non sono una poetessa/Scrivo ma non so leggere/Il mio corpo è anche il corpo della parola". Ed ancora: "Contro il costume che attribuisce un significato maschile al lavoro dell'artista, io sono una cartuccia e va…sparata ! Ricordo che urlavo i miei versi attraverso un megafono.

Qual è stato il suo percorso artistico?

Ho iniziato a lavorare sulla visualità della scrittura, con una sorta di scrittura iconica. Installavo nei vuoti sagomati dei contenitori di polistirolo una serie di figure come presenze sceniche ammiccanti. La mia è stata una ricerca continua sulla pratica dell'arte come scrittura. E infatti ho attraversato l’arte figurativa e il teatro, fino a trovare nella poesia viva e nella performance il luogo d'espressione naturale della mia creatività. Nella poesia sonora, infatti, la parola scritta trova una carica nuova, si arricchisce dell'energia corporea e così la parola orale stabilisce un tramite energetico più diretto ed immediato tra il testo ed il fruitore.

In che cosa consistono le sue performance?

Gli ingredienti delle mie poesie performative sono il grottesco, il dissacrante, il non sense, il luogo comune, la filastrocca popolare, ma anche il sonoro più stereotipato del mondo tecnologico. Quando mi esibisco, mi trasformo, divento aggressiva, ironica, graffiante.

Lei è anche un’instancabile organizzatrice di eventi culturali, con la sua Associazione Lavatoio Contumaciale.

Sono ormai trenta anni che organizziamo spettacoli a Roma. L’associazione nacque infatti nel 1974. Ricordo che ero alla ricerca di una sede e mi imbattei in un locale con una bella targa di ferro smaltato. I caratteri azzurri, su fondo bianco, lo qualificavano come “Lavatoio Contumaciale”. Lavatoio a distanza, quindi, dove venivano lavati e bolliti i panni delle malattie infettive. Mi sembrò doveroso, giusto ed emblematico chiamare la l’associazione con quel nome, per lavare e bollire idee infette o passatiste, a marinettiana memoria. Da allora da noi è passato tutto il teatro d’avanguardia. Anche Roberto Benigni.

Benigni?

Allora era gli inizi. Lo vedemmo in un locale, ci colpì e allora lo invitammo ad esibirsi al Lavatoio. Chi veniva da noi, non era pagato. Fu una serata fulminante. Ma Roberto era talmente messo male, che organizzammo una colletta tra i presenti. Ricordo che racimolammo 30 mila lire e lui fu felice di aver preso questa cifra inaspettata e uscì tutto sorridente dalla sala.

Siete rimasti in contatto?

Per un periodo ci siamo anche frequentati. E pensare che quando lo vidi la prima volta, mi fece l’impressione del folle del paese. Era abbastanza sconcertante per i gesti e per le cose che diceva!

Filiberto Menna è morto nel 1988. Come ha vissuto questo dolore?

Mi è mancato moltissimo. Per fortuna, nonostante la mia apparente fragilità, ho una grande forza interiore. Non ho voluto abbandonare le cose che facevamo insieme, ho mantenuto fede a tutto ciò che ci accomunava. E così l’arte mi ha aiutato a continuare. Così come mi è stato di conforto anche l’appoggio del padre di Filiberto.

Lei è stata accanto ad Alfonso Menna anche negli ultimi anni.

All’inizio il nostro rapporto era formale, a causa della grande soggezione che provavo nei suoi confronti. Poi, vivendoci assieme, è diventato di grande affetto. Dopo la morte di Filiberto e la successiva scomparsa della moglie, passavo quasi tutte le vacanze con lui, anche al suo paese natale, a Domicella, in Irpinia.

Nel 1989 ha fondato a Salerno la Fondazione Filiberto Menna, che ha iniziato la sua attività nel 1994 e celebra quest’anno dieci anni di vita.

Le difficoltà furono enormi, nonostante la disponibilità del Comune. La burocrazia, i problemi di trovare una sede, i fondi… Stavo per rinunciare, tanto mi ero scoraggiata. Devo dire che se non fosse stato per il padre di Filiberto, forse mi sarei arresa.

Che iniziative avete in programma nel 2004?

La Fondazione ha partecipato alla realizzazione della mostra Global Warhol, promossa dal Comune di Salerno e curata da Achille Bonito Oliva, occupandosi del coordinamento e della cura delle attività e dei servizi didattici che hanno preparato l'evento e che lo accompagneranno nel corso dei prossimi mesi.

 

(pubblicata su “La Città” di Salerno nel gennaio 2004)

 

 

 

Scheda biografica

 

Bianca Pucciarelli Menna è nata a Salerno “nel secolo scorso”, come ama dire lei. Vive e lavora a Roma. Ha insegnato presso l’Accademia di Belle Arti di Frosinone e si occupa da quasi trent’anni di scrittura verbo-visiva e di poesia-sonora. Performer ed organizzatrice culturale, collabora con il MUSIS dell’Università “La Sapienza” di Roma, dal 1992 è vicepresidente della "Fondazione Filiberto Menna" di Salerno e dal 1974 dirige l’Associazione Culturale "Lavatoio Contumaciale" di Roma.

Ha iniziato la sua attività nel 1970, nell’ambito della poesia visiva, assumendo il nome d’arte di Tomaso Binga, per sottolineare in modo ironico e provocatorio il privilegio maschile nel campo dell’arte. Ha partecipato alla Biennale di Venezia (1978); XVI Biennale di San Paolo di Brasile (1981); XI Quadriennale di Roma (1986); III Festival di Polipoesia di Barcellona (1995); Festival Internazionale d’Art Vivant “Polisonnerys” di Lione (2000); 49° Biennale di Venezia (2001). E’ presente nei Musei Civici di Termoli; Marsala; Mantova; Paestum; Museo Pecci, Prato; GCAM, Spoleto; Biblioteche Com.li di Firenze; Torino; Fiuggi; Alessandria; Cassino; Aprilia; Latina; Archivi: Menna/Binga, Roma; CDRAV Roma; Bologna; Milano; Firenze; Parigi.

La sua sperimentazione è stata rivolta anche all’area di ricerca della poesia sonora. Membro del gruppo "Baobab", ha partecipato con performances a molte manifestazioni e anche a letture in cui ha utilizzato i testi scritti, elaborati appositamente per la lettura a voce, come base per l’intervento poetico.

È autrice di: E non uscire di casa, Macerata 1977; Abecedario, Roma 1977; Poesia S.P.A., Roma 1981; Il Corriere delle Signore, Udine 1981; Storie di fuoco, Roma 1984;  Sono stanca a più non posso, Roma 1987;  IN dovina cos’È, Alatri 1987;  Rimerotiche, Roma 1992; vorrei ESSERE un VIGILE urbano, Pescara s.d.; AUTORI - tratto a scatto...!!, Roma 2000; Come Cometa, poesia in contumacia di T. Binga e Vito Riviello, Roma 2003.

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