Intervista a Pietro Lista, artista
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di Mario Avagliano
“La Salerno di oggi culturalmente è un piattume”. A parlare così è Pietro Lista, 65 anni, allievo di Mario Colucci ed Emilio Notte all'Accademia di Belle Arti di Napoli, il più importante artista contemporaneo salernitano, assieme a Mario Carotenuto. Ha esposto i suoi dipinti a Parigi, Berlino, Tokio, Barcellona, Ginevra, Montecarlo, Hong Kong, Valencia, e le sue opere fanno parte di collezioni in varie nazioni del mondo, dalla Finlandia agli Stati Uniti d’America. Nello studio di Fisciano, in mezzo al suo “mondo disordinato di oggetti”, Lista racconta a la Città di avere un rapporto quasi erotico con la tela, rimpiange i ruggenti anni Settanta e il genio intellettuale di Filiberto Menna e svela che lui e l’amico Carotenuto si sono lanciati una “sfida” a colpi di pennelli: ritrarsi dal vivo, uno di fronte all’altro, guardandosi negli occhi. “Ho una fifa matta - afferma tra il serio e il faceto -. Mario è un maestro, ma sarà divertente!”.
Lei è nato in Umbria, anche se vive a Salerno da oltre cinquant’anni.
Sì, mi sono trasferito a Salerno con la mia famiglia nel 1954, due mesi prima dell’alluvione. Credo che sia stato un segno del destino, perché anche la mia vita è stata un’”alluvione” di sentimenti, di disastri, di emozioni…
Ci parli dei suoi genitori.
Mio padre Salvatore era di origini lucane, maresciallo dei carabinieri. Era un uomo meraviglioso, dolcissimo, anche se faticava ad esternare il suo affetto verso i figli. Mia madre Amelia era napoletana, ed è stata la persona più importante della mia vita. Mi ha insegnato ad avere fede in Dio, e poi la generosità, la sensibilità, l’umiltà.
E’ vero che stava per diventare ragioniere?
Dopo la scuola media, mio padre voleva che facessi ragioneria. Io già allora ero un ribelle ed ero innamorato dell’arte, e allora scappai di casa perché volevo iscrivermi al liceo artistico. Ricordo ancora mio padre, vestito con un impermeabile bianco, che venne a prendermi a casa di un amico e mi scongiurò di tornare a casa perché mamma piangeva. E così ho frequentato prima il liceo artistico e poi l’Accademia delle Belle Arti di Napoli.
Chi sono stati i suoi maestri?
Ho avuto la fortuna di avere come insegnanti grandi artisti quali il pittore futurista Emilio Notte, Mario Colucci, fondatore del Gruppo 58, e il paesaggista Vincenzo Ciardo. Poi ho trovato l’amore, mi sono sposato con una ragazza finlandese e al terzo anno ho lasciato l’Accademia.
Ed è iniziata la sua carriera di artista.
Non è stato facile. E’ stato fondamentale l’incontro con Marcello Rumma, che è stato il mio mecenate e mi ha dato la spinta per andare avanti. Con lui, sul finire degli anni Sessanta, ho organizzato ad Amalfi tre grandi mostre, “L’impatto percettivo”, “Ritorno alle cose stesse” e soprattutto, nel ’68, “Arte povera + Azione Povera”, un’esposizione curata da Germano Celant. Marcello intuì subito la straordinaria vitalità di quella corrente artistica. In quel periodo conobbi artisti del calibro di Pistoletto, Fabro, Boetti, Anselmo, Kounellis, Merz, e critici del valore di Filiberto Menna e Achille Bonito Oliva.
Era un periodo d’oro per l’arte a Salerno?
Erano anni di grandi furori, di creatività, di fermenti. Nascevano nuove gallerie d’arte, come Il Catalogo di Lelio Schiavone. Gli artisti si confrontavano tra di loro. Si organizzavano eventi, rassegne, happenings. Insomma, era l’esatto contrario di oggi, dove prevale il piattume, e tutto è squallido e grigio.
Un giudizio duro.
E’ la realtà dei fatti. Ormai a Salerno sopravvive solo la splendida galleria di Lelio Schiavone. Diciamo la verità: si sente moltissimo la mancanza di una figura come Filiberto Menna.
Che ricordo ha di Filiberto Menna?
Era una persona straordinaria, che tengo nel mio cuore. Era un accentratore, che voleva la sua corte ma l’amava. Ci trattava come fratelli e ci incoraggiava a creare e a sperimentare.
E che ne pensa di Achille Bonito Oliva?
Sono legato a lui da grande affetto e da antica amicizia. Sul piano umano in passato abbiamo avuto qualche screzio, ma lo stimo tantissimo. E’ una figura creativa della critica italiana, una risorsa preziosa della cultura del nostro Paese.
Anche lei in quel periodo aprì una galleria d’arte.
Nel 1970 inaugurai la galleria Taide a Salerno, e in seguito fondai la rivista Taide - Materiali minimi. Ricordo che all’inaugurazione vennero Michele Santoro, Filiberto Menna, Celant. E’ stata un’esperienza meravigliosa, durata dodici anni, fino al 1982, quando fui costretto a chiudere lo spazio espositivo per il mio cronico problema di mancanza di fondi.
Qual è la mostra alla quale è più legato affettivamente?
La personale alla galleria Trans-Forum di Parigi, dove tra l’altro vendetti anche molte opere.
E la critica nella quale si è riconosciuto di più?
Quella di Achille Bonito Oliva il quale scrive letteralmente che per me “fare significa pensare, realizzare e fondare la propria cosmologia di immagini” e che la mia opera trova una premonizione nel mio nome, Lista, e diventa appunto “una lista d’attesa per il pubblico che aspetta l’epifania, l’apparizione dell’immagine”.
Perché l’epifania?
Io considero il quadro uno sguardo veloce sulla realtà. Una lampadina che si accende e poi si spegne. Il mio racconto nasce dal sudario della tela, dai grumi del colore. Su questo magma scorre il mio pennello, descrivendo scene in fondo teatrali. Ho la cultura profonda del segno che deve vibrare, ma cerco forzature, per analfabetizzare il mio segno e renderlo primitivo e sofferente. Mi eccita l’errore, l’imperfezione, in tutte le forme dell’arte. Per esempio, quando faccio ceramica, il filo attorno al piatto mi piace tremolante. Tendo a una pittura “sporca” come materia. Fare quadri eleganti non m’interessa.
Ha dei modelli o dei miti artistici?
I miei modelli sono Lucio Fontana, Bacon e, soprattutto, Morandi, che passò tutta la vita a dipingere bottiglie, come faccio io con le brocche.
Nel 1993 lei ha fondato a Paestum il Museo Materiali Minimi di Arte Contemporanea (MMMAC).
Ogni anno organizziamo una mostra importante. L’anno scorso abbiamo proposto una personale di Arnaldo Pomodoro. A luglio presenteremo un’esposizione di opere di Salvatore Paladino, in particolare il cavallo che lui ci ha donato, che ho intenzione di restaurare e di esporre sopra le mura, alcuni disegni e qualche statua.
Qual è il suo rapporto con Salerno?
Amo Salerno perché mi ha dato tutto. E’ una città bellissima e negli ultimi anni ha fatto un grosso scatto in avanti, soprattutto dal punto di vista urbanistico. Tuttavia, come ha detto Lelio Schiavone, oggi a Salerno fare è arte è un esercizio di testimonianza del tempo che fu. Sono molto amareggiato dal silenzio della cultura.
Qualcosa si salverà dal punto di vista culturale…
Beh, a parte la galleria Il Catalogo e la Fondazione Menna, che comunque è una roccaforte di intellettuali, mi sembra che l’unico tentativo serio sia quello di Massimo Bignardi e del FRAC, il Fondo Regionale d’Arte Contemporanea, che ha realizzato a Baronissi. Anche noi artisti viviamo isolati uno dall’altro. Ognuno si è chiuso nel proprio castello.
Dimentica le grandi mostre al complesso di Santa Sofia?
Sicuramente la presenza a Salerno di opere di Picasso, di Mirò, di Warhol, è emozionante, ma paragonando le mostre salernitane ai meravigliosi allestimenti di Napoli, viene da dire che sono state un mezzo flop, forse perché sono stati stanziati pochi soldi.
Che cosa si potrebbe fare di più?
A Salerno manca uno spazio espositivo dove organizzare mostre. Ci vorrebbe il coraggio di creare una Galleria comunale e di nominare una commissione di esperti che selezioni nuovi pittori e scultori e permetta loro di esporre le proprie opere, di pubblicare un catalogo e di farsi conoscere dalla gente.
Chi stima tra gli artisti salernitani?
Innanzitutto Mario Carotenuto. Lo ritengo un artista eccezionale e un uomo perbene, sereno, come me. Anzi, le voglio raccontare una cosa. Abbiamo deciso di “sfidarci”. Un match artistico davanti a due tele bianche, ritraendoci dal vivo, guardandoci negli occhi.
E a parte Carotenuto?
Ugo Marano, Virginio Quarta e Sergio Vecchio. E tra gli artisti emergenti, Giovanni Cavaliere, di cui apprezzo la pittura precisa, pulita, rigorosa.
E suo figlio Pier Paolo Lista?
Ha un segno straordinario. Racconta il quotidiano in modo originale, attraverso oggetti, bottiglie. La sua ultima mostra a Pavia ha avuto un grande successo. Ha un solo difetto, è un po’ svogliato. Ma è un giudizio che non fa testo: io sono della vecchia guardia, di quelli che considerano l’arte lavoro e artigianato.
Come si definisce Pietro Lista come uomo?
Sono una persona di grande serenità e di grande fede, che si pone di fronte alla vita con la freschezza di un bambino e senza abbandonare mai il sorriso, anche se il mondo è cattivo e spesso mi ferisce.
E come artista?
Ancora oggi a 65 anni di età mi alzo la mattina con l’entusiasmo di creare qualcosa. Io poi ho un rapporto fisico con la tela bianca, per me è come affrontare un amplesso con una donna. Il momento magico di quando ti siedi davanti a una superficie vergine è indescrivibile: è un caleidoscopio di immagini e di emozioni che ti corrono dentro. Quando dipingo, sono l’uomo più felice del mondo, con il mio sigaro toscano tra le labbra e un bicchiere di vino a farmi compagnia…
(La Città di Salerno, 16 aprile 2006)
Carta d’identità
Luogo e data di nascita: Castiglione del Lago (Perugia), 12 luglio 1941. Vive a Salerno dal 1954.
Separato, ha quattro figli: Riika, Amelia, Nuvola e Pier Paolo.
Titolo di studio: diplomato al Liceo Artistico di Napoli.
Hobby: collezionismo di sculture di falli (ne ha oltre 200).
Il libro preferito: La vita di San Francesco; il saggio “Lo sperma nero” del fratello Giovanni Lista, storico del futurismo; in genere tutti i libri d’arte.
Il film preferito: Fahrenheit 451 del regista francese François Truffaut e le pellicole di Federico Fellini.
Carriera: Pietro Lista a partire dagli anni Sessanta ha esposto le sue opere in tutto il mondo, partecipando alla VIII Biennale di Parigi ed alla X Quadriennale di Roma. Nel 1968 ha preso parte alla mostra "Arte povera - Azioni povere" a cura di G. Celant. Nello stesso anno ha costituito il Gruppo Teatrale Artaud, e pubblicato il manifesto "Il Verbo sorge dal sonno come un fiore". Dal 1970 al 1982 ha diretto la Galleria d’Arte Taide. Negli anni Ottanta ha iniziato a dedicarsi alla scultura e alla ceramica. Nel 1993 ha fondato il Museo d'arte contemporanea MMMAC di Paestum, intitolandolo a Marcello Rumma. Hanno scritto di lui i maggiori storici e critici d'arte italiani e internazionali: Argan, Dorfles, Menna, Bonito Oliva, Di Genova, Celant, Okamoto, Lemaire, Debeque-Michel, Barrier, Dalmijrò, Bory, Liot, Barilli, Trimarco, Mele. Per la grafica è stato segnalato in Bolaffi, nel 1969, da Filiberto Menna, nel 1976 da Achille Bonito Oliva. Ha realizzato numerose performances e girato tre film d'artista.
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