Intervista a Franco Fichera, giurista
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di Mario Avagliano
Nella prima metà degli anni Settanta, quando all’Università di Salerno e nel mondo culturale della città brillava l’astro di Filiberto Menna, per un’intensa ma breve stagione il Pci raccolse il fior fiore degli intellettuali salernitani. Il segretario del partito comunista era allora un fine intellettuale di estrazione borghese, il professor Franco Fichera, classe 1941. Sotto la sua guida si formò la generazione dei Michele Santoro e dei Vincenzo De Luca. La carriera del politico-professore si concluse nel momento del massimo successo del Pci. Nel 1976, dopo la clamorosa avanzata del partito comunista alle elezioni politiche, Franco Fichera fu costretto a lasciare il suo incarico, in seguito ad un violento scontro con il vecchio leader regionale Abdon Alinovi. Fichera, dopo aver insegnato diritto tributario presso le Università di Napoli Federico II e di Bologna, ora vive nella capitale ed è preside della Facoltà di giurisprudenza dell’Università Suor Orsola di Benincasa di Napoli.
Professore, lei è cresciuto a Torrione.
Abitavamo in uno dei primi palazzi costruiti a Torrione nel dopoguerra, accanto al Forte la Carnale. Mio padre Sebastiano era funzionario dell’Inps e mia madre Eva insegnava in una scuola elementare di Molina di Vietri. Allora quella zona di Salerno era tutta campagna. Ricordo che giocavo per strada con lo strummolo e che passavamo quattro mesi dell’anno a mare. Almeno fino all’alluvione del 1954.
Che cosa accadde dopo l’alluvione?
Quella terribile tragedia convinse i miei genitori a cambiare casa. Ci trasferimmo al Carmine, in una strada non lontana dal Liceo Classico “Tasso”.
Anche lei è un ex alunno del Tasso...
Frequentavo la sezione “C”. I professori erano molto preparati ma anche assai severi. Ricordo in particolare il docente di italiano Petruzzelli e quello di matematica Fimiani. All’esame di maturità, passammo soltanto in tre!
Altri tempi. Anche se Salerno non era più la città borghese del Primo Novecento.
E’ vero. Salerno stava cambiando pelle, nonostante la grande influenza esercitata dall’Arcivescovo Demetrio Moscato. Si diceva che in città non si muovesse foglia senza il suo assenso e che era stato lui a vietare i locali da ballo. Ma anche per Moscati era impossibile opporsi alla modernizzazione dei costumi e della società. “Colpa” del miracolo economico, della motorizzazione di massa, attraverso le mitiche cinquecento, e anche dei libri e delle pellicole che arrivavano d’oltre oceano. Una nuova generazione si affacciava alla ribalta. Ricordo che nel 1956 la prima di un film di Elvis Presley al cinema Augusteo si trasformò in un’occasione di rivolta generazionale. Ora fa sorridere, ma in quegli anni il rock ‘n roll era considerato osceno e trasgressivo. Assistetti anche io allo spettacolo e quando tornai a casa, un po’ tardi, ne sentii di rimproveri dai miei!
Era in incubazione il Sessantotto.
In effetti la mia generazione è quella che ancor prima del ’68 entrò in conflitto con i genitori. Anche la mia adesione al Pci, avvenuta nel 1960, in seguito alla rivolta dei “giovani con le magliette a strisce” contro il Governo Tambroni, fu molto sofferta e fu motivo di duro scontro a casa. Io venivo da una famiglia piccolo-borghese e nel mio ambiente non era facile immaginare che andassi con i comunisti.
Com’era il partito comunista salernitano nel 1960?
Era un partito molto isolato nella città e di limitata forza elettorale. Aveva perso il rapporto con le nuove generazioni. Contava su una base operaia e su un po’ di contadini, e poi basta. Io mi buttai in quell’esperienza con grande entusiasmo e in breve fui chiamato prima a dirigere l’organizzazione dei contadini e poi quella degli universitari. Allora nel Pci c’erano pochi giovani, tra cui Mario Sicignano, figlio del deputato della Costituente, ora notaio a Torino. L’ondata forte di adesioni giovanili al partito si registrò solo intorno al Sessantotto.
In quegli anni aderì al Pci anche un certo Michele Santoro.
Era il 1971-1972 ed io guidavo la sezione universitaria. Michele si rivolse a me per iscriversi al partito. Come altri giovani, lui veniva da esperienze in formazioni di sinistra extraparlamentare. Era già allora una forte personalità, dotata di una spiccata sensibilità per il mondo della cultura e dell’informazione. Diventammo subito grandi amici. Un’amicizia che ha resistito negli anni e che ancora adesso è viva.
Nel 1974 lei divenne segretario del Pci.
Sì, nel 1973 sono diventato vicesegretario e tra il 1974 e il 1976 sono stato segretario della federazione. Sono stati quattro anni di grandi trasformazioni di Salerno e della società salernitana. Gli anni del referendum sul divorzio e sull’aborto. Gli anni di Filiberto Menna e di tutta quell’area di intellettuali e di docenti universitari, come Angelo Trimarco, Rino Mele, Giuseppe Bartolucci, Achille Bonito Oliva, Marcello Rumma, Paola Fimiani, Edoardo Sanguineti, Alfonso Gatto, la maggior parte dei quali simpatizzava per il Pci, e che fece di Salerno uno dei principali centri dei movimenti dell’avanguardia teatrale, musicale e letteraria italiana.
L’adesione di Filiberto Menna al Pci fece scalpore.
Beh, era un intellettuale brillante, di grande cultura, che aveva legami con il mondo accademico nazionale e internazionale, e poi era il figlio di Alfonso Menna, lo storico sindaco democristiano di Salerno... Si può immaginare quale trambusto accompagnò la sua scelta. Era il simbolo di un cambio profondo che avveniva nella città. La classe intellettuale salernitana andava a dirigere il maggior partito della sinistra. Grazie alla fusione tra il mondo intellettuale e le nuove generazioni, in pochi anni il Pci passò dal 13% al 24-25% dei voti.
Nel 1976, però, il sogno di un governo di sinistra della città si spezzò. E improvvisamente lei lasciò la carriera politica.
I leader storici del Pci salernitano non avevano capito che il mondo era cambiato e che la grande vittoria elettorale delle elezioni politiche era la chiave per trasformare finalmente la vecchia struttura del partito. Aprirsi alla società civile e agli intellettuali significava necessariamente individuare una nuova classe dirigente e mutare il modus operandi del partito. Ebbi uno scontro violento con Abdon Alinovi, ma il corpo del Pci non mi appoggiò. Tra i pochi che mi sostennero, ci furono Michele Santoro e Rocco Di Blasi. Non mi restò che rassegnare le dimissioni.
Michele Santoro anni dopo ci ha detto che il Pci “si trovò ad avere tra le sue fila a Salerno un gruppo di giovani di straordinaria qualità ma li disperse praticamente tutti”. Iniziò un declino che si sarebbe arrestato soltanto diciotto anni dopo, con Vincenzo De Luca.
Credo che il mio allontanamento e la rottura del partito con gli intellettuali abbiano significato per il Pci salernitano il ritorno a una condizione di isolamento dalla società civile, di chiusura settaria nelle sezioni. Poi per fortuna è arrivato De Luca. Vincenzo si iscrisse al partito quando io ero segretario. Frequentava la sezione di fronte al Comune. Forse un segno del destino...
Achille Bonito Oliva sostiene che la rivoluzione urbanistica e culturale che si è registrata nell’ultimo decennio a Salerno è figlia di quegli anni, della stagione di Filiberto Menna e, aggiungiamo noi, di Franco Fichera.
Non posso essere io a dirlo. Di sicuro in quella stagione furono gettati i semi di una nuova classe dirigente.
E hanno dato frutti?
Nel 1979, quando mi sono trasferito a Roma, ho lasciato una città in profondo degrado. Nel 1999, a distanza di venti anni, sono tornato a Salerno, e mi sono trovato di fronte a una città-gioiello. E’ raro in una città del Meridione invertire l’assetto urbanistico e ridare una prospettiva ai cittadini. Onore al merito a De Luca, che con quattro-cinque mosse strategiche ha ridisegnato Salerno e l’ha fatta rinascere.
Ora il professor Fichera è preside della Facoltà di giurisprudenza dell’Università Suor Orsola di Benincasa di Napoli.
Sì, sono in prima linea in questa città così bella e così difficile. Una città tormentata, dove la camorra distrugge e inquina l’economia, e tradisce la gente. Sono convinto che anche la missione di un’Università libera come la nostra sia motivo di impegno civile. Il 26 gennaio inaugureremo la nuova sede dell’università, a S. Lucia al Monte, con una lectio magistralis del salernitano Sabino Cassese e con la partecipazione del sindaco Jervolino e del governatore Bassolino. Portare a Napoli l’eccellenza universitaria e grandi docenti quali Francesco Paolo Casavola, Sabino Cassese, Paolo Grossi, Massimo Luciani, Marco Pagano, Franco Gaetano Scoca, Giuseppe Tesauro, Gustavo Zagrebelsky, è un modo per affermare un’altra, ben più vera, Napoli
(La Città di Salerno, 9 gennaio 2005)
Scheda biografica
Il professor Franco Fichera è nato a Frosinone il 13 giugno del 1941, ma è vissuto e si è formato a Salerno, dove la famiglia si trasferì subito dopo la guerra. Ha frequentato il Liceo Tasso e quindi l’Università di Napoli Federico II, dove nel 1965 si è laureato in giurisprudenza.
Inizia subito l’attività politica e quella di ricerca e di docenza universitaria.
Nel 1973 pubblica un libro su fisco e costituzione, “Imposizione ed extrafiscalità nel sistema costituzionale” per la ESI. Nel 1974 diventa segretario provinciale della federazione del PCI di Salerno ed è partecipe dei profondi cambiamenti di quegli anni.
Nel 1976 lascia la segreteria del PCI. Inizia un periodo di riflessione sulla politica e le istituzioni che lo porterà a pubblicare in collaborazione con Carlo Donolo nel 1981 “Il governo debole” (De Donato editore), e nel 1988 “Le vie dell’innovazione” (Feltrinelli). Entrambi con il significativo sottotitolo “Forme e limiti della razionalità politica”.
Intanto, agli inizi degli anni ’80, è chiamato ad insegnare Sistemi fiscali comparati nella Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Napoli Federico II; e poi, negli anni ’90, Diritto tributario nella Facoltà di Economia dell’Università di Bologna. Nel 1992 pubblica il volume “Le agevolazioni fiscali”, con la Cedam. Attualmente è docente di Diritto tributario nell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli ed è preside della Facoltà di giurisprudenza.