Biacchessi, pagine partigiane a rischio di «smemoria»

di Mario Avagliano

 

Ad uno ad uno, purtroppo, se ne stanno andando gli ultimi testimoni della Resistenza contro la dittatura fascista e l’occupazione nazista. Centinaia e centinaia di ex partigiani ci lasciano così, senza troppe celebrazioni, accompagnati spesso dalle note di Bella ciao, con intorno qualche vecchio compagno, i familiari, rare bandiere tricolori. Muoiono come persone normali, umili e semplici, protagonisti della grande stagione delle scelte, e lasciano un vuoto che è impossibile da colmare. E con loro potrebbero svanire anche le storie dell’Italia partigiana. «L’Italia liberata. Storie partigiane», di Daniele Biacchessi (Jaca Book) parte proprio da qui, dalla fine anagrafica di una generazione di italiani che in soli venti mesi, dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, riprese le redini del Paese e lo condusse attraverso la Costituzione repubblicana verso la democrazia, dopo lunghi anni governati dal regime fascista, dalle barbarie e dall’orrore del nazismo.

La battaglia per la memoria della Resistenza di Biacchessi non parte adesso. Dal 2004 il giornalista-saggista-regista e interprete porta in giro per l’Italia (spesso nei luoghi simbolo della guerra di liberazione) e in Europa uno spettacolo di teatro civile in versione solista o accompagnato da Gang, Gaetano Liguori, Michele Fusiello, Massimo Priviero e altri. Questo spettacolo è ora diventato un libro, con l’obiettivo di «narrare la vita di uomini e di donne che con le loro azioni coraggiose hanno cambiato il corso della Storia e smontare attraverso l’oggettività della documentazione, orale e scritta, la forza delle parole e della narrazione, le tesi false del nuovo revisionismo».

Uno dei meriti di questo lavoro è puntare l’attenzione, con taglio divulgativo, oltre che sulle storie note dei sette fratelli Cervi, della Risiera di San Sabba, unico campo di sterminio in Italia, delle stragi di civili a Boves, Sant’Anna di Stazzema, Montesole e tante altre località, del terribile eccidio delle Fosse Ardeatine a Roma (nel quale furono uccisi anche numerosi meridionali) e delle violenze delle autorità di Salò e delle bande fasciste, anche su altre vicende meno conosciute, compreso alcuni episodi di resistenza nel Sud tra il settembre e l’ottobre del 1943.

Un ampio capitolo è ovviamente dedicato al moto di popolo delle quattro giornate di Napoli, nato in seguito alla razzia della città scatenata dai tedeschi, che saccheggiano la città, uccidono un marinaio, Andrea Mansi di stanza a Rovello, sulla soglia dell’università, lungo il Rettifilo, rastrellano centinaia di persone, rapinano cittadini, sparano sulle donne che fanno la coda davanti ai negozi, lasciano per giorni senza pane una città di un milione di abitanti.

La rivolta esplode fulminea tra il 27 e il 28 settembre al Vomero, in via Chiaia, in piazza Nazionale, in decine di punti diversi della città. È la rivolta degli eroi bambini, dal volto sporco e dallo sguardo furbo, e degli scugnizzi di Napoli. Il dodicenne Gennaro Capuozzo resta al suo posto di servente a una mitragliatrice in via Santa Teresa, presa sotto il fuoco di carri armati nazisti. Viene colpito in pieno da una granata mentre difende la sua città. Filippo Illuminato, tredici anni, e Pasquale Formisano, diciassette, corrono incontro a due autoblindo che cercano d’imboccare via Roma da via Chiaia. Avanzano decisi e rapidi, fino a quando cadono esanimi mentre lanciano una bomba contro i nazisti. In ogni rione emergono i capipopolo: Stefano Fadda a Chiaia, Ezio Murolo in piazza Dante, Aurelio Spoto a Capodimonte. Il 30 settembre i nazisti sgomberano la città. Il nemico si lascia dietro una lugubre scia di rappresaglie: gruppi di guastatori massacrano alcuni giovani in località Trombino.

Ma Biacchessi parla anche dell’insurrezione di Matera del 21 settembre 1943 e di Lanciano del 5-6 ottobre, delle stragi naziste a Rionero in Vulture il 24 settembre e a Caiazzo, in provincia di Caserta, il 13 ottobre, delle bande partigiane in Abruzzo e della battaglia di Bosco Martese del 25-26 settembre, definita da Ferruccio Parri «la prima battaglia campale in campo aperto della resistenza italiana».

Di grande interesse le storie di formazioni partigiane mitiche come la banda Tom e di partigiani eroici come Dante Di Nanni, pugliese residente a Torino, che il 18 maggio 1944 si barrica in casa e resiste da solo all’assalto di un centinaio di fascisti e nazisti, uccidendone 9 e ferendone 17, fin quando circondato e coperto di sangue, preme il ventre alla ringhiera del balcone e saluta col pugno alzato gridando «Viva l’Italia». Poi si getta di schianto con le braccia aperte sull’asfalto.

In chiusura, le interviste dello stesso Biacchessi ad alcuni protagonisti dell’epoca, padri della repubblica: Tina Anselmi, Vittorio Foa, Giuliano Vassalli, Giorgio Bocca, il quale regala una riflessione amara ma con un fondo di verità, almeno per una parte di nostri connazionali: «Come diceva Livio Bianco di Giustizia e Libertà, “la Resistenza è stata una lunga e meravigliosa vacanza”, nel senso che pur nel dramma è stato un periodo bello, un momento in cui si ritrovavano tutti i valori democratici fondamentali. Ma è durato poco, perché poi gli italiani hanno continuato ad essere quello che sono sempre stati: voltagabbana e servitori».

(Il Mattino, 10 dicembre 2019)

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Raffaele Zicconi, l’Icaro siciliano che sognava la libertà e morì alle Fosse Ardeatine

di Mario Avagliano

«Qui non siamo volgari delinquenti, ma detenuti politici (...) Dopo ben 17 giorni di segregazione cellulare, murato vivo in una stanza, solo, maltrattato in maniera eccessiva, adesso che rivedo la luce sono risuscitato. Le botte, la fame, la mancanza d’aria, mi avevano prodotto un poco di nevrosi cardiaca, dalla quale mi vado rimettendo(…) Ormai sono fermamente convinto che il peggio è passato. Se dopo la condanna vorranno portarmi via da Roma, si vedrà il da farsi».

Febbraio 1944, carcere di Regina Coeli, terzo braccio: quello gestito direttamente dalle SS tedesche. La luce filtra a quadretti tra le sbarre della cella 367, dove Raffaele Zicconi, classe 1911, partigiano del Partito d’Azione, con un mozzicone di matita scrive a casa una lettera clandestina. Lino è siciliano, originario di Sommatino (Caltanissetta), ma risiede da anni a Roma, dove nel ‘41 ha sposato Ester Aragona, nata nel 1916 a Cosenza, nipote dello scienziato Alfonso Splendore, che nel 1908 aveva scoperto la toxoplasmosi all’università di Rio de Janeiro. Ha un figlio piccolo, Renzo, di appena due anni, e un’altra figlia in arrivo (Simonetta), anche se non farà in tempo a saperlo, finendo ucciso dai tedeschi nella strage delle Fosse Ardeatine.

La storia di Zicconi è riemersa dal buio della Storia grazie al nipote Massimo Ciancaglini, che ha amorevolmente raccolto le lettere e i biglietti del nonno da Regina Coeli, conservati negli archivi di famiglia, li ha trascritti e li ha pubblicati su un blog: La Vita e la Resistenza a Roma.

Lino lavora come impiegato alle Poste. Non molto alto, come tutti i maschi di famiglia, è bruno di carnagione, ha baffi ben curati, capelli ondulati scuri impomatati con la brillantina, è elegante nei modi e nell’abbigliamento (nelle missive dal carcere fa cenno più di una volta al suo smoking). Gran fumatore, ha una collezione di bocchini per le sigarette. Personalità forte la sua, a tratti irascibile, ma condita di intelligenza e di romanticismo, come testimoniano le lettere d’amore alla futura moglie Ester scritte tra il ‘39 e il ‘41.

Dopo il matrimonio, è andato a vivere con i suoceri in un grande appartamento al terzo piano di Piazza Ledro 7. Al piano di sotto ha la casa e l’ambulatorio il medico Luigi Pierantoni, detto Gigi, figlio di Amedeo, uno dei fondatori del Pcd’I nel 1921. Gigi è iscritto al Partito d’Azione clandestino, diviene presto suo grande amico e lo introduce negli ambienti antifascisti romani. La polizia fascista vigila e il 25 giugno 1943 spicca un ordine d’arresto a piede libero nei confronti di Lino, con citazione a comparire davanti al Tribunale di guerra di Roma. Le dimissioni forzate di Mussolini, datate esattamente un mese dopo, faranno decadere le accuse.

Dopo l’armistizio con gli Alleati e l’occupazione tedesca di Roma, Zicconi è tra i primi ad entrare nella Resistenza e l’8 ottobre aderisce al Partito d’Azione. Nel frattempo lascia la casa di Piazza Ledro, dove nascondeva in cantina una famiglia di ebrei che gli ha chiesto aiuto. Non vuole mettere a rischio i suoceri e allora prende casa in affitto, trasferendosi lì con la famiglia e i nuovi amici ebrei.

Il 7 febbraio 1944, alla vigilia di un’azione di sabotaggio della sua squadra ad alcuni pali postelegrafonici,  viene tradito da un sedicente compagno di nome “Albertini”, che consegna lui e l’amico Pierantoni nelle mani delle SS. «A fine guerra Albertini fu processato – racconta il nipote Massimo – ma uscì indenne dal processo». Portato a via Tasso, il carcere diretto da Herbert Kappler, Lino viene picchiato e rinchiuso in cella d’isolamento, al buio e senz’aria, ma non rivela i nomi dei compagni.

Il 24 febbraio, dopo diciassette terribili giorni di prigionia e di torture in via Tasso («mi hanno ormai collaudato come incassatore di primo ordine anzi fuori classe», ironizza lui stesso), è trasferito a Regina Coeli, dove il trattamento e il vitto sono di gran lunga  migliori. «Io sto bene e mi vado rimettendo – manda a dire ai suoi -. Questa mattina il mio amico mi ha dato un poco di zucchero, e mi sono fatto due uova frullate. Mi sembrava un sogno , dopo tutte le sofferenze ed i patimenti inenarrabili nel vero senso della parola, che ho dovuto sopportare nella triste tomba di lassù. Qui ho aria, luce, compagnia di veri amici che mi hanno sempre sorretto, e che godono nel vedere che le mie sembianze umane tornano a rifiorire sul mio volto. Qui sì tutti per uno ed uno per tutti. Mi hanno dato da mangiare, da fumare, e mi hanno assistito sul piccolo disturbo che mi affligge, ricordo questo di lassù». E in un altro biglietto clandestino aggiunge:  «Dalle porte si chiacchiera con le altre celle. Io sto di fronte a Gigi, e siamo in continuo contatto. Nella cella ci stiamo creando tante piccole comodità, e si va avanti discretamente».

Lino ha trovato la strada per corrispondere clandestinamente con casa senza il vaglio della censura e di poter ricevere pacchi e cibo, attraverso le figlie di un altro detenuto politico («la nostra vera colonna di sostenimento e sostentamento»), probabilmente in contatto con qualcuno dell’amministrazione carceraria. «Percorrete sempre quella [strada] – ammonisce la famiglia -, perché così anche quando uscirà il padre, se io sarò ancora qui, mi porteranno tutti i giorni tutto ciò che volete. Sono loro che pensano già ad una quindicina di persone, e sono ben felici di esservi utili. Ester pensi come poter fare per farle una gentilezza che dimostri la nostra riconoscenza. Se voi consegnate il pacco invece direttamente qui, mi arriva anche con due giorni di ritardo ed in questo caso non azzardatevi a mettere biglietti, se vi preme la mia incolumità, e di farmi ricevere il pacco».

A Regina Coeli le condizioni di salute di Zicconi migliorano, anche grazie all’affetto dei compagni («qui si è tutti per uno e il cameratismo è veramente bello. Sia per il fatto del fumo che per il fatto del mangiare»), ma la lontananza dalla famiglia gli pesa. Molto. «Vorrei notizie un poco più estese di tutti – scrive -, e di Ester, che ho un vago timore che non stia troppo bene (la moglie avverte forti fitte allo stomaco, ancora non lo sa, è incinta ndr). Vi penso tutti ardentemente , ma come potete immaginare , ho lo spasimo di poter riabbracciare pupetto». E in un’altra missiva esprime tutto il suo desiderio di essere ancora con loro: «Mia piccola cara, troppe cose ci sono da indovinare nel tuo letterone che ho tanto gradito. Mi dici di aver ripreso l’ufficio, sei stata dunque male? Cosa ti è successo? Mi devi parlare esplicitamente. Scrivi come se parlassimo. Ho ancora bisogno di vivere in casa. Come hai ricevuto il colpo? Cosa hai fatto quando non sono rientrato? In casa come ti sei sistemata? Con chi stavi? Cosa ha fatto Renzuccio? E ora come fai? Ti prego non mi lasciare all’oscuro, isolato. Se tu mi parli di tutto ciò io ti risponderò, parleremo, e io non sarò più lontano da casa».

Le sue parole d’amore per la moglie commuovono: «Piccola stellina mia, bé cosa vuoi? Oggi penso troppo alle stelle e mi sono ricordato che nel firmamento tu brilli sempre più fulgida. La tua lettera di ieri mi ha tolto dall’ansia e dall’incubo della mia solitudine». Così come l’affetto per il figlio: «Ho solo qui il conforto(veramente immenso) delle vostre fotografie. Mi riguardo continuamente Renzuccio nostro, e mi convinco sempre di più che fra tutte le nostre disgrazie, i nostri dolori, le nostre sofferenze, Iddio ci ha voluto dare la prova lampante che non si è dimenticato di noi, facendoci avere quanto di meglio potevamo aspettarci nei riguardi di pupetto. Cerca di non farlo guastare, insegnali ad essere sempre buono e docile com’è. Fagli leggere le mie lettere, convincilo insomma che paparino suo è sempre vicino. Distrailo molto, perché è tanto sensibile, e sono sicuro che anche lui soffre della mia lontananza. È l’unico tesoro veramente di valore che abbiamo. Conserviamolo senza farlo rovinare. Ricordati che non deve essere allevato con le botte. Non voglio assolutamente. Che nessuno me lo tocchi».

Il suo animo nobile e generoso emerge anche da altri particolari. Come quando, nonostante il vitto del carcere sia scarso, non vuole che la famiglia (e l’amatissima zia, suo «angelo custode») si privi di qualcosa per lui: «Quando mi mandate da mangiare – avverte la cugina Mimmina - attenetevi esclusivamente alla mia tessera. Non fate sacrifici finanziari, dillo anche a zia. (…) Non era il caso di privarti di tutta la marmellata. Non voglio affatto che facciate sacrifici».

Nei momenti di sconforto, Zicconi si aggrappa agli ideali politici: «In certo qual modo – confessa alla cugina Mimmina - mi sento anche orgoglioso di questa avventura dato che non sono un volgare delinquente ma un novello Cesare Battisti, per quanto lui sia andato oltre il punto al quale mi fermerò io. E a proposito di Cesare gli sto facendo concorrenza anche per il pizzetto che cresce rigoglioso e mi da’ campo alla gioia immensa di passeggiare per le celle, fronte corrugata, sguardo linceo e terribile». Oppure lo aiuta la sua tenace fede religiosa: «Questo per Ester – si legge in un biglietto -. Importantissimo e delicatissimo. Mi stacchi dal muro dove l’avevo attaccato dietro il seggiolone della mia scrivania, il quadro della Madonna al quale tengo moltissimo . Lo spolveri bene dietro e davanti, e me lo riponga bene dopo averci tolta la cornice della quale non mi interessa nulla. Mi raccomando… Madonna che voi pregherete per me e per la mia liberazione. Datemi conferma per la mia tranquillità». In un’altra lettera chiede invece di fargli recapitare il libro che ha nello studio: “La vita di Cristo”.

Fuori la guerra continua. E a Roma si susseguono le fucilazioni di partigiani da parte dei fascisti e delle SS. Lino teme il peggio: «La causa ci sarà, e molto probabilmente, anzi sicuramente, ci dovrebbe essere la condanna. Il mio fervido augurio è che questa sia magari di 30 anni. E spero fermamente che sia così soltanto. Ad ogni modo abbiate fiducia e sappiatemi attendere con pazienza e rassegnazione, pregando per la mia salvezza». Tuttavia sa che da un momento all’altro la sua vita potrebbe finire. E allora invia alla moglie Ester una lettera-testamento, nella quale le chiede perdono per aver osato troppo:

«Mia piccola Madonna,

è con la stessa disperazione del moribondo che si attacca alla vita , che io mi stringo a te. Come un naufrago si aggrappa rabbiosamente all’unico relitto di nave che potrà salvarlo da morte, io così disperatamente mi aggrappo a te per salvarmi. A te così cara, a te così buona, che con il tuo amore, con la tua passione sai ancora darmi la gioia e lo scopo di vivere. Sono anche io quasi un naufrago della vita, di questa insulsa, di questa stupida, di questa miserabile vita, che dopo aver maledetto, benedico. Amore mio non puoi ancora capire il mio stato d’animo, e i tremendi periodi di burrasca che sono costretto ad attraversare. Non hai ancora idea delle lotte tremende che da solo, completamente da solo, devo combattere. Tutta la mia bella filosofia è caduta stupidamente di fronte alla dura realtà. Tutta la mia spensieratezza s’è infranta nell’urto contro la vera vita. La vita di tutti, la vita che non ho mai voluto immaginare, che non ho mai conosciuta. Quest’ira repressa che è in me, questo spirito di ribellione impotente,non è se non il frutto di chi ha tutto perduto. Chi è abituato a vincere, credo non potrà mai assoggettarsi alla vita del vinto. Il mio orgoglio sconfinato, il mio spirito indipendente, il mio isolamento completo su tutto ciò che mi riguarda, la mia frenesia di agire solo per assaporare la soddisfazione unicamente mia dello scopo raggiunto, mi ha portato al punto di essere mal giudicato, di non essere compreso, di apparire forse anche pazzo. Imbevuto di teorie individualistiche assolute, mi sono buttato a corpo morto in un esperimento che mi affascinava. Raggiungere il superuomo creato da me, in me stesso. Ed in questo mi sono talmente immedesimato da condurre la mia lotta sorda inebriandomi di ogni mia piccola conquista. Ciò mi ha completamente astratto dalla realtà, nella quale sono caduto così bruscamente, dopo anni di studio,da infrangere ogni più piccola illusione senza più poter distruggere la mia maniera di vivere, inadatta alla nuova posizione che dovevo occupare nella vita. Icaro, lo stesso che aveva aspirato ad altezze troppo elevate, ha trovato la morte sul suo insulso tentativo. E io nel mio sogno dorato ho dimenticato di valutare in giusta misura quelle che avevo considerato inezie trascurabili; e ho trovato la morte dello spirito. (…)

Ho voluto raggiungere cose più grandi di me, ma sotto il loro peso sono rimasto schiacciato. Per non confessare la mia sconfitta, ho fatto cose assurde, che mi hanno fatto perdere anche l’ultimo sogno di grandezza e di supremazia, finché mi sono trovato in terra, nelle stesse condizioni di una belva chiusa in trappola, che nella sua irrequietezza ruggendo si lancia impotente contro le sbarre della gabbia. (…)».

E infatti l’«incognito domani», come lo definisce lo stesso Lino in un’altra lettera alla sorella Anna, gli riserva sorprese amare. Il 24 marzo 1944, il giorno dopo l’attacco dei Gap comunisti a Via Rasella, per rappresaglia le SS assassinano barbaramente 335 detenuti politici ed ebrei alle Fosse Ardeatine, prelevandoli da via Tasso e da Regina Coeli. Tra questi, c’è anche Raffaele Zicconi, l’elegante partigiano siciliano che amava la libertà come Cesare Battisti e inseguiva il sogno di Icaro.

("Patria Indipendente", n. 7, luglio 2011)

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Radio Radicale: la presentazione del libro "Dopoguerra" a Roma del 18 luglio 2019

Presentazione del libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri "Dopoguerra. Gli italiani tra speranze e disillusioni (1945-1947)"

A cura di Bretema e Valentina Pietrosanti

Evento organizzato in collaborazione con Casa della Memoria e della Biblioteche di Roma.

Registrazione video del dibattito dal titolo "Presentazione del libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri "Dopoguerra. Gli italiani tra speranze e disillusioni (1945-1947)"", registrato a Roma giovedì 18 luglio 2019 alle ore 18:15.

Dibattito organizzato da Associazione Nazionale Partigiani Italiani e Fondazione Pietro Nenni.

Sono intervenuti: Carlo Fiordaliso (vice Presidente della Fondazione Nanni), Ugo Intini (giornalista, esponente storico del Partito Socialista Italiano), Simona Colarizi (ordinario di
Storia Contemporanea presso l'Università degli Studi La Sapienza di Roma), Fabrizio De Santis (presidente dell'ANPI provinciale di Roma), Mario Avagliano (scrittore, saggista, autore del libro).

Sono stati discussi i seguenti argomenti: Antifascismo, Brigate Rosse, Comunismo, Ebrei, Fascismo, Guerra, Istituzioni, Italia, Libro, Nazismo, Nenni, Pertini, Politica, Resistenza, Storia.

La registrazione video di questo dibattito ha una durata di 1 ora e 25 minuti.

Il contenuto è disponibile anche nella sola versione audio.

https://www.radioradicale.it/scheda/579813/presentazione-del-libro-di-mario-avagliano-e-marco-palmieri-dopoguerra-gli-italiani

 

(pubblicato su www.radioradicale.it, 18 luglio 2019)

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Gli italiani del dopoguerra tra speranze e delusioni (Il Tempo)

Gli italiani del dopoguerra tra speranze e delusioni

Nel saggio di Avagliano e Palmieri gli anni difficili e la rinascita. Dalle burrascose vicende politiche alla Costituzione repubblicana

Chiara Proietti

«E' un momento curioso quello che attraversiamo» scrive nella primavera del 1945 la sceneggiatrice Suso Cecchi D'Amico al marito, «sta per scoppiare il dopoguerra ..) Non potrei spiegare altrimenti questo sgomento indefinibile che ha preso un po' tutti. Proprio tutti».

Il 25 aprile del 1945 la guerra non è ancora finita, ma avviene una svolta decisiva per la libertà. La liberazione del Nord dall'occupazione nazifascista e l'arrivo delle truppe alleate segnano per l'Italia un punto ben preciso. «Ma cosa speravamo dunque tutti? Che il giorno dopo la Liberazione le cose fossero già sistemate a dovere?" annota in quei giorni nel suo diario la partigiana Andreina Zanelli Libano. L'Italia è un paese stremato, inquieto e travagliato, in cui le persone hanno perso i propri punti di riferimento e devono adeguarsi a un nuovo contesto sociale e politico, nazionale e internazionale. Nei tre anni che vanno dalla fine della guerra all'entrata in vigore della Costituzione repubblicana la comunità nazionale ricompone i suoi frantumi, si congeda dalla guerra civile e dal fascismo e ricostruisce faticosamente il suo futuro. Sono i giorni delle vendette e della resa dei conti, dei prigionieri e dei deportati che tornano a casa, delle grandi adunate politiche nella rinata democrazia, ma anche di una gioiosa febbre di divertimento e di fretta di ricostruire. Per la prima volta tutti gli aspetti politici, economici, sociali di questo intenso periodo della storia d'Italia sono stati indagati, con una visione d'insieme, da due specialisti del ramo, Mario Avagliano e Marco Palmieri, nel nuovo saggio Dopoguerra. Gli italiani tra speranze e disillusioni 1945-1947 appena pubblicato da il Mulino. Gli autori interrogano diari privati e memorie, lettere, relazioni dei prefetti e delle forze di polizia, articoli di stampa, cinegiornali, film e canzoni, corrispondenze e conversazioni intercettate, per comporre un ricco e appassionante ritratto di come gli italiani vissero quei primi anni successivi alla Liberazione: il ritorno dei reduci e il loro difficile reinserimento nella vita civile; il ritorno dei deportati politici e degli ebrei; i partigiani chiamati a deporre le armi; i fascisti veterani o giovanissimi di Salò impegnati a rifarsi una vita o a costruirsi uno spazio politico nel nuovo scenario; il dramma di molte donne e bambini; i criminali e i banditi.

Non solo, il periodo 1945-1947 è un'autentica stagione costituente. Tre anni dopo molto è cambiato: l'Italia è una Repubblica, ha una nuova Costituzione e ha scelto per la prima volta nella sua storia il proprio assetto politico-istituzionale attraverso due tornate elettorali a suffragio universale maschile e femminile, segnate da una straordinaria partecipazione popolare: il 2 giugno 1946 il referendum sancisce la vittoria della repubblica sulla monarchia; viene eletta l'Assemblea costituente chiamata a scrivere la nuova carta costituzionale che entra in vigore il 1 gennaio 1948; il 18 aprile 1948 viene eletto il primo Parlamento della neonata Repubblica. Gli autori raccontano i segnali di una società che tenta di ritornare alla normalità: lungo le strade si riaccendono le luci dei lampioni oscurate da anni di coprifuoco, si organizzano feste da ballo, spopolano i nuovi ritmi americani come il boogie-woogie, riparte il campionato di calcio, Coppi e Bartali riprendono a sfidarsi al Giro d'Italia e i cinema tornano a riempirsi di pubblico. Vecchie e nuove aziende, intanto, cominciano a trasformare l'economia e la società: la Piaggio mette su strada la Vespa nei pressi di Biella dove si era trasferita per sfuggire ai bombardamenti, la Candy crea la prima lavatrice italiana, l'Algida nasce grazie a una macchina per gelati residuato bellico americano e tra Torino e Roma decolla il primo volo di linea della compagnia di bandiera Alitalia. Questo libro è un ritratto di quell'Italia, di un periodo carico di speranze, di brio, di illusioni, di sacrifici e di impegno collettivo, ma anche di violenze, di angosce, di inquietudini e di disil *** lusioni. Una società che ha l'eco della guerra alle spalle ma vuole fortemente rinascere, che Eduardo De Filippo ben rappresenta nella pièce teatrale Napoli Milionaria! del 1945, attraverso la certezza del protagonista, Gennario 'ovine, reduce dalla prigionia, che « 'a guerra nun è fernuta».

E poi la potenza catartica della battuta finale, in quell'attesa dell'alba e di rinascita: «S'ha da aspettà, Ama'. Ha da passa' a'nuttata». Quando disse l'ultima battuta, ha ricordato Eduardo, ci fu un lungo silenzio ancora per otto o dieci secondi, «poi scoppiò un applauso furioso, anche un pianto irrefrenabile», tutti avevano in mano un fazzoletto, «tutti piangevano. Io avevo detto il dolore di tutti».

(pubblicato su Il Tempo, 1 luglio 2019)

 

Genio e impresa: così l'Italia vinse il Dopoguerra (Libero)

IL SECONDO RINASCIMENTO

Genio e impresa: così l'Italia vinse il Dopoguerra

II Paese, nonostante fame e povertà, fu fucina di innovazione e bellezza: fu inventata la Vespa, l'Alitalia e pure la schedina

Gianluca Veneziani

E dopo aver perso la guerra vincemmo il Dopoguerra. Quando scoppiò, il Dopoguerra, le paure di ciò che sarebbe stato il futuro non erano inferiori a quando era scoppiato il conflitto. Ma nonostante le distruzioni fisiche e spirituali (buona parte del tessuto stradale era inutilizzabile, si faticava a trovare pane e ad avere riscaldamento, nel Paese dilagavano microcriminali e "segnorine", cioè prostitute), nonostante la doppia occupazione (prima quella nazista, poi quella dei liberatori Alleati con le relative "marocchinate"), gli italiani dimostrarono una straordinaria resilienza, quasi una capacità di sospendere il recente passato e di ravvivare il loro genio creativo in risposta alla devastazione.

Di solito siamo abituati a pensare a quegli anni, ossia al biennio 1945-47, come al periodo segnato dai postumi della guerra civile, dalla Resa dei conti e dal sangue dei vinti, o in alternativa come a una fase di cambiamento solo a livello politico e istituzionale con il referendum monarchia-repubblica, l'assemblea costituente e la campagna elettorale che avrebbe portato l'Italia nel blocco atlantico. Il nuovo libro di Mario Avagliano e Marco Palmierl intitolato Dopoguerra (Il Mulino, pp. 496, euro 28) ci consente invece di guardare a quel periodo come al momento cruciale della Ricostituzione materiale, morale, intellettuale del Paese, un passa :,zio non più interlocutorio tra un passato tragico e un futuro segnato dal boom economico, ma un biennio decisivo che mise le basi per un secondo Rinascimento italiano. Questa resurrezione, improvvisa, vitale, collettiva, non avvenne ovviamente ex nihilo ma si avvalse di molti fermenti creativi che già erano stati in azione durante il Ventennio e che ora, giunti a maturazione, poterono rimettersi al servizio del Paese, dopo la pausa forzosa imposta dalla guerra.

LE IDEE

Sono davvero straordinari la quantità di intelligenze, menti geniali e imprenditoriali che operarono in quegli anni e il numero di invenzioni, aziende, manifestazioni che esse riuscirono a mettere a punto, trasformando il nostro Paese in fucina di bellezza, innovazione, perfino divertimento. Agli italiani, assillati dalla fame e dalla povertà, erano rimaste le idee, e di quelle fecero la propria ricchezza. Contribuendo a rimettere in piedi e in ballo l'Italia.

Fu nel 1946 che la Pian o incaricò l'ingegnere Corradino d'Ascanio, già costruttore di elicotteri negli anni Trenta, di realizzare un nuovo modello di scooter che abbinasse design e comfort Ne venne fuori la Vespa, chiamata cosi perché, quando Enrico Piaggio sentì il rumore del suo motore, esclamò: «Sembra una vespa». Fu una fortuna perché in origine avrebbe dovuto chiamarsi MP5... E che dire della Scuderia Ferrari, già nata nel 1929 come reparto corse dell'Alfa Romeo, ma che solo nel Dopoguerra Enzo Ferrari rese a pieno operativa, creando la prima automobile denominata 125 Sporte riprendendosi il simbolo del cavallino rampante. Oltre a mettersi in moto, gli italiani in quegli anni presero il volo: nel 1946 venne creata l'Aero linee italiane internazionali che poi, dietro proposta di un impiegato di un ufficio postale, venne ribattezzata Alitalia per esigenza di sintesi nei telegrammi. E, a proposito di mobilità, è doveroso citare la nascita nel 1947, lungo le autostrade, della prima stazione di servizio, un modello di ristorazione che sarebbe stato presto imitato all'estero.

RESILIENZA

L'Italia del Dopoguerra era anche un Paese ludico che, in coincidenza della ripresa del campionato di calcio, inventò la schedina: stavolta il merito fu del giornalista Massimo Della Pergola, cosh etto tuttavia già due anni dopo a cedere i diritti del concorso e a darsi all'ippica (ripiegò infatti sulla gestione del Totip). Ed era un'Italia che aveva voglia di godersi i piccoli piaceri e di farsi aiutare dalla tecnologia. In quel Paese attecchì l'Algida peri gelati e fu possibile la rivoluzione della Candy che importò da noi la lavatrice, alimentando non solo simbolicamente il sogno di un Paese più pulito. Quella stessa Italia comprese che le brutture della guerra potevano essere superate solo se si coltivava il senso del Bello: nacque cosi nel 1946 il concorso di Miss Italia e l'anno seguente venne inaugurato il Premio Strega con le eccellenze letterarie del Belpaese. Una combinazione tra impegno ed evasione testimoniata dalla contemporanea esplosione delle sale da ballo e dalla crescita esponenziale dei quotidiani, il cui numero quasi raddoppiò rispetto al decennio precedente.

Ciò che colpisce, oltre alle tante idee, è lo spirito generale che caratterizzò quegli anni, sintetizzabile nell'espressione «ballare sopra le macerie». Mai ci fu tanta voglia di vita come in quel periodo in cui la gente si sentiva scampata alla morte, mai ci fu tanta voglia di evadere e dimenticare il passato (pur essendo gli anni più vicini alla guerra, furono anche gli anni in cui il popolo fu più riottoso a parlarne e sentirne parlare), mai ci fu tanta sete di futuro come capacità di guardare al destino delle generazioni suc *** cessive (fatto notevole se si pensa che allora molti italiani faticavano a sfamarsi).

Dovremmo quindi stupirci della resilienza di chi visse quel biennio. E forse, più che la Resistenza, imparare a celebrare l'epopea della Resurrezione post-bellica.

(pubblicato su Libero, 5 luglio 2019)

Dopoguerra, gli italiani tra speranze e paure (Quotidiano del Sud)

IL LIBRO

Dopoguerra, gli italiani tra speranze e paure

Ripercorrono i tre anni che vanno dalla fine della guerra all'entrata in vigore della Costituzione repubblicana Mario Avagliano e Marco Palmieri. Nasce così "Dopoguerra. Gli italiani tra speranze e disillusioni", il Mulino edizioni. E' la stagione in cui la comunità nazionale si congeda dalla guerra civile e dal fascismo e costruisce faticosamente il suo futuro. Felicità e violenza si mescolano: sono i giorni del ritorno alla pace e alla libertà, delle vendette e della resa dei conti, dei prigionieri e dei deportati che tornano a casa, delle grandi adunate politiche nella rinata democrazia, ma c'è anche una gioiosa febbre di divertimento, la voglia di ballare, la fretta di ricostruire. Una energia vitale che già prepara il boom degli anni a venire. Rico Dopoguerra, gli italiani tra speranze e paure minciano i campionati i calcio, arrivano i supereroi americani, Coppi e Bartali si sfidano al Giro d'Italia.

Gli autori scelgono di partire da diari privati e memorie, lettere, rapporti dei prefetti e della polizia, stampa, film e canzoni, conversazioni intercettate per comporre un ritratto dal basso degli italiani nel momento della repubblica nascente. "Un periodo - si legge nell'introduzione - che dalle parole e dalle azioni dei protagonisti appare carico di speranze, di brio, di illusioni, di sacrifici e di impegno collettivo. Ma anche di vio- lenze, di angosce, di inquietudine e di disillusioni, che si esprimono ad esempio nella certezza di Gennaro Jovine, reduce di prigionia, protagonista della piece teatrale di Eduardo De Filippo "Napoli milionaria" del 1945, rappresentata per la prima volta al teatro San Carlo di Napoli che 'a guerra nun 'fernuta"

(pubblicato su Il Quotidiano del Sud, 13 luglio 2019)

Come eravamo nel 1945 e cosa siamo diventati (Gazzetta del Sud)

Un bel saggio di Avagliano e Palmieri

Come eravamo nel 1945 e cosa siamo diventati

L'analisi dell'immediato dopoguerra essenziale per la (ri) costruzione dell'identità nazionale

Piero Orteca

Siamo i rami di un albero contorto dal tempo e da mille tempeste. Un olivo la cui origine si perde nei secoli, deformato ma prepotentemente abbarbicato alla sua terra, in cui scorre ancora una linfa pregna di vita e portatrice di sogni antichi. Questi siamo e questi eravamo nel 1945, alla fine di una guerra devastante. Stanchi, logorati da mille violenze, attoniti davanti alle rovine delle nostre città, eppure ancora speranzosi di poter vivere in un futuro più umano. Ecco, la bellissima analisi di Mario Avagliano e Marco Palmieri ("DopoguerraGli italiani tra speranze e disillusioni (1945-1947)", per i prestigiosi tipi del Mulino) è prima di tutto una riflessione. Anzi una vera e propria rivisitazione di un'epoca che, forse, dimostra come spesso gli italiani siano più bravi a "ricostruire", piuttosto che a "costruire".

La spinta emotiva che nasce dalle ferite e dalle distruzioni, ma anche dalla voglia di risorgere, ci spinge a dare il meglio di noi stessi. Solo nel dolore ci ritroviamo comunità? E questa la domanda che sorge spontanea nel ripercorrere con attenzione le pagine di un libro che parla degli italiani «tra speranze e disillusioni».

La bravura dei due autori, giornalisti e storici, sta nel fatto che "giocano in casa". Hanno già scritto diversi libri che ripercorrono la lunga via crucis della nostra nazione, dal fascismo alla pace dei vinti. Un popolo che ha prima "aderito", poi subito e, infine, si è riscattato con la Resistenza. E' bastato? Fino a un certo punto.

Yalta e la spartizione in sfere d'influenza tra gli alleati occidentali da un lato e i sovietici dall'altro hanno creato un clima di contrapposizione nell'arena internazionale e sul fronte politico interno. I confini geografici, ma soprattutto ideologici, costruiti con lapis e squadretta, hanno reso la trama sociale, economica e "partitica" dell'Italia di allora straordinariamente complessa. E Avagliano e Palmieri sono abilissimi a dipanarla. A ripercorrere, tappa dopo tappa, minuziosamente ma anche utilizzando il grandangolo della storia, un'epoca che segnerà la nostra Italia almeno per un altro mezzo secolo.

E un affresco neorealistico, quasi trasposto dal cinema alla prosa. Dove i "Ladri di biciclette", il "Miracolo a Milano" e gli "Umberto D." desichiani si fondono con l'acuta cronaca quotidiana di un Paese ancora traumatizzato dalla guerra, ma profondamento diverso nei suoi valori fondanti e nei suoi sogni, che si sforza di non far diventare mere illusioni. Giornalismo, ma anche rigorosa ricerca storica e, permettetecelo, anche arte. Quella di raccontare, con una notevole capacità divulgativa, fatti e personaggi senza alcun inquinamento di partigianeria. Solo la crudezza degli eventi e le considerazioni di chi, in un certo senso, prende per mano il lettore offrendogli le chiavi per le sue opzioni interpretative. Con grande onestà intelletuale.

E, poi, la rigorosa "timeline". Il dipanarsi ordinato di storia e storie che non è solo cronologia, ma è molto di più. E l'abilità di tessere la trama del tempo, legando con pazienza e logica il "fil rouge" di un'epoca caratterizzata da una straordinaria complessità e densità di eventi. Ma che proprio per questo va riproposta, passateci la terminologia propria di altre discipline, in maniera quasi entropica. Dove il polverone del caos si deposita velocemente per svelare, non in maniera deterministica, le logiche della storia. Casualità e caso (azzarderebbero gli studiosi della complessità)? No. Tutt'altro.

E un'architettura cronachistica ma anche interpretativa affascinante, quella proposta dal libro. Dalla "Liberazione" al "Ritorno alla vita", da "Paisà e segnorine" ai "Reduci, deportati e sopravissuti". Passando per le "Elezioni amministrative", la "Nascita della Repubblica", la "Pace amara", fino alla "Democrazia difficile", i capitoli scorrono come uno specchio del tempo che fu. Ci ripropongono l'importanza della "memoria" come elemento indispensabile per la costruzione di qualsiasi identità nazionale. Un libro da leggere, senza dubbio. Ma anche un libro da mettere sul comodino e da sfogliare di tanto in tanto. Per capire cosa significhi, oggi, essere italiani.

(pubblicato su Gazzetta del Sud, 15 luglio 2019)

L'imprudenza dei socialisti (Corriere della Sera)

L’imprudenza dei socialisti

Nel saggio «Dopoguerra» (il Mulino) di Mario Avagliano e Marco Palmieri le vicende che vanno dalla sconfitta definitiva del nazifascismo all’approvazione della Costituzione

di Paolo Mieli

L’otto maggio 1945 segna la fine della Seconda guerra mondiale. «Ma cosa speravamo? Che il giorno dopo la Liberazione le cose fossero già sistemate a dovere e prendessero il loro corso normale?», si domanda quel giorno in una pagina di diario la partigiana azionista Andreina Zaninetti Libano; «io penso che dovremo vedere qualcosa di peggio ancora… Non si risolve di botto una situazione come la nostra». La stagione bellica appena conclusa è stata anche uno «sconvolgimento morale» scrive Antonio Giolitti in Di guerra e di pace. Diario partigiano (1944-1945) edito da Donzelli; «per costruire la pace occorre anzitutto rieducare gli uomini — in gran parte abbrutiti dalla guerra — alla responsabilità e alla dignità della condizione umana». «È un momento curioso quello che attraversiamo», scrive qualche tempo dopo al marito, Fedele D’Amico, la sceneggiatrice Suso Cecchi: «Sai che impressione ho? Sta per scoppiare il dopoguerra. Finora è stato il limbo. Ora ci avviciniamo. Non potrei spiegare altrimenti questo sgomento indefinibile che ha preso un po’ tutti. Proprio tutti. E che non è né stanchezza, né preludio di violenza. Amore mio qui scoppia il dopoguerra. Speriamo che duri poco». Parole che si possono leggere nel libro Suso a Lele. Lettere (dicembre 1945-marzo 1947), edito da Bompiani.

È il contesto di Dopoguerra. Gli italiani tra speranze e disillusioni 1945-1947, il libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri che sta per essere pubblicato dal Mulino. Quello ben descritto da un altro libro, di Keith Lowe, Il continente selvaggio. L’Europa alla fine della Seconda guerra mondiale (Laterza): non la gioia per la ripresa di una vita civile e per l’annunciata ricostruzione, bensì l’incertezza, la paura, le idee confuse. E qualche orrore. Quella che Eduardo De Filippo, nella pièce teatrale Napoli milionaria (1945), anziché come un’alba radiosa, definisce «’a nuttata». Che, dice il protagonista della commedia Gennaro Jovine, «ha da passà». Incuriosisce — a tal proposito — la periodizzazione del saggio di Avagliano e Palmieri, il loro racconto si conclude con l’accurata disamina di dodici mesi considerati fin qui dagli storici come «di passaggio». E invece quell’anno, il 1947, iniziato, a gennaio, con il viaggio di Alcide De Gasperi negli Stati Uniti, conclusosi a dicembre, con il voto sulla Costituzione (nei giorni in cui Vittorio Emanuele III muore esiliato in Egitto) contiene qualcosa che merita attenzione. Grande attenzione.

Il 1947 inizia — oltre che con il viaggio americano di De Gasperi di cui si è detto — con la scissione socialista di Palazzo Barberini (11 gennaio): nascono i socialdemocratici guidati da Giuseppe Saragat. L’indomani, il leader del Psi Pietro Nenni annuncia l’intenzione di aprire la crisi di governo: intende dimettersi da ministro degli Esteri e tornare alla direzione dell’«Avanti!». Quel giorno stesso confida al compagno di partito Giuseppe Romita: «Ormai non c’è che da fare un unico partito dei lavoratori coi comunisti».

Il segretario del Pci, Palmiro Togliatti, è — documentano Avagliano e Palmieri — assai più prudente del leader socialista. Capisce al volo che De Gasperi si servirà della crisi per «riequilibrare» il governo a vantaggio della Dc (Mario Scelba andrà all’Interno e Carlo Sforza agli Esteri) e giudica frettolosa la sollecitazione fusionista del leader socialista. Il 25 febbraio 1947 nasce il terzo governo De Gasperi, l’ultimo con comunisti e socialisti. Durerà poche settimane. Il clima nel Paese è sempre più teso: il 28 marzo a Gioia del Colle, in provincia di Bari, un gruppo di militanti di sinistra reagisce ad un incendio della Camera del lavoro, tentando di linciare il presunto autore e devastando poi le sedi dell’Uomo qualunque, dei monarchici e della Democrazia cristiana. Sul suo diario Giulio Andreotti intuisce l’importanza dell’episodio e si domanda se sarà un’«una tantum» o «l’inizio di un ciclo».

Proseguono intanto i lavori dell’Assemblea Costituente. Accanto a quelle ufficiali si svolgono sedute riservatissime (ma documentate) a cui prendono parte «tre professori» della Dc, La Pira, Dossetti e Moro, Lelio Basso per il Psi, e Togliatti in persona. Il quale Togliatti coglie di sorpresa il resto della sinistra (ma anche la Dc) accettando l’inserimento in Costituzione dei Patti Lateranensi. Per tutto il 1947 il segretario del Pci mantiene la porta socchiusa al partito cattolico. Anche se alcuni risultati elettorali sono per lui incoraggianti. Il 20 e 21 aprile si tengono le regionali in Sicilia: la Dc subisce un crollo e scende dal 33,6% al 20,5%; il Blocco del popolo, socialisti e comunisti, si attesta al 30,4%, guadagnando dieci punti rispetto all’anno precedente. Per Nenni è la prova che i due partiti della sinistra devono fondersi. Il 27 aprile, in una riunione della direzione democristiana, De Gasperi riferisce di aver notato che «Saragat e i repubblicani hanno paura dei comunisti». Ma ad aver paura è anche la Dc. Il 1° novembre Paolo Emilio Taviani annoterà sul diario: «Riunione sotto la mia presidenza dei segretari provinciali della Dc dell’Italia settentrionale… Sono tutti convinti — tranne quelli di Vicenza e di Savona — che la vittoria andrà certamente ai socialcomunisti».

Il 1° maggio in Sicilia, a Portella della Ginestra, i banditi di Salvatore Giuliano aprono il fuoco sui partecipanti alla festa dei lavoratori. L’8 maggio i comunisti francesi sono costretti a lasciare il governo. Stessa sorte tocca agli italiani. Andreotti annota però nei suoi taccuini che i fastidi maggiori vengono dal Psi: «De Gasperi non ne può più… Il doppio gioco dei socialisti è tremendo». Il 13 maggio si apre la crisi ed è curioso come i democristiani ancora una volta si sentano provocati e sfidati più dai socialisti che dai comunisti. Togliatti sorprende (positivamente) De Gasperi scrivendogli una lettera per assicurargli la disponibilità del proprio partito ad accettare aiuti economici americani (osteggiati dall’Urss). Il 31 maggio nasce il nuovo governo De Gasperi senza Psi e Pci.

Avagliano e Palmieri notano che la prima reazione del Pci all’estromissione dal governo è «tutto sommato pacata». Il liberale Epicarmo Corbino, non senza una qualche ingenuità, domanda a Togliatti se il Partito comunista ha in cantiere «qualche mossa insurrezionale». Togliatti gli risponde: «Lei non ha capito che cosa è il Pci; la via greca, quella della guerra civile, non rientra tra le nostre ipotesi». E il 1° luglio si presenta alla direzione comunista gloriandosi per «non aver messo in campo parole d’ordine insurrezionali», cosa che «ha accresciuto il prestigio del nostro partito in determinati strati sociali e specialmente tra i ceti medi». Nenni è molto più radicale e parla di «governo nero». È lui il primo a sostenere che De Gasperi, avendo rotto l’unità antifascista, può essere considerato come colui che ha spalancato le porte al nuovo fascismo. Il 31 maggio l’«Avanti!» titola Un governo da rovesciare. Presto anche il Pci si adeguerà a questi toni. Nel secondo congresso nazionale della Cgil (ancora unitaria), a Firenze dal 1° al 7 giugno, «l’atmosfera è così elettrica che durante tutti i lavori gli interventi dei delegati dc sono costellati di fischi e di interruzioni» tanto che a un certo punto Giulio Pastore va al microfono e avverte: «O lasciate che esprimiamo il nostro pensiero, o la corrente cristiana abbandona la sala». E quando uno dei leader cattolici, Luigi Morelli, si augura che la sua corrente diventi maggioritaria «per poter portare ovunque lo spirito del primo operaio, il Cristo di Nazareth», si scatena quella che l’«Osservatore Romano» definisce «una vergognosa gazzarra».

Ma Togliatti frena, frena e frena ancora: «Spera che il governo centrista sia una parentesi temporanea», scrivono Avagliano e Palmieri. Le manifestazioni di piazza si fanno più accese. Ma nel Paese c’è incertezza. Annota il 20 settembre nel proprio diario l’azionista Giorgio Agosti, questore di Torino: «La giornata è trascorsa calma. In piazza San Carlo non più di quindicimila persone. Stanchezza nelle masse e crescente senso di paura e di avversione negli ambienti borghesi. Ho l’impressione che sia stata per le sinistre una giornata nera: troppo simile ad altre del ’20 e del ’21».

Tra il 22 e il 27 settembre si tiene a Szklarska Poreba (in Polonia) una conferenza dei partiti comunisti europei — per dar vita al Cominform, una struttura di coordinamento — nel corso della quale gli italiani vengono più volte accusati di essere stati troppo accomodanti con la Dc e di aver «reagito troppo debolmente» alla cacciata dal governo. È un segnale di Stalin a Togliatti. Il quale si affretta a presentare con Nenni una mozione di sfiducia al governo che viene respinta grazie ai voti dell’Uomo qualunque, i quali vanno provvidenzialmente ad aggiungersi a quelli centristi. Curiosità: la mozione, oltre che da Togliatti e Nenni, è firmata anche da Saragat, non ancora inglobato nella maggioranza degasperiana, nonostante proprio dalla conferenza in Polonia sia bollato come «traditore servo dell’imperialismo». Si vota a Roma per le amministrative, vengono violentemente contestati alcuni comizi del ricostituito partito fascista, il Movimento sociale italiano; viene ucciso — con una dinamica mai ben ricostruita — un ragazzo della Dc, Gervasio Federici. Annota con qualche disappunto il liberale Anton Dante Coda: «Stasera la città è sotto l’impressione dell’assassinio del giovane democristiano Federici, accoltellato da un comunista… è previsto che questo episodio gioverà elettoralmente alla Democrazia cristiana».

Il 17 ottobre di quello stesso 1947 si riunisce il comitato federale del Pci di Genova. Avagliano e Palmieri ne citano i verbali. Prende la parola il segretario, Secondo Pessi, e afferma: «Occorre anche un’azione extraparlamentare, occorre uno spirito di mobilitazione, di attacco e non lasciarci conquistare dal feticismo della legalità; la nostra lotta non vuol dire lotta pacifica, ma può anche dire lotta violenta, lotta armata». Dai verbali si desume che altri sono ancora più espliciti: «I compagni che hanno sempre parlato di mitra saranno i primi ad andare in cantina, riprendere le armi qualora la situazione dovesse diventare maggiormente tesa» (Bugliani); «Io mi spingo anche più in là, non solo è necessario per me far paura agli avversari, ma anche farne pulizia in modo concreto e attivo» (Fioravanti).

Il 7 novembre, la direzione del Psi torna alla carica e approva un ordine del giorno in cui si accusa il governo De Gasperi di «mettere in pericolo la democrazia e le istituzioni repubblicane»; di conseguenza propone «un raggruppamento di tutte le forze democratiche per la lotta della sinistra contro la destra». Togliatti «nutre qualche riserva», ma poi accetta la proposta con una singolare motivazione: i socialisti, se lasciati soli, non resisterebbero alla tentazione «di fare dell’anticomunismo».

Il 9 novembre a Mediglia, nella campagna milanese, vengono esplosi colpi di arma da fuoco contro giovani comunisti che rientrano da una festa danzante. L’11 novembre alcuni manifestanti di sinistra circondano la cascina del qualunquista Giorgio Magenes, che reagisce uccidendo l’operaio Luigi Gaiot. Magenes viene linciato. A seguito di questo episodio il 28 novembre viene comunicato un «avvicendamento» prefettizio: Ettore Troilo, ex comandante partigiano, è sostituito da Vincenzo Ciotola che non ha uguali referenze. Un gruppo di attivisti comunisti occupa la prefettura. Giancarlo Pajetta, segretario regionale del Pci, gioisce per l’accaduto e se ne gloria. Ma Togliatti — innervosito dall’iniziativa — lo esorta a far uscire i manifestanti dalla sede prefettizia.

Il 12 dicembre a Milano attivisti della Volante rossa sequestrano l’ingegner Italo Tofanello, dirigente delle Acciaierie Falck, denudandolo e portandolo in piazza Duomo, dove viene rilasciato in mutande con un biglietto firmato «un gruppo di bravi ragazzi». Il 16 dicembre viene lanciata una bomba a mano contro la casa di Andrea Gastaldi, ex segretario del Pnf a Torino. «Episodi che poi negli anni Settanta verranno imitati dalle Brigate rosse», sottolineano Avagliano e Palmieri. Il 15 dicembre Saragat entra con il suo partito a far parte del governo De Gasperi. Il distacco di Saragat dai socialisti ormai è totale, forse anche perché in quel 1947 il partito di Nenni era stato, per così dire, più «comunista» dello stesso Pci.

Bibliografia

Tra le testimonianze dirette sulle vicende della lotta partigiana e quelle immediatamente successive, un documento senza dubbio importante è il diario del futuro ministro Antonio Giolitti (all’epoca dirigente comunista) Di guerra e di pace, a cura di Rosa Giolitti e Mariuccia Salvati (Donzelli, 2015). Molto interessante anche l’epistolario Suso a Lele (Bompiani, 2016), che raccoglie le lettere scritte da Suso Cecchi D’Amico a suo marito Fedele D’Amico (detto Lele) tra il dicembre del 1945 e il marzo del 1947. Da segnalare sul piano storiografico: Keith Lowe Il continente selvaggio (traduzione di Michele Sampaolo, Laterza, 2013); Tony Judt, Dopoguerra (traduzione di Aldo Piccato, Mondadori, 2007; Laterza, 2017).

(pubblicato su www.corriere.it, 24 giugno 2019)

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