L’ora solenne di… invadere l’Etiopia

di Mario Avagliano

“Ore 5, nostre truppe hanno passato confine, nostri aeroplani sorvolano cielo nemico”. Era l’alba del 3 ottobre 1935 quando dall’Eritrea arrivò a Roma questo telegramma: l’Italia fascista aveva appena invaso l’Etiopia, stato libero e indipendente, membro della Società delle Nazioni, ultimo grande paese africano ancora non assoggettato alla dominazione coloniale straniera, senza una formale dichiarazione di guerra. La notizia però non era inattesa. La sera precedente milioni di italiani entusiasti avevano affollato le piazze di tutta la penisola, collegate via radio col balcone di piazza Venezia a Rona, da dove Mussolini aveva annunciato che “un’ora solenne sta per scoccare nella storia della patria” e che quella grande adunata “dimostra al mondo che Italia e fascismo costituiscono una identità perfetta”. Infine aveva detto: “con l’Etiopia abbiamo pazientato quarant’anni, ora basta”. Ora iniziava la guerra e con essa una sfida aperta alle grandi potenze in nome del revisionismo, che avrebbe ben presto portato l’Europa e il mondo in un nuovo conflitto globale.

Le guerra d’Etiopia durò ufficialmente sette mesi e si concluse ufficialmente sette mesi dopo, quando le truppe guidate da Badoglio entrarono ad Addis Abeba e Mussolini poté proclamare “la riapparizione dell'impero sui colli fatali di Roma”, dopo una serie di spietate battaglie di annientamento delle armate etiopiche, condotte dal più grande e moderno esercito mai visto nella storia dell’espansione coloniale. Nelle fasi più difficili, inoltre, non mancò il ricorso criminale ai gas (l’iprite e il fosgene), oltre ai bombardamenti indiscriminati su truppe e villaggi privi di qualsiasi difesa, alle rappresaglie che non di rado coinvolsero anche i civili e i ai metodi feroci e razzisti adottati nei territori occupati.
Nella memoria successiva, tuttavia, questa spietata guerra, che coinvolse il maggior numero di italiani dopo i due conflitti mondiali, alla ricerca di quel “posto al sole” tanto ambito e mitizzato quanto ritenuto necessario e legittimo da conquistare ad ogni costo, è stata declassato a una sorta di “avventura”, passata alla storia più che altro per i motivetti spensierati che l’accompagnarono (Faccetta nera su tutti) e per la vulgata autoassolutori del colonialismo buono costruttore di case, scuole e ospedali e degli italiani brava gente. A fare piena luce sul quale fu il reale atteggiamento degli italiani, in patria e al fronte, a ottant’anni esatti dall’invasione, arriva ora un’approfondita ricerca su lettere, diari, relazioni dell’Ovra, documenti militari e carte di polizia condotta da Marco Palmieri. Il libro, L’ora solenne. Gli italiani e la guerra d’Etiopia (Baldini&Castoldi, 320 pp., 16 euro), rende conto dello «spirito pubblico» dell’epoca, mettendo a fuoco i diversi tasselli di un variegato mosaico dal quale emerge nitidamente che l’adesione e il consenso furono profondi e trasversali, toccando ogni ambito della società civile.
Le carte analizzate da Palmieri dimostrano che fu un momento di esaltazione collettiva che portò l’adesione al fascismo e il mito personale del duce al punto più alto della sua parabola. I ceti più benestanti furono ammaliati dalla retorica della grandezza nazionale e imperiale, quelli meno abbienti s’illusero per la promessa di terra e lavoro dell’eldorado africano e anche gli ambienti cattolici animati dalla prospettiva di una missione civilizzatrice diedero il loro contributo. Perfino tra gli oppositori, già schiacciati dalla repressione, molti arrivano a ricredersi sull’operato di Mussolini e criticare le sanzioni economiche comminate all’Italia per l’aggressione (Palmieri parla di una crisi d’identità dell’antifascismo, evidente nelle posizioni di personaggi come Benedetto Croce, Luigi Albertini, Vittorio Emanuele Orlando, Sem Benelli). Al coro dei favorevoli si unirono molte voci del mondo intellettuale come Vasco Pratolini, Elio Vittorini, Achille Campanile, i premi Nobel Guglielmo Marconi (che come molti altri scrisse al duce per manifestare la sua intenzione di rendersi utile nell’impegno della patria). Anche le donne ebbero un ruolo nella “mobilitazione civile” – alla quale è dedicato uno specifico capitolo del libro, accanto a quella più propriamente militare – come si evince dalle numerose lettere al dice addirittura con la richiesta di poter andare a combattere al pari degli uomini e dalla massiccia partecipazione alla giornata della fede, quando furono chiamate a donare l’anello nuziale per contribuire all’impresa. In sostanza, come si legge in una delle innumerevoli relazioni fiduciarie utilizzate da Palmieri, “oggi le masse hanno aderito al Fascismo e all’azione del Governo e mai come oggi è stata in loro ferma la volontà di servire il Capo per l’affermazione dei nostri diritti”.
Il libro dunque propone un racconto originale e a più voci sull’illusione pubblica della guerra che più ha infiammato gli italiani sotto il fascismo. Ma anche sulla successiva disillusione, espressa per lo più in privato. S’intravedono, cioè quegli elementi di debolezza e quelle contro-istanze che – spiega Palmieri – “una mobilitazione così pressante e di massa basata su così radicate e diffuse aspettative aveva necessariamente al proprio interno e che essa stessa aveva contribuito ad attivare, dalle quali prenderà le mosse una fase – lunga, lenta e dolorosa e con altre pagine nere ancora da scrivere – di disgregazione”.
Lo evidenzia bene, tra i tanti documenti su cui si basa la ricerca, una nota dei primi anni ’40, in cui un informatore non può fare a meno di constatare “nel 1935, la stessa gente si sarebbe gettata nel fuoco per il Capo e per il fascismo… con entusiasmo, per la fede cieca che avevano nel Capo. Oggi si mugugna apertamente, si fanno discorsi sovversivi, si arriva ad offendere addirittura, senza ritegno, il Fascismo”. Ma la curva discendente sarebbe stata lunga e complessa, e avrebbe riservato ancora  tante pagine dolorose all’Italia e agli italiani.

(Blog Mario Avagliano, 4 dicembre 2015)

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L'Italia che esce dalla palude nel romanzo di Pennacchi

di Mario Avagliano

   La saga della famiglia Peruzzi, la ruspante e intraprendente famiglia di contadini originaria della bassa Pianura Padana, trasferitasi sotto il fascismo dal Veneto all’Agro Pontino, con il miraggio della bonifica, continua nell’Italia della guerra civile e della ricostruzione. È arrivato in libreria “Canale Mussolini parte seconda” (Mondadori, 425 pagine, 22 euro), l’atteso seguito del fortunato romanzo di Antonio Pennacchi, vincitore del Premio Strega nel 2010.

Avevamo lasciato i Peruzzi negli ultimi giorni di guerra a Littoria, schierati assieme agli altri coloni al fianco dei tedeschi e dei fascisti, a sparare fucilate contro le pattuglie alleate, nel timore di perdere la terra che tanto faticosamente avevano sottratto alle paludi pontine. E poi tornare nei poderi distrutti, prendendo atto che gli americani non erano così malvagi come li dipingeva il regime fascista e che anzi, grazie al loro insetticida “Ddt”, potevano finalmente debellare la zanzara anofele dalle campagne.
Il racconto delle vicissitudini dei coloni “cispadani” riprende proprio da lì, il 25 maggio del 1944, il giorno della liberazione, quando - profittando del caos di quelle ore - il diciottenne Diomede Peruzzi penetra con due amici più grandi nel palazzo della Banca d’Italia devastato dalle bombe, dove svolazza qualche pezzo bruciacchiato di banconote da mille, svaligiandone con carriole di legno il caveau. È da questo furto che costruisce la sua folgorante carriera imprenditoriale e che ha inizio la nuova impetuosa fase di sviluppo della città, che poi nel 1946 cambierà il nome in Latina.
La guerra a Littoria è terminata. Al Canale Mussolini, il principale canale della bonifica, che per quattro lunghi mesi si è trovato al centro del fronte bellico di Anzio e Nettuno, torna a rifluire la vita. Gli sfollati abbandonano i rifugi sui monti e ripopolano la città e le campagne. I poderi recano i segni dei bombardamenti. Ma nella popolazione c’è un ritrovato senso di fiducia e la voglia di iniziare la ricostruzione.
Nell’Italia occupata dai nazisti, però, la guerra continua. Il fronte si sposta verso nord, grazie all’avanzata degli Alleati che, con il prezioso contributo dei partigiani e del ricostituito esercito italiano, costringono alla ritirata i tedeschi e i fascisti di Salò. È una guerra di liberazione, ma – come ha evidenziato lo storico Claudio Pavone – anche una guerra civile, che attraversa le famiglie e a volte le divide e le dilania.
È il caso dei Peruzzi. Il giovane Paride, in camicia nera, ha aderito alla Rsi e mentre sogna di tornare dalla zia-amante Armida e dal figlio, partecipa alle campagne di rastrellamento contro i partigiani. Suo fratello Statilio, invece, che veste la divisa con le stellette del Regio Esercito, si scontra con i tedeschi in Corsica e poi a Cassino e sulla linea Gotica. Il cugino Demostene, del ramo della famiglia dell’“Altitalia” rimasto fedele agli ideali social-comunisti, si arruola partigiano nella Brigata Stella Rossa e combatte anche lui per liberare l’Italia.
I due cugini antagonisti, Paride e Demostene, che fino all’età di quattordici anni erano cresciuti assieme, giocando come due fratelli, bighellonando di notte d’estate e pescando nel fiume, s’incontreranno casualmente nella primavera del 1945 alle foci del Po a Goro, ma non avranno il coraggio di spararsi (“Ma come agh sparo? El xè me cusin!”), facendo prevalere le ragioni del legame familiare sull’ideologia.
Accanto ai Peruzzi in divisa ritroviamo gli altri protagonisti della “parte prima” del romanzo. Lo zio Adelchi, l’unico vigile urbano rimasto a difesa del comune quando arrivano gli inglesi a liberare una Littoria deserta e quasi ridotta in macerie; il mite zio Benassi, fissato con la Corale, e la moglie Santapace, collerica e bellissima; la passionale Armida, dai capelli biondi e dai fianchi tondi, con le sue api che rivelano il futuro, e la nonna Peruzzi, che attribuisce compiti e destini ai nuovi rampolli che vengono al mondo. E ovviamente l’indomito Diomede, figlio della Modigliana, sorella gemella di zia Bissola, e di padre incerto. Capelli rossi brillanti, lentiggini sul muso e “simpatia da vendere”, è chiamato Batocio o Big Boss per un piccolo difetto fisico. Si rivelerà il vero demiurgo della nuova città.
Le loro vicende s’intrecciano con quelle dei personaggi storici, a partire da Benito Mussolini, alla cui liasion con Claretta Petacci il libro dedica pagine intense. Dal sogno di Claretta di Ben che in una notte di luna piena la raggiunge al bivio dell’Appia a Littoria, fino alla fine tragica e ancora in parte misteriosa durante la fuga verso la Svizzera, con la successiva esposizione delle loro salme a Piazzale Loreto a Milano il 28 aprile del 1945.
E poi nel dopoguerra il leader della Dc, Alcide De Gasperi, che nella ricostruzione ironica di Pennacchi, per avere gli aiuti del Piano Marshall, è costretto in dialetto veneto dal presidente americano Truman a buttar fuori dal governo le sinistre (“Tuti i schei che ti vol! Basta ch’at mandi via i comunisti”). Non manca un “cammeo” del segretario del Pci, Palmiro Togliatti, che quando il 14 luglio 1948 subisce un attentato che rischia di provocare una nuova guerra civile, prima di varcare in barella le soglie della camera operatoria, dove il grande chirurgo Pietro Valdoni lo avrebbe salvato, a Nilde Iotti accucciata premurosa su di lui, ripete: “Am racomando, Nilde, dighe de star calmi e de non far i mati, dighe da non far gninte”.
Un romanzo storico corale, dallo stile colorito e piacevole, con dialoghi vivaci, in cui il “fasciocomunista” Pennacchi ci restituisce senza un briciolo di retorica e a tratti con feroce sarcasmo il clima infuocato dell’epoca, ricco di difficoltà e di contraddizioni, che attraversavano entrambi gli schieramenti. Raccontandoci però anche la determinazione, la speranza e la voglia di ripartire dell’Italia che usciva dal buio ventennio fascista.

(pubblicato in versione più sintetica su Il Messaggero, 4 dicembre 2015)

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Il partigiano e i misteri del Duce

di Mario Avagliano

  Chi uccise Benito Mussolini e la sua amante Claretta Petacci il 28 aprile del 1945? E quali misteri nasconde la tragica fine del dittatore fascista, il cui corpo venne poi appeso a testa in giù a Piazzale Loreto a Milano, proprio nel luogo dove nell'agosto del '44 erano state esposte in pubblico per sfregio le salme di quindici partigiani? Gli storici non sanno ancora dare una risposta definitiva a questi quesiti. E ieri è morto a 94 anni, nella sua casa a Brescia, uno degli ultimi testimoni di quegli avvenimenti, l'ex partigiano Bruno Giovanni Lonati, nome di battaglia «Giacomo», commissario politico della 101a Brigata Garibaldi.
Nel 1994 Lonati pubblicò il libro "Quel 28 aprile. Mussolini e Claretta: la verità" (Mursia), in cui si assunse la responsabilità di essere stato l'autore materiale dell'uccisione del dittatore fascista, tre giorni dopo la liberazione di Milano. Un'esecuzione che sarebbe avvenuta poco dopo le ore 11, in una stradina a Bonzanigo di Mezzegra, sul lago di Como, nell'ambito di una missione segreta diretta da un agente segreto inglese, figlio di emigrati italiani in Gran Bretagna, detto «il capitano John», ufficiale dello Special Operations Executive (Soe).
Una testimonianza clamorosa, che smentiva la versione ufficiale circolata per cinquant'anni, in base alla quale ad uccidere Mussolini con una scarica di mitra Sten era stato il partigiano comunista Walter Audisio, il famoso Colonnello Valerio, coadiuvato dai compagni Michele Moretti e Aldo Lampredi, davanti al cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra; azione poi rivendicata dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia con un comunicato emesso il giorno dopo.
Secondo la versione di Lonati, poi definita dagli storici "la pista inglese", lo scopo della missione sarebbe stato il recupero del presunto carteggio tra Winston Churchill e Mussolini, al fine di cancellare le tracce di quel rapporto imbarazzante, attraverso la soppressione di due scomodi testimoni, lo stesso duce e la Petacci, prima che finissero nelle mani degli americani, che avrebbero voluto sottoporre il capo del fascismo ad un processo.
Il memoriale di Lonati afferma che il "carteggio Churchill-Mussolini" non fu trovato e che tuttavia i servizi segreti inglesi avrebbero concordato il silenzio di Lonati e dei due partigiani superstiti per altri cinquant'anni. Per tale motivo il suo libro sarebbe uscito solo allora.
Una ricostruzione dei fatti confermata nel 2002, con nuovi dettagli, dal giornalista Luciano Garibaldi nel saggio "La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci" (Ares), oltre che dall'ex agente segreto americano Peter Tompkins, secondo cui addirittura il futuro segretario del Pci Luigi Longo avrebbe organizzato la finta fucilazione del duce per nascondere la verità. Lo stesso Renzo De Felice, nel libro "Rosso e Nero" (Baldini e Castoldi, 1995), ritenne credibile un intervento inglese per eliminare Mussolini ed evitare una sorta di processo di Norimberga nei confronti del duce.
Il racconto di Lonati, però, era privo di riscontri documentali e presentava diversi punti oscuri, contrastanti con i risultati di altre ricerche storiche. L'orario dell'esecuzione fu davvero le 11 di mattina o le quattro e dieci di pomeriggio come riferisce la versione ufficiale? Come mai il carteggio tra Churchill e Mussolini non è mai venuto fuori? Perché l'altro componente del commando di Lonati, all'epoca ancora vivente, si rifiutò di confermare la sua versione? Va detto che fra l'altro il numero di colpi sparati dichiarato dall'ex partigiano "Giacomo" non corrisponde con i rilievi compiuti sul corpo di Mussolini e che Lonati si sottopose anche all'esame della macchina della verità, con esito negativo.
Di recente lo storico Mimmo Franzinelli ha smontato pezzo per pezzo, con uno studio documentato, la tesi dell'esistenza di un carteggio segreto tra il duce e lo statista britannico ("L'arma segreta del Duce. La vera storia del carteggio Churchill-Mussolini", Rizzoli, 2015). La "pista inglese" si è quindi di fatto indebolita. Resta da capire il motivo che avrebbe spinto un personaggio di rilievo come Lonati a sostenere tale tesi e ad alimentare quella che sembra una grande "bufala" storica.
E infatti l'ex partigiano "Giacomo", nato a Legnano il 3 giugno 1921, non fu un esponente di secondo piano della Resistenza. Fu commissario politico della 101a Brigata Garibaldi e comandante di una divisione partigiana formata da tre brigate operanti nel capoluogo lombardo. Nel dopoguerra Lonati riprese il lavoro alla Franco Tosi e trasferitosi poi a Torino nel 1958, ricopri incarichi di dirigente alla Fiat e negli anni ottanta guidò a Bari un'importante società metalmeccanica. Dopo la pensione si stabilì a Brescia, dove ha trascorso gli ultimi anni della sua vita, prima di portare i suoi segreti nella tomba.

(Il Messaggero, 17 novembre 2015)

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Storie – Il 17 novembre, le leggi razziste e i baroni di razza

di Mario Avagliano 

  Il 17 novembre del 2013 ricorre il 75° anniversario dell’emanazione del regio decreto legge sulle leggi razziali (meglio sarebbe dire leggi razziste). Un appuntamento importante per riflettere e approfondire, anche dal punto di vista storiografico, la prima fase della persecuzione degli ebrei in Italia, quella che Michele Sarfatti ha definito la persecuzione dei diritti, un po’ messa in ombra dalla tragicità della fase successiva della Shoah.
Io credo che il 27 gennaio costituisca una data-simbolo insostituibile del calendario internazionale della Memoria. Non vi è dubbio però che quella giornata riguardi in particolare le immani responsabilità della Germania nella vicenda delle deportazioni, non solo di tipo razzista, ma anche politico e militare. E per evidenti motivi, a partire dall’altissimo numero delle vittime, nelle scuole, sui giornali, nei convegni si parla quasi esclusivamente dell’esperienza dei lager.

Il dramma universale di Auschwitz, in qualche modo, oscura il 1938. E a noi italiani, bisogna ammetterlo, in fondo questa lettura storica non dispiace, perché ci consente di autoassolverci e, come diceva Vittorio Foa, di scaricare sui tedeschi il peso storico che portiamo sulle nostre coscienze e di soffermarci sui Giusti e sugli episodi, che pure ci sono stati, di salvataggio degli ebrei.
D’altra parte l’incredibile fretta con cui, dopo la liberazione, in un clima imbevuto di logiche di amnistia collettiva, ci si precipitò ad archiviare quanto accaduto tra il 1938 e il 1943, ha impedito una vera presa di coscienza del passato e ha coperto, omettendoli, i nomi e i cognomi dei responsabili. Che non furono solo Benito Mussolini e i gerarchi fascisti.
Un bel libro appena uscito, Baroni di razza di Barbara Raggi (Editori Riuniti, 216 pagine), spiega, come recita il sottotitolo, «come l’Università del dopoguerra ha riabilitato gli esecutori delle leggi razziali». Per sei anni intellettuali, docenti universitari, magistrati, avvocati e funzionari di basso e di alto livello prestarono la propria opera al servizio della propaganda antisemita e della persecuzione. Rimasero tutti (o quasi) al loro posto. L’epurazione annunciata dal nuovo Stato democratico non ci fu e l’apparato burocratico, culturale, amministrativo del fascismo “subentrò” a se stesso, in una sostanziale continuità.
I baroni del potere culturale, scientifico, professionale e universitario, che avevano fatto il bello e il cattivo tempo durante il Ventennio mussoliniano, scansarono senza colpo ferire le dure sentenze della Storia. E a questo gioco, rivela lo studio di Barbara Raggi, si prestarono anche figure luminose dell’antifascismo, come Guido Calogero, che ad esempio scrisse una lettera già nel 1944 per difendere Antonio Pagliaro, insigne linguista e glottologo, che aveva fatto parte del Consiglio superiore della demografia e della razza e aveva “lavorato” per dare un’inclinazione storica e culturale al razzismo fascista. Grazie a Calogero anche Pagliaro venne degnamente riabilitato nel 1946 e concluse serenamente la sua carriera col rango di professore emerito.
I francesi, com’è noto, hanno  istituito una giornata nazionale del ricordo il 16 luglio, data in cui nel 1942 fu attuato il cosiddetto Rastrellamento del Velodromo d'inverno e le milizie francesi arrestarono 13.152 ebrei, gran parte dei quali furono deportati e morirono ad Auschwitz. A titolo personale, avanzo una proposta. Perché non fare lo stesso anche in Italia, magari in coincidenza dell’anniversario del 2013, istituendo un giorno della memoria delle responsabilità nazionali proprio il 17 novembre, data di emanazione delle leggi razziali del 1938?

(L'Unione Informa, 13 novembre 2012)

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Avanti! con la storia

di Mario Avagliano

   «La lotta di classe è vietata dal codice penale. Io ho, per guida, una linea che dal codice penale mi è indicata e che a nessuno potrà esser lecito di sorpassare. Io sarò là, innanzi a questa linea, come una sentinella vigile, la quale griderà tutti i giorni: "di qui non si passa!"». Così tuonò nel luglio del 1896, nell’aula della Camera dei Deputati, il presidente del Consiglio del tempo, il marchese di Rudinì, storico esponente dei conservatori.

Il riferimento era ai socialisti, che l’anno prima avevano debuttato in Parlamento, con l’elezione di 15 deputati. Circa cinque mesi dopo, il giorno di Natale del 1896, veniva stampato in via del Lavatore 88 a Roma il numero uno dell’«Avanti!», il quotidiano del partito socialista, la cui testata con l’A svolazzante e il punto esclamativo, riprendeva nel nome l'omologo giornale della socialdemocrazia tedesca, Vorwärts. Lo avevano voluto Filippo Turati e Anna Kuliscioff, e la direzione era stata affidata a Leonida Bissolati. Il primo editoriale suonava beffardo per di Rudinì: «Di qui si passa».
È uno dei tanti aneddoti legati alla storia dell’«Avanti!», ricostruita in occasione del 120° anniversario del partito  socialista, nei dettagli più minuziosi e con sapienza narrativa, da uno dei suoi direttori, Ugo Intini, in un gustoso quanto mastodontico saggio, intitolato Avanti! Un giornale un’epoca (Ponte Sisto, pp. 700, euro 30), arricchito da fotografie, ricordi e testimonianze.
«Raccontare la storia dell’Avanti! significa raccontare quella del socialismo e dell’Italia stessa», scrive lo stesso Intini. E in effetti, almeno fino al 1993, il quotidiano socialista e i suoi direttori hanno lasciato una impronta decisiva. Fascismo e comunismo nacquero da due costole del giornale. Mussolini abbandonò la direzione dell’Avanti! nel 1914 per imboccare la strada dell’interventismo nella Grande Guerra. Il suo successore Giacinto Menotti Serrati chiuderà l’edizione torinese del giornale, guidata da Antonio Gramsci, perché giudicata troppo estremista e filosovietica. Dirigeranno poi il quotidiano anche protagonisti della storia della Repubblica, da Nenni a Saragat, fino a Lombardi, Pertini e Craxi.
Nel suo secolo scarso di esistenza, L’Avanti! ha avuto collaboratori di primo ordine nel campo della letteratura, del cinema, del teatro e dell’arte, da Edmondo De Amicis a Ignazio Silone, passando per Luigi Comencini, Antonio Ghirelli (che per due anni diresse anche la testata), Mario Soldati, Franco Fortini, Walter Pedullà, Paolo Grassi, Carlo Fontana, Gaetano Salvemini, Norberto Bobbio, Arturo Labriola, Margherita Sarfatti, Carlo Rambaldi e Achille Bonito Oliva.
La vita dell’Avanti! è stata straordinariamente avventurosa: arresti, incendi, duelli, sparatorie con morti e feriti. Uno dei periodi più difficili si ebbe nell’aprile del 1919, quando alcune squadracce fasciste incendiarono la sede del quotidiano, e poi nel 1926,  anno in cui il regime fascista andato al potere ne vietò la pubblicazione. L’Avanti! continuò la sua diffusione in esilio, a Parigi e a Zurigo.
La storia del quotidiano socialista vide anche momenti esaltanti, come la vittoria nel referendum sulla Repubblica e in quello sul divorzio, festeggiato da Loris Fortuna, protagonista della riforma, nella sede della redazione, motore del comitato a favore.
Nell’ultima parte del saggio Intini smette i panni dello storico e ridiventa politico, affrontando di petto la questione Craxi, anche lui direttore del giornale ed autore di incisivi editoriali, firmati con lo pseudonimo di “Ghino di Tacco”. In queste pagine la lettura dei fatti è più dichiaratamente di parte e la difesa di Craxi intrisa di nostalgia. Con il pregio della coerenza di un personaggio come Intini che non ha mai rinnegato il suo passato.

(Pubblicato in versione leggermente più ridotta su Il Mattino, 18 novembre 2012)

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Storie – Facebook e I Giovani Fascisti Italiani

di Mario Avagliano

«Gruppo per soli FASCISTI, chi non condivide gli ideali del Fascismo non è benvenuto. Per la rinascita dell'Italia! FASCISMO VUOL DIRE: ORDINE, RIGORE, POTENZA, UNIONE, LEGALITA', GIUSTIZIA, AZIONE, RINNOVAMENTO, PATRIA, LIBERTA', AMORE, FAMIGLIA, LAVORO». Non è uno scherzo. È la scheda di presentazione di un gruppo “regolarmente” costituito sul social network Facebook, denominato I Giovani Fascisti Italiani.

Un gruppo che ha già raccolto oltre 34 mila «mi piace». E che vomita slogan tipo questo: «Meglio avere un dittatore che mi dia da mangiare che una democrazia che mi fa morir di fame… Meglio avere un dittatore che pensi all’Italia, che una democrazia che la distrugge. Meglio avere un dittatore che ama il popolo italiano, che una democrazia che ama le banche, i massoni e gli extracomunitari e non».
E non è la sola pagina di questo tenore esistente su Facebook. In rete con I Giovani Fascisti Italiani ci sono gruppi o pagine come Cuore nero anima tricolore, con lo slogan «Il Duce ha sempre ragione», Benito Mussolini eterna passione, Italia fascista, Fasci littori di combattimento (che “simpaticamente” definisce Roberto Saviano «filoisraeliano» e «ebreo di merda»), Fuori tutti gli immigrati dall’Italia, Benito Mussolini duce d’Italia (che apostrofa il presidente della Repubblica Napolitano con «un bavoso pezzo di merda»), Repubblica Fascista d’Italia, Dio Patria e Famiglia (dove, in riferimento a quanto avviene in queste ore in Israele e a Gaza, si leggono commenti del tipo «MALEDETTO ISRAELE!!!!!! portano solo guai, sti giudei!!») e via dicendo.
L’elenco è lunghissimo e comprende anche CasaPound Italia e Blocco Studentesco, che ormai raccoglie migliaia di studenti in moltissime città italiane e il 24 novembre ha indetto una manifestazione nazionale a Roma contro il governo, organizzata con CasaPound Italia.
Sono tutti gruppi o pagine con decine e decine di migliaia di iscritti o di «mi piace», dotati anche di giornali on line e di web-radio (come radiobandieranera.org). Una galassia nera da far spavento. E che, giorno dopo giorno, cresce nelle scuole, sulla rete, nella società.

(L'Unione Informa, 20 novembre 2012)

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Forte Bravetta. La fabbrica di morte

di Mario Avagliano

  Dopo la presa di Porta Pia, il giovane Regno d’Italia si preoccupò di allestire una linea di difesa militare dal Tirreno all’Adriatico. Il progetto definitivo approvato dal Parlamento nel 1878 prevedeva che Forte Bravetta, sulla via Aurelia, fosse una delle quindici fortezze di tipo prussiano poste a difesa di Roma capitale. All’epoca nulla lasciava prevedere che quella lugubre e massiccia costruzione, con il portone di ferro e un terrapieno alto 15 metri, sarebbe diventata un monumento a cielo aperto della Resistenza romana e dell’opposizione al fascismo e al nazismo, al pari di Regina Coeli, via Tasso e le Fosse Ardeatine.

La storia di questo triste edificio, che ospitò le fucilazioni eseguite a Roma dal 1932 al 1945, è stata ricostruita da Augusto Pompeo nel saggio Forte Bravetta. Una fabbrica di morte dal fascismo al primo dopoguerra (Odradek, pp. 300, euro 23).
Nel 1926 il regime fascista, allo scopo di ridurre al silenzio ogni forma di opposizione, istituì il Tribunale speciale per la difesa dello Stato e reintrodusse la pena capitale, abolita quasi quarant’anni prima dal codice Zanardelli. Fino all'8 settembre 1943 il «Tribunale di Mussolini» colpì, in prevalenza, presunti attentatori al capo del governo, agenti al servizio di potenze straniere, «slavofili», partigiani appartenenti a formazioni jugoslave operanti in Venezia Giulia e anche alcuni rapinatori e «borsari neri».
I condannati erano rinchiusi nel carcere di Regina Coeli dove, come scrive Giuseppe Kiraz alla cugina, «di notte si dorme poco» e si stava in compagnia di «centinaia, migliaia di cimici, piccole, grosse, bianche e rosce di tutte le varietà». Di lì venivano condotti al forte e fucilati alla schiena come traditori, come voleva il codice penale fascista. Le prime condanne ad essere eseguite riguardarono due antifascisti fuoriusciti all’estero, l’industriale Domenico Bovone e l’anarchico Angelo Pellegrino Sbardellotto, rientrati in Italia per uccidere Mussolini e liberare il Paese dalla dittatura.
Dopo l’armistizio le sentenze di morte furono emanate dalle autorità tedesche di occupazione e riguardarono, in prevalenza, oppositori e combattenti della Resistenza romana, arrestati spesso da militi della Repubblica sociale e su delazione di italiani. Le ultime fucilazioni, invece, furono eseguite dopo la liberazione di Roma e decretate da tribunali italiani e alleati costituiti per punire chi aveva collaborato con i tedeschi e i fascisti repubblicani.
Augusto Pompeo, utilizzando documenti d'archivio, resoconti della polizia, relazioni dei questori, lettere dei condannati a morte e dei loro congiunti e testimonianze di persone che vissero quegli eventi, ha recuperato le biografie dei caduti e ripercorso le vicende di quel periodo.
Le scariche di fucileria colpirono uomini assai diversi fra di loro. Alcuni provenivano dalla Venezia Giulia o dall’allora regno di Jugoslavia. Altri, pur nati in Italia, avevano trascorso parte della loro vita lontano dalla penisola per sfuggire alle persecuzioni politiche. Altri si trovarono, spesso non più giovani, a fare la «scelta di campo» nella «Città aperta» di Roma dopo essersi opposti alla dittatura fascista. Altri ancora furono fucilati per aver commesso delitti comuni o per aver collaborato con fascisti e nazisti.
Strazianti sono le ultime lettere dei partigiani condannati. «Amate la libertà e ricordate che questo bene deve essere pagato con continui sacrifici e qualche volta con la vita», è il messaggio del comunista Pietro Benedetti. «Me ne vado cosciente di avere sempre fatto il mio dovere di uomo», mandò a dire Antonio Lalli al figlio Luigi. «Come sai non ho fatto nulla che possa disonorarti, perciò puoi sempre andare a fronte alta», scrisse nella sua ultima lettera alla moglie Salvatore Petronari.
Una delle figure più luminose dei resistenti fucilati a Forte Bravetta è quella di don Giuseppe Morosini, collaboratore del Fronte militare clandestino di Giuseppe Montezemolo ed ispiratore (assieme a don Pietro Pappagallo) della figura del sacerdote del film Roma città aperta di Roberto Rossellini. Don Morosini si prodigava per aiutare oppositori e ricercati a nascondersi e celebrava messa per i partigiani nelle caverne e nei nascondigli di Monte Mario.
L’auspicio è che ora, anche grazie a questo libro, il sito di Forte Bravetta, abbandonato a se stesso, venga recuperato all’uso pubblico e divenga davvero, come propone Augusto Pompeo, “il luogo della memoria, oltre che dell’antifascismo e della Resistenza, anche dell’abolizione di un istituto arcaico e barbaro come la pena di morte da parte della neonata Repubblica italiana”.

(Il Messaggero, 4 dicembre 2012)

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Mussolini-Churchill, carteggio fantasma

di Mario Avagliano

Davvero il primo ministro inglese Winston Churchill brigò col duce Benito Mussolini per far entrare in guerra i soldati italiani al fianco dei tedeschi e poi condizionare Adolf Hitler nelle trattative di pace? Se ne parla dall’immediato dopoguerra, favoleggiando di fantomatici viaggi di Churchill in Italia e di manovre oscure del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e dei servizi segreti italiani e stranieri per distruggere le prove di questo complotto. Ma il carteggio tra i due uomini politici, divenuto il prototipo dei misteri d’Italia, sarebbe solo una “leggenda nera”, creata ad arte per rivalutare la figura di Mussolini. È la conclusione a cui giunge, sulla base di un’approfondita ricerca storica e un robusto apparato di documentazione, il saggio di Mimmo Franzinelli L’arma segreta del Duce (Rizzoli, pagine 439, euro 23).

Franzinelli non è nuovo in lavori di demolizione di tesi storiche campate in aria o di documenti falsi, come i presunti diari di Mussolini (vedi Autopsia di un falso. I Diari di Mussolini e la manipolazione della storia, Bollati Boringhieri 2011). Questa volta a farne le spese sono le misteriose lettere tra il duce, Churchill e altri famosi personaggi (tra cui re Vittorio Emanuele III, Badoglio, De Gasperi, Grandi, Sforza, e a ecclesiastici del calibro di don Luigi Sturzo e monsignor Giovanni Battista Montini, il futuro papa Paolo VI) che riguarderebbero l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 e l’accordo segreto secondo cui, in caso di sconfitta della Gran Bretagna, Mussolini avrebbe mitigato le pretese di Hitler al tavolo della pace in cambio di concessioni territoriali.
La caccia alla borsa di documenti di Mussolini si aprì già nell’aprile 1945. “Per l’Italia valgono più di una guerra vinta” aveva confidato il Duce al gerarca Alessandro Pavolini. I clamorosi documenti (custoditi da personaggi di dubbia reputazione), apparvero sulla stampa negli anni Cinquanta e divennero oggetto di negoziazioni, ricatti, speculazioni tra Italia e Svizzera, Germania e Regno Unito, alimentando numerosi servizi giornalistici e monografie. Ci cascò perfino il massimo esperto del fascismo Renzo De Felice, seguito peraltro da altri illustri storici.
Franzinelli, nel suo saggio, osserva che tutti i personaggi coinvolti nell’intrigo internazionale  “vengono presentati con una connotazione negativa, come egoisti e doppiogiochisti. Gli unici documenti che sprizzano idealismo e amor patrio sono quelli a firma di Mussolini”. Quanto a Churchill, dopo aver concordato col Duce l’ingresso italiano in guerra, avrebbe violato le intese riservate.
Esaminando un’ingente mole di fonti diplomatiche, epistolari, testi di memorialistica e storiografia, Franzinelli boccia l’attendibilità di tale tesi. E spiega che nella primavera del 1940, Churchill, in qualità di Primo Lord dell’Ammiragliato ovvero ministro della Marina militare, dirigeva la guerra in Norvegia e aveva ben altre urgenze piuttosto che trattare col Duce. Sino alla sua investitura a premier, il 10 maggio 1940, non poteva offrire alcunché a Mussolini, né tantomeno rivolgerglisi in qualità di portavoce del Regno Unito.
Questo non significa che i due uomini politici ebbero fino a un certo momento storico buoni rapporti, in quanto Churchill apprezzava il Mussolini «antibolscevico» e nella seconda metà degli anni Trenta ambiva a scongiurare il rinsaldarsi dell’alleanza italo-germanica. Nel mese intercorso tra l’ingresso a Downing Street e la dichiarazione di guerra italiana, il 10 giugno 1940, Churchill scrisse effettivamente una lettera al duce, augurandosi che l’Italia rimanesse fuori dal conflitto, ma Mussolini con la sua risposta sprezzante pose fine ad ogni speranza sul protrarsi della non belligeranza dell’Italia.
La campagna di disinformazione sul carteggio iniziò già sotto Salò e continuò nel dopoguerra con quattro obiettivi indicati da Franzinelli: in primo luogo, strappare a grandi editori italiani e stranieri cospicui diritti di pubblicazione; poi, negoziare col governo la consegna di materiale apocrifo, per trarne vantaggi politici e per legittimare il Carteggio; non ultimo, modificare il senso comune su Mussolini e sui suoi oppositori, sollevando il Duce dalla responsabilità di una guerra disastrosa e addossando la disfatta agli antifascisti; e infine riprendere le ostilità contro la «perfida Albione» e denigrare Churchill, colpevole di aver vinto l’Italia fascista.

(Il Messaggero, 17 agosto 2015)

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