Le barzellette su Mussolini raccontano il dissenso nascosto

di Mario Avagliano e Marco Palmieri

 

La campagna elettorale per le elezioni politiche che si è appena conclusa ha avuto un nuovo protagonista indiscusso: i meme. Il sarcasmo, infatti, al giorno d’oggi viaggia veloce e senza confini sui social network. E per questo i meme sono diventati una cosa seria, poiché hanno assunto un peso specifico assai rilevante nella ridefinizione della geografia politica del consenso: non c’è candidato, leader o esponente istituzionale che possa sfuggire all’ironia puntuta, irriverente, dissacrante e soprattutto contagiosa delle immagini divertenti che gli utenti della rete producono, anche in modo spontaneo, e che si diffondono con una viralità mai vista prima.

Se lo strumento (la rete e i social) e le potenzialità di circolazione e diffusione sono senza precedenti, ciò che invece non è affatto nuovo è il ruolo della satira e dello sbeffeggiamento che, in presenza di situazioni in cui la libertà d’espressione è limitata o non ammessa del tutto, assumono anche la valenza di potente mezzo di opposizione, di resistenza, di dissenso. Tant’è vero che sono oggetto di feroce di repressione.

In Italia, ad esempio, ci fu una vivace fioritura di meme ante litteram durante il ventennio fascista. Un’ironia sotterranea, che circolava segretamente, strappando un sorriso e aprendo in questo modo qualche crepa nella cappa oppressiva che il regime fece scendere sul paese mettendo fuori legge e punendo severamente qualsiasi forma d’opposizione, ma anche di semplice dissenso non organizzato e non politico, bensì spontaneo.

A una ricostruzione dettagliata di questo fenomeno è dedicato un intero gustoso capitolo del nostro ultimo libro “Il dissenso al fascismo. Gli italiani che si ribellarono a Mussolini 1925-1943”, appena pubblicato da Il Mulino, che - come ha affermato la storica Simona Colarizi - ricostruisce finalmente in modo completo la storia degli oppositori a quel regime, raccontando sia le vicende dei militanti politici noti, come Gramsci, Pertini e Sturzo, sia di quelli sconosciuti: operai, casalinghe, contadini, impiegati protagonisti di scioperi, proteste, scritte murali, atti di critica al fascismo ma anche di barzellette, epigrammi, storielle sarcastiche, motti di spirito, storpiatura degli slogan e parodia delle canzoni fasciste e della retorica ufficiale.

Così, ad esempio, vi si legge la storiella di Mussolini che va in visita a un manicomio e passa in rassegna i malati che applaudono convinti tranne l’ultimo della fila, il quale quando gli viene chiesto perché non batte le mani risponde di essere infermiere e non matto. E ancora: «sulla tomba della madre del Duce hanno messo quattro soldati di guardia. Lo sai perché? Per evitare che risorga e faccia un altro Duce»; «Hai la foto del Duce in tasca? No. Ma allora dove sputi».

La memoria collettiva del fascismo, in effetti, nel dopoguerra prende una strana piega, sedimentando il ricordo di un regime risibile, di rituali e liturgie grottesche e pratiche ridicole, che contribuisce a oscurare il ricordo della pratiche repressive feroci, della brutale privazione della libertà e del soffocamento di ogni forma di dissenso e opposizione. A ben guardare un fondamento di questa incredibile evoluzione si può cercare proprio in questa fioritura di battute e di sarcasmo. Sotto la dittatura, però, il ruolo dell’ironia fu importante, poiché nel quadro della pressoché totale impossibilità di manifestare il dissenso, queste freddure andarono a scalfire la pretesa sacralità del fascismo e del duce, il suo mito e quindi la pretesa dedizione assoluta alla causa e al pensiero unico. Un flusso che la polizia politica, come dimostrano le carte relative alle indagini per ricercare chi le crea o semplicemente le racconta, faticò a contenere e a interrompere.

Fermo restando il fenomeno della diffusione di una comicità e di una ironia fine a sé stessa, mettere in circolo barzellette, storielle e battute e lasciarsi andare a una risata di fronte ad esse rappresentarono uno sfogo e una reazione all’oppressione del regime, alle difficoltà della vita quotidiana e alla povertà della vita intellettuale al di fuori dai canoni consentiti. Tant’è vero che nel 1938 Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione nazionale, annotò nel suo diario che circolavano «barzellette a josa. Fioriscono ai margini della disciplina cieca e muta».

A grandi linee, nel fenomeno si può anche rintracciare una tendenza generale: barzellette, battute e parodie su Mussolini, i gerarchi e il fascismo, tra i ceti popolari, avevano più spesso il retrogusto di una critica sincera e sentita, portata avanti nonostante i rischi di denuncia. Tra i ceti medio-alti, invece, rispondevano più di frequente al mero spirito di divertissement, che non intaccava la sostanziale adesione al fascismo e al mito del duce.

La polizia politica mise sotto torchio coloro i quali venivano sorpresi a raccontare storielle ironiche contro il duce e il regime, nel difficilissimo intento di risalire a chi le aveva create. Così il prefetto di Sassari nel 1932 denunciò un tale che in pubblico chiese: «Sapete quale è la differenza tra il Popolo d’Italia e Mussolini? La differenza è che Mussolini ha i pieni poteri, ed il popolo d’Italia ne ha i coglioni pieni». Quello di Forlì invece nel 1934 diffidò un uomo che in un albergo di Riccione andava raccontando che «Hitler ha i baffi rossi perché Mussolini ha le emorroidi». L’anno seguente una barberia romana attirò l’attenzione delle autorità per essere una sorta di covo di satira antifascista: «Il Duce chiamò a sé un Accademico d’Italia per chiedergli di sostituire nel vocabolario italiano la parola culo. Dopo alcuni giorni l’Accademico tornò a Lui per riferirgli che aveva trovato la nuova parola. Il nuovo vocabolo sarebbe stato comprensione. Il Duce si meravigliò e disse: che c’entra questa parola? L’Accademico rispose: come? Ce lo ha insegnato Lei stesso quando in un discorso disse che il Fascismo era entrato nella comprensione del Popolo Italiano».

Un filone molto gettonato era quello di prendere di mira corruzioni e ruberie che abbondavano tra le gerarchie del regime. Ne è un esempio la barzelletta allusiva riferita da un rapporto del prefetto di Milano a fine 1934, raccontata sempre da un barbiere, ma all’uomo sbagliato, un fiduciario fascista che prontamente sporse denuncia: «Mussolini si recò un giorno da un dentista per farsi estirpare un dente che gli faceva male. Dopo l’operazione chiese quanto doveva ed il dentista pretese la somma di lire mille. Mussolini protestò per il caro prezzo, ma, poi, finì col pagare; però, nel consegnare il denaro, disse: “Queste sono le mille lire, ma guardi che sono rubate”. Il dentista rispose: “Non ne dubito”». «Una volta – recitava un’altra storiella sarcastica – un operaio comprò della frutta, ma essendosi accorto che era stata avvolta in un giornale dove vi era l’effige del Duce, disse di cambiare la carta altrimenti si mangiava anche la frutta».

Anche le sigle, tanto diffuse sotto il regime, erano terra fertile per far proliferare l’ironia: Pnf diventò «Per Necessità Familiare» o anche «Pane Nostro Fatigato» e per i fascisti doc «Per Niente Fare» oppure «Preparazione Nostri Furti», mentre Mvsn venne tradotta in Mai Visto Sudare Nessuno, Gil in Gioventù Incretinita del littorio». E a Roma c’è chi inventa una nuova interpretazione dell’S.P.Q.R. letto per diritto e per rovescio, riferita ai gerarchi fascisti: «-Signori Podestà, Quanto Rubate? E quelli rispondevano con fascistica imperiosità: – Rubiamo Quanto Possiamo. Silenzio!».

Tuttavia, a conferma che barzellette e storielle dietro l’ironia celavano solide verità, si metteva alla berlina anche la mancanza di coraggio del popolo italiano: «In casa: – Accidenti a quel ladro di Mussolini! Morte a tutti quei filibustieri fascisti! Fuori di casa: – Viva il duce! Viva il fascismo». O la sua intelligenza, come nel seguente epigramma: «Povero popolo, / quanto sei bravo! / Farti suo schiavo / può un fanfarone / che da un balcone / ti sa incantare; / se fa il giullare / con le parate, / le smargiassate, / tu corri appresso... / Povero popolo, / quanto sei fesso!»

(Il Domani, 5 novembre 2022)

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Prefazione alla raccolta di Tommaso Avagliano, "Torna domani, inverno" (Marlin editore, 2022)

Mario Avagliano

Dal terrazzo fiorito della casa di mio padre Tommaso Avagliano, che sorge a Sant’Arcangelo, una frazione di Cava de’ Tirreni incastonata sotto la mole imponente di Monte Finestra, si intravede un lembo di mare della Costiera Amalfitana, che lui amava con ardore. Era la casa di famiglia del padre Mario (di cui porto il nome) e sovrastava la stalla e la bottega citate nei versi di alcune poesie di questa raccolta.

Il comodino accanto al letto di mio padre è ancora ingombro di libri e di fogli. Fino al 21 settembre, giorno della sua morte, c’era anche un volume de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, «odoroso d’inchiostro e di vita», ancora con la copertina nera del V ginnasio, consumata dalla lettura, che lui stesso ha chiesto a mia madre Lia di portare con sé nel suo ultimo viaggio (vedi i versi della poesia Testamento).

Accatastati l’uno sull’altro, trovo La luna e i falò di Cesare Pavese, le poesie di Catullo e diversi quaderni dei tempi in cui insegnava nelle scuole statali, dove scopro con commozione che nel corso degli anni ha pazientemente appuntato a mano liriche di vari poeti, dai classici greci e latini a Ungaretti e D’Annunzio, da Sinisgalli a Puskin, da Emily Dickinson a Rilke, da Salvatore Di Giacomo a Trilussa. Liriche che spesso recitava a memoria.

La poesia batteva nel suo cuore fin dai banchi del ginnasio. Ci raccontava che da ragazzo, non appena racimolava qualche soldo, invece di spenderlo in «cose futili», dalle sigarette alle bibite e ai gelati, come facevano tanti suoi amici, acquistava romanzi e libri di poesia che divorava in notti arse di passione per la letteratura. Era quello il suo «divertimento».

Non che disdegnasse la vita. Aveva una moto Bianchi con la quale faceva allegre scorribande in Costiera, si atteggiava un po’ a James Dean de noantri (era il suo mito), con i capelli tirati indietro e imbrillantinati, adorava Marilyn Monroe, l’abatino Gianni Rivera e i fumetti di Tex Willer, e più tardi i film in bianco e nero dell’America degli anni Quaranta e Cinquanta e quelli del neorealismo e di Totò, Peppino e Aldo Fabrizi (Miseria e nobiltà su tutti), le canzoni napoletane di Salvatore Di Giacomo (Era di maggio la sua preferita, che ha voluto alla cerimonia funebre) e lo sport, in particolare Valentino Rossi, il ciclismo (tifava per Moser e poi per Pantani) e la Ferrari. Ma ciò che più gli faceva perdere la testa erano i versi di un poeta, un romanzo, un dipinto, un’anticaglia.

La sua casa è affollata di queste sue passioni. Ogni centimetro di muro e ogni tavolino, sgabello, comò, scaffale, mensola, vetrina sono occupati da libri, immagini dei familiari o dei poeti o scrittori amati, sculture, oggetti di antiquariato o di ceramica vietrese d’antan, acquerelli, incisioni, dipinti ad olio e ritagli di giornale, in particolare del “Corriere della sera”, che acquistava e leggeva fin da ragazzo. Ogni centimetro della sua casa trasuda di Tommaso Avagliano.

Nel corso della sua vita, oltre ad insegnare (e lo faceva con severità ma soprattutto con grande generosità verso i suoi alunni), ha coltivato il suo amore per le arti. È stato gallerista, giornalista, uomo di cultura, fondatore della prima sezione di Italia Nostra della sua città, fondatore e direttore della casa editrice omonima e poi con mio fratello Sante della casa editrice Marlin, ha scritto o curato una ventina di libri, collaborato a numerosi quotidiani e periodici nazionali e locali.

Ma al di là di questo, mio padre si considerava prima di tutto un poeta. «Ho scritto la mia prima poesia a quattordici o quindici anni» per il giornale della scuola “Caleidoscopio”, ha annotato su un foglio tra le sue carte, risalente al 2014. «Si può immaginare la mia delusione quando mi fu riferito che il comitato di redazione l’aveva cestinata, giudicandola troppo ben fatta per essere farina del mio sacco».

Nelle cartelle conservate nel suo studio le prime poesie sono del 1958, quando aveva appena 18 anni, e ha continuato a scrivere liriche per tutta la sua vita. Non a caso nel testo del manifesto di lutto, che lui stesso ha lasciato ai familiari, la parola «poeta» figura al primo posto, prima di «scrittore» ed «editore». E tra i fogli sparsi sul suo comodino, abbiamo trovato un’ultima versione in dialetto napoletano de L’Infinito di Giacomo Leopardi, datata 6 settembre 2021, tre giorni prima del suo ricovero in ospedale.

Nel suo lascito testamentario ha voluto come epigrafe i versi di un poeta greco anonimo («Piangimi di un pianto breve, nato dal segreto del cuore. Dimmi una tua parola tenera. Di me ricorda, quando con me più non sarà la vita») e ha chiesto alla famiglia di pubblicare la raccolta completa delle sue poesie in lingua italiana, a cui da tempo stava lavorando, ma non in modo organico.

Non è stato un compito facile selezionarle e organizzarle, sia perché alcune sono incomplete, sia perché di qualche lirica (per fortuna poche) l’autore aveva proposto più versioni. Le cartelle di lavoro testimoniano l’intensa attività poetica di Tommaso Avagliano, che un po’ artigiano un po’ musicista cesellava i suoi versi ragionando a lungo sul suono segreto di ogni parola (nelle bozze si trovano minuziosi elenchi di aggettivi e sostantivi), provando varie alternative, anche a distanza di anni. Non di tutte le poesie è stato possibile rintracciare la datazione, ma ovviamente questo poco toglie alla lettura. In qualche caso il testo è stato da lui mutato o integrato anche dopo trenta-quaranta anni, come è avvenuto per Orme, a cui ha lavorato fino alle ultime settimane della sua vita.

Per alcune sezioni della raccolta (come Familiaria, Stagioni ed Epigrammi) Tommaso Avagliano ha lasciato una schema di organizzazione abbastanza definito. Per le altre sezioni, ho seguito discrezionalmente un criterio tematico/emozionale, ad eccezione delle poesie giovanili, che sono in appendice, per le quali ho adottato un criterio cronologico. Per alcune poesie il titolo è il medesimo e in questo caso ho aggiunto un numero progressivo per distinguerle.

Buona parte delle poesie di questa raccolta è inedita, ad eccezione di quelle comprese nei volumi Poesie a Lil (1964) e In un’ora di luce (1990), peraltro stampati fuori commercio e ormai introvabili. Le liriche in dialetto napoletano sono invece raccolte nel volume Tra veglia e suonno del 2005. Una sezione della raccolta è dedicata agli “esercizi di traduzione” di poeti classici greci e latini, tratti in gran parte dal volume Giornale di viaggio del 1987.

Dalle cartelle di lavoro dell’autore sono state tratte anche alcune poesie non rientranti nella sua selezione o perché scritte su fogli volanti ritrovati in mezzo ai suoi appunti, e probabilmente da lui stesso dimenticate, o perché in fase di stesura finale, ma assai potenti per il loro afflato lirico.

Nelle poesie di Tommaso Avagliano emerge con forza l’attaccamento alle sue radici cittadine e familiari. Era innamorato di Cava de’ Tirreni, ma non prigioniero del suo “provincialismo”. I suoi versi infatti trattano i temi universali della formazione adolescenziale, dell’amore per la moglie Lia, i figli, i genitori, i nonni, dell’amicizia, del tradimento, della natura, della bellezza, del paesaggio, dell’arte, toccando anche la storia e l’attualità, dalla Primavera di Praga alla guerra in Afghanistan e all’ascesa di Silvio Berlusconi.

E già ventenne riflette sulla morte, a cui dedicherà svariate liriche. Aveva perso la madre Anna – alla quale, assieme al padre, è dedicata questa raccolta – all’età di 7 anni e soffrirà questo vulnus durante tutta la sua esistenza, come attestano i suoi versi: «Oh madre, dove sei? / Perché tardi tanto a venire? / Eppure / mi sei vicina, lo sento: / non puoi / avermi lasciato per sempre».

«Fresche e leggere di colori come acquerelli sono in gran parte queste poesie brevi – osserva lui stesso in un appunto recentissimo –, scritte in vari periodi della mia vita, accanto ad altre di maggior peso e consistenza, paragonabili, per rimanere in metafora, ai dipinti ad olio nell’opera di un pittore. Non tutte però brillano come gocce di rugiada al sole, e qualcuna tende addirittura al grigio o al fosco. Ma pazienza, non si può essere sempre lieti e sereni quando si mette penna in carta. Mi è sembrato che, tutte assieme, possano dare testimonianza di un lavorio poetico al quale mi applico ormai da un sessantennio – con alti e bassi, s’intende – ma senza mai deviare».

Al Tommaso Avagliano leggero, passionale, nostalgico, malinconico, si accompagna anche un alter ego puntuto, ironico e irriverente, con lo pseudonimo di Masoagro, un «ilare folletto» (parole tratte da una sua nota) i cui versi, per lo più sotto forma di epigrammi, prendono di mira in modo mordace uomini e donne, usi e costumi, o giocano con eleganza su argomenti erotici, solo in parte già pubblicati in una raccolta intitolata Epigrammi di Masoagro (1987). Se ne propone un’ampia selezione, escludendo – per coerenza – quelli in dialetto napoletano (destinati ad altra raccolta) e quelli da lui stesso definiti metelliani, che si riferiscono a personaggi di valenza locale.

«Questi epigrammi – avverte l’autore in un altro appunto – non li ho scritti io. Li ha scritti il mio amico Masoagro, che ancora una volta ha voluto fossi io a firmarli. Lui preferisce così. E non gl’importa di espormi a critiche e pettegolezzi, trattandosi di poesiole che scivolano volentieri nell’erotico e nel “proibito”. Ma proibito da chi? Oggi se ne vedono e se ne leggono di tutti i colori che non ci si scandalizza più di niente. Anzi nei suoi versiccioli c’è una grazia di dettato che non scade mai nel volgare o nel pornografico. Se li gusti perciò, con piacere, il lettore goloso. Il mio amico li ha raccolti proprio per lui».

Mentre mi accingo a concludere la stesura di questa introduzione, continuando a consultare i quaderni di mio padre, spunta fuori un altro foglietto volante da lui appuntato a penna, con la sua calligrafia arrotondata che – confesso, il dettaglio m’impressiona! - assomiglia così tanto alla mia. Vi trascrive una lirica della poetessa Vivian Lamarque, che mi pare riassuma la sua filosofia di vita, e perciò la riporto:

 

Post scriptum

Siamo poeti.

Vogliateci bene da vivi di più.

Da morti di meno.

Che tanto non lo sapremo.

 

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Torna domani, inverno. Poesie di una vita (1959-2021) di Tommaso Avagliano

Torna domani, inverno. Poesie di una vita (1959-2021) di Tommaso Avagliano inaugura la collana La ginestra, dal titolo della famosa poesia scritta da Giacomo Leopardi nel suo periodo “napoletano”, che sarà diretta da Rosa Giulio e Alberto Granese, ordinari di Letteratura italiana all’Università di Salerno.

Il libro (pp. 336, € 15.00) raccoglie per la prima volta tutta la produzione poetica dell’editore, poeta e scrittore scomparso nel settembre 2021, con quarta di copertina firmata dal poeta Elio Pecora e introduzione del giornalista e storico Mario Avagliano.

La raccolta è suddivisa in sezioni con versi di volta in volta nostalgici, leggeri, puntuti, passionali, ironici, erotici. Poesie che toccano i temi universali della formazione adolescenziale, dell’amore, della famiglia, dell’amicizia, del tradimento, della natura, della bellezza, dell’arte, della politica e della guerra, con molte poesie dedicata alla sua amata Cava, con versi su Mamma Lucia, Sant’Arcangelo, Monte Finestra, la Badia e la Pietrasanta, l’Epitaffio, Marina di Vietri e Raito.

«Se un’opera di poesia, per essere tale, deve commuovere chi legge, nel senso di muoverlo dentro, di attrarlo nelle sue musiche, di condurlo dove la vita si mostra libera e vera, a questo libro va riconosciuto un così vasto esito», commenta nella quarta di copertina Elio Pecora, uno dei più grandi poeti italiani contemporanei. «Queste di Tommaso Avagliano sono poesie che traversano tutta un’esistenza e i più diversi umori: dallo stupore alla malinconia, dal pensiero che apre porte alla nostalgia che inserra il passato e lo abita. Ma dominante è qui la necessità di esprimersi con le parole e le cadenze della poesia, una poesia amata come il maggiore lascito e il bene più prezioso. Sono numerosi i poeti chiamati in questo libro, dagli antichi ai contemporanei, da Saffo a Verlaine, da Leopardi a Sinisgalli. E tanti i luoghi e le persone, tanti i momenti e le anse colorate della memoria e i guizzi della mente vigilante e inquieta che si consegnano per nitore espressivo e sentimento trepido», continua Pecora.

 

L’autore

Tommaso Avagliano (Cava de’ Tirreni 1940-2021) è stato un poeta, scrittore, editore, fondando le case editrici Avagliano e Marlin. Ha esordito nel 1964 con Poesie a Lil, a cui sono seguite pubblicazioni di vario argomento, tra cui: I soavi starnuti (1966), Incontro con Carotenuto (1972), Profilo del Marchese Genoino (1982), Marco Polo, il viaggiatore meraviglioso (1983), Aria di Cava (1984), Epigrammi di Masoagro (1987), Giornale di viaggio (1987), In un’ora di luce (1990), Una città chiamata La Cava (1999), Un poeta tra le rose (2002), Tra veglia e suonno (2005); Erano tutti suoi figli. Mamma Lucia tra storia e leggenda (2020). Ha curato: A. Genoino, Le Sicilie al tempo di Francesco I (1982), F. Marcellino, A tempo pierzo (1983), A. Genoino, Scritti di storia cavese (1985), Principessa di Villa, Passeggiate nei dintorni di Cava (1994), S. Calvanese, Amico di pittori (2003), Dalla storia alle storie. Pagine di vita cavese 1915-1945 (2013), P. Craven, Tra i monti della Cava. Gente, credenze e usanze in un villaggio dell’800 (2014).

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Tommaso Avagliano, un’esistenza dedicata alla poesia

Mario Avagliano

Oggi non siamo qui solo per una commemorazione. È vero, per i familiari e per gli amici intimi è ancora vivo il dolore e quindi in noi albergano sentimenti quali il ricordo e la commozione. Ma vorrei sottolineare che l’uscita di questo libro vale molto di più del ricordo. È soprattutto la celebrazione dell’estro, del talento e della poesia di Tommaso Avagliano, i cui versi travalicano il tempo e lo spazio, come solo i grandi poeti sanno fare.

Nell’introduzione a questa raccolta ho scritto che la poesia attraversa tutta l’esistenza di Tommaso. Ci raccontava che da ragazzo, non appena racimolava qualche soldo, invece di spenderlo in «cose futili», dalle sigarette alle bibite e ai gelati, come facevano tanti suoi amici, acquistava romanzi e libri di poesia che divorava in notti arse di passione per la letteratura. Era quello il suo «divertimento».

Scrisse la sua prima poesia a quattordici o quindici anni per il giornale della scuola “Caleidoscopio”, come ho trovato annotato su un foglio tra le sue carte, datato 2014. Si può immaginare la sua delusione quando gli fu riferito che il comitato di redazione l’aveva cestinata, giudicandola troppo ben fatta per essere farina del suo sacco.

Nelle numerose cartelle di lavoro conservate nel suo studio le prime poesie sono del 1958, quando aveva appena 18 anni, e ha continuato a scrivere liriche per tutta la sua vita. Non a caso nel testo del manifesto di lutto, che lui stesso ha lasciato ai familiari, la parola «poeta» figura al primo posto, prima di «scrittore» ed «editore». E tra i fogli sparsi sul suo comodino, abbiamo trovato un’ultima versione in dialetto napoletano de L’Infinito di Giacomo Leopardi, datata 6 settembre 2021, tre giorni prima del suo ricovero in ospedale.

Ho curato io questa raccolta di poesie, tra cui diverse dedicate alla nostra Cava, e a cui lui stava lavorando da tempo. Non è stato un compito facile selezionarle e organizzarle, sia perché alcune sono incomplete, sia perché di qualche lirica (per fortuna poche) aveva proposto più versioni. Le cartelle di lavoro testimoniano l’intensa attività poetica di Tommaso Avagliano, che un po’ artigiano un po’ musicista cesellava i suoi versi ragionando a lungo sul suono segreto di ogni parola (nelle bozze si trovano minuziosi elenchi di aggettivi e sostantivi), provando varie alternative, anche a distanza di anni.

Buona parte delle poesie di questa raccolta è inedita, ad eccezione di quelle comprese nei volumi Poesie a Lil (1964) e In un'ora di luce (1990), peraltro stampati fuori commercio e ormai introvabili. Le liriche in dialetto napoletano sono invece raccolte nel volume Tra veglia e suonno del 2005.

Una sezione della raccolta è dedicata agli “esercizi di traduzione” di poeti classici greci e latini, tratti dal volume Giornale di viaggio del 1987.

Dalle cartelle di lavoro dell’autore ho tratto anche alcune poesie non rientranti nella sua selezione o perché scritte su fogli volanti ritrovati in mezzo ai suoi appunti, e probabilmente da lui stesso dimenticate, o perché in fase di stesura finale, ma assai potenti per il loro afflato lirico.

Studiando la storia contemporanea, so quanto sia importante la poesia, l’arte, la letteratura per resistere alle brutture della guerra e alla violenza: vi ricorrevano ad esempio i deportati e i prigionieri militari.

Anche Tommaso in alcune liriche che abbiamo ascoltato ne ha parlato. Quella su Praga sembra quasi attuale, purtroppo. Vi risuonano gli echi di quello che sta accadendo in Ucraina.

Astraendomi dal fatto di essere figlio di Tommaso Avagliano, devo dire che anche come curatore e lettore mi sono ritrovato negli splendidi interventi di Rosa Giulio e di Alberto Granese, che hanno spiegato con grande competenza l’alto valore della sua poetica. Alla sua memoria e al suo amato Giacomo Leopardi abbiamo dedicato la collana di poesie che viene inaugurata proprio con questa raccolta, significativamente intitolata “La ginestra”.

Rivestendo i panni di figlio, ho anche io varie poesie del cuore. Una voglio leggerla io e s’intitola “Buongiorno”, e fu scritta nel 1966 anno della mia nascita:

 

Sembra un sogno vederti

splendere sulla soglia

tra le braccia di mamma

come un raggio di sole

improvviso fra i rami

d’una giovane pianta.

Ed il babbo sorride

accogliendoti a volo

d’angelo sul suo petto.

 

Tommaso Avagliano voglio ricordarlo e celebrarlo così.

Ciao Papà.

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Tommaso Avagliano, le Poesie di una vita

Presentata la raccolta poetica dell’illustre personaggio cavese, scomparso nel settembre 2021

 

Una sera di emozioni, di poesia e di musica. Sabato 26 marzo, al Social Club Tennis di Cava de’ Tirreni, è stata presentata la raccolta poetica di Tommaso Avagliano, intitolata Torna domani, inverno. Poesie di una vita (1959-2021), un evento organizzato dal Comune di Cava, il Social Tennis Club, il Centro Studi Storia di Cava, l’Associazione Giornalisti e l’Associazione Talenti.

Il sindaco Vincenzo Servalli, in un messaggio, ha definito Tommaso Avagliano “uno dei figli migliori di Cava”, promettendo assieme all’assessore alla Cultura Armando Lamberti, che ha portato i saluti dell’amministrazione comunale, che in tempi brevi la sua città troverà il modo di ricordarlo degnamente e in modo perenne. Il presidente del Social Tennis Club Luca Ricciardelli si è detto onorato di poter ricordare una figura cavese così rilevante.

Sotto la sapiente guida di Franco Bruno Vitolo e la regia tecnica di Gerardo Ardito, si sono succeduti gli interventi, davanti a un pubblico foltissimo, partecipe e attento. Rosa Giulio, ordinario di Letteratura italiana all’Università di Salerno, ha spiegato che «questa raccolta poetica, così intensa e così toccante, è il libro perfetto per inaugurare la collana di poesia della Marlin, un’operazione coraggiosa in questi tempi». Alberto Granese, uno dei maggiori critici letterari italiani, ha sottolineato che «Avagliano era un intellettuale completo dalla grande preparazione classica, che si rivelava nelle traduzioni dei lirici greci e latini, e poeta attento alla musicalità del verso e alla raffinata limatura. Sensibilità, vena introspettiva, ironia, argutezza, motti di spirito e sensualità caratterizzano la sua vena creativa».

La serata è stata impreziosita dalle letture di Renata Fusco che con la sua voce straordinaria ha interpretato in modo mirabile le liriche di Tommaso Avagliano, con un omaggio musicale a cura della brava Camilla Paoletti, che ha cantato due canzoni di Salvatore Di Giacomo, autore molto amato da Avagliano. Erano presenti la moglie dell’autore, Lia Redi, e i figli Mario, Sante e Luciano Avagliano. Pubblichiamo uno stralcio dell’intervento del nostro direttore, Mario Avagliano.

(Cavanotizie.it, aprile 2022)

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L'Italia senza camicia nera. Aldo Cazzullo: la prima ricostruzione completa del dissenso al regime

di Aldo Cazzullo

«Mussolini visita un manicomio. I ricoverati messi in fila applaudono freneticamente. Uno solo non batte le mani. Un uomo della scoria lo interroga: e voi non applaudite? Non sono mica matto, io sono un infermiere». E' una delle tante barzellette che vengono raccontate sotto la dittatura di Benito Mussolini. Un'ironia sotterranea e amara, che circola segretamente tra gli italiani nei primi anni Trenta. Il regime fascista, del resto, dopo aver neutralizzato ogni forma d'opposizione, ha fatto scendere la sua cappa oppressiva sul Paese. La macchina della repressione, con l'occhio vigile della polizia e delle spie, e quella del consenso, con la propaganda, le organizzazioni paramilitari e le adunate oceaniche, funzionano a pieni giri. Non essere allineati è un rischio troppo alto da correre e non sono solo gli oppositori veri e propri a rischiare, ma anche i semplici mormoratori, cioè chi si lascia sfuggire mere imprecazioni o battute di spirito contro Mussolini e il fascismo o sulla situazione in generale.

E' quanto racconta il nuovo libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri, intitolato II dissenso al fascismo. Gli italiani che si ribellarono a Mussolini 1925-1943 (il Mulino). Da anni Avagliano e Palmieri portano avanti una loro peculiare ricerca storica, basata su un enorme lavoro sulla corrispondenza e sulle carte private e familiari degli italiani. Questa è la prima ricostruzione completa del dissenso al regime. A conferma del fatto che non tutti gli italiani sono stati fascisti.

Le spedizioni punitive, le ritorsioni, le condanne del Tribunale speciale al carcere e al confino e la vigilanza onnipresente e asfissiante della polizia politica, la famigerata Ovra, riducono al silenzio, all'inattività o alla fuga all'estero buona parte degli oppositori e anche chi semplicemente si lamenta o ironizza sul Duce e l'operato del regime. Le uniche opinioni consentite sono quelle autorizzate, cioè allineate. Ogni ambito della vita pubblica e privata è presidiato. «L'Italia — spiegherà nel 1944 l'antifascista di Albano Umberto Di Fazio — era divenuta per gli italiani un terreno così infido che bisognava bene esaminare davanti a sé prima di avventurarsi a muovere un piede. Si giunse all'assurdo che qualche volta persino tra le pareti domestiche si dubitava». E il periodico satirico «Il becco giallo» da Parigi, nel 1931, in un articolo intitolato Il mito dell'Ovra osserva che «c'è chi vede il fantasma dell'Ovra in ogni ombra; chi abbrividisce ad ogni palpito di tenda; chi suda freddo per lo scricchiolio di un mobile o per il gemito di una porta».

Eppure negli anni della dittatura il dissenso non viene soffocato del tutto. Una minoranza di italiani ha il coraggio di continuare a esprimerlo, pagando un prezzo altissimo in termini di emarginazione e isolamento sociale, controllo poliziesco, violenze e condanne severe. Accanto a figure note come Gramsci, Gobetti, Matteotti, don Minzoni e ai tanti esuli costretti alla fuga all'estero fin dai primi anni del regime, il libro prende in esame anche l'opposizione spontanea, popolare, spesso politicamente inconsapevole e finora poco indagata, che forma un terreno fertile su cui poi attecchirà la partecipazione di molti italiani alla guerra di Liberazione.

Il dissenso trova varie forme, pubbliche e private, eclatanti o sotterranee, esplicite o camuffate, organizzate o spontanee, per continuare ad essere manifestato. Si tratta di spazi residuali e limitati, pericolosissimi da occupare, che però persistono durante tutta la dittatura in modo non omogeneo nel tempo e nelle diverse zone del Paese. Con varie forme di espressione che spaziano dalla semplice indifferenza, alla non adesione intima e privata, fino all'antifascismo militante, con espressioni che vanno dai comportamenti privati alle iniziative individuali, fino all'impegno più organizzato. È il caso del giovane «di 25 anni, scarno, di statura media, colorito roseo, capelli castani con maglietta da ciclista color bigio» che, come riferisce una relazione della polizia, in un mattino della fine del 1927 scende da Albano lungo l'Appia a tutta velocità con la sua bicicletta lanciando manifestini che invitano a lottare contro il fascismo. O quello del fornaio Giuseppe Sciuto, di Catania, non iscritto a nessun partito ma che tra il 1939 e il 1941 scrive ben 118 lettere anonime in stampatello a personalità italiane, gerarchi fascisti e giornalisti italiani e stranieri con frasi come: «Il fascismo tiene gli operai schiavi e sacrificati; il fascismo, banditismo nero, assassino, micidiale e nemico dell'umanità». Decine di agenti vengono impiegati nella caccia all'uomo, anche prendendo il posto dei postini di Catania e sorvegliando le buche delle poste, ma ci vogliono due anni per stanare Sciuto, arrestato il 5 maggio 1941 mentre sta per imbustare altre missive alla cassetta postale.

Spesso si tratta di un «antifascismo da osteria», in quanto i presunti dissidenti pronunciano le loro invettive sotto i fumi dell'alcol, nel corso di litigi o per eccessi di rabbia dovuti alla disperazione e alla miseria, incappando nelle denunce di delatori di passaggio, colleghi, conoscenti o perfino parenti, talora ritrattandole per evitare la condanna o alleviare le pene. Non mancano però filoni di dissenso sociale più profondi e meno estemporanei, che arrivano anche a proteste popolari come cortei davanti alle sedi istituzionali e tumulti e scioperi nelle fabbriche e nelle campagne, soprattutto nei momenti più gravi della crisi economico-sociale, che vedono protagoniste anche tantissime donne: dopo la rivalutazione della lira del 1926-27, nei primi anni Trenta con l'arrivo in Italia degli effetti della Grande Depressione e durante la guerra, specie tra il 1942 e i primi mesi del 1943. 

Esercitare il dissenso sotto il fascismo ha un costo. Tra il 1926 e il 1943 ogni settimana, come ha calcolato Altiero Spinelli, il regime infligge l'ammonizione o la vigilanza speciale a 181 cittadini, ne invia 11 al confino, ne denuncia 24 al Tribunale speciale e ne condanna 6 al carcere con pene fino a trent'anni. La maggior parte degli antifascisti trascorre buona parte della giovinezza tra il carcere e il confino. «Cara Fiorella — osserva sempre Spinelli in una lettera de11942 — ecco oggi, tre giugno, son quindici anni che son prigioniero, il 43% della mia vita totale, o, se si conta la vita effettiva dai 15 anni in su, il 75%. Con un certo senso di orrore sto scrivendo queste cifre. Non credo che ci sia molta gente al mondo che abbia battuto questi record».

E' un dissenso che ha tanti volti e tante forme. Lo esprimono uomini e donne legati ad antiche fedeltà ideali e politiche maturate prima dell'avvento del regime, in famiglia o nelle comunità cittadine o di quartiere. Ci sono anche antifascisti «dormienti», che sono rimasti in Italia e hanno abbandonato l'attività politica attiva, ma di cui è nota la contrarietà al Duce. Così come sono i più vari i luoghi del dissenso: per strada, nelle trattorie, nei bar, sui tram, nei posti di lavoro, nel privato delle proprie case. E lo stesso vale per le sue forme, tra cui quelle cosiddette «povere»: barzellette, filastrocche, caricature, parodie di canzoni o di poesie, insulti e imprecazioni contro Mussolini e i gerarchi, statue parlanti (come nel caso di Roma), scritte murali che spesso compaiono in occasione di date simbolo come il primo maggio, ritocchi sarcastici di cartoline propagandistiche, volantini artigianali, intonazione di canti politici, culto e ricordo degli oppositori morti per mano fascista e funerali sovversivi.

(Corriere della Sera, 9 ottobre 2022)

Paisà, sciuscià e segnorine

di Andrea Manzella

 

1. Questa di Avagliano e Palmieri (Paisà, sciuscià e segnorine. Il Sud e Roma dallo sbarco in Sicilia al 25 aprile, Il Mulino) è una narrazione puntiforme della tempesta perfetta che si abbattè sul Mezzogiorno d’Italia nei venti mesi tra il 1943 e il 1945. Da essa si possono ricavare - intrecciate tra loro nel tempo, ma autonome nella loro sostanza - tre storie: una storia politica, una storia militare, una storia sociale. La storia politica è quella della “King’s Italy” - come la chiamarono gli Alleati - del Regno del Sud (secondo la formula del libro pioneristico di Agostino degli Espinosa, 1946). Comincia, come molte vicende di quel tempo, a Radio Bari, da dove l’11 settembre parlò il Re, fuggito da Roma: «per la salvezza della Capitale e per potere pienamente assolvere i miei doveri di Re, col Governo e con le Autorità militari, mi sono trasferito in altro punto del sacro e libero suolo nazionale». Il territorio “nazionale” era ridotto alle province di Bari, Lecce, Brindisi, Taranto : lasciate formalmente “libere” dagli Alleati. La gran parte dei ministri del governo Badoglio era rimasta a Roma. I superstiti si riunirono in Vaticano, per l’ultimo Consiglio dei ministri : per autosciogliersi. A Brindisi e sparpagliato tra varie località pugliesi, vi era, in sostituzione, un “governo di sottosegretari” (p. 155). Le condizioni operative sono più che precarie. Mancano perfino i dattilografi. Badoglio è costretto a scrivere a mano le comunicazioni ufficiali da consegnare agli Alleati. Eppure non è una “parvenza” di Stato. È il punto simbolico di legittimità a cui guarderanno le poche forze armate che non si sono arrese, i 600 mila prigionieri avviati in Germania, la flotta che amarissimamente si consegna a Malta (dopo la perdita della corazzata “Roma”), ma anche i cadetti dell’Accademia di Marina che fuggono su un mercantile da Venezia per raggiungere fortunosamente Brindisi. È anche il “territorio” statuale in cui sarà possibile che nuovi partiti politici potranno cominciare a pensare a come rinnovare lo Stato. Paradossalmente quella precaria “continuità” dello Stato è la premessa della sua ri-costituzione. Il Congresso di Bari del 28-29 gennaio 1944 è giustamente salutato dalla Gazzetta del Mezzogiorno come il «primo congresso antifascista dell’Europa liberata» (p. 146). Nel discorso di Michele Cifarelli che l’introdusse, come in quello di Benedetto Croce che avviò il dibattito vi è questa consapevolezza “europea”. «All’Italia prima terra d’Europa liberata» - dirà Croce - «gli altri paesi europei guarderanno come il saggio della loro nuova vita». Ma soprattutto nel Congresso si pongono le premesse delle “Costituzioni provvisorie” che - nella dialettica continuità/rinnovamento - si susseguiranno sino al 2 giugno 1946. Senza interruzioni della legalità vigente, si arrivò alla “rivoluzione” dello Stato repubblicano. Queste premesse costituzionali si trovano ancora una volta nella denuncia di Croce a quel Congresso: fino a che il Re rimane «noi sentiamo che il fascismo non è finito, che ci rimane attaccato addosso». Eppure quel Congresso fondativo era stato all’inizio proibito dai “governatori” occupanti. Ma una significativa mobilitazione internazionale, dei laburisti nel Regno Uniti e dei democratici negli Stati Uniti, avevano superato le resistenze dei militari. Questi riusciranno però ad impedirne la radiocronaca. Una registrazione arrivò però ugualmente alla BBC e a Radio Londra. Quel Congresso italiano d’avanguardia fu così conosciuto in tutto il mondo. Dopo il regime del “partito unico” - e ancora nell’ “anello di ferro” in cui era mantenuta quella parte d’Italia (è il lamento di Badoglio a Roosevelt, p. 173) - nasce lo “Stato pluralistico dei partiti”. La prima a riconoscerlo è la Russia sovietica. Dopo un incontro di Badoglio con Vyšinskij, l’URSS è la prima nazione a ristabilire le relazioni diplomatiche con l’Italia, già il 13 marzo 1944. Il primo ambasciatore italiano a Mosca è Pietro Quaroni. Per un suo articolo “non ortodosso” sulla politica etiopica fascista, era stato inviato per punizione in Afghanistan. Nel caos del mondo si trova così ad essere il diplomatico, leale allo Stato monarchico, più vicino al confine russo, lungo il fiume Amur. Due settimane dopo, ritorna Togliatti da Mosca. È il punto preciso del tempo in cui veramente rinasce il Partito comunista italiano fino allora una «galassia di corpuscoli divisi tra loro» (p. 160). Un acutissimo scrittore inviato di guerra, Norman Lewis, annota subito profeticamente: «ci sono tutte le premesse perché il partito diventi il più forte partito comunista al di fuori dell’URSS», proprio perché «annovera un’alta percentuale di intellettuali borghesi». Gli inglesi e gli americani, invece, ci faranno aprire le ambasciate a Londra e Washington solo il 28 settembre, sei mesi dopo dell’URSS (p. 201). Eppure l’Italia è “cobelligerante” dal 13 ottobre 1943. Da quando ha dichiarato la guerra alla Germania. Ma all’apertura sovietica, all’atteggiamento tutto sommato amichevole degli USA, corrisponde una tenace resistenza di Winston Churchill per il mantenimento dell’immobilismo nella situazione italiana. «Sono certo - dirà con il suo consueto realismo - che il Re e Badoglio sarebbero in grado di fare per noi più di qualsiasi governo italiano formato da esuli e avversari del regime fascista». E poi, il 22 febbraio 1944, nel “discorso della caffettiera” andrà oltre: sostenendo che l’unico governo possibile era quello di Badoglio perché «quando occorre tenere in mano una caffettiera bollente è meglio non rompere il manico finché non si è sicuri di averne un altro ugualmente comodo e pratico». La furibonda reazione a queste parole da parte dei partiti italiani - pur repressa nelle intenzioni di sciopero generale - è però tale da attestare che anche il manico della caffettiera di Churchill è divenuto incandescente. Il 24 aprile 1944, infatti, è la «svolta di Salerno». Il Re Vittorio Emanuele ha accettato di ritirarsi appena liberata Roma. Ma intanto è lui, a Ravello, che riceverà nelle sue mani il giuramento del II governo Badoglio: con Croce, Togliatti, Gullo, Aldisio, e perfino il repubblicano conte Sforza. Dopo la liberazione di Roma (con la ritirata tedesca ordinata da Hitler: per preservare il “centro di civiltà più antico del mondo”, p.187) il tempo di Badoglio sarà però anch’esso scaduto. Nasce il governo Bonomi con tutti i partiti antifascisti. Ma il maresciallo esautorato avrà modo di “cantarla” duramente ai “nuovi venuti”: «mentre voi eravate nascosti o chiusi nei conventi, chi ha lavorato, assumendo le più gravi responsabilità, è quel militare che non appartiene a nessun partito». La protesta più rabbiosa è però quella, coerente, di Winston Churchill che in un telegramma a Roosevelt, accusa gli alleati di aver sostituito Badoglio con un «gruppo di anziani e affamati politicanti» (p. 200). La macchina della politica nazionale si era però ormai messa in moto. L’Italia procedeva verso la riunificazione proprio mentre in Sicilia iniziava la gravissima crisi del separatismo. La “questione regionale” si apriva, in un certo senso distorto, non solo in Sicilia: e non sarà veramente risolta fino ai giorni nostri.

2. Lo stesso assetto costituzionale del nuovo Stato sarà infatti condizionato dalla storia sociale del Regno del Sud. I moti siciliani che hanno il loro epicentro nella “strage del pane di Palermo” (repressa nel sangue dai militari della divisione Sabauda, comandata dal generale Castellano, lo stesso dell’armistizio di Cassibile); e i moti sardi scoppiati a Sassari (con protagonista il giovanissimo Enrico Berlinguer, imprigionato per cento giorni) (pp. 319-321) sfoceranno alla fine nei due Statuti speciali, anteriori alla Costituzione repubblicana. Nel retroscena siciliano, poi, vi era stata quella che sembra la prima “trattativa Stato-mafia”, condotta proprio dal generale Castellano, che, con i suoi “buoni” rapporti, riuscì ad ottenere l’appoggio dell’“alta mafia” contro il dilagante fenomeno del banditismo (l’ «ora basta!» di don Calogero Vizzini, p. 337). Si “riconosceva” dunque l’egemonia di di un “potere altro”: anche se dai loro rapporti risulta che la mafia fu più un problema per gli Alleati (la cui origine era attribuita agli “interpreti” italo-americani che si erano portati dietro) che non la risorsa che favorì l’invasione militare, di cui a lungo si favoleggiò (p. 329). L’epilogo istituzionale del regionalismo “speciale” rappresenta, almeno da questo angolo visuale, quasi un attestato della singolare esperienza meridionale, segnata da tragedie individuali e collettive, provocate dalle due successive occupazioni militari. Avagliano e Palmieri ne fanno un resoconto minuto, localizzato e spesso personalizzato. Emergono i misfatti tedeschi: con la loro cieca applicazione di una sorta di diritto di guerra in rappresaglie e rastrellamenti di lavoratori coatti per la loro macchina bellica, affamata di uomini. Emergono i misfatti degli Alleati, originati piuttosto da criminalità comune nelle loro fila: ma anche con barbare uccisioni di gruppi di prigionieri di guerra italiani nei primi giorni dell’invasione siciliana e anche -e sopratutto- con quel generale diritto di stupro e di vendetta che i comandanti francesi consentirono alle loro truppe africane. Il dramma delle donne “marocchinate” provocò la protesta ufficiale del pur flebile governo Bonomi. E fu un enorme contributo alla efficacia della propaganda fascista dal Nord.

3. La storia militare di quegli anni è indistricabile da questa scia di profondo perturbamento sociale, così come dagli sforzi di ricostruzione politica. Quando alle 18.15 del 18 agosto 1943 Badoglio ed un redivivo Vittorio Emanuele Orlando si rivolgono da Radio Roma ai “fratelli siciliani” invasi, dalle loro parole traspare già la rassegnazione all’inevitabile-sconfitta. L’evacuazione dell’isola è avvenuta perfettamente il giorno prima: è stato uno stupefacente capolavoro militare tedesco. Nello stretto di Messina, grazie a un efficacissimo fuoco antiaereo dalle due sponde, si sono ritirati in Calabria più di centomila uomini (60mila italiani, 40mila tedeschi) e migliaia di tonnellate di materiale bellico. Ma i tedeschi già apprestano le loro successive linee difensive nella Penisola: l’ “ordine” militare contro il disordine dell’impotenza . Tuttavia, quando Badoglio e il Re si ritroveranno nel “ridotto” delle quattro province pugliesi, il loro primo sforzo è quello di riorganizzare un primo nucleo militare che attestasse - nell’unico modo concreto consentito in quelle condizioni - una continuità simbolica dello Stato monarchico. Già il 24 settembre (mentre il Re proclama da Radio Bari la lotta contro «l’inumano nemico della nostra razza e della nostra civiltà»: parole surreali in quanto riservate ad un alleato di appena 16 giorni prima) si costituisce una unità motorizzata di 5 mila uomini (p. 346). È l’inizio della “cobelligeranza”: accolta con estrema freddezza dagli Alleati (nonostante gli sforzi ripetuti di Badoglio, che scrive ad Eisenhower: «abbiamo chiesto l’armistizio perché deboli ma non siamo dei poltroni» ed arriverà ad offrire le sue dimissioni nel caso che l’ostacolo al riarmo fosse stata la sua persona, p. 354). Il “battesimo del fuoco” sarà a Montelungo il 26 novembre: una piccola vittoria, dal grande significato, pagato a carissimo prezzo, 82 caduti e 160 dispersi. È a Scapoli, paesino del Molise, che le unità militari del Regno del Sud, assumeranno il nome di Corpo italiano di liberazione. Gli Alleati faranno tornare dalla onorevole prigionia in Tunisia il maresciallo Messe, non compromesso dunque con il disastro della dissoluzione militare dopo l’armistizio. Sarà il nuovo capo di Stato maggiore. Alla fine del conflitto il Corpo - che opererà sul versante adriatico con i polacchi del generale Anders - avrà 200 mila uomini e conterà 8100 caduti (p. 356). Accanto alla ricostituzione di una entità militare “regolare”, il Regno del Sud vedrà tentativi di volontariato, in un certo senso politico: tentativi nettamente stroncati dagli Alleati. Sarà Benedetto Croce a redigere e firmare, già l’11 ottobre 1943, un “manifesto per la chiamata di volontari” (p. 349). Ci sarà anche, più tardi, nel luglio 1944, un appello di Togliatti. In realtà i volontari, nonostante tutto, affluiscono in buon numero in un campo allestito a Cesano. Non troveranno né equipaggiamento né inquadramento. Rabbia e ribellione accoglieranno, invece, soprattutto in Sicilia, i bandi militari di leva del governo Badoglio. «Non vogliamo andare contro i nostri fratelli del Nord»: il movimento “Non si parte” vedrà uniti separatisti e neofascisti. A Comiso questo eterogeneo connubio fonda addirittura una sedicente repubblica indipendente. Durerà una settimana: sotto minaccia militare la “repubblica” si arrende. Trecento rivoltosi saranno confinati. Ad essi Mussolini conferirà la medaglia d’argento della sua Repubblica sociale. In via più generale, il libro sottolinea che l’attenzione riservata ai “clandestini” neo-fascisti operanti dietro le linee alleate, era già risuonata nel famoso ultimo discorso di Mussolini al Lirico di Milano: troveremo al Sud «più fascismo di quanto ne abbiamo lasciato». A questa "resistenza" fascista aveva dato un formidabile contributo ideale la distruzione del secolare monastero di Montecassino: avvenuto - per inesistenti necessità belliche degli Alleati - nonostante che i loro Monuments Officers fossero già operanti per tentare di preservare il nostro patrimonio artistico dalle offese di guerra. Dopo quella devastazione che provocò fortissima emozione nel mondo cattolico degli stessi Paesi alleati, la Repubblica Sociale Italiana emetterà una serie di francobolli con i danni arrecati dai bombardamenti a vari nostri monumenti, con la scritta hostium rabies diruit. Eventi e fermenti della tragedia nazionale, poco conosciuti: la storia del Sud sarà oscurata dagli eventi fondativi della Resistenza al Nord e della resa tedesca. Quasi a segnare funestamente l’inizio e la fine della guerra al Sud, ci saranno due catastrofi che colpiranno il porto di Bari, la prima “capitale” di quel Regno. Il bombardamento aereo tedesco del 2 dicembre 1943: considerato il maggior successo della Luftwaffe in tutta la guerra (venti grandi navi affondate e fra esse la nave alleata esplosa con un suo carico di iprite, coperto da disumano “segreto militare” che condusse alla morte “sconosciuta” centinaia di lavoratori portuali: mille vittime italiane, mille le alleate). E lo scoppio del piroscafo Henderson saltato in aria provocando quasi 400 vittime, ancora nella luttuosa prima linea i lavoratori portuali baresi: era il 9 aprile del 1945. Erano passati 19 mesi dall’8 settembre; mancavano 16 giorni al 25 aprile.

4. Per molti ragazzini del Regno del Sud il segno che la guerra fosse veramente finita e l’Italia riunificata, fu quando la Mondadori riprese, come se nulla fosse successo, il loro abbonamento a “Topolino” (anche se erano stati nel frattempo compensati dagli splendidi settimanali nati a Roma: “Il Vittorioso”, con i geniali fumetti di Jacovitti, e “L’Intrepido”). Già Fausto Coppi, reduce della prigionia, su una bicicletta regalatagli da un falegname di Somma Vesuviana, aveva fatto in tre giorni gli 800 chilometri che lo separavano da Napoli alla sua casa di Castellania. Riprendeva il campionato di calcio: ancora in due gironi con un turno finale unificato che vide le squadre del Nord largamente dominanti. A Napoli due creazioni artistiche erano state come il sigillo filosofico di una grande tragedia: Napoli milionaria di Eduardo de Filippo («Ha da passa’ a’ nuttata») e Simmo ‘e Napule paisà di Peppino Fiorelli («chi ha avuto, ha avuto, ha avuto /chi ha dato, ha dato, ha dato…scurdammoce ‘o passato»). Sembrava che con quelle parole di speranza e di pacificazione, il Sud volesse dare all’Italia intera il segnale di una Ricostruzione morale e materiale che cominciasse proprio lì, da Roma in giù. In fondo, le tante, dettagliate notizie contenute in questo libro ricordano che la politica, nella sua forma più alta, era rinata proprio lì. A Bari, prima, a Napoli e Salerno poi, una nuova concezione dell’Italia aveva preso forma. Erano tutti lì: da Benedetto Croce ad Aldo Moro, da Carlo Azeglio Ciampi a Michele Cifarelli, da Alcide De Gasperi a Palmiro Togliatti, da Tommaso Fiore a Corrado Alvaro, alla vivacissima Alba de Cespedes. Perfino la prima effervescenza dell’endemico populismo italiano era apparsa lì : con il grande successo dell’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini. Ma c’era stato anche Giuseppe Di Vittorio, che con le lotte contadine, aveva offerto il primo esempio di un “sindacalismo” radicale e nazionale. Con responsabilità e pazienza, che oggi appaiono leggendarie, si erano gradualmente escogitate soluzioni istituzionali, che avrebbero assicurato la transizione legale dallo Stato monarchico a quello repubblicano. Nel Regno del Sud si era formato-come si è visto- il Corpo italiano di liberazione: l’unico punto di riferimento di quadri militari dopo l’armistizio che conferiva una qualche concretezza alla “cobelligeranza” contro il nazifascismo. Il mantenimento in vita di una certa idea di Patria. Radio Bari («qui parla Radio Bari, libera voce del governo d’Italia») e la Gazzetta del Mezzogiorno (l’unico giornale d’Italia a non sospendere le pubblicazioni neppure per un solo giorno in tutti gli anni di guerra, p. 379) furono le voci che attestarono che non tutto lo Stato era scomparso nella voragine delle invasioni. E che uno Stato c’era, con la sua legittimazione, di fronte alla Repubblica Sociale che sembrava attestare solo una reviviscenza del fascismo. Poi ci fu il “vento del Nord” che portò la grande ansia di rinnovamento di un Resistenza italiana connessa a quella europea. Certo, il Sud non fu dimenticato: anche se passarono 5 anni prima della creazione della Cassa per il Mezzogiorno di De Gasperi e Pasquale Saraceno (1950). Ma, anche dopo aver letto il libro di Avagliano e Palmieri, con il suo caleidoscopio di multiformi vicende, si ha la sensazione che poco o nulla fu fatto per mantenere al Meridione del Paese il ruolo “protagonista” con cui aveva affrontato le vicende belliche in cui fu tanto duramente coinvolto. E che avevano fatto constatare, con la vista lunga di Ugo La Malfa, proprio mentre la “politica” si spostava a Roma: «la guerra passata con violenza estrema ha disarticolato completamente un territorio povero, in alcune zone poverissimo» (p. 209). Certo, tante cose sono mutate da quei giorni lontani: ma di quel “protagonismo” non più ritrovato è forse un simbolo La Gazzetta del Mezzogiorno. Non aveva mai chiuso negli anni più bui. Ha chiuso il 1° agosto 2021.

(Rivista Giuridica del Mezzogiorno, 20 dicembre 2021)

Il dopoguerra anticipato del Sud: quando il popolo scrive la Storia

di Pasquale Chessa

Furono tante le guerre che si combatterono in Italia dopo la caduta del fascismo: fra guerra civile e di liberazione, partigiana o di classe, c'è chi ne ha contate almeno sette, insieme a quella mondiale. Di conseguenza non ci fu un solo dopoguerra. Il primo è "scoppiato" almeno due anni prima del 1945, con lo sbarco degli Alleati in Sicilia. Un'asimmetria tutta italiana che rimanda alla frattura geografica e antropologica fra Nord e Sud, per lungo tempo trascurata dalla storiografia, che ha lasciato tracce indelebili non solo nella storia politica ma anche nella mentalità di tutta la nazione.
 
LA RICERCA
Tracce ancora leggibili, come possiamo constatare seguendo la ricostruzione di Mario Avagliano e Marco Palmieri, frutto di una ricerca del tutto inedita sui modi affatto peculiari messi in atto dall'Italia postfascista per uscire dalla Seconda guerra mondiale. Paisà, sciuscià e segnorine. Il Sud e Roma dallo sbarco in Sicilia al 25 aprile (Il Mulino) infatti, non è solo un libro di storia ma piuttosto un racconto di storie che si ramificano nel tempo e nello spazio della geografia. Con una polifonia di voci, che promuove le memorie popolari a fonte storiografica, insieme alle testimonianze giornalistiche e letterarie, compresi romanzi e Sofia Loren nel film del 1960 "La Ciociara" di Vittorio De Sica, dal romanzo di Alberto Moravia film, Avagliano e Palmieri riescono a farci entrare nel vissuto della storia colta nel momento in cui si radica nei comportamenti collettivi. Sapiente è l'equilibrio fra la grande storia, dalla caduta del fascismo alla liberazione di Roma, e i suoi riflessi sul sentimento popolare, dalle "segnorine" che si prostituiscono per salvarsi dalla fame, alle rivolte contadine e ai moti del pane.
 
LA DEFINIZIONE
È stato Enzo Forcella, giornalista politico di primo rango del secondo Novecento, molto sensibile al vissuto collettivo del Paese, a coniare l'innovativa definizione di "altro dopoguerra" in un libro del 1976. Fu infatti un periodo eccezionale, una specie di laboratorio storico-politico, spesso funestato da forme feroci di repressione militare come risposta alle inevitabili rivolte popolari. A Canicattì, il 14 luglio, due giorni dopo la strage perpetrata dai tedeschi in ritirata, gli americani fucilarono almeno una ventina di civili arrestati per aver rubato del sapone... Nella Guida del soldato, la Sicilia è descritta come «un buco infernale [...]abitato da gente troppo povera per andarsene o troppo ignorante per sapere che esistono posti migliori».
 
LA TRAGEDIA
Il romanzo di Alberto Moravia, La ciociara, che Vittorio De Sica tradusse in un film toccante magistralmente interpreto da Sofia Loren, trova la sua ispirazione originaria nella tragedia che travolse la Ciociaria invasa dalle truppe marocchine sbarcate a Napoli nel novembre del 1943 con licenza di saccheggio, fino allo stupro. «1 napoletani non sanno più chi odiare» scriveva Leo Longanesi. Eppure quei due anni «vissuti sotto l'occupazione alleata - riconoscono Avagliano e Palmieri - consolidano il mito della potenza americana collocando definitivamente e stabilmente l'Italia del dopoguerra nella sfera americana e occidentale, nel nuovo scenario della guerra fredda contro la sfera sovietica e comunista».
 
(Il Messaggero, 4 dicembre 2021)

 

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