Storie - Sarfatti in tedesco

di Mario Avagliano

E’ dalla scorsa settimana in libreria in Germania il saggio "Gli ebrei nell'Italia fascista" di Michele Sarfatti (Einaudi), finalmente disponibile oltre che in traduzione inglese ("The Jews in Mussolini's Italy") anche in lingua tedesca. Il titolo è "Die Juden im Faschistischen Italien. Geschichte,Identität, Verfolgung", De Gruyter,Berlin 2014, con la traduzione di Thomas Vormbaum e Loredana Melissari.

Un bel riconoscimento per lo storico italiano che più di ogni altro ha scandagliato le vicende della persecuzione degli ebrei nel nostro Paese. E un modo per far conoscere meglio anche in Germania le leggi razziste del 1938 e la persecuzione delle vite successiva all‘8 settembre 1943.

(L'Unione Informa e Moked.it del 10 giugno 2014)

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Vecchie caste antichi scandali

di Mario Avagliano

La corruzione della politica italiana non è una vicenda storica e giudiziaria solo dei giorni nostri o degli anni di Tangentopoli. Gli scandali della casta, che in queste settimane sono sulla bocca di tutti, hanno interessato lo Stato unitario fin dai suoi albori. Alla fine dell’Ottocento fu la stagione del trasformismo a dischiudere le porte alla mala politica, che ebbe uno degli episodi più eclatanti nell’affaire della Banca Romana. Qualche anno più tardi, nel 1910, Gaetano Salvemini rivolgeva un durissimo j’accuse a Giovanni Giolitti, definendolo «Il ministro della mala vita».
Per capire le radici della corruzione della politica in Italia, una lettura utile, oltre che piacevole, è il romanzo «I misteri di Montecitorio» di Ettore Socci, la cui prima edizione risale al 1899 e che è stato ora ristampato da Studio Garamond, con introduzione di Saverio Fossati (176 pp, 12 euro).

Il pisano Ettore Socci, classe 1846, era un valente giornalista e scrittore, ma anche un politico impegnato. Mazziniano convinto, studiò a Firenze e combatté come volontario a fianco di Garibaldi in varie campagne tra il 1866 e il 1871. Diresse due giornali progressisti, Satana e Il grido del popolo. Venne arrestato e assolto più volte per via delle sue idee rivoluzionarie. Nel 1878 si trasferì a Roma, dove divenne amico intimo di Carducci e Cavallotti. Nel 1892 venne eletto deputato per il collegio di Grosseto.Il romanzo di Socci, che uscì a puntate sul giornale La Democrazia da lui stesso fondato, provocando non poco clamore, racconta l’irresistibile ascesa politica dell’avvocato Alfredo Guidi, anch’egli reduce garibaldino, che da giovane professionista di provincia diventa deputato romano.
Irriverente, caustico, spietato, «I misteri di Montecitorio», attraverso le vicende di Guidi, esplora ogni sfaccettatura dell’esperienza politica di un uomo qualunque catapultato dalla al centro della scena pubblica, che arriva nella capitale e scopre la realtà della politica italiana, che è molto diversa da quella che si aspettava. Il voto parlamentare è condizionato dalle lobbies e tutto quello che si decide è sulla base di un tornaconto personale.
E lo stesso ruolo di deputato è ridotto a quello di «una macchinetta semovente e parlante, il cui manubrio è a disposizione di tutti gli amidi di fede. Deve mangiare, bere, vestir panni e camminare come vuole il partito: guai a lui se frequenta certe persone, se bazzica in certi caffè, se parla come gli detta il suo cuore e non come esige la ragione di parte!»
L’avvocato Guidi, dalle prime, timide manovre per vincere la campagna elettorale fino alla vita mondana, le vacanze, l’amante ufficiale Adele, ci mostra quanto il potere riesca a trasformare anche il migliore degli uomini immaginabili nella più bieca e opportunista delle creature. E il suo collega Salvatore, patriota che era stato nelle carceri dei Borbone e aveva contribuito all’Unità d’Italia, rappresenta la goccia di bene che non corregge il lago dell’ipocrisia e dell’affarismo che occupa l’emiciclo di Montecitorio, e viene ridotto alla miseria da uno Stato che preferisce i furbi agli eroi. Cento anni prima degli scandali della Casta, il giornalista-deputato Socci narra in presa diretta corruzione, sotterfugi, miserie umane della classe politica italiana, inventando un genere, il romanzo parlamentare (che poi vedrà protagonisti anche Matilde Serao e Federico De Roberto), e offrendo, per la prima volta in Italia, un quadro umano e sociale che sconvolge per le rispondenze con le cronache odierne.

(Il Messaggero, 18 giugno 2014)

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Salotti di piombo, gli amici dei Br

di Mario Avagliano

Fotografie ingiallite degli anni Settanta e Ottanta. Quando mezza Italia, nei giornali, nelle università e nelle fabbriche, flirtava con il terrorismo rosso. “Eravamo clandestini per il potere ma non per le masse”, diceva l’ex brigatista Prospero Gallinari (deceduto il 14 gennaio 2013). E il brigatista romano Germano Maccari, soprannominato Gulliver, autore del primo truce episodio di “gambizzazione”, affermava compiaciuto: «Voi non mi credereste se vi dicessi in quante case di persone che oggi hanno un ruolo molto importante nell'informazione, o comunque un ruolo importante nella società, si faceva a gara per avere a cena uno come me».

Benvenuti, si fa per dire, ne La Zona Grigia, come è intitolato il pamphlet di Massimiliano Griner (chiarelettere, p. 304, euro 16), che – in attesa delle ulteriori rivelazioni che potranno venire fuori dalla desecretazione degli archivi di Stato, promessa dal presidente del Consiglio Matteo Renzi - ci ricorda, con dovizia di dettagli, il fenomeno transgenerazionale di un esercito di italiani che in modo ambiguo aiutò, ospitò oppure tifò per chi aveva scelto l’opzione senza ritorno della lotta armata e della clandestinità.
Donne e uomini che, in quegli anni di piombo, non di rado si erano regalati, per dirla con Miguel Gotor, “il brivido di un sanpietrino, il crepitio di una molotov, la sofferenza di una manganellata o il fragore di una vetrina infranta”. E che pur tuttavia si erano fermati sull’orlo dell’abisso, evitando di impugnare le armi, ma fornendo al partito della sovversione quel retroterra confortevole senza il quale non avrebbe potuto né operare con sanguinaria efficacia né resistere a una repressione progressivamente crescente.

Un libro scomodo che ha già suscitato polemiche e un acceso dibattito sui social network. Perché racconta, senza reticenze o riverniciature della memoria, la folle stagione del terrorismo rosso, nella quale furono assassinate 232 persone e altre 75 furono invalidate a colpi di pistola. Una stagione che vide protagonisti (e in qualche modo colpevoli) non solo i circa 4.200 terroristi condannati e i circa 20 mila italiani inquisiti, ma una rete assai più vasta di intellettuali, professori, giornalisti, avvocati, magistrati, operai.
Il viaggio di Griner in questo bacino torbido rivela infatti che l’Italia è stato il paese occidentale, tra quelli che hanno conosciuto la lotta armata, che ha dato al terrorismo il numero maggiore di fiancheggiatori. L’autore ne arriva a stimare oltre 600 mila, citando in prefazione una ricerca dell’intelligence americana del 1983. Non a caso il capo delle Brigate rosse Mario Moretti ebbe a dire: “Il numero dei nostri militanti è sempre stato relativo, quello che cresceva era la nostra influenza. Le Br nuotavano in quest’acqua tumultuosa”.
Qualche nome? Griner ne elenca a bizzeffe, alcuni sorprendenti. Si va dal poeta Franco Fortini, che scandiva slogan come “Guerra no! Guerriglia si!”, allo scrittore Erri De Luca, che andava in giro con la pistola (e ora è militante dei No-Tav), al giudice Franco Marrone, che dichiarò nel corso di un'assemblea di Lotta Continua che la giustizia altro non era che uno strumento della borghesia, fino al filosofo Norberto Bobbio, che presentò il libro di Irene Invernizzi Il carcere come scuola di rivoluzione.

Il grande editore Giulio Einaudi dedicò una collana ai bestseller degli intellettuali vicini al mondo del terrorismo, con titoli come L'estremismo, rimedio alla malattia senile del comunismo di Cohn-Bendit, mentre Giangiacomo Feltrinelli propose un testo intitolato Il Sangue dei Leoni, contenente un “elenco meticoloso di tecniche di guerriglia e sabotaggio”.
Il fiancheggiamento è durato anche oltre la stagione del terrorismo, come attesta la vicenda del terrorista e latitante Cesare Battisti. L’appello in suo favore è stato sottoscritto da scrittori come Valerio Evangelisti, Giuseppe Genna, Massimo Carlotto e persino un giovanissimo Roberto Saviano (che ritirerà la sua adesione nel 2009) e la sua causa appoggiata da riviste on line come Carmilla e da giornalisti come Gianni Minà.
Certo, l’Italia di quegli anni, osserva Griner, “era squassata da stragi di marca fascista, e lo scontro tra la sinistra extraparlamentare e lo Stato, sempre più repressivo, era durissimo”. Senza dimenticare che, soprattutto dopo il golpe di Pinochet in Cile e l’avanzata del Pci nel 1975 e nel 1976, anche una parte della sinistra parlamentare si sentiva minacciata da un possibile colpo di stato fascista. Ma il contesto storico non assolve chi appoggiò la lotta armata e quei tanti, la maggioranza, che nel “dopoguerra” non hanno fatto né una riflessione sul proprio operato, né un ripensamento o un’ammissione di responsabilità. Un velo che La Zona Grigia contribuisce finalmente a squarciare.

(Il Messaggero, 18 luglio 2014)

 

 

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La Grande Guerra. Poveri diavoli ed eroi, le storie dei combattenti

di Mario Avagliano

L'ultimo reduce della Grande Guerra del '15-'18, il bersagliere Delfino Borroni, è scomparso nel 2008 all'età di 110 anni. E gli eroi italiani della prima guerra mondiale, pur essendo l'Italia uscita vittoriosa da quel conflitto, sono nomi sconosciuti e poco o per niente giocati nel discorso politico e storico del nostro Paese, pur essendo presenti nella toponomastica di tutte le città d'Italia, con l'intitolazione di vie, piazze, scuole e istituzioni.
Il 4 novembre, giorno del trionfo italiano nel 1918, dopo la battaglia di Vittorio Veneto, non è neppure più festa. E anche il bellissimo film di Mario Monicelli con Alberto Sordi e Vittorio Gassman, intitolato appunto "La Grande Guerra", che contribuì alla demitizzazione della storiografia patriottica e romantica di quel conflitto, è inspiegabilmente tra i meno programmati dalle reti televisive.
Avvicinarsi a quegli italiani dell'Ottocento, sbattuti in trincea in quella prima immane carneficina massificata della Storia, non è affatto semplice, anche perché essi furono "oggetto di manipolazione e costruzione postuma a uso e consumo di questa e quella causa", in particolare quella fascista, come osserva Paolo Brogi in "Eroi e poveri diavoli della Grande Guerra" (Imprimatur, pp. 208, euro 15). C'è infatti un problema di fonti e di versioni dalle quali ricavare criticamente ciò che ci resta di quelle gesta.

È quel che prova a fare il libro di Brogi, che raccoglie una ventina di storie di eroi molto diversi fra loro, che costituiscono un campione rappresentativo di quell'esercito di italiani, 5 milioni e 200 mila, spediti al fronte, su un totale di 10 milioni di uomini validi. In pratica, uno su due, di cui 650 mila morirono in battaglia e un altro milione rimase ferito o mutilato per il resto della vita (22 mila ciechi, 75 mila storpi, 12 mila invalidi totali).
Seguiamo così la vita romanzesca di Enrico Toti, il bersagliere-ciclista con la gruccia, esemplare iperrealistico con quella sua menomazione dovuta a un incidente sul lavoro, il suo interventismo estremo, le sue imprese ciclistiche in giro per il mondo e la sua tenacia combattentistica ad ogni costo, nonostante gli fosse stata negata la matricola di militare a causa della sua inabilità.
Come non emozionarsi di fronte al coraggio dell' "irridente" Cesare Battisti - nulla a che fare col terrorista rosso, per carità - cittadino di quel Trentino che era ancora sotto l'Austria, che fu tra gli alfieri dell'intervento italiano e concluse il suo comizio al Campidoglio con l'invocazione: "Italiani! Tutti alla frontiera con la spada e col cuore!" Catturato dagli austriaci, fu processato per alto tradimento e impiccato il 12 luglio del 1916.
E poi il leggendario asso dell'aviazione Francesco Baracca, eroe gentiluomo, che dopo aver abbattuto un velivolo nemico, andava a soccorrere i piloti nemici, e sul suo aereo aveva fatto disegnato il cavallino rampante che poi divenne il logo della Ferrari. Il volontario quindicenne Roberto Sarfatti, ebreo, morto caporale in un'azione di attacco e figlio di quella Margherita Sarfatti, giornalista e scrittrice, che nel dopoguerra sarà amante di Benito Mussolini e contribuirà alla sua fama nel mondo con il libro-biografia "Dux", tradotto in varie lingue. Fino agli intellettuali e fini letterati Renato Serra e Scipio Slataper, depositari anche di accenti critici verso la guerra, oltre che di dedizione alla causa.
Non manca un accenno alle donne, come la maestra Luigia Guappi di Bologna e la pollivendola Gioconda Girelli di Milano che avevano vestito l'abito del soldato per recarsi a combattere.
Ma Brogi non ricorda solo gli eroi. Ogni guerra, Grande o piccola che sia, porta con sé drammi umani, atti di violenza, senso di orrore e di impotenza e anche gesti contrari, testimonianze a volte estreme di voglia di pace.
Non si può ignorare, in occasione del centenario del primo conflitto mondiale, il fenomeno dei renitenti alla leva (470 mila) e dei disertori (350 mila), molti dei quali motivati da sincero pacifismo. Un migliaio di loro, come ricordano Alberto Monticone e Enzo Forcella in "Plotone di esecuzione", pagò questa scelta con la fucilazione. Come il fante torinese, operaio, che scrisse in punta di morte: "Compagni la morte non mi fa paura, se anche i miei superiori mi dissero che questo è un posto d'onore, il mio sangue vorrò spenderlo per una causa giusta e leale, per far risorgere la vera società di fratellanza e di umanità".
E accanto agli eroi, ci sono i tantissimi italiani che sotto le bombe e il fuoco di trincea persero di fatto la vita, inghiottiti nel buco nero della follia. L'ultimo denso paragrafo del libro di Brogi è dedicato ai soldati usciti di senno in battaglia, per lo choc della guerra, che furono emarginati dalla società e, a volte, per il mal di vivere si suicidarono.
Si è detto, giustamente, che le trincee della Grande Guerra furono il campo-scuola in cui si forgiò l'Italia, perché per la prima volta piemontesi e siciliani, lombardi e campani, laziali ed emiliani, si incontrarono e fraternizzarono.
Ma l'altra faccia della medaglia, oltre ai morti, è rappresentata da quegli oltre 40 mila soldati che finirono nella rete dei manicomi di guerra, le cui vicende Brogi racconta con l'ausilio di documenti inediti, come le cartelle cliniche rintracciate nell'archivio dell'ospedale psichiatrico di Cogoleto a Genova. Con un termine inglese oggi questo insieme di disordini mentali è stato catalogato come post traumatic stress discorder. Allora, nel '15-'18, la definizione fu più cruda: "scemi di guerra".

(Una versione più breve è stata pubblicata su Il Messaggero del 27 luglio 2014)

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Da Orbetello a Chicago per ricordare la trasvolata di Balbo

di Mario Avagliano

Ci fu un’epoca in cui l’Arma azzurra, l’aviazione italiana, era ai vertici mondiali, con recordman dell’aria come Francesco De Pinedo e Arturo Ferrarin. La più grande impresa della storia dell'aviazione civile mondiale di tutti i tempi, e cioè la trasvolata atlantica che partendo da Orbetello il 1° luglio del 1933 portò 24 idrovolanti italiani S55 Savoia Marchetti a percorrere per la prima volta la rotta artica oggi utilizzata da tutti gli aerei di linea tra l’Europa e gli Stati Uniti, fu compiuta da una squadra di 107 piloti italiani (due morirono durante il viaggio) guidata da Italo Balbo detto “pizzo di ferro”.
Quell’impresa mitica, durata 43 giornate, rivive ottanta anni dopo in una mostra inaugurata a Orbetello il 26 luglio scorso e in un libro in due lingue, italiano e inglese, intitolato "Mari e cieli di Balbo" (Edizioni del Girasole, pp. 256, euro 20), a cura di Ivan Simonini, con prose letterarie del giornalista e scrittore Alberto Guarnieri, che propone una preziosa sezione di 350 documenti del periodo (immagini, grafici, comunicati, telegrammi, telefonate, radio intercettazioni), in parte inediti e in parte a colori, ed è arricchito da quindici litografie in tecnica mista realizzate per l’occasione dal pittore emiliano Nani Tedeschi e da un ampio apparato storico-critico (con postfazione di Paolo Mieli).

ll protagonista del racconto di Guarnieri è il generale Balbo, classe 1896. Un personaggio controverso. Originario di Ferrara, repubblicano, interventista nella Grande Guerra e decorato per meriti bellici, esponente di spicco dello squadrismo agrario e quadrumviro della marcia su Roma, guidò le squadracce fasciste contro gli arditi del popolo comunisti a Ferrara, Ravenna e Parma. Ma quale sottosegretario per l’Aeronautica, a partire dal novembre 1926, fu il vero fondatore dell’Arma azzurra, dandole un’anima ed esaltando la tecnologia made in Italy.
L’avventura di Balbo al centro del libro è la trasvolata oceanica, la cosiddetta crociera del decennale della marcia su Roma. Per ironia della sorte, proprio nel 1922 il Commissariato dell’Aeronautica aveva bocciato il primo esemplare degli S55. Fu Balbo a trasformare gli idrovolanti da brutti anatroccoli in celesti metallici cigni e scegliere come motori gli Isotta Fraschini, nonostante le proteste della Fiat.
L’aereo di Balbo si chiamava I-Balb e la formazione a punta di lancia utilizzata per la trasvolata ancora oggi è denominata “un balbo”.
Quando la “centuria alata” ammarò a Montreal, in Canada, poi a Chicago dove era in corso l’Esposizione Universale e infine a New York, Balbo e i piloti italiani furono accolti da festeggiamenti colossali, con ali di folla ad applaudirli e organizzazioni di parate. A Chicago li portarono in un stadio, a New York sfilarono sulla 5° Strada e al Madison Square Garden c’erano 400 mila persone ad ascoltare il discorso del gerarca. Suscitando l’irritazione e la gelosia di Benito Mussolini, Balbo fu ricevuto a Washington, con onori da capo di stato, dal presidente americano Roosevelt.
Il giorno dopo il ritorno degli eroi del volo a Ostia Lido, il 13 agosto del 1933 il duce riservò ai Balbo-boys il passaggio sotto l’Arco di Costantino. Ma la popolarità di Balbo in Italia e all’estero faceva ombra a Mussolini e così appena qualche mese dopo egli fu inviato in esilio dorato in Africa, con l’incarico di governatore della Libia. Dopo di lui l’aviazione italiana perse il contatto con l’evoluzione tecnologica ed iniziò una lunga fase di declino. Il gerarca-aviatore morì in volo su Tobruk, il 28 giugno 1940, all’inizio della seconda guerra mondiale, colpito in circostanze oscure dalla nostra contraerea.
La mostra "Mari e cieli di Balbo" volerà oltreoceano il 10 agosto a Montreal e il 14 agosto a Chicago, punto di arrivo degli “aeronauti”, dove ancora c’è una strada a lui intitolata, Balbo Avenue. La trasferta è stata organizzata in collaborazione con gli Istituti Italiani di Cultura delle due città, in occasione della Settimana Italiana di Montreal e della Festa Italiana di Chicago. Sarà l’occasione per il sindaco di Orbetello, Monica Paffetti, di lanciare la proposta di un concorso di idee internazionale per recuperare l'idroscalo della città, da cui partì l’impresa, per farne magari un museo della trasvolata.

(Versione più sintetica pubblicata su Il Messaggero del 30 luglio 2014)

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Storie - "La guerra che non ho combattuto"

di Mario Avagliano

Come si stava dalla parte di chi è perseguitato durante una guerra violenta come quella del 1939-1945? Ce lo racconta il diario di Giulio Supino, “Diario della guerra che non ho combattuto. Un italiano ebreo tra persecuzione e Resistenza”, appena uscito per i tipi di Aska Edizioni, a cura di Michele Sarfatti, che firma anche la prefazione.
Supino, professore di Idraulica espulso dall’Università nel 1938 perché ebreo, appuntò su alcuni taccuini nel 1939-1940 e nel 1943-1945 (per il periodo intermedio sono conservati fogli sparsi) le sue impressioni sulla vita di quegli anni a Bologna, le vicende belliche, la persecuzione antiebraica, l'inizio del suo impegno antifascista, e poi la Resistenza nelle fila del Partito d'Azione, la partecipazione alla vita sociale, lo studio, la rete amicale, la vita clandestina con la famiglia a Firenze nel 1943-1944, e l'impegno nella ricostruzione, fino al rientro a Bologna appena liberata.
Annotazioni che riflettono lo stato d’animo di chi è perseguitato, come quando nell’agosto del 1939, ripensando alla campagna di stampa che parla di “ebrei guerrafondai”, Supino di fronte all’opportunità che la consorte Camilla torni da Londra in Italia, scrive: “io non mi sento di affidare moglie e figlia a questi f.(ascisti)”.

Dal diario emerge il comportamento indifferente e spesso complice di gran parte della popolazione italiana (con delle eccezioni, per fortuna) sia di fronte all’applicazione delle leggi razziste del ’38 e sia, a seguito dell’armistizio del settembre ‘43, di fronte alla persecuzione delle vite messa in atto dai tedeschi con l’aiuto dei fascisti di Salò. Quando si scatena la caccia agli ebrei, l’impiegato della questura Vincenzo Attanasio, col quale è in contatto per conto della Resistenza, gli confessa: “Non avete idea della cattiveria umana. Valanga di lettere anonime. Spie ebree”.

L'inusuale "non" contenuto nel titolo rimarca il suo non aver combattuto nell'esercito italiano, perché ebreo, e non aver partecipato militarmente alla Liberazione di Firenze, perché ferito. Ma come scrive Sarfatti nella prefazione, in realtà Supino, che era reduce della Grande Guerra, combatté “varie guerre: quella per difendere e conservare la dignità propria e dei famigliari calpestata dall’antisemitismo di Stato, nonché la sua specifica dignità di studioso preparato e appassionato; quella per riaffermare i valori della democrazia; quella per la giustizia e la libertà reclamate dal PdA; quella per salvare la vita del suo nucleo famigliare, dei parenti prossimi, di altri ebrei braccati”.
Cronache di guerra e di persecuzione. Rare e quindi preziose. Da leggere con attenzione, con un occhio al presente, alla nostra Europa dove purtroppo sembra soffiare di nuovo un vento antisemita.

(L'Unione Informa e Moked.it del 12 agosto 2014)

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Eichmann era un cinico nazista, non 'la banalità del Male'

di Mario Avagliano

Adolf Eichmann, ovvero il Male non banale. A 51 anni dalla pubblicazione del libro di Hannah Arendt “Eichmann in Jerusalem”, proposto in Italia da Feltrinelli con il titolo “La banalità del male”, una nuova ricerca demolisce le tesi della studiosa tedesca naturalizzata americana, che nel 1961 seguì per la rivista New Yorker le 121 udienze del processo in Israele a uno dei principali responsabili della macchina della soluzione finale, condannato a morte e impiccato l’anno dopo. E capovolge la rappresentazione del criminale di guerra nazista fatta dalla Arendt come "un esangue burocrate” che si limitava ad eseguire gli ordini e ad obbedire alle leggi.
A firmare il saggio, uscito questa settimana negli Stati Uniti per i tipi di e già recensito con grande rilievo dal New York Times, è una filosofa tedesca che vive ad Amburgo, Bettina Stangneth, che ha lavorato attorno alla figura di Eichmann per oltre un decennio, scavando a fondo sulla sua storia. Ne è venuto fuori un libro provocatoriamente intitolato “Eichmann prima di Gerusalemme. La vita non verificata di un assassino di massa”, già pubblicato con scalpore in Germania.
Se ascoltando Eichmann a Gerusalemme, la Arendt rimase impressionata dalla sua "incapacità di pensare", invece analizzando l’Eichmann capo della sezione ebraica della Gestapo, e poi in clandestinità in Sudamerica, la Stangneth vede all’opera un abile manipolatore della verità, tutt’altro che un “funzionario d’ordine” o “un piccolo ingranaggio dell’enorme macchina di annientamento di Hitler”, come si autodefinì nel corso del suo processo. Adolf, insomma, non fu un signore qualunque chiamato dallo Stato tedesco a fare un lavoro sporco, ma fu invece un carrierista rampante e ambizioso e un nazista fanatico e cinico, che agì con incondizionato impegno per difendere la purezza del sangue tedesco dalla “contaminazione ebraica”.
In passato già vari ricercatori avevano seriamente messo in discussione le conclusioni della Arendt (che però, come ci ricorda un libro pubblicato di recente dalla Giuntina, “Eichmann o la banalità del male”, venne difesa da un grande storico del calibro di Joachim Fest). Ma con questo libro la Stangneth le "frantuma" definitivamente, come ha dichiarato Deborah E. Lipstadt, storica alla Emory University e autrice di un libro sul processo Eichmann.
La Stangneth sostiene che la Arendt, morta nel 1975, fu ingannata dalla performance quasi teatrale di Eichmann al processo. E aggiunge che forse "per capire uno come Eichmann, è necessario sedersi e pensare con lui. E questo è il lavoro di un filosofo". La filosofa tedesca ha però lavorato come uno storico, rovistando in ben 30 archivi internazionali e consultando migliaia di documenti, come le oltre 1.300 pagine di memorie manoscritte, note e trascrizioni di interviste segrete rilasciate da Eichmann nel 1957 a Willem Sassen, un giornalista olandese ex nazista residente a Buenos Aires.
Un libro che rivela tanti dettagli inediti, come la lettera aperta scritta nel 1956 da Eichmann al cancelliere tedesco occidentale, Konrad Adenauer, per proporre di tornare in patria per essere processato e informare i giovani su ciò che era realmente accaduto sotto Hitler (conservata negli archivi di stato tedeschi), oppure la riluttanza dei funzionari dell’intelligence della Germania Ovest - che sapevano dove si trovava Eichmann già nel 1952 – ad assicurare lui e altri ex gerarchi nazisti alla giustizia.
Ma il cuore del libro è il ritratto di Eichmann “esule” in Argentina, dove venne scovato e arrestato dagli agenti segreti del Mossad. All’apparenza era diventato un placido allevatore di conigli, con il nome di Ricardo Klement. In realtà l’ex gerarca nazista aveva conservato l’arroganza di un tempo e non era niente affatto pentito, tanto da spiegare la sua “attività” con una tirata che a leggerla lascia inorriditi. “Se 10,3 milioni di questi nemici fossero stati uccisi - disse degli ebrei - allora avremmo adempiuto il nostro dovere”.
Altrettanto interessante è la descrizione del cerchio magico di ex nazisti e simpatizzanti nazisti che lo circondava in Sudamerica. Personaggi che formavano una sorta di perverso club del libro, che s’incontrava quasi ogni settimana a casa di Willem Sassen per lavorare nell’ombra contro la narrazione pubblica emergente della Shoah, discutendo animatamente su ogni libro o articolo che usciva sull’argomento Con l’obiettivo di fornire materiale per un libro che avrebbe raffigurato l’Olocausto come una esagerazione ebraica, "la menzogna dei sei milioni" di morti.

(Il Messaggero, 4 settembre 2014)

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Storie – Colorni e il sogno europeo

di Mario Avagliano

Tra le figure meno conosciute della Resistenza e dell’antifascismo italiano c’è quella di Eugenio Colorni, filosofo brillantissimo, confinato politico, partigiano, uno dei tre coautori del Manifesto di Ventotene precursore dell’Unione Europea (gli altri due erano Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi). A fare luce su di lui è un’accurata biografia di Antonio Tedesco, “Il partigiano Colorni e il grande sogno europeo” (Editori Riuniti, pp. 205), patrocinata dalla Biblioteca della Fondazione Nenni, con prefazione di Giorgio Benvenuto, che sarà presentata venerdì 10 ottobre al Circolo "Giustizia e Libertà" di Roma (via Andrea Doria 79).
Eugenio Colorni, appartenente a una famiglia della medio borghesia ebraica milanese, secondogenito di Alberto Colorni e Clara Pontecorvo, è antifascista precoce, già a sedici anni, dopo l’omicidio Matteotti, e prosegue il suo percorso politico all’università, militando nei gruppo Goliardici per la libertà e poi aderendo a GL e al Psi.
In questi anni, anche grazie alla frequentazione con i cugini Sereni (Enrico, Emilio e in particolare Enzo) nelle estati a Forte dei Marmi, aderisce con fervore al movimento sionista, entrando nel 1928 nel comitato di segreteria del terzo congresso nazionale della Federazione Sionistica Italiana e partecipando nel luglio del 1929 al Congresso Sionista Internazionale di Zurigo.
Si allontanerà dal sionismo qualche anno dopo, pur conservando sempre vivo il sentimento di appartenenza alla comunità ebraica, per dedicarsi alla lotta in Italia contro il fascismo.
Iscritto al casellario politico già nel 1930 quale sospetto antifascista, diventa in poco tempo dirigente del Centro Interno Socialista. Il suo arresto il 5 settembre 1938, nel pieno della campagna razzista del regime fascista, farà clamore e sarà additato come esempio dell’antifascismo congenito negli ebrei. Il Corriere della Sera titola: “La trama giudaico-antifascista stroncata dalla vigile azione della polizia”.
Confinato a Ventotene, dove porterà a maturazione il suo ideale europeista a contatto con Spinelli e Rossi, e poi in Basilicata, nell’aprile 1943 si darà alla fuga, raggiungendo Roma ed iniziando un’attività politica clandestina. Nel settembre del 1943 sarà tra i promotori a Roma della Brigate partigiane Matteotti. Ferito gravemente il 28 maggio 1944 durante uno scontro a fuoco con due militi della Banda Koch a Piazza Bologna, morirà il 30 maggio all’Ospedale San Giovanni, dovendo così abbandonare la battaglia per realizzare il suo grande sogno: gli Stati Uniti d’Europa. Pietro Nenni scriverà nel suo diario: “La sua perdita è per noi irreparabile ed è dolorosa per la cultura italiana ed europea”.
In tempi come questi, in cui l’Europa è latitante, smarrita com’è nelle regole ferree dell’economicismo e del rigore dei conti, la figura e il pensiero di Eugenio Colorni, che prospettava un’unione federale di tipo politico e ideale, rappresentano – come ci spiega il libro di Antonio Tedesco - dei punti fermi dai quali ripartire e ritrovare passione ed entusiasmo.

(L'Unione Informa e Moked.it del 7 ottobre 2014)

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