Intervista a Lelio Schiavone
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di Mario Avagliano
Quando dici arte a Salerno, il pensiero non può che andare a Lelio Schiavone, patron della galleria Il Catalogo, amico di Alfonso Gatto e di Mario Carotenuto, e promotore di alcune delle più belle iniziative culturali di respiro nazionale che si sono svolte in città dal ’68 ad oggi. E’ stato lui a portare a Salerno artisti del calibro di Guttuso, Maccari e Cagli, e scrittori come Michele Prisco e Vasco Pratolini. E’ merito suo, oltre che di personalità come Filiberto Menna e Feliciano Granati, se - tra gli anni Sessanta e Settanta - Salerno fu uno dei centri più vivaci dell’arte e della letteratura italiana. Nel 1998 l’allora sindaco De Luca lo premiò con una medaglia per i trent’anni di attività al servizio della cultura. Nel 2002 la Sovrintendenza ai Beni Archivistici della Campania ha riconosciuto “patrimonio nazionale da salvaguardare” tutto il carteggio e il materiale documentario conservato presso “Il Catalogo”. Ancora oggi, a 73 anni, Schiavone è una delle massime autorità salernitane in campo artistico e culturale, anche se, come lui stesso lamenta, è diventato quasi “un’icona, il simbolo di una Salerno che ha fatto la storia ma non c’è più”, rispetto alla quale “la modernità deve andare oltre”.
Com’è nata la sua passione per l’arte e per la cultura?
Ho iniziato la mia attività di operatore culturale nel 1950, all’età di 18 anni. Era il primo dopoguerra, Salerno rinasceva dalle macerie della guerra e quella meravigliosa macchina di sogni che è il cinema accompagnava gli italiani nella difficile opera di ricostruzione. Nacque così l’idea di fondare un Circolo del Cinema cittadino, assieme a Nino Carbè e a Bruno Anastasio. Le proiezioni si tenevano la domenica mattina al Vittoria ed erano affollate di gente. Il Circolo fu presieduto prima da professor Canger, uno psichiatra molto noto nell’agro-nocerino, e poi dal dottor Almerico Tortorella, l’attuale proprietario della Clinica Tortorella.
La Salerno degli anni Cinquanta era diversa da quella di oggi?
Era una città bellissima, tranquilla e vivibile, con una borghesia forse un po’ chiusa, ma colta e raffinata. Come non ricordare l’esperienza dei giovedì “del lettore” organizzati alla Libreria Macchiaroli... Ero un assiduo frequentatore di quel cenacolo che vedeva la partecipazione tra gli altri di Aldo Falivena, Mario Carotenuto, Roberto Volpe, il professor Panebianco, Luciano Vecchi, Giovanni De Crescenzo, Tullio Lenza, Pietro Laveglia, il professor Cassese.
Il cinema fu il suo primo amore.
Sì. In quegli anni collaborai con Ignazio Rossi al Festival del Cinema “A Passo Ridotto”, che si teneva a Salerno, ed ebbi un lungo sodalizio con il romano Edoardo Bruno, direttore della rivista “Filmcritica”. Con Bruno e con l’allora sindaco di Cava Clarizia organizzammo nel 1960 una straordinaria manifestazione intitolata “Estate cavese”. Mettemmo in scena due spettacoli che ebbero un grande successo: “La voce umana” e “Il bugiardo” di Jean Cocteau, con la partecipazione di attori come Edmonda Aldini e Claudio Biondi. Bruno era il regista, ed io il suo assistente alla regia. Contemporaneamente portammo a Cava pittori importanti come Attardi, Guccione, Tornabuoni, Muccini e Mirabella, che realizzarono paesaggi di Cava e li donarono alla città.
Lei ha svolto anche un’intensa attività politica.
Sono stato iscritto al Pci fin dalla giovane età e sono stato segretario di Feliciano Granati durante tutto il periodo del suo mandato parlamentare. Granati era una delle più belle intelligenze che io abbia mai conosciuto, dotato di un intuito eccezionale. All’epoca era un mito a Salerno. I suoi comizi a Piazza Portanova erano applauditissimi e i salernitani lo amavamo e rispettavano. Certo, come tutti i politici, nel privato era poco incline ai rapporti camerateschi. Posso dire con orgoglio di essere stato una delle persone alle quali ha voluto più bene. E poi è stato grazie a Feliciano che l’arte è diventata tutta la mia vita…
Infatti nel ’63 Feliciano Granati fondò la galleria L’Incontro.
E mi chiamò a lavorare con lui. Fu un’esperienza esaltante. Tra il ’63 e il ’68 vennero a Salerno, nella sede di via dei Mercanti, alcune delle più importanti personalità della cultura italiana e internazionale, da Vespignani a Raphael Alberti, da Duilio Morosini ad Alberto Bevilacqua, da Giuseppe Prezzolini a Maria Antonietta Raphael e a Carlo Barbieri. E poi, ovviamente, Alfonso Gatto.
Lo conobbe allora?
Fu proprio nel 1963. E fu subito l’inizio di una grande amicizia. Come si dice, “incontrati e presi”.
Com’era l’Alfonso Gatto privato?
Era un essere meraviglioso, pieno di dolcezze e di furori improvvisi che poi si scioglievano come neve al sole. Amava Salerno, profondamente. La retorica dell’odio e amore è una stupidaggine. E poi era una persona che dava grande importanza all’amicizia. Quando nel 1966 vinse il Premio Viareggio, volle che andassimo con lui alla cerimonia di assegnazione del premio. Lo accompagnammo io, Bruno Fontana, Nicola Napoli, Antonio Castaldi, Giulia Granati e Antonio Erra. Un’altra volta ci portò con lui a Spoleto, dove si teneva una grossa manifestazione dedicata alla poesia con Ungaretti, Gatto, Ginzburg e Octavio Paz. Per un disguido, non c’era l’accredito né per me né per gli altri due amici, Bruno Fontana ed Enrico Iannone. Ricordo che Alfonso si irrigidì: “Se loro non entrano – disse - me ne vado anche io”.
Fu Gatto a convincerla di tentare l’avventura di una galleria d’arte tutta sua?
Nel ’68 Feliciano cominciò ad allargare il giro della galleria, proponendo ai clienti anche mobili antichi e ceramiche. Gatto sosteneva che io non ero adatto per quel tipo di commercio e mi sollecitò ad aprire una galleria d’arte mia. L’inizio fu avventuroso. Avevo in tasca appena un milione di lire, imprestatomi – non ho vergogna a dirlo – dall’architetto Roberto Visconti e dall’ingegner Antonio Erra. Tuttavia avevo una carta eccezionale da giocare: l’apertura di credito tra gli artisti del Novecento fattami dallo stesso Gatto. Con lui sono andato a conoscere nei loro studi Guttuso, Cagli, Zigaina, Guidi, Bueno, Maccari, Paulucci. Grazie a lui posso dire di aver frequentato il fior fiore dei pittori del secondo Novecento italiano, che sono venuti tutti ad esporre e a presentare personalmente le loro opere nella mia galleria.
Da chi fu scelto il nome “Il Catalogo”?
Il nome fu scelto da Alfonso Gatto, al Vicolo della Neve. Ricordo che c’erano Bruno Fontana, Antonio Castaldi ed altri. Gatto chiese ad ognuno di proporre un nome. Alla fine della cena, sentenziò: “Va bene, abbiamo scelto, si chiamerà Il Catalogo”. Era un nome che non era mai uscito nel corso di tutta la serata…
Nella sua storia quasi quarantennale, “Il Catalogo” è stato un centro d’arte ma anche di letteratura.
E’ stato il luogo d’incontro di tutta la letteratura italiana di quel periodo, da Michele Prisco a Vasco Pratolini. Abbiamo lanciato anche una piccola collana editoriale. Il primo libro s’intitolava “Il Catalogo è questo”, e raccoglieva tutte le presentazioni delle mostre scritte da Gatto. Il secondo libro, che ormai è introvabile, era “Le ore piccole” di Gatto, stampato su carta di Amalfi. Un libro preziosissimo. Ancora oggi, a distanza di trent’anni, c’è chi lo chiede e vuole acquistarlo.
Pratolini è stato un altro grande amico del “Catalogo”.
Lo conobbi in occasione dei funerali di Gatto. Iniziò un’amicizia che è durata fino alla sua scomparsa. La prima cosa che mi disse, fu: “Non pensiate che io possa essere il sostituto di Gatto”. Pratolini era l’opposto di Gatto: uomo di poche parole, di poche effusioni, rigoroso, tuttavia sinceramente affezionato. E infatti venne spesso a Salerno e presentò due importanti mostre di Carotenuto e di Grazzini.
In questa “galleria” di ricordi non può mancare Mario Carotenuto.
Vede, due persone sono state per me fondamentali. Mario Carotenuto perché mi ha fatto conoscere la pittura e Gatto perché mi ha “costruito” come gallerista e come uomo di cultura. Il mio rapporto con la pittura nasce proprio grazie al mio incontro con Mario Carotenuto, quando avevo 16 anni. Frequentavo assiduamente il suo studio in via Bastioni, assieme a Roberto Volpe. Quando era in fase creativa, metteva un cartello davanti alla porta con sopra scritto “Sto lavorando”, e noi ce ne andavamo. Altrimenti entravamo da lui e passavamo tutta la sera a chiacchierare di arte, di musica, di cinema, di teatro, di letteratura. La nostra amicizia dura da 55 anni.
In quegli anni a Salerno un altro personaggio di alto spessore culturale era Filiberto Menna.
Filiberto lo conoscevo già dai tempi della Libreria Macchiaroli. Era una grandissima personalità, un uomo aperto, disponibile, non settario. Salerno in quegli anni era una fucina di cultura. Un altro uomo di valore era Achille Bonito Oliva, un vero e proprio genio nel suo genere. Tuttora, quando passa a Salerno, non manca mai di venire a salutarmi. E poi c’erano molti giovani emergenti: Angelo Trimarco, Luigi Giordano, Antonio Castaldi.
E con il sindaco Alfonso Menna ha mai avuto rapporti?
Ricordo che quando nel ’68 inaugurai “Il Catalogo” con una mostra su Cagli, ebbi un grande successo di pubblico ma non vendetti neppure un quadro. Al termine dell’esposizione si presentò da me il sindaco Menna e quando lo seppe, volle acquistare un’opera, come buon auspicio per il futuro della galleria. E’ stato il mio primo cliente!
Parliamo di Lelio Schiavone uomo. Guardandosi allo specchio, cosa vede?
Vedo una persona intransigente, non incline ai compromessi. Una persona fedele nei rapporti di amicizia e coerente negli odi. Una persona che per tutta la sua vita ha amato l’arte e la cultura e che ha vissuto grazie all’arte e alla cultura.
Oggi forse non sarebbe più possibile. L’interesse per l’arte non è più quello degli anni Sessanta e Settanta.
E’ vero, è più difficile lavorare in questo settore. La borghesia colta di una volta, che amava collezionare quadri d’autore, che apprezzava i Guttuso e gli Attardi, è scomparsa o si è ritirata. E’ finito un mondo. Certe volte penso che continuo a tenere aperta la galleria solo per un dovere di memoria. Pochi giorni fa è morto il professor Della Corte, uno dei miei più cari amici e clienti. Mi è sembrato di perdere il punto di riferimento di una stagione bellissima.
Eppure l’offerta culturale non manca, anche a Salerno.
Forse l’offerta è pure eccessiva. Ogni settimana si organizzano tante mostre e presentazioni di libri. Quella che manca è la passione di allora, quel clima caldo di interesse e di emozione che caratterizzava ogni manifestazione culturale, facendone un evento unico e irripetibile.
Un evento unico, come la mostra che si è chiusa venerdì scorso al “Catalogo” in memoria di Alfonso Gatto…
Ho voluto dedicare una mostra a Gatto assieme alla Fondazione Filiberto Menna in occasione della pubblicazione della sua opera omnia da parte di Mondadori, per festeggiare l’esito positivo di una battaglia durata 29 anni. E così ho invitato dieci artisti che lo hanno conosciuto a rappresentare su tela il loro ricordo del grande poeta salernitano. Sono sicuro che a lui che amava tanto l’arte, sarebbe piaciuto essere ricordato così…
(La Città di Salerno, 20 novembre 2005)
Carta d’identità
Luogo e data di nascita: Salerno, 8 luglio 1931
Hobby: teatro e viaggi (ogni anno va alle Mauritius).
Il libro preferito: “Zio Vania” di Anton Cechov e “Giulio Cesare” di Shakespeare
Il film preferito: “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti
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