A colloquio con Bentivegna: "Roma occupata scelse la Resistenza"
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di Mario Avagliano
Rosario Bentivegna, detto Sasà, classe 1922, l’anno della marcia su Roma, è da tutti conosciuto come il partigiano travestito da spazzino che il 23 marzo 1944 fece “esplodere una bomba” in via Rasella. Ma la sua vita è stata molto di più. Studente universitario antifascista negli ultimi anni del regime mussoliniano, combatté nel 1944-1945 nella Divisione partigiana Italiana Garibaldi in Jugoslavia e nel dopoguerra fu redattore de “l’Unità”, medico-legale dell’Inca-Cgil nelle vertenze a tutela della prevenzione della salute nei luoghi di lavoro, libero docente in Medicina del Lavoro alla Sapienza, fino all'impegno internazionale a fianco della Resistenza greca durante il “regime dei colonnelli” e alla lunga militanza nel Pci, che lasciò nel 1986.
Bentivegna, in un confronto serrato con la storica Michela Ponzani, ha ripercorso per la prima volta le tappe della sua vicenda umana e politica nel volume Senza fare di necessità virtù. Memorie di un antifascista (Einaudi, 422 pagine, euro 20), uscito oggi in libreria. Un’autobiografia appassionata, in cui affronta anche i nodi e gli aspetti più intimi e privati.
Da ragazzo lei era un “balilla” entusiasta e pensava che “il Duce ha sempre ragione”, com’era scritto sui muri in tutta Italia. Come è diventato antifascista?
Già quando avevo 13-14 anni ero colpito dalla corruzione e dal clientelismo del regime e dalle differenze sociali esistenti, per cui l’”amante” del portiere era considerata una puttana e l’”amica” del capo della polizia una gran dama. Quando scoppiò la guerra di Spagna, non capivo perché il fascismo, che era lo Stato, appoggiava l’insurrezione di Francisco Franco contro il legittimo Stato spagnolo. Anche la politica antisemita di Mussolini mi risultava incomprensibile. All’epoca frequentavo il liceo Vigilio, che si trovava al Ghetto, e avevo diversi compagni di scuola di religione ebraica, tutti bravi “balilla”. Ricordo che la mia famiglia frequentava Renato Sacerdoti, allora presidente della Roma e grand commis della borsa romana, poiché mio zio Giulio Burali d’Arezzo era il suo avvocato. Poi, quand’ero liceale, un amico, Luciano Vella, commentando le schifezze della società, mi chiese se ero fascista. Io gli risposi: “Certo. Queste cose il duce non le sa”. In quel momento esatto, la lampadina mi si accese e capii che non ero più fascista. Successivamente approfondii la questione dal punto di vista storico e filosofico e assieme ad altri ragazzi e ragazze, fondammo il GUM, il gruppo di unificazione marxista, d’ispirazione trotskista. Eravamo tutti iscritti al Guf e al dopolavoro fascista. Usavamo il ciclostile del Guf per stampare il nostro bollettino quindicinale con gli scritti di Lenin e di Trotsky, che poi diffondevamo in zona Trionfale.
Settant'anni fa, il 20 settembre 1941, il suo primo arresto, a seguito di una manifestazione antifascista contro la guerra e dell’occupazione dell’Università di Roma. Un episodio ignorato dalla storiografia.
Quella mattina del 23 giugno 1941 la città universitaria di Roma fu invasa da 3-4mila giovani in divisa dei GUF e in camicia nera, fascisti e antifascisti, che protestavano contro la norma che aboliva il congedo militare provvisorio per gli studenti universitari in regola con gli esami e istituiva la loro chiamata alle armi come “volontari universitari”. Ad un certo punto noi studenti antifascisti, con l’aiuto di alcuni operai, lanciammo in mezzo alla folla manifestini e stelle filanti con su scritto “Abbasso il Duce”, “No alla guerra”, “Viva la Pace”, “Abbasso la Germania”. Gli studenti fascisti, preoccupati dalla nostra iniziativa, si dissociarono e andarono in marcia verso Piazza Venezia per manifestare in favore della guerra, ma la Questura, pensando che fosse un corteo antifascista, pestò e arrestò alcuni di loro. I nostri colleghi fascisti tornarono in Università e noi li aiutammo a rifugiarsi nella cittadella, occupando l’Università e impedendo l’ingresso della polizia. Più tardi la Questura comprese il clamoroso errore e rilasciò gli arrestati. Il giorno dopo i giornali ignorarono la notizia. Nelle settimane successive, però, la polizia fece indagini a tappeto. Anche io fui arrestato il 20 settembre, con l’accusa di “manifestazioni di propaganda sovversiva”, anche se dopo pochi giorni mi rilasciarono con diffida di polizia.
Dopo l’8 settembre del ‘43, lei aderì al Pci ed entrò nella Resistenza, con lo pseudonimo di “Paolo”. I nazifascisti la temevano tanto che le misero una taglia sulla testa di un milione e ottocentocinquantamila lire: una somma gigantesca all’epoca. La rilevanza del movimento resistenziale romano è stata sempre un po’ sottovalutata dagli storici. E’ d’accordo?
Roma ha fatto veramente la resistenza. Purtroppo c’è stata sempre una riserva “leghista” nel valutare quel periodo, di antipatia nei confronti della capitale. Un po’ come è accaduto per la Repubblica romana del 1849. Invece i romani nei nove mesi di occupazione tedesca, tra il settembre del ’43 e il giugno del ’44, sono stati straordinari. Lo stesso Renzo De Felice, che non è certo uno storico di sinistra, ha riconosciuto che, dopo l’8 settembre, Roma è stata “l’unica città in cui si era tentata la resistenza armata contro i tedeschi”, con il coinvolgimento della popolazione, e che “fu la città con il maggior numero di renitenti” alle leve militari e del lavoro. A seguito dell’occupazione tedesca, le porte di tutta Roma si aprirono per nascondere i soldati italiani. Nel mio libro racconto numerosi episodi in cui noi gappisti fummo aiutati dai civili, soprattutto dalle donne. E fu importante anche la partecipazione dei sacerdoti e delle suore. Sono note le vicende di don Morosini e di don Pappagallo, uccisi dai tedeschi, ma nessuno cita mai Monsignor Benigno Migliorini, vescovo di Rieti, il quale scrisse una lettera pubblica di protesta contro i tedeschi e poi ordinò pubblicamente ai suoi diocesani di seppellire le salme dei civili assassinati sulle montagne della Sabina nell’aprile 1944, nonostante la minaccia nazista di condanna a morte per chi avesse osato inumare quelle povere salme.
Quando si parla di Resistenza romana, il riferimento a via Rasella è inevitabile.
Spesso mi viene da pensare che a quell’operazione io non avrei dovuto nemmeno prendere parte, perché quando l’obiettivo fu indicato da Giorgio Amendola, mi trovavo ancora a Centocelle, al comando di una formazione partigiana. Al mio ritorno a Roma, il comandante dei Gap Carlo Salinari propose me per l’azione. Oggi, per una strana ironia della sorte, sono rimasto il solo, tra tutti i compagni che vi parteciparono, a poterla raccontare. Non rinnego affatto quell’atto “di guerra”, anzi ne sono orgoglioso. Ritengo tuttavia che sia un grosso errore storico limitare la Resistenza romana a via Rasella, che non fu un’azione isolata. Dentro Roma occupata si nascondevano circa 18 mila uomini armati pronti a dare battaglia, di tutti gli orientamenti politici, dai comunisti ai monarchici, come il valoroso colonnello Montezemolo. Potrei citare un elenco infinito di attacchi che vennero condotti contro tedeschi o fascisti, di giorno, di sera, di notte, per strada, al cinema, all’osteria, ovunque se ne presentasse l’occasione. Applicammo alla lettera le direttive del Cln e degli Alleati: “Rendere impossibile la vita all’occupatore”.
Chi è oggi Rosario Bentivegna?
Sono ancora comunista perché credo nel superamento dello stato di cose presenti. Ma sono un comunista libertario, contro tutti i tiranni, contro tutti gli integralismi, anche quello dei comunisti. Nel ’56 ho condannato l’invasione in Ungheria e adesso sono contro la sharia, i kamikaze, i talebani. E fin dal 1948 sono dalla parte d’Israele e ci sto ancora.
L’ex presidente Ciampi ha scritto un libro per dire che l’Italia “non è il Paese” che sognava. In Francia l’ex partigiano Hessel incita i giovani a ribellarsi, in nome degli ideali traditi della Resistenza. E lei?
Sono d’accordo con Ciampi. Soprattutto in riferimento agli ultimi dieci-quindici anni. Così male in questo Paese non mi ci sono mai sentito. Ma io sono contro le ribellioni. Non siamo ai tempi del nazifascismo. La ribellione è un fatto sentimentale. Ci vorrebbe una reazione collettiva di tipo politico, democratico, per restituire la parola al popolo. Ho sempre rifiutato la violenza nella politica. Per questo motivo negli anni Settanta fui minacciato dagli estremisti sia neri che rossi. Ai tempi delle Br, rifiutai la scorta e la Digos mi consigliò di prendere il porto d’armi e di girare con una pistola per difendermi. Ma io lo feci per pochi giorni: quell’affare in tasca mi pesava. Ho sempre pagato di persona la mia coerenza. E ho sempre creduto alla libertà e alla democrazia.
Nel periodo della Resistenza romana lei conobbe Carla Capponi, che poi avrebbe sposato. Nelle sue memorie racconta il primo bacio.
Fu la sera del 7 novembre 1943. Avevamo organizzato un’azione politica per celebrare la Rivoluzione d’Ottobre. Tappezzammo di vernice rossa il centro di Roma, da piazza del Popolo a piazza Venezia, compresa piazza Montecitorio, dove scrivemmo “W il Parlamento” e “Morte al fascismo”. Carla, con grande coraggio e prontezza, con il pennello tracciò una grande falce e martello anche su una camionetta tedesca. Tornandocene verso casa sua, entrammo nel portone e in quella strana atmosfera gioiosa la accompagnai alla porta e fu lì che, soli nella penombra, ci scambiammo il primo bacio.
(Il Messaggero, 24 settembre 2011)