Intervista Alberto Mucciolo, stilista

di Mario Avagliano
 
 
La moda a Salerno ha un portabandiera d’eccezione, Alberto Mucciolo. Le sue cravatte ornano le camicie di leader politici internazionali, come l’ex presidente del Brasile Fernando Enrique Cardoso, e di calciatori famosi, come Alessandro Nesta, e sono in vendita nelle catene di abbigliamento più in voga del globo, da New York a Parigi, da Madrid a Milano, fino a Rio de Janeiro. Un successo, dice Mucciolo, costruito in venti anni di “lavoro e di sacrifici, con umiltà e onestà e con il patrimonio dei clienti”. Virtù umane e imprenditoriali che lo hanno portato ad essere il fornitore ufficiale di cravatte del Coni, della Fifa, della Figc, di Rai Sport e di società di calcio come l’Inter, oltre che di aziende internazionali come il Pastificio Amato.
 
Com’era la Salerno dei suoi anni ruggenti?   
La ricordo buia e violenta. Una città caotica e trafficata, dove imperversava la droga. Il bar Nettuno era, suo malgrado, il punto di ritrovo dei tossicodipendenti, mentre al bar Roma si dava appuntamento la Salerno tranquilla. Il corso cittadino era il regno delle automobili. Si viveva in un mondo di macchine, senza verde e senza isole pedonali. La movida praticamente non esisteva. Per noi giovani, l’unico svago era recarsi a Cava d’inverno e a Cetara d’estate, dove almeno c’erano locali dove divertirsi. Insomma, non è stato un bel periodo, anche perché io, ultimo di quattro figli, in quegli anni ho perso entrambi i genitori. Per fortuna ho avuto accanto una persona straordinaria come mia sorella Amelia, insegnante del Centro di Formazione Regionale, che mi ha praticamente fatto da padre, da madre, da fratello e da sorella…
Com’è avvenuto l’incontro con la moda? 
La mia famiglia ha una tradizione nel settore del commercio. Mio padre Francesco gestiva alcuni negozi. Quando i miei genitori sono scomparsi, mi sono trovato senza un sostegno economico, e per vivere ho dovuto “arrangiarmi”. Gli inizi sono stati difficili. Dal lunedì al venerdì facevo il rappresentante di abbigliamento per conto di uno studio napoletano e il sabato e la domenica lavoravo come cameriere nei locali della provincia. Ho fatto la cosiddetta “gavetta”, e ne vado orgoglioso. Tra l’altro è proprio facendo il rappresentante di tessuti in Campania, in Puglia e in Basilicata che mi sono innamorato della moda. Ho cominciato a produrre un piccolo campionario di camicie e di cravatte con il mio nome e piano piano, quello che era quasi un hobby, è diventato il lavoro della mia vita.
Quando si è reso conto che aveva un futuro come produttore di moda?
E’ stato alla metà degli anni Ottanta e ricordo anche il momento preciso. Mi trovavo a Milano, in un negozio importante di via Bensi, nel quartiere della moda. Entrò una coppia di americani, ricchi ed eleganti, e comprò tre cravatte con il mio marchio. Fu allora che compresi che quella che avevo intrapreso poteva essere la strada giusta. Decisi di incrementare la produzione ed iniziai ad aprire i primi negozi. 
Ora esiste una catena internazionale di negozi firmati Mucciolo.
Oltre allo storico negozio di Salerno, in via Raffaele Conforti, ho aperto negozi a Roma in via Frattina, a Rio de Janeiro sulla famosa spiaggia Ipanema, a San Paulo di Brasile, a Lanciano in Abruzzo, ad Arezzo in Toscana, e a Cava de’ Tirreni. L’ultimo negozio lo ha aperto al corso di Salerno, lanciando la linea Mucciolo donna: camicie, foulard, maglioni. Poi ho dei corner personalizzati dove vendo il mio prodotto a New York,  a Milano, alle Galeries Lafayette di Parigi e al El Corte Inglés di Madrid.
Di recente ha lanciato anche una linea Mucciolo junior.
E’ una linea di camicie per ragazzi dai 7 ai 13 anni, marchiata Francesco Mucciolo, il nome di mio figlio, che ha due anni e mezzo.  
Come ha fatto ad avere successo e a dare una dimensione internazionale alla sua azienda?
Ci sono voluti sacrifici, umiltà, onestà, serietà e un bel patrimonio di clienti. Senza i clienti, non sei nessuno, non hai futuro. Nel mondo della moda le raccomandazioni non servono.
I clienti però non arrivano dal cielo.
E’ vero. Occorre vendere un prodotto di qualità ad un prezzo giusto. E bisogna avere creatività e la capacità di intuire dove va il mercato, di anticipare i tempi rispetto ai concorrenti. Ad esempio io l’anno scorso ho capito che la cravatta larga stancava, e così l’ho disegnata più stretta. Ho anche lanciato una linea di cravatte invernali colorate, proponendo colori considerati estivi, come il corallo, l’arancio, il verde. La risposta dei clienti è stata molto positiva e ora vedo che anche altri produttori stanno seguendo queste mie scelte.
Qual è il cliente che indossa le sue cravatte di cui va più fiero?
L’ex presidente del Brasile Cardoso. Ma poi ce ne sono tanti altri: il calciatore del Milan e della nazionale Alessandro Nesta, l’allenatore della Juventus Capello, il presidente dell’Inter Facchetti, il presidente della Fifa Joseph Blatter… La verità è che io sono fiero di tutti i clienti che portano le mie cravatte, da Cardoso al parcheggiatore di Piazza della Concordia. Dico sempre grazie ai miei clienti.
Che cosa per lei significa vestire alla moda?
Vestire alla moda è essere semplici, è scegliere i capi giusti indipendentemente dal prezzo e dalla griffe. Io penso che vestire è un po’ come il gusto del cibo: c’è chi ce l’ha e chi non ce l’ha. Tante persone pensano di fare moda perché spendono molto, e invece non fanno altro che coprirsi…
Per un imprenditore operare a Salerno e nel Mezzogiorno è uno svantaggio?
Guardi, io sono convinto che questo è un falso problema. Per svolgere bene un’attività imprenditoriale non conta il luogo, conta la persona e contano le sue doti umane e imprenditoriali. I problemi del Sud nascono da noi stessi. Siamo noi meridionali a dover rilanciare la nostra terra.
La sfida dei cinesi, la cosiddetta invasione “gialla” dei mercati di consumo internazionali, pesa anche a Salerno e nel settore della moda?
Effettivamente la forbice dell’offerta si è allargata. Vi è una fascia alta, e cioè il prodotto fatto in Italia; e una fascia bassa, ovvero il prodotto fatto in Cina. Tuttavia io penso che alla fine la qualità paga sempre. I cinesi sono bravi a copiare, ma i loro prodotti di moda sono poveri sia come cucitura che come rifinitura. Noi italiani siamo maestri dell’arte del cucito e della moda e non dobbiamo temere la loro concorrenza.
Una difesa in piena regola del made in Italy.
Sì, e le dirò di più: ho dato disposizione ai miei collaboratori di inserire in tutte le insegne dei miei negozi, accanto al mio marchio, la scritta “Made in Italy”. La stessa sigla è impressa sulle etichette delle mie camicie, delle mie cravatte e degli altri miei prodotti. Lo ribadisco: alla sfida cinese, si risponde con la qualità del settore tessile italiano. Quanto a me, sono orgoglioso di portare il nome di Salerno e dell’Italia nel mondo.
Ha parlato di Salerno. Chiudiamo con un giudizio spassionato sulla sua città. Come la vede?
Salerno è cambiata in meglio. Oggi c’è più verde, ci sono più spazi per i giovani, c’è più stile, più costume, più cultura, anche più attenzione alla moda. Io a Salerno ci vivo bene, ho i miei amici storici - Michele Naddeo, Antonio Giordano e Gianfranco Coppola - e non la cambierei per nessun posto al mondo. Anche perché la domenica mi mancherebbe la partita allo stadio e fare il tifo per la Salernitana.
Quest’anno la Salernitana riparte dalla C.
Io credo che i proprietari della Salernitana siano persone perbene. Ho anche prodotto delle cravatte speciali per la squadra. Purtroppo, nel mondo del calcio com’è oggi, essere perbene non è un vantaggio. Il calcio è diventato un business ed è frequentato da troppi avventurieri. Ci vorrebbe un po’ di pulizia. Detto questo, sono ottimista. Possiamo centrare i play off. Mi dicono che il nuovo allenatore sia molto bravo. Darò il mio contributo di tifoso. Forza granata!
 
 (La Città di Salerno, 4 dicembre 2005)
 
Carta d’identità
 
Luogo e data di nascita: Salerno, 12 febbraio 1962
Sposato: sì, con Flavia De Luca
Figli: 1 (Francesco)
Hobby: lettura e calcio.
Il libro preferito: “L’ombra del vento” di Carlos Ruiz Zafòn
Il film preferito: “Turista per caso” di Lawrence Kasdan

 

Intervista a Bruno Venturini, cantante

di Mario Avagliano
 
 
Ancora una volta nel segno di Caruso. Bruno Venturini non poteva che scegliere Sorrento e la magica atmosfera del ristorante Museo Enrico Caruso, per festeggiare i “primi trent’anni di canzoni per Napoli”, circondato dall’affetto del sindaco Mario Fiorentino, degli amici e di tante personalità della cultura, della musica e della politica. Quella di ieri è stata una serata di ricordi e di emozioni forti, e si è conclusa proprio in quei luoghi dove il grande tenore napoletano trascorse gli ultimi giorni della sua vita, prima di chiedere alla moglie Dorothy di essere trasportato a Napoli per vedere per l’ultima volta il sole della sua città. E’ davanti al Golfo di Sorrento che Bruno Venturini si è raccontato a la Città di Salerno, ripercorrendo un quarto di secolo di dischi e di esibizioni per personaggi come Papa Wojtyla, Breznev, Deng-Xiao-Ping, Bill Clinton, Gorbaciov, Jacqueline Kennedy, Grace Kelly. 
 
Lei è originario di Pagani.
Mio padre Raffaele era napoletano, aveva un negozio di tessuti al Rettifilo. Mia madre Vittoria, invece, era originaria di Angri, nipote del beato Alfonso Maria Fusco, il fondatore delle suore di S. Giovanni Battista. Durante la seconda guerra mondiale, il negozio di mio padre fu scassinato e gli derubarono tutta la merce. Dopo il conflitto, mio padre fu costretto a ricominciare daccapo a Pagani, dove viveva mio nonno Giuseppe. Abitavamo in una strada colorata e vivace, via Lamia, che era un po’ la Forcella di Pagani. I primi anni di vita li ho trascorsi lì, in mezzo ai vicoli, giocando con lo strummolo e avendo, non di rado, scontri fisici con gli altri ragazzi. Come Caruso, sono stato uno scugnizzo di strada. 
Poi nella seconda metà degli anni Cinquanta si trasferì a Salerno.
Sì, mio padre ebbe fortuna con la sua attività e venne a Salerno, dove aprì un negozio in via Velia. Avevo dieci anni. Prendemmo casa in Piazza Luciani, di fronte al Teatro Verdi. Purtroppo mio padre si ammalò di cirrosi epatica. In due-tre anni, tra medicine e assistenza, ci mangiammo tutto il patrimonio di famiglia. Ricordo che lo portammo anche in una clinica a Roma, ma fu tutto inutile. Però, durante quel lungo soggiorno romano ebbi modo di conoscere i grandi tenori Beniamino Gigli e Mario Lanza.
Come andò?
Io e mio fratello Peppino eravamo alloggiati in una pensione a Montemario, da Sora Stella. Per mantenerci, andavamo a vendere maglie a Porta Portese e io, prima di iniziare la vendita, mi esibivo con un repertorio di canzoni napoletane. Un giorno, al mercato, giravano le scene di “Arrivederci Roma”, con Mario Lanza. Il tenore, quando mi sentì cantare, si avvicinò e disse in un italiano americanizzato: “Uagliò, tu canti molto buono, ma devi studiare”. E mi regalò dieci dollari che conservo ancora con il suo autografo. Quanto a Gigli, il marito di Sora Stella, che si chiamava Sor Gigetto, era il suo maggiordomo. Volle portarmi a conoscere il grande tenore il quale, dopo che mi ebbe ascoltato, esclamò: “Questo ragazzo ha una gran voce!”. 
Come iniziò la sua carriera musicale?
Io frequentavo l’Istituto tecnico commerciale, che era sito nel palazzo Ischitella. Il canto per me era una passione, per così dire, solo casalinga. Finché venne ad abitare nell’appartamento accanto al nostro un intendente di finanza di Napoli. La moglie, la signora Fanale, ai suoi tempi era stata un grande soprano e aveva cantato anche con De Lucia al Teatro San Carlo di Napoli. Un bel giorno bussò alla nostra porta e chiese a mia madre chi era che sentiva cantare la mattina. “E’ mio figlio Bruno”. “E perché non lo fate studiare?”. Mia madre, poverina, le fece capire che non potevamo permettercelo. “Non vi preoccupate – replicò lei - Ci penso io”. E così mi presentò a Franz Carella, che dirigeva il liceo musicale di Porta Nova, e ad Alfredo Giorleo, che aveva una scuola a Piazza Ferrovia. Loro due sono stati i miei primi maestri di canto.
Quale fu il momento di svolta?
Avevo 15 anni, ma ero alto e ben piazzato e ne dimostravo 18-20, e così pensai di partecipare al Festival Voci Nuove che si teneva a Napoli, nell’ambito della manifestazione Porta Capuana in Festa. Mio fratello Peppino conosceva un fabbricante di calzini, il signor Visconti, il quale era grande amico del patron della festa, don Raffaele Russo, e mi procurò un’audizione con lui e con il maestro Felice Genta. Questi rimase entusiasta di me e convinse don Raffaele che, nonostante la giovane età, dovevo esibirmi tra i professionisti e non tra i dilettanti. E così mi trovai a cantare con big come Claudio Villa, Sergio Bruni, Achille Togliani, Franco Ricci.
Un bel parterre.
Io poi allora ero povero in canna. Non avevo neanche l’abito. Andai da Franco, un sarto amico di famiglia, e gli feci rivoltare il vestito nero da sposo in vigogna di mio padre. Gli arrangiamenti musicali li confezionò il maestro Giorleo. Un tipografo di Salerno, Ciccio Rufolo, stampò 500 mie fotografie e me le regalò. La signora Fanale, invece, mi scelse il nome d’arte: Bruno Venturini.
Come ricorda il suo debutto sul palcoscenico?
Era la sera di ferragosto. Presentava Corrado. C’era un’orchestra di cento elementi, diretta a turno da Luigi Vinci e da Giuseppe Anepeta. Il primo a cantare fu Gino Latilla, con “Giumbalabei”. Un’esibizione strepitosa. Il pubblico si spellava le mani. Quando Corrado venne dietro il palcoscenico, e chiese a chi toccava, nessuno fiatava. Io alzai la mano e lo seguii. Presentai “L’ultimo raggio ‘e luna”, del maestro Vian. Fu un trionfo. Chiesero il bis, e così cantai “Passiggiatella”. Sotto al palco c’erano due giornalisti salernitani del Mattino, Clodomiro Tarsia e Gino Liguori, che gridavano come degli ossessi: “Chist’ è ‘i Salierno!”. Quando terminai, ai piedi della scalinata mi aspettava don Amerigo Esposito, della Phonotype, la più antica casa discografica napoletana. “Uagliò, mi siete piaciuto. Domani venite a via Mezzocannone. Se risultate fonogenico, vi faccio il contratto”.
Così incise il primo disco.
Don Amerigo scelse due brani: “N’ coppa all’onne” di Acampora e “Margherita ‘e fuoco”. L’orchestra dal vivo era diretta dal maestro Mario Festa. Ricordo che quando andavo a scuola, gettavo un occhio al mio disco nella vetrina del negozio D’Aniello, in via Duomo, con la mia fotografia. Era un’emozione! Però il mio primo grande successo fu nel 1959, con una cover di Sanremo, “Io sono il vento”, cantata da Arturo Testa, che aveva fatto un exploit al Festival, classificandosi secondo. Il suo discografico tardò a stampare il disco, e così la gente quando andava nei negozi e diceva il titolo, trovava il mio e l’acquistava. Fu così che approdai alla Durium.
La famosa casa discografica milanese.
Durium significava cantare per radio nazionale ogni giorno. Avevano una sede pure a Napoli, sempre in via Mezzocannone. Il loro agente, Raffaele Palma, mi contattò attraverso il negoziante di dischi D’Aniello. Prima di firmare con loro, però, chiesi di avere l’autorizzazione della moglie di don Amerigo, che nel frattempo era morto. A Milano conobbi Mina e mi proposero di cimentarmi con il rock. La canzone che cantai, “Colpevole”, ebbe un grande successo nei juke-box.
Nel 1964 volò in Usa e cantò, tra l’altro, per il clan dei Kennedy.
Capitò che Jacqueline Kennedy venisse in villeggiatura sulla Costiera amalfitana, a Villa Rufolo a Ravello. L’indimenticabile avvocato Mario Parrilli, allora presidente dell’Ente per il Turismo, che era innamorato della musica napoletana classica e scriveva anche canzoni, mi convocò nel suo ufficio a via Velia e mi chiese di cantare in una serata di gala in onore della signora Kennedy, alle Arcate ad Amalfi, vestito da marinaio e con l’accompagnamento di un mandolino. Le piacqui tanto che l’ente per il turismo mi scritturò per tutta la durata della vacanza amalfitana della signora. Qualche giornale scrisse perfino: “La Kennedy ha perso la testa per lo scugnizzo napoletano”.
E l’esperienza americana?
Sulla scia degli articoli sulla Kennedy, gli agenti dell’Organization Great Show, quando vennero in Italia per una tournée di cantanti italiani negli Stati Uniti, mi contattarono, insieme a Sergio Bruni. Mi portai dietro anche un ragazzino di talento, Massimo Ranieri, che allora si chiamava Gianni Rock. Ebbi l’onore di cantare nel tempio americano della musica lirica, l’Academy of Music di Brooklyn, oggi teatro-museo, dove si era esibito pure Caruso. Fu un trionfo straordinario e in quell’occasione conobbi Bob Kennedy. 
Nel 1966 partecipò al suo primo Festival della canzone napoletana.
Partecipai in coppia con Jenny Luna, rockstar romana, con il brano “Tu iste a Surriento”, musica di Mario Festa e testi di Cutolo. Ancora oggi, quando incontro i miei amici Tullio De Piscopo, Tony Esposito e Pino Daniele, mi ringraziano. Fui il primo a portare il rock nel festival napoletano, rompendo gli schemi del passato.
Lei è impegnato da anni per la riabilitazione artistica e musicale di Caruso. Come mai tanta passione per il grande tenore?
Una notte mia moglie Mena lo ha sognato: “Io sono Caruso. Di’ a tuo marito che nessuno parla più di me. Mi deve fare un omaggio e io lo ripagherò”. E così nel 1988 è nato il tour “Omaggio a Caruso”, che poi è diventato anche un disco di grande successo, pubblicato dalla Saar. Da allora, è come se fosse mio padre. Parlo quotidianamente con lui. Ogni anniversario della sua nascita, il 25 febbraio, mi reco alla sua cappella. I suoi eredi, invece, si sono dimenticati di lui. 
Trent’anni di carriera sono un traguardo importante. Come lo sta celebrando?
Credo che l’avvenimento più significativo, a parte questo di Sorrento, sia stato a Napoli, all’Archivio Sonoro della Canzone Napoletana, al quale ho donato la mia intera discografia, composta da 650 incisioni. Ho inciso tutta la storia della canzone napoletana. Non c’è nessun altro artista che abbia fatto altrettanto. Poi ho festeggiato il trentennale cantando a Napoli, in via Caracciolo, a Paestum, a Maiori, all’Arena del Mare a Salerno, e sono stato a Domenica In, da Mara Venier, e a Uno Mattina, dove mi ha intervistato Paolo Mosca. Infine il sindaco di Salerno De Biase e l’assessore Ermanno Guerra vorrebbero tenere una serata di gala al Teatro Verdi di Salerno e il Presidente della Regione Bassolino ha intenzione di organizzare una grande festa finale al Teatro San Carlo. Sarà una festa dedicata alla mia carriera ma soprattutto dedicata a Caruso. Ripeto, io sento che il mio compito è quello di riabilitare la sua figura. 
In  trent’anni ha venduto più di 80 milioni di dischi ed è stato in tournée in tutto il mondo. C’è chi parla di lei come “l’ambasciatore della canzone napoletana all’estero” e il New York Times l’ha definita addirittura “one of the great tenors of our days” (uno dei primi tenori dei nostri giorni). 
Fu il Presidente Pertini a definirmi così e senza false modestie credo di aver meritato questo appellativo. Sono stato il primo artista occidentale ad essere invitato a Pechino, in Cina, nel 1984. Ho cantato a Piazza Tien An Men, davanti a due milioni di persone. Pensi che ancora adesso in Cina, assieme agli spaghetti “Marco Polo”, si trova la pizza “Bruno Venturini”. Poi sono stato il terzo cantante italiano a fare una tournée in Russia, dopo Claudio Villa e Domenico Modugno. Mi sono esibito al Teatro dell’Opera di Vienna, in Giappone, in Canada, negli Usa, in Australia, in Brasile, in Argentina, in Germania e in tutta Europa, e perfino ad Anchorage, in Alaska, per le truppe americane della base Nato. 
Tra i tanti personaggi famosi che ha avuto modo di conoscere da vicino, a quale è più legato? 
Papa Giovanni Paolo II e Grace Kelly. Il Papa lo conobbi nell’84, prima del mio viaggio in Cina. Poi lo rividi nell’ottobre del 2001, in occasione della beatificazione di Alfonso Maria Fusco, quando ebbi l’onore di cantare in San Pietro sull’Altare Maggiore il canto liturgico “Panis Angelicus”, un privilegio concesso in passato solo al tenore Beniamino Gigli. Dopo la cerimonia, mi inginocchiai davanti a lui, sicuro che non mi avrebbe riconosciuto. E invece lui mi guardò, sorrise e disse: “O sole mio… Figlio, tu quando canti, preghi due volte…”. Mi strinse forte e mi benedì. Non mi lasciava più andare…
E Grace Kelly?
La conobbi  alla “corte” di Jacqueline Kennedy. Era una donna di straordinaria eleganza e signorilità. Quando diventò principessa di Monaco, rimasi in contatto con lei tramite la sua segretaria Luisette Grillo. E così, quando mi sposai e andai in viaggio di nozze in Costa Azzurra, fui suo ospite al Palazzo Reale…
C’è qualche vip che si è innamorato sulle note delle sue canzoni?
Ce ne sono tanti. Per esempio Gorbaciov e la moglie Raissa. Quando nel ‘97 furono ospiti a Giffoni Valle Piana, rivelarono di essersi innamorati ascoltando una mia interpretazione di “Dicitancello vuie” e chiesero come regalo di poter assistere a un mio concerto. Cantai per loro a Villa Siniscalchi, in un’esibizione privata. 
Qual è il segreto di una voce come la sua, inalterata nel tempo?
Il segreto è studiare, studiare, e ancora studiare, non risparmiarsi mai. E’ un lavoro che non ha mai fine. Chi si sente arrivato, è uno stupido.
Quali nuovi progetti sta preparando?
Nel 2006 usciranno due miei nuovi cd, “Notturno d’amore” e “Eternamente”, nei quali canto romanze, brani lirici, temi di film e pezzi della grande canzone popolare italiana, accompagnato dall’orchestra sinfonica diretta dal maestro Alberto Baldambembo. Li sto incidendo con la Saar, l’ultima casa discografica italiana a capitale italiano, lo scriva. Speriamo che non se la comprino gli stranieri. In questo mondo globalizzato, rischiamo di perdere la nostra cultura e le nostre tradizioni musicali. 
Qual è il suo rapporto con Salerno?
Io amo moltissimo sia Salerno che Cava. Salerno è la mia città, è bellissima, a misura d’uomo, e non la abbandonerò mai. Cava è la città di mia moglie Mena e dove sono nati due dei miei figli. Ci siamo conosciuti sui banchi di scuola quando aspiravo a diventare un artista, ma non ero ancora nessuno. Mi sono sposato alla Chiesa di San Francesco, nel 1968, con Sergio Bruni testimone di nozze e il ministro Fiorentino Sullo compare d’anello.
Nel panorama musicale italiano e napoletano, c’è un erede di Bruno Venturini?
Non mi pare proprio. Anche perché a Napoli - sembra assurdo, ma è vero - non esistono scuole di canto napoletano. I giovani cantanti inseguono l’America, ignorando che gli americani hanno copiato le nostre sonorità e il nostro swing popolare. Ricordo che anni fa ne parlai con John Denver alla “Notte delle stelle” a Innsbruck, e lui concordava sul fatto che il folk-country avesse preso spunto dalla tarantella napoletana. In questo quadro così buio, è difficile individuare un erede. La mia unica speranza è mio figlio Salvatore. Ha venti anni, una voce ancora più bella della mia ed è dotato di una grande versatilità. Canta da baritono, da tenore e da basso. Se s’impegna e capisce che questa professione è fatta di lavoro, di passione e di sacrifici, credo proprio che potrà seguire le mie orme!
 
(La Città di Salerno, 18 dicembre 2005)
 
 
Carta d’identità
 
Bruno Venturini è nato a Pagani e vive a Salerno. 
Sposato con Filomena
Ha tre figli: Raffaele, Vittorio e Salvatore
Hobby: monete antiche, orologi, francobolli, sport (in particolare golf, rugby e atletica leggera)
Libro preferito: i saggi di Alberto Bevilacqua e i libri di Luciano De Crescenzo
Film: le pellicole italiane e americane degli anni Cinquanta e Sessanta 
 
Ha pubblicato decine di dischi e compilation. Tra i suoi più grandi successi figurano l’”Antologia della Canzone Napoletana” (il primo volume è del 1973), che raccoglie 450 brani dal 1500 ai giorni nostri; “Bruno Venturini sings Mario Lanza”, disco di platino per le vendite in Usa; “L’oro di Napoli”, disco di platino in Italia, “Bruno Venturini canta la Napoli di Caruso” (1988), ristampata 48 volte. 
 
Ha vinto numerosi premi, tra cui il Festival mondiale delle arti in Cina (1989 e 1990) e, più di recente, il Premio Totò a Benevento (2002) e il Premio Caruso 2004. Lo scorso anno è uscito il suo ultimo disco, “Omaggio a Caruso” (Saar records).
E’ accademico d’Italia honoris causa dell’Accademia delle Scienze e delle Arti di Milano, e ha avuto la cittadinanza onoraria di New York, Providence, New Haven, Sidney, Paestum, Mariori, Angri e Cetara. E’ stato nominato recentemente grand’ufficiale della Repubblica “per meriti artistici internazionali”.
 

Intervista a Claudio Gubitosi

di Mario Avagliano
 
 
“Il sogno del Giffoni Film Festival potrebbe essere vicino al capolinea”. Claudio Gubitosi, 54 anni, ideatore e direttore artistico del GFF, è in Australia, dove sta organizzando una nuova edizione del Festival dei ragazzi, che si terrà a Sidney nel 2007. Ma anche in lidi così lontani, il suo pensiero è rivolto al futuro di Giffoni. E ricordando quel lontano venerdì di novembre del 1970 in cui nacque il progetto della rassegna cinematografica, lancia un accorato appello al Presidente della Regione Antonio Bassolino e al Presidente della Provincia Angelo Villani: “Non ci abbandonate! Il Festival non può durare in eterno. Il futuro è il Giffoni Multimedia Valley, un grande progetto di edu-entertainment, formazione e produzione, che ci metterebbe in grado di produrre film e cartoni animati da esportare in tutto il mondo, creando quasi 900 posti di lavoro stabile. Diteci se siete d’accordo oppure no. Il tempo stringe e qualcuno potrebbe rubarci l’idea”.
 
Facciamo viaggiare indietro la macchina del tempo. Partiamo dai ricordi della Giffoni che fu…
Fino all’età di dodici anni ho vissuto a Vassi, una frazione di Giffoni, che era una  specie di paese nel paese. Ho un bel ricordo di quel periodo. C’era un clima familiare, di forte cooperazione tra la gente. Ci si divertiva con poche cose e si era felici. Poi la mia famiglia si trasferì a Giffoni centro e anche lì mi integrai subito nella comunità locale. Fondai il primo giornale di Giffoni, che si chiamava “Noi Giovani” e coinvolgeva ben 150 ragazzi. Poi fui tra gli organizzatori della prima discoteca “protetta”: tutte le sere si stava assieme, ballando o ascoltando musica classica. Ero anche impegnato in politica, nella DC. Fui per diverso tempo consigliere comunale.  
Lei è stato anche un musicista.
Sì, mi dilettavo a suonare l’organo. Col tempo il mio hobby diventò un lavoro. In provincia gli organisti erano pochi ed io ero conteso dai parroci delle chiese di Giffoni e degli altri comuni vicini. Questo mi permetteva di raggranellare un po’ di soldi, che poi investii nel progetto del Festival. Ecco, posso dire che i sacerdoti sono stati i primi produttori della manifestazione di Giffoni.
Già, perché pochi sanno che lei organizzò la prima edizione del Festival quando aveva appena 18 anni…
Mi sono appassionato al cinema fin da quando ero bambino. Ero un habituè del cinema all’aperto di Giffoni, che si teneva dove oggi c’è il giardino degli aranci. Spesso davano film drammatici, come “La cieca di Sorrento” o “Non c’è pace tra gli ulivi”. Avrei dovuto scappare dal cinema, invece mi innamorai di quella meravigliosa arte dei sogni. Così imparai a fare l’operatore cinematografico al Cinema Teatro Valle di Giffoni e iniziai ad organizzare le prime rassegne sui film di Carmelo Bene e di Pasolini, cui seguivano lunghi dibattiti politici.
E quando nacque l’idea del Festival dei ragazzi?
Ricordo ancora il momento esatto. Era un venerdì di novembre del 1970. Piovigginava, il cielo era grigio, io mi trovavo nella piazza di Giffoni e sentivo qualcosa ribollirmi dentro. Il lunedì successivo chiamai a raccolta i pochi amici irriducibili cinofili, tra cui Carlo Andria, Mario Ferrara, Franco Rega e Generoso Andria, e illustrai il progetto di realizzare un festival internazionale dedicato ai ragazzi.
Perché ai ragazzi? 
L’idea di dedicarlo ai ragazzi veniva dal disagio di non aver vissuto un’infanzia di giochi e di apertura al mondo. Per me il cinema era l’unica occasione di sognare, di volare lontano dai confini di Giffoni… E pensavo che questo fosse un sentimento condiviso da tanti ragazzi.
I primi anni sono stati difficili?
Sono stati anni molto duri. La cosa più difficile era convincere il territorio della validità dell’idea e allo stesso tempo accettare le inevitabili derisioni, le critiche, perfino le accuse di voler creare un altro carrozzone della Dc. Ci sono stati momenti di sconforto, ma non mi sono mai arreso. Col passare del tempo, l’offerta qualitativa del Festival è cresciuta e anche l’industria cinematografica ci ha guardato con interesse.
Quale è stato il momento di svolta?
Direi il Festival del 1982, quando il regista François Truffaut accettò di essere nostro ospite, assieme alla splendida Fanny Ardano, e in una bellissima lettera, che mi consegnò prima di partire, scrisse che "…di tutti i festival del cinema quello di Giffoni è il più necessario". Fu per me una svolta soprattutto interiore. Le sue parole mi fecero capire che il Festival non poteva essere solo un hobby, ma doveva essere la mia attività principale. 
Allora di mestiere cosa faceva?
Nel 1979 mi ero dimesso da consigliere comunale e avevo vinto il concorso per dattilografo al comune di Giffoni. Due anni dopo ero stato chiamato alla Regione Campania, con il compito di curare le pubbliche relazioni. Lasciai l’incarico alla Regione e mi dedicai anima e corpo a riorganizzare la macchina del Festival, che fino ad allora viveva grazie al volontariato, trasformando quella manifestazione in un lavoro stabile per me e per tante altre persone. 
Missione compiuta.
E’ vero. I fatti ci hanno dato ragione. Oggi intorno al Festival gravitano oltre 240 persone.  E’ una vera e propria industria culturale. Abbiamo dimostrato che un’idea per affermarsi non ha bisogno di una location di fama internazionale. Se un’idea è buona, non conta se nasce a Sorrento, a Taormina, a Venezia oppure a… Giffoni. Anzi, come ha osservato acutamente il regista Emil Kusturica, la “diversità” di Giffoni, la sua natura di paese meridionale, con le persone affacciate ai balconi e i panni stesi ad asciugare al sole, è un punto di forza e costituisce un motivo di attrazione rispetto alle rassegne paludate che si svolgono in tutto il mondo.
In 35 anni di Festival, quali sono i ricordi che le sono rimasti nel cuore?
Certi momenti sono per me indimenticabili. Lo splendore e la bellezza di Meryl Streep. La poesia silenziosa di Kiarostami. L’irruenza di Alberto Sordi che, a dispetto di certe dicerie, era in realtà un uomo assai generoso. La paura di Zeffirelli di andare sul palco e di incontrare i ragazzi e il pubblico...
Il Festival ha anche cambiato il volto di Giffoni.
Giffoni ha creduto nel Festival ed è profondamente cambiata grazie a questa manifestazione. Oggi è un centro fiorente e gradevole. Il Festival ha dato un impulso notevole all’economia locale, non solo per i flussi turistici, ma perché ha stimolato la ricaduta sul territorio di importanti investimenti. Eppure c’è chi non lo riconosce.
Si spieghi meglio.
Vede, negli ultimi tempi c’è la tendenza a dire: “il Festival è importante, ma ci sono pure altre cose”. Nessuno ha il coraggio di affermare che il Festival è stato il motore principale di sviluppo di Giffoni e dell’area dei Picentini. Giffoni oggi è un marchio esportato in tutto il mondo, in Cina, in Australia, negli Stati Uniti, e che vanta numeri sbalorditivi: 100 mila persone provenienti da tutti i continenti per la settimana del Festival; 2.700 camere d’albergo occupate; 5 mila ritagli di rassegna stampa. Non c’è un esempio simile in Europa. Forse neppure alla Biennale di Venezia lavorano tanti giovani e intellettuali, che hanno sposato il progetto di Giffoni e che stanno crescendo assieme a noi.
Qual è il segreto di questo successo?
Se mi guardo indietro, devo constatare che nessuno ci ha mai regalato niente. Ci sono voluti passione, coraggio e tanto cuore. Ma la carta vincente è stata l’idea della “continuità”, la capacità di comprendere che il progetto Giffoni non poteva esaurirsi nella settimana del Festival. Non sarebbe servito all’industria cinematografica e non sarebbe stato utile all’economia locale. Ecco perché abbiamo sviluppato il rapporto con le scuole, investendo sulla formazione. Ecco perché è nata l’idea di costruire a Giffoni la cittadella del cinema. Fu proprio il Presidente Ciampi, attraverso il Cipe, il primo finanziatore di questo ambizioso progetto. 
L’altro significativo passaggio è stato l’internazionalizzazione del Festival.
Giffoni è diventata un punto di riferimento internazionale per un modello di incontro e scambio vivace e diretto tra universo produttivo e pubblico, a difesa del valore artistico del cinema, e del suo ruolo nella formazione di una matura coscienza critica delle nuove generazioni. I due accordi con la Cristal Sky di Los Angeles e con l’Adelaide Film Festival di Sidney, per l’”esportazione” del GFF, siglano il successo della formula. Nessun altra città al mondo ha avuto, come Giffoni, l’onore dell’apertura dei cancelli di Hollywood… Ma il GFF non si fermerà di certo qui. Nel 2006, infatti, approderà anche in Cina. Il Ministero dei Beni Culturali ha scelto il Giffoni Film Festival  per promuovere una rassegna di cinema italiano ed europeo per ragazzi, che si terrà il prossimo settembre.
Se il marchio Giffoni è apprezzato a livello mondiale, perché lei è preoccupato per il futuro del Festival?
Vede, viviamo in un momento particolare. L’affermarsi delle nuove tecnologie e la capacità finanziaria che possono avere altri soggetti, più grandi di noi, possono creare seri problemi. In un momento di crescita, si lavora assieme, si cerca di affrontare assieme le sfide. Io invece ho una brutta sensazione, anche perché noto una certa disaffezione del territorio. Nessuno ci dice che progetti avete, come possiamo aiutarvi… La compartecipazione è limitata al momento dell’elargizione del contributo, e questo non va bene. Giffoni per svilupparsi ha bisogno delle coccole e dell’attenzione di tutti e di un forte impegno collettivo.
Visto che le istituzioni sono latitanti, glielo chiediamo noi: che progetti ha Giffoni?
Visto che Giffoni è un marchio conosciuto in tutto il mondo, perché non affrontare la sfida della produzione? Non possiamo essere noi a realizzare cartoni animati o a produrre film per i ragazzi, visto che in Italia nessuno lo fa? Sono anni che propongo di costruire la Giffoni Multimedia Valley, con un Museo delle opere di Carlo Rambaldi, un campus per gli studenti, una cineteca regionale, ma predico nel deserto. Le istituzioni investono più sul food, sul cibo, che sulla cultura. Io invece penso che sia questa la strada giusta per attrarre le grandi masse e per creare lavoro stabile. Abbiamo previsto a regime di poter occupare 836 unità, in un settore molto avanzato. Tuttavia ho un gran timore…
Quale?
Il timore che questo progetto possa definitivamente arenarsi. Se così fosse, finirebbe il sogno di Giffoni. 
Il tema della 36a edizione del Giffoni Film Festival 2006 (in programma dal 15 al 22 luglio) è “L’Energia”. Perché?
Il 2006 doveva essere l’anno del silenzio. In un momento in cui tutti parlano e sparlano e non dicono niente, volevamo riflettere sul silenzio che riguarda le domande importanti dei giovani. Poi è venuta fuori l’idea di centrare il Festival sull’energia. In questo mondo di oggi c’è bisogno di energia, l’energia del pensiero, l’energia del sorriso… E c’è un bisogno di energia anche per costruire il futuro di Giffoni. Speriamo che Regione e Provincia lo capiscano…
 
 (La Città di Salerno, 19 febbraio 2006)
 
Carta d'identità
 
Claudio Gubitosi è nato a Giffoni Valle Piana il 20 ottobre 1951.
E’ Direttore Artistico del Giffoni Film Festival.
E’ sposato con Alfonsina Novellino, fondatrice dell’associazione Aura, impegnata nel sociale.
Ha due figli: Jacopo di 17 anni e NeviaClaudia di 12 anni.
Hobby: ascoltare musica classica (in particolare Mozart e Beethoven), chiacchierare, andare nei ristoranti e cucinare
Libro preferito: i saggi sulla tecnologia, i media e la tv
Film preferito: le pellicole di Federico Fellini e di PierPaolo Pasolini, il nuovo cinema italiano (in particolare i fratelli Muccino), le commedie

Intervista a Diego De Silva, scrittore

di Mario Avagliano
 
Giuseppe Pontiggia ha scritto di lui che è "uno scrittore che, come i classici,  ci restituisce l'incomprensibilità delle cose". Diego De Silva, classe 1964, è uno dei giovani autori più apprezzati della narrativa italiana. I suoi romanzi sono pubblicati da Einaudi e tradotti in molte lingue. De Silva è nato a Napoli ma vive fra Salerno (dove ha compiuto gli studi) e Roma. Di Salerno dice: “È una città che ha il terrore del nuovo, dove la cultura, salvo piccole isole di resistenza, è una latitante”. 
 
Il punto di partenza è la Salerno della sua adolescenza. Proviamo a descriverla.
Di Salerno in età adolescenziale ricordo il grigio, la noia, il vuoto delle giornate. Era una città che spirava un senso dell’abbandono (non so quanto lo fosse realmente, ma quel senso ce l’aveva eccome); malgovernata, assuefatta al suo dormire e risvegliarsi. Della mia infanzia, invece, ricordo la conflittualità sociale, la microcriminalità, ma anche il senso della diversità e della necessità d’imparare a relazionarsi al mondo fuori. In quegli anni, la differenza fra chi aveva e chi non aveva era evidentissima, e il contrasto conseguente in qualche modo ti formava.
Era una città “grigia” anche dal punto di vista culturale?
Soprattutto, da quel punto di vista. Ha avuto, sì, una discreta stagione politica, una buona stagione musicale (mi riferisco in particolare al fenomeno punk e new wave, che dall’Inghilterra tracciò una sorprendente, inconsapevole geometria con Salerno nella prima metà degli Ottanta), ma non è stata autenticamente modificata da questi fermenti. La cultura (purtroppo lo si capisce tardi) è una proposta di atteggiamento, una qualità dell’agire; sopratutto, è amare poche cose e detestarne tante. Usare il cervello per scegliere. Salerno era una città conformista, piccinamente autoreferenziale, piccinamente autosufficiente. E tutto sommato s’è mantenuta piuttosto simile, a tutt’oggi. Certo, è più colorata, più trafficata, frequentata. È stata anche ben governata, per un po’. Ma non m’illudo che diventi altro. 
Lei ha vissuto anche gli anni del Movimento del ’77.
Ho partecipato a quel movimento, vengo da lì. E’ stata una grande stagione politica, ma a Salerno non è riuscita a produrre un ricambio generazionale, né nella classe dirigente né nelle professioni. Lo dico con rammarico. L’immobilismo sociale di Salerno è insopportabile.
Quando e come nasce il De Silva scrittore?
Scrivere è un gesto che mi è sempre venuto naturale, fin da piccolo, come esigenza di riordinare, riflettere, combinare. Ho sempre creduto che se non diamo parola alle cose che viviamo, è come se non le vivessimo. Tuttavia ho cominciato a pensare in modo strutturale alla scrittura solo intorno alla metà degli anni Novanta, e debbo a Giuseppe Pontiggia se questo per me è diventato un lavoro.
Che c’entra Pontiggia?
Gli mandai dei miei brevissimi racconti (avevo avuto il suo indirizzo da un vecchio amico, Giulio Mozzi, uno scrittore padovano eccellente). Lui mi telefonò una mattina: “Io non so che lavoro fai – mi disse – ma devi scrivere”. Tre anni dopo firmavo il mio primo contratto con Einaudi. 
Che cos’era cambiato?
Peppo Pontiggia, senza muovere un dito, semplicemente parlandomi, cercandomi, ascoltandomi, mi aveva mostrato che avevo molte cose da dire. Molte di più di quelle che  io stesso pensassi. Era una persona rarissima, una mente importante, che non dimenticherò mai. 
Il suo primo romanzo, “La donna di scorta”, è del 1999. Ed è stato subito un successo di critica e di pubblico. Il critico Filippo La Porta ha scritto: “De Silva ha svolto il compito più difficile: riuscire a raccontare il tragico nascosto nella normalità quotidiana”.
L’idea di questo romanzo nasce dal rovesciamento del tipico rapporto di adulterio. Mi sono chiesto come ci si sente se per una volta a soffrire non è lei, ma lui. E ho scelto una scrittura asciutta, senza quelle che Vittorini definiva “le recensioni dei sentimenti”. Sono convinto che in letteratura quanto più si è scarni, tanto più emergono le microvibrazioni dell’anima.
Dopo quel romanzo, ne ha pubblicati altri tre: “Certi bambini” (2001), “Voglio guardare” (2003) e “Da un’altra carne” (2004), oltre a un racconto nell'antologia “Disertori” (2000) e un altro racconto nella raccolta “Crimini” (2005). Qual è l’opera che sente più sua?
Per la verità voglio ancora bene a tutti i miei romanzi. Non cambierei una virgola a nessuno di loro. Tuttavia il libro che ho sentito più prepotente dentro di me, quello che in un certo senso mi ha scavalcato, scrivendosi un po’ per i fatti suoi, è stato “Certi bambini”. Ho sentito come l’urgenza di scriverlo, sia per il tema che affronta, sia per il tipo di linguaggio che ho scelto, così corporeo, così vicino alle cose. 
Il critico  Franco Brevini, di Panorama, lo ha definito “un drammatico documento sulla violenza nella società napoletana”. E’ forse per questo che è stato tradotto in tutto il mondo?
Probabilmente. Ma anche gli altri miei libri sono evidentemente ritenuti interessanti in altri paesi: “Voglio guardare”, per esempio, che è il più difficile e volento dei miei romanzi, uscirà l’anno prossimo in Inghilterra da William Heinemann, del gruppo Random House. È stata un po’ una sorpresa. Pensavo che l’Inghilterra avrebbe preferito “Certi bambini”, prima. 
“Voglio guardare” è un libro che parla di un giovane avvocato penalista. C’è qualcosa di autobiografico?
Sì, in un certo senso è il mio addio a quella professione. È un libro che ha dentro molto tribunale, un’opinione su quel tipo di lavoro e le sue contraddizioni. C’è un momento in cui il protagonista, durante una difesa d’ufficio, ha un lampo di assoluta lucidità, e si sente parte di una gigantesca farsa. “Io sono una menzogna fra le altre”, è la sua intuizione. Intendiamoci, un certo grado di finzione è indispensabile in ogni specie di relazione; nell’amore, soprattutto. Però mi andava di dare a questo personaggio una parola assoluta sull’argomento. Intendiamoci, non viene rivelata nessuna verità. Lo scrittore non è un filosofo, ma un pensatore autenticamente anarchico. La letteratura non risponde del proprio linguaggio, al contrario della filosofia.
Il suo ultimo romanzo s’intitola “Da un’altra carne”. Provi a scrivere la quarta di copertina.
E’ la storia di una donna di sessant’anni, una madre tipicamente meridionale, dotata di una grande forza, anche nell’accezione negativa del termine. Un giorno si vede arrivare a casa un bambino di cui non sa nulla e di cui non le viene detto nulla, che la obbliga a ridiscutere tutta la sua vita.
A proposito di meridionale, quanto è presente il Sud nei suoi romanzi e nel suo linguaggio?
Molto, anche perché mi faccio forte della corporeità della nostra lingua, del suo mandare continuamente allusioni al corpo. E quindi mi viene istintivo screziare il linguaggio, scorticarlo, anche quando l’ambientazione delle storie non è la strada. Tendo sempre a portare il linguaggio in una cifra di verità, specie nel dialogo. Nella letteratura italiana il dialogo spesso è finto, accademico, non veritiero. A me invece piace arricchirlo di espressioni vere, gergali, anche dialettali.
Lei è uno scrittore razionale o istintivo? Come partorisce l’idea del romanzo?
Ho sempre un occhio sospettoso sulla realtà e infatti i miei romanzi di solito nascono da un dettaglio, dall’osservazione di una microvicenda che capita nei dintorni. Credo che la realtà sia viva e dica delle cose che vale la pena di raccontare. Aggiungo che non faccio mai scalette. Non so mai che succederà, anzi mi piace che la stesura del libro abbia un percorso imprevisto. Detto questo, sono anche convinto che quando i personaggi sono forti, vivono indipendentemente da te e che la cifra di qualità di un testo dipende dalla tua estraneità rispetto ad esso, dalla tua capacità di esserne fuori mentre lo scrivi.
Molti critici hanno scritto che il suo stile di scrittura è “fotografico”, per immagini. Condivide?
Ho un tipo di scrittura visiva, ma questa è una caratteristica della letteratura contemporanea. Ma quando scrivo, non penso mai a una trasposizione cinematografica.
Tuttavia dovrà ammettere che le sue storie hanno un forte appeal per il cinema… “Certi bambini” è diventato una splendida pellicola dei fratelli Frazzi e si parla di trarre un film anche da “Voglio guardare”.
E’ più di un progetto. Abbiamo scritto già una prima versione della sceneggiatura e probabilmente il film sarà coprodotto con la Francia. 
Non è la sola sceneggiatura che lei ha firmato.
Oltre a “Certi bambini”, ho lavorato alle sceneggiature di “Sulla mia pelle”, di Valerio Jalongo (un film che ha recentemente vinto il Napoli Film Festival), “I giorni dell’abbandono” di Roberto Faenza e l’episodio italiano del film collettivo “All the invisible children”, sul disagio infantile nel mondo. Più di recente ho scritto la sceneggiatura del prossimo film del regista napoletano Stefano Incerti, David di Donatello per “Il verificatore”: una storia napoletanissima sulla Chinatown partenopea, che narra la relazione tra una ragazza cinese e una specie di reietto, un ragioniere del carcere di Poggioreale. 
So che sta lavorando anche con il regista Francesco Patierno, il regista di “Pater familias”.
A febbraio Francesco girerà per la Rai un film tratto dal mio racconto “Il covo di Teresa”, pubblicato di recente nella raccolta “Crimini” (Einaudi): la storia di un terrorista politico che sequestra la sua vicina di casa per sfuggire alla cattura. Patierno è uno dei registi emergenti che m’interessano di più, perché è coraggioso e lavora senza mediazioni. Con lui ho appena girato anche un radiodramma, intitolato “Senza accendere la luce”, che andrà in onda molto presto. Inoltre nel 2006 uscirà anche un altro film internazionale al quale ho collaborato, “All invisible children”, con registi del calibro di Kusturica e di Spike Lee, finanziato dall’Unicef, che parla del disagio dei minori del mondo e i cui incassi andranno in beneficenza. Il regista dell’episodio italiano è Stefano Veneruso, nipote di Massimo Troisi, e l’attrice protagonista è Maria Grazia Cucinotta, che è anche coproduttore del film. La sceneggiatura è mia. E’ stato girato tutto a Napoli, tra Piazza del Plebiscito e i Quartieri Spagnoli. Il direttore della fotografia è Vittorio Storaro, un autentico privilegio.
Napoli è una presenza frequente nei suoi libri. Ma lei ha scelto di vivere a Salerno.
Considero Napoli il luogo più “diverso” del mondo, ma non riuscirei mai a viverci. Specie nella Napoli degli ultimi anni, che sta vivendo una fase di profonde e devastanti trasformazioni sociali. Salerno è una città assai più vivibile, in particolare per chi ha dei figli. Qui frequento – anche se molto volentieri – poche persone: Gianfranco Marziano, Paolo Apolito, Geppino Gentile e qualcun altro.
Perché?
Sono pochi, a Salerno, quelli che hanno qualcosa da dire. 
Anche culturalmente?
Culturalmente ancor di più. Vi sono solo piccole isole di resistenza, come la galleria d’arte di Lelio Schiavone, Linea d’ombra, o lo stesso Giffoni Film Festival, che è dichiaratamente spalancato sull’adolescenza. Ma questo è un problema che riguarda anche Napoli, vorrei dire soprattutto Napoli. E’ possibile mai che in una città del genere non vi sia una casa editrice di grande importanza nazionale e internazionale? Viene da dire con Eduardo: “Fujetavenne…”.
 
(La Città di Salerno, 27 novembre 2005) 
 
Carta d’identità
 
Luogo e data di Nascita: Napoli, 5 febbraio 1964
Vive tra Salerno e Roma.
Sposato: Si
Figli:  1 (Chiara)
Titolo di studio: Laura in Giurisprudenza
Hobby: musica
Libro preferito: Domani nella battaglia pensa a me (Javier Marìas)
Film preferito: Turista per caso (Lawrence Kasdan)
 
Carriera: Ha pubblicato da Einaudi i romanzi La donna di scorta (2001), Certi bambini (2001, premio selezione Campiello, premio Brancati, premio Fiesole, premio Bergamo, finalista premio Viareggio), Voglio guardare (2003, premio Pisa), Da un'altra carne (2004, premio Città di Melfi), Suoi racconti sono apparsi nelle antologie Disertori (Einaudi 2000) e Crimini (Einaudi 2005). È consulente editoriale, scrive anche per il cinema, tiene corsi di scrittura creativa in scuole pubbliche e private e collabora a "Il Mattino" e al mensile “Giudizio universale”. Da Certi bambini è stato tratto il film omonimo diretto dai fratelli Frazzi, vincitore di svariati premi nazionali e internazionali, fra cui l’Oscar europeo e due David di Donatello. I suoi libri sono tradotti in Inghilterra, Francia, Spagna, Germania, Olanda, Portogallo e Grecia.

 

Intervista ad Enzo D'Elia, agente letterario

di Mario Avagliano
 
 
Lo scrittore Raffaele La Capria dice di lui che è “dinamico e adrenalinico” e lo definisce un “personaggio singolare e imprevedibile del mondo dei libri, non solo perché li ama e li sa valorizzare, ma anche perché è un abilissimo stratega nella loro promozione e, pur di attirare l’attenzione su un libro, non si ferma davanti a niente”. Enzo D’Elia, 58 anni, vietrese di nascita e salernitano d’adozione, titolare di una delle Agenzie Letterarie più affermate in Italia, ha nella sua “scuderia” autori di razza come Luciano De Crescenzo e il giallista Andrea Pinketts, stars dello spettacolo come Pippo Franco, Simona Izzo e Ricky Tognazzi, cantautori come Gigi D’Alessio e Mario Merola ma anche autentiche auctoritas dell’enogastronomia come Luca Maroni ed Heinz Beck. D’Elia si racconta a la Città e lancia un appello alle istituzioni salernitane: “Salerno ha bisogno di meno movida e di più cultura, di bar come di librerie”.
 
Lei è nato e cresciuto a Vietri sul Mare.
E ne vado fiero. Vietri è sempre stata una cittadina a misura d’uomo, tranquilla, ordinata, laboriosa. Ho frequentato l’oratorio dei Salesiani, a Villa Carosino, di fronte al palazzo della Ceramica Solimene. L’oratorio era una sorta di “centro di formazione” di noi ragazzi vietresi. Ho avuto la fortuna di crescere in un ambiente sano, nell’educazione cristiana, seguendo gli insegnamenti del nostro educatore don Claudio. Lì facevo teatro e giocavo a calcio e a basket. Ricordo ancora con commozione i giorni di festa dedicati a San Giovanni Bosco, il 31 gennaio di ogni anno: ci sentivamo i ragazzi di don Bosco…
Poi ha frequentato le scuole superiori a Salerno.
Mi sono diplomato a Salerno e poi ho conseguito la Laurea in Biologia presso l’Università di Napoli.
Come ha fatto un biologo a diventare un agente letterario di fama nazionale?
In effetti avevo iniziato un periodo di training in ospedale. Ho fatto il tirocinio a Cava, presso il laboratorio di analisi, con il dottor Cotugno e il dottor Marino. Poi nel 1978 entrai nella Mondadori, che aveva lanciato una nuova collana, la Biblioteca della Est, Edizioni Scientifiche e Tecniche. Era necessario che fossero inseriti tutti i più noti autori dell’epoca: dall’intelligenza artificiale alla teoria dei giochi e dell’informazione, dalla biologia alla chimica. Mondadori aveva bisogno di laureati in discipline scientifiche in grado di dialogare con scienziati e ricercatori: ricordo ancora nomi come quelli del matematico Shannon, del biologo Jevons e dello psichiatra Andreoli. 
Fu allora che s’innamorò del mondo dei libri?
Sì. Diventai collaboratore del presidente e amministratore delegato della Mondadori, Sergio Polillo, il fondatore della collana “I Meridiani”. Polillo era l’eminenza grigia di Arnoldo Mondadori. Era originario della Calabria e aveva studiato alla Badia di Cava. Lui e la moglie Lilli, venivano in vacanza da me a Vietri, e soggiornavano all’Hotel Baia. Quando la Mondadori cambiò orientamento editoriale, Polillo desiderava che continuassi il mio rapporto con la casa editrice. E così passai al commerciale, avendo l’incarico di rappresentare la Mondadori nelle regioni meridionali.
Fino a che, nel 1990, non decise di mettersi in proprio…
Ricordo ancora nitidamente l’episodio. Polillo stava rientrando a Milano e, mentre lo accompagnavo all’aeroporto di Napoli, mi suggerì di capitalizzare al massimo la mia passione per la Cultura. Era convinto che avessi talento e mi consigliò di chiamare “Delia Promozioni per la Cultura” quella che oggi è la mia agenzia letteraria. Così feci, e non me ne sono mai pentito.
Beh, vorrei vedere. Nella sua scuderia ha diversi autori di bestsellers…
Un nome su tutti: Luciano De Crescenzo, al quale sono legato da vent’anni da un rapporto professionale e di amicizia. Un altro scrittore che seguo da anni è Andrea Pinketts, uno dei più creativi giallista noir nell'attuale panorama mondiale. Di lui Fernanda Pivano ha detto che è il primo adottante di un nuovo genere letterario: il postmoderno, di cui è ancora il massimo rappresentante. Pinketts è il fondatore della "Scuola dei Duri" che ha come obiettivo l'analisi della società attraverso la detective story, punti di forza che gli hanno permesso di essere tradotto in quattro lingue con una particolare ammirazione da parte dei francesi. 
Come mai la sua agenzia letteraria non disdegna di promuovere presso le case editrici libri “leggeri”?
Penso che l’offerta editoriale debba adattarsi a tutti i gusti: dai raffinati saggi  alle pubblicazioni comiche o autobiografiche di un Pippo Franco o, perché no, di un Gigi D’Alessio. 
Lei è anche uno che punta molto sui giovani autori.
E’ vero, quest’anno lancerò tre giovani scrittori: la romana Giovanna Bandini, innovativa autrice di romanzi di taglio psicologico, Massimiliano Palmese, che parteciperà anche al Premio Strega con il suo libro “L’Amante proibita”, pubblicato da Newton, e Alfonso Signorini, Vice Direttore di Chi, principe del gossip ed opinionista fisso di Rai e Mediaset nonché star di Markette su La7, che pubblicherà un libro con Mondadori.
Qual è il libro di cui va più fiero?
Senza dubbio “Tutte le poesie di Alfonso Gatto”, a cura di Silvio Ramat, per i tipi della Mondadori. Questo non solo perché Gatto è un autore salernitano ma anche perché è un poeta di rilevanza internazionale per il presente e per il futuro. La sua opera omnia non era mai stata pubblicata e io sono orgoglioso di esserci riuscito, grazie anche alla fiducia che mi hanno dato i suoi eredi.
E’ il libro più venduto…
Il primato spetta al libro “Pompei, i misteri di una civiltà sepolta”, di Antonio Varone, pubblicato da Newton, che ha avuto ben sette edizioni all’Estero.
Quali sono gli scrittori salernitani che apprezza di più?
Diego De Silva è il più noto ma amo citare spesso anche due poeti recentemente proposti dall’antologia Nuovissima poesia italiana di Mondadori: i salernitani Mario Fresa e Lucrezia Lerro.
Lei è stato anche amico del grande giornalista Gaetano Afeltra, originario di Amalfi. Che ricordo ha di lui?
Un ricordo eccezionale. Era una persona che amava particolarmente la vita. Un grande professionista della carta stampata al quale piaceva stare in mezzo alla gente. Era una persona semplice ma allo stesso tempo fine, e tutti gli volevano bene. Quando ero a Milano, spesso andavo a cena con lui da Bice, ed era sempre una festa. Dal 1996 ha presieduto, unitamente a Nanda Pivano, il premio di giornalismo organizzato dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici nell’ambito della rassegna “Positano, Mare Sole e Cultura”.
A proposito della rassegna di Positano, nel 2004 avete ricevuto il Premio Cultura della Presidenza del Consiglio.
E’ stata una bella soddisfazione. La rassegna fu voluta nel 1993 da Salvatore Attanasio, allora sindaco di Positano, e quest’anno spegnerà 14 candeline. La formula del successo di questa manifestazione è il mix di cultura e di spettacolo, di scrittori e di vip. Promuovere i libri nel nostro Paese è un’arte difficile, perché gli italiani leggono poco. E’ necessario inventare dei veri e propri happenings adatti all’occasione. Ricordo, ad esempio, che convinsi Piero Angela a immergersi con un sottomarino nei fondali di Positano per tenere una vera e propria lezione con studenti e giornalisti in occasione dell’uscita del suo libro Dentro il Mediterraneo.
Certo che il panorama mozzafiato di Positano è una scenografia eccezionale per queste presentazioni…
La location è ideale. Presentare un libro organizzando una cena sulla terrazza di un albergo come Le Agavi (hotel che si presta a dibattiti culturali di taglio filosofico dove lo stesso Goethe aveva esaltato la particolarità del paesaggio) ed al San Pietro, che viene indicato come il più bello del mondo, ha un valore promozionale incredibile. Così come una cena dei fratelli Rispoli della Buca di Bacco, come dice il mio amico La Capria, può far salire l’indice di gradimento, specie se la tavola viene imbandita nei giardini e nelle stanze di Palazzo Murat. Non dimentichiamo “Le Sirenuse”, un angolo in cui trascorrere ore in meditazione e segreta felicità per tutti gli ospiti della kermesse.
Quanto è stato importante aver avuto ospiti celebri?
Ritengo che la presenza dei vip a questi eventi culturali abbia un effetto di traino e di veicolazione per la Cultura innegabile. In questi anni si sono alternati personaggi del jet set internazionale e nazionale come Julia Roberts e Nicole Kidman, Dustin Hoffman e Tom Cruise, Sting e Denzel Washington assieme a Ezio Mauro, Enzo Siciliano, Francesco Paolo Casavola, Sergio Zavoli, Piero Ottone, Giorgio Bocca, Gianantonio Stella, Carlo Rossella, Valerio Massimo Manfredi, Lina Sotis, Nanda Pivano, Gaetano Afeltra, il Nobel Rita Levi Montalcini, Aldo Busi, Andrea De Carlo e Luciano De Crescenzo, Bruno Vespa, Chiara Beria d’Argentine, Gerardo Marotta, Giulio Giorello, Massimo Cacciari, Frederick Forsyth, Dominique La Pierre. 
Non si rischia di ridurre il valore libro oppure di spettacolarizzarlo troppo?
No, perché il mercato dei lettori è differenziato. Vi sono pubblicazioni destinate a un pubblico colto ed altre più popolari. Ed è giusto così. E poi, per promuovere i libri, non ci si può affidare solo ai critici letterari. Credo, invece, soprattutto nella comunicazione integrata, che utilizza più mezzi di comunicazione. Paradossalmente da circa 10 anni, da quando, cioè, è esploso il fenomeno di Internet, più che la pronosticata fine del libro su cartaceo c’è stata un’esplosione di nuove case editrici, grazie allo snellimento delle operatività necessarie ad una pubblicazione. In questo marasma solo una corretta informazione consente al lettore di orientarsi.
E per quest’estate, cosa proporrete a Positano?
La rassegna del 2006 avrà come tema “Miti e talenti”. Posso preannunciare che parteciperanno grandi scrittori come Erri De Luca, Piero Angela, Mauro Corona, Magdi Allam ma non voglio anticipare nulla: in fondo la Cultura è anche gusto per le sorprese.
E a Vietri, non c’è spazio per la cultura?
Certo che si. Cultura è condivisione di simboli artistici: Vietri è la capitale dell’arte dei ceramisti. Non a caso già nel 1986 intuii le grosse potenzialità di Vietri inaugurando una kermesse (che purtroppo non ha avuto un seguito) intitolata Cinema d’autore, ceramica d’attore.
Lei vive da anni a Salerno. Qual è il suo giudizio sulla Salerno di oggi?
Salerno è una città meravigliosa. E’ tanto migliorata urbanisticamente: pensate ai giardini, alle fontane, alle strade ed alle piazze. Tuttavia sarebbe importante potenziare anche l’immaginario culturale della città. Salerno ha bisogno di meno movida e più cultura, di discoteche ma anche di più librerie.  Sarei felice se le istituzioni destinassero i locali di loro competenza ai giovani, che, mossi dall’entusiasmo che li caratterizza, potrebbero senz’altro riunirsi per dare valore aggiunto al libro diventando veri e propri gestori di librerie. Ovviamente anche i miei 25 anni di esperienza nel settore potrebbero tornare utili.
 
(La Città di Salerno, 12 febbraio 2006)
 
Carta d'identità
 
Enzo D'Elia è nato a Vietri sul Mare (Salerno) il 10 ottobre 1948.
Sposato con Maria Elisabetta 
Ha due figli, Pierluigi, diplomatico dell’Unione Europea, e Aldo, responsabile Marketing della Gesac, la società che gestisce l’aeroporto di Napoli
Titolo di studio: Laurea in Biologia all’Università di Napoli
Professione: agente letterario e fondatore della “Delia Promozioni per la Cultura”, nata nel 1990
Libro preferito: Madame Bovary di Gustave Flaubert 
Il film preferito: Otto e mezzo di Fellini
Hobby: ascoltare musica

Intervista a Gerardo Soglia, manager

di Mario Avagliano
 
A 35 anni appena compiuti è a capo di una delle prime cinque compagnie alberghiere italiane, il Gruppo Soglia, che conta 20 hotel, 600 dipendenti e un fatturato di 50 milioni di euro annui. Gerardo Soglia, laureato in Economia aziendale alla prestigiosa Business School di Cardiff, un master al Politecnico di Milano, è uno dei rari casi di imprenditori salernitani che hanno avuto successo a livello nazionale. Dal 1999, anno in cui diventò amministratore delegato della società, ha trasformato l’impresa di costruzioni ereditata dal padre Giuseppe, già presidente della Salernitana, in una delle più autorevoli aziende italiane del settore turistico e immobiliare. E non ha alcuna intenzione di fermarsi. “Alla mia età non ci si può sentire arrivati – confessa a la Città -. Puntiamo a diventare il gruppo leader nel settore alberghiero del nostro Paese”.
 
Lei ha cominciato a fare l’imprenditore ad appena 24 anni. Immagino che gli anni della gioventù siano ormai lontani.
E’ vero, i ricordi di quegli anni sono sfocati, anche se dentro di me restano vivi la spensieratezza, il divertimento e anche le amicizie che hanno caratterizzato quel periodo. Ancora oggi alcuni dei miei migliori amici sono quelli del liceo scientifico “Da Vinci” e del Convitto nazionale, dove giocavo a basket. Tra l’altro ho avuto la fortuna di crescere in un momento storico in cui la città usciva dal tunnel e iniziava un percorso di forte cambiamento.
Dopo la maturità, lei ha scelto di andare a studiare fuori Salerno.
Volevo fare esperienze al Nord e anche all’estero. Devo dire che studiare all’Università di Parma, poi in Germania a Francoforte e negli Stati Uniti a New York, grazie al progetto Erasmus, laurearmi a Cardiff, e infine specializzarmi al Politecnico di Milano, mi ha consentito di confrontarmi con realtà diverse da quelle del Sud, acquisendo una mentalità internazionale.
Terminati gli studi è tornato a Salerno ed entrato nell’azienda di famiglia.
Quello che sono adesso, lo devo a mio padre, con il quale ho un rapporto splendido e stimolante. Mio padre è un grande imprenditore, la nostra azienda ha costruito lo stadio e l’aeroporto di Salerno e lui ha avuto il merito di non farmi mai dormire sugli allori. Nella mia vita mi ha sempre posto nuove sfide e obiettivi più alti, mi ha insegnato a non accontentarmi. E’ stato per me una guida e un esempio, e ancora oggi mi consiglia e mi aiuta.
Come ha avuto l’intuizione di trasformare l’impresa di costruzioni di suo padre in un gruppo impegnato anche nel settore turistico e alberghiero?
E’ nato tutto per caso, quando mio padre ha acquistato Villa Soglia a Castel San Giorgio come residenza di tutta la famiglia. Avendo scarsa “fiducia” nella nostra volontà di trasferirci tutti lì, pensò di sfruttare quella magnifica location per i ricevimenti. Successivamente ci fu l’occasione di acquistare il Lloyd Baia Hotel a Vietri. Poi, con il mio ingresso in azienda, quello che era un ramo secondario di attività, è diventato la punta di diamante di una società che è uscita dai confini della Campania ed ha acquisito rilevanza nazionale.
Il primo passo fu quello di acquistare un albergo a Courmayeur.
Era il 2001. Ricordo che allora, in un’intervista, dissi che il nostro obiettivo era arrivare a gestire 10 alberghi in 10 anni. Invece le cose sono andate meglio. Grazie alla fortuna e al caso, ma anche alla bravura e all’entusiasmo, abbiamo acquisito 20 alberghi in 5 anni, in Sardegna, in Valle d’Aosta, in Emilia Romagna, in Veneto, in Lombardia, in Toscana, in Lazio, in Campania e in Calabria. E non è finita qui.
Ci spieghi.
A 35 anni d’età non posso considerarmi “arrivato”. Sono ambizioso, perché è giusto essere così. Io voglio fare del nostro gruppo la società leader in Italia in questo settore. Questo è un settore che offre tante opportunità. Abbiamo davanti spazi enormi, anche perché il mercato italiano è anomalo rispetto a quello del resto d’Europa. Lo sa che in Italia solo il 5 per cento degli alberghi fa parte di una catena alberghiera? In Inghilterra siamo invece su percentuali del 70 per cento, e negli altri paesi europei la media è del 50 per cento. Per poter competere, occorre pensare in grande.
Quali sono i tratti distintivi dell’offerta alberghiera del Gruppo Soglia?
La qualità del servizio e dell’accoglienza. I nostri clienti non sono dei numeri ma delle persone in carne ed ossa, con nomi e cognomi, e siano in vacanza o in viaggio d’affari, nei nostri hotel cerchiamo di farli sentire a casa propria.
Il Gruppo Soglia non è solo alberghi.
Vero. Abbiamo due società di tour operator, una che organizza viaggi per le grandi aziende e una che è specializzata in incoming, nel portare i turisti stranieri in Italia, soprattutto dall’America e dal Giappone. E poi c’è il settore immobiliare, che era il core business dell’azienda di mio padre e che stiamo rilanciando. Abbiamo vinto appalti per costruire appartamenti residenziali in Veneto, in Lombardia, in Lazio, in Campania.
Quanto conta la dimensione familiare di un’impresa per avere successo?
Moltissimo, soprattutto perché nell’attività di imprenditore uno dei fattori fondamentali di successo è il valore della lealtà. Nel nostro gruppo lavorano tutti i miei fratelli: Francesco gestisce il Lloyd Baia Hotel a Vietri, Alessandro guida il settore immobiliare, Nobile si occupa di Villa Soglia ed è il nostro uomo di public relation, Nunzia è giornalista e ci supporta nella comunicazione. Poi, certo, non ci si può affidare solo ai familiari, ma bisogna anche saper valorizzare i dirigenti di qualità. Io sono uno che dà credito ai propri collaboratori e delega loro compiti importanti.
Lei guida un gruppo che è attivo in tutt’Italia. Fare l’imprenditore al Sud è più difficile che Centro o al Nord?
Fare impresa è sempre difficile, al Sud è ancora più difficile, soprattutto per fattori ambientali. Non mi riferisco soltanto alla criminalità, ma alla mentalità della gente e delle istituzioni locali. Al Centro e al Nord c’è una generale consapevolezza del ruolo sociale dell’impresa, in quanto fattore di benessere, di sviluppo e di occupazione. Nel Meridione invece l’imprenditore è visto sempre come il padrone, come colui che si arricchisce, e quindi è tutto più complicato. Se ciò non bastasse, vi è scarsa solidarietà tra gli stessi imprenditori. Vede, qui in Veneto per affrontare le sfide della competizione grandi aziende come Bauli, Riello, Rana ed altri non esitano a formare assieme un consorzio. A Salerno sarebbe inconcepibile. Lo dice uno che è e si sente meridionale, in tutto quello che fa.
Il suo miglior pregio e il suo peggior difetto…
Il miglior pregio è quello di essere molto disponibile. Il peggior difetto è la testardaggine, anche se a volte è un pregio, perché mi consente di raggiungere gli obiettivi che mi prefiggo. 
Lei vive tra Verona e Salerno. Cosa le manca della sua città quando è  al Nord?
Il mare. Non a caso a Verona ho comprato una casa lungo l’Adige, così quando mi affaccio al balcone e vedo il fiume, mi illudo di essere nella mia Salerno.
A proposito, qual è il suo giudizio sulla Salerno di oggi?
Negli ultimi quindici anni Salerno ha avuto il coraggio di cambiare e di rifarsi il look, ma questo non è sufficiente per attrarre gli investimenti. Anche il progetto di una città turistica non mi sembra decollato. Bisogna chiedersi perché quando è stato promosso il bando per costruire un grande albergo nella zona dell’ex cementificio, i gruppi alberghieri internazionali lo hanno snobbato. Probabilmente perché non c’è una domanda turistica sufficiente. D’altra parte il mercato è regolato dalla legge della domanda e dell’offerta.
Sta dicendo che è necessario ripensare il modo di far politica del turismo. 
Esattamente. Per attrarre i flussi del turismo nazionale e internazionale, non basta avere il sole e il mare. Salerno ha  bisogno prima di tutto di infrastrutture, come un aeroporto capace di far atterrare voli charter di almeno 200 posti e un porto turistico più attrezzato. E poi occorre un sistema imprenditoriale che ci promuova all’estero. Dobbiamo seguire l’esempio di una città come Genova.
Cioè?
Genova dieci anni fa era una città industriale in decadenza, esattamente come Salerno. La classe politica e imprenditoriale si è rimboccata le maniche e ha ripensato lo sviluppo della città, puntando sul turismo. Così Genova si è dotata di un aeroporto più funzionale, ha ristrutturato il porto, ha realizzato l’Acquario e nuovi musei, e ora è la città italiana che ha il più alto tasso di incremento delle presenze turistiche.  
E Salerno potrebbe imitare Genova?
Sono convinto che Salerno ha tutte le risorse per poter vincere questa sfida e che la classe politica e imprenditoriale salernitana ha le qualità per riuscirci, ma bisogna fare squadra, lavorare assieme, senza gelosie, corporativismi o egoismi. Dico di più. Se vi sarà un progetto serio, il Gruppo Soglia è pronto a fare la sua parte per trasformare Salerno in un polo turistico di eccellenza.
 
(La Città di Salerno, 29 gennaio 2006)
 
Carta d’identità
 
Gerardo Soglia è nato il 12 gennaio 1971 a Salerno. 
Vive tra Salerno e Verona.
Sposato con Paola Girardi.
Ha due figli: Antonella e Giuseppe (i nomi della madre e del padre).
Istruzione: si è laureato nel 1993 in Economia Aziendale presso la Cardiff Business School, alla University of Wales; nel 1995 ha conseguito il master in Business Administration al Politecnico di Milano.
Hobby: stare in famiglia e giocare con I propri figli.
Film preferito: C’era una volta in America (di Sergio Leone).
Libro preferito: Candido di Voltaire.
Incarichi professionali: dal settembre 1995 al maggio 1999 è stato Direttore Amministrazione e Finanza di “Soglia Giuseppe & Figli s.r.l.”, Impresa di Costruzioni; dal maggio 1999 è Amministratore Delegato di “Soglia Hotels Spa”.

 

Intervista a Giancappetti, ceramista

di Mario Avagliano
 
 
E’ stato definito “il gentiluomo della ceramica”. A quasi 78 anni di età, il maestro Giovanni Cappetti, meglio noto come Giancappetti, è uno dei ceramisti più apprezzati e conosciuti al mondo. E’ possibile trovare le sue pannellature in Francia, in Germania, negli Stati Uniti, negli Stati Arabi, in Russia, in Giappone. “Artista-artigiano”, per usare una felice espressione di Irene Kowaliska, le sue riggiole inseguono le suggestioni dei capolavori del Settecento napoletano, a partire dal Chiostro maiolicato di Santa Chiara. Ma nel suo repertorio artistico figura anche il piccolo mondo antico della Salerno e della Costiera Amalfitana degli anni Trenta e Quaranta, intriso di romanticismo e di poesia: il faro di Capo d’Orso, il Castello di Arechi, il fiordo di Furore, le cianciale di Cetara, il borgo di Erchie. “Un modo per cancellare le brutture del presente - spiega lui -. Oggi non c’è più il gusto dell’architettura, e soprattutto a Salerno, i palazzi sono orribili e le strade sono sporche, disordinate e trafficate”. 
 
Maestro, lei è un salernitano doc?
Sì, sono nato nel centro storico di Salerno, in via Gaetano Esposito n. 1, nell’appartamento sopra la cantina del vino di D’Acunto, nel quartiere delle Fornelle, che forse si chiama così per la presenza di forni per la cottura delle ceramiche, che gli antichi abitanti, provenienti in gran parte dalla vicina Vietri sul Mare, avevano impiantato nella zona.
Nostalgia di quegli anni?
Negli anni Trenta e Quaranta, Salerno era una città perbene, in cui si passeggiava tranquillamente, in cui non si poteva sporcare per terra, in cui si rispettava l’autorità costituita.  La parte più bella di Salerno è stata edificata allora, dal Municipio al Palazzo della Prefettura, dal Tribunale alla sede delle Poste. Il mare era dentro la città e la spiaggia dove ora sorge il porto, era il salotto di Salerno, con i suoi lidi eleganti. Mio padre mi raccontava che era una città appetita dai funzionari statali, che sognavano di stabilirsi a Salerno nel periodo della pensione. Via dei Mercanti era un po’ la Via dei Condotti salernitana, con le sue gioiellerie, i suoi negozi di scarpe, le sue vetrine scintillanti. Venivano a fare acquisti da tutta la provincia e perfino dalla Lucania. Insomma, era tutta un’altra cosa rispetto ad adesso.
Un giudizio duro.
Non mi ritrovo più in questa città così sporca e disordinata. Anche il lungomare è diventato una pena, con tutti quei venditori ambulanti. Senza parlare del traffico, dei cumuli di rifiuti, della delinquenza. Nel confronto, i miei ricordi danno molta malinconia, tristezza, delusione… Molta… Ultimamente mi hanno fermato due giovani per strada, in pieno giorno, chiedendo di accendere. Io ho tirato fuori l’accendino. “Questo ce lo teniamo noi”, hanno detto, e se ne sono andati. 
Nella sua infanzia c’è anche la Costiera Amalfitana.
Da bambino per alcuni anni ho vissuto ad Erchie. Mio padre Nicola era il guardiano del faro di Capo d’Orso e mia madre, Maria Montesanto, era originaria di lì. Anche quando ci trasferimmo a Salerno, le estati le passavo ad Erchie, tra i gozzi dei pescatori e i tramonti sul mare.
Quando entra l’arte nella sua vita?
C’è sempre stata. Ricordo che in quinta elementare, all’Istituto Barra, vinsi un premio con una testa del duce in bassorilievo. Era un’opera molto ingenua, però denotava il mio interesse per l’arte, che poi coltivai negli anni. Allora, nelle scuole, i ragazzi dotati di talento artistico o artigianale, venivano seguiti. C’erano corsi serali gratuiti di falegnameria, di disegno, di intarsio, di meccanica. Oggi non c’è più attenzione per le arti e i mestieri. Tutto è in funzione dell’Università. La ricchezza e l’importanza dell’artigianato non vengono prese in considerazione.
Chi sono stati i suoi maestri?
Sono stato allievo di Mario Avallone, fratello di Pasquale, che mi ha insegnato i rudimenti della pittura; del professor Brancaccio, che mi ha iniziato al disegno; e di Peppe Pierro per la scultura. Pierro è uno scultore salernitano quasi dimenticato, eppure è stato lui a realizzare gli altari barocchi delle Chiese di Salerno. 
E per la ceramica? 
Nel palazzo Barra, aveva sede anche l’Istituto tecnico Trani. In una delle aule, il maestro Renato Rossi teneva dei corsi pomeridiani di ceramica. All’uscita della scuola, io mi fermavo incantato a vedere come dipingevano le terracotte. Una volta il maestro Rossi mi notò e mi invitò ad entrare dentro. Avevo 9-10 anni, e da quel giorno non mi abbandonò più, mi seguì fino al diploma di ceramica.
Che ricordo ha del maestro Renato Rossi?
Rossi fondò la Scuola di Ceramica nel 1931 e ne fece un effettivo strumento di formazione professionale. A Vietri, in quegli anni, erano presenti diverse attività al limite tra manifattura ed industria, come la vetreria, l’opificio tessile, la lavorazione di metalli, ma nel dopoguerra solo la ceramica rinacque e conquistò il mercato italiano ed estero. Ciò poté accadere anche grazie all’opera preziosa di Rossi, che nella sua scuola formò i dipendenti delle fabbriche di ceramica vietresi, la Ernestine, la D’Agostino, la Pinto. Sarebbe stato giusto dedicargli l’Istituto di Ceramica… E’ stato lui il vero fondatore della scuola.
Dopo il diploma all’Istituto Magistrale, lei per alcuni anni ha insegnato nelle scuole elementari.
Fino al 1954, quando ho avuto il coraggio di lasciare il posto sicuro di maestro elementare e di dedicarmi all’attività di ceramista.
Prendendo sede a Molina di Vietri.
Sono rimasto a Vietri fino al 1981. Dopo il terremoto, fui costretto ad andarmene, perché il piano regolatore di Vietri non prevedeva insediamenti artigianali superiori ai cinquecento metri quadri, così mi sono spostato a Montecorvino Pugliano. Io ho bisogno di spazi grandi per poter lavorare ai miei pavimenti e ai miei pannelli. 
Come nasce il nome Giancappetti?
Tra il 1958 e il 1959 ho lavorato nello studio del grande pubblicitario Mario Grosso, a Torino, come bozzettista pubblicista. E’ lì che mi è venuta l’idea di adottare uno pseudonimo più accattivante, che unisce il nome Gianni e il cognome Cappetti. 
E’ vero che lei preferisce la definizione di artigiano a quella di artista?
Io faccio oggetti di uso comune, come i pavimenti decorati. Ho vissuto di questo mestiere tutta la mia vita e perciò mi considero un artigiano che per accidens, ogni tanto, fa un pezzo d’arte. E infatti la sera, per riposarmi, per fuggire dalla realtà ed esprimere un sentimento di nostalgia per la Salerno che fu, mi dedico ai pezzi unici. Per esempio, disegno il Duomo o il Castello di Arechi, con il cielo blu e il verde brillante. Oppure rifaccio la cupola della Chiesa dell’Annunziata, che una volta era in maiolica giallo-verde e blu, e oggi invece ha un colore rame sporco che ha tolto molta bellezza al paesaggio di Monte San Liberatore visto da Piazza Amendola. E così dimentico il degrado attuale della mia città...
Quali sono le opere di cui va più fiero?
Citerei il pannello della sala dell’aula delle lauree alla Pontificia Università "Angelicum" di Roma, che raffigura l’albero della Sapienza, e il pavimento dell’altare del Nuovo Seminario di Pontecagnano, con un motivo ispirato al barocco napoletano. Due opere artistiche importanti, che tuttavia sono passate sotto silenzio. Così come è accaduto per il pannello dell’Ospedale di Sarno, che ho realizzato di recente. Eppure credo di aver espresso tutto il dramma dei sei medici morti nella frana di Sarno, con sei figure di camici bianchi con le mani alzate, in un atmosfera rosso-sangue. 
Qual è il suo giudizio sulla ceramica vietrese? E’ ancora ai vertici nazionali?
Il discorso sulla ceramica vietrese è molto difficile. Preferisco non pronunciarmi. Dico soltanto che il meglio lo ha avuto con il periodo tedesco, che non è stato più superato. Ora hanno costituito un consorzio di produzione… E’ un termine in cui non mi riconosco. Io non produco riggiole, io faccio riggiole. C’è una bella differenza!
Nella storia della ceramica vietrese, qual è l’artista che apprezza di più?
Direi Guido Gambone e Diodoro Cossa. Pochi sanno che Gambone ha vinto per ben quattro volte il premio più importante del mondo della ceramica, il Concorso Internazionale di Faenza. Gambone aveva un carattere un po’ scorbutico ma era una persona pulita e perbene. Gran parte della sua fortuna è dovuta al suo socio Andrea D’Arienzo, che - tra i due - era l’uomo del fare. Cossa è un artista e ceramista quasi sconosciuto, anche se era l’allievo prediletto di Renato Rossi ed è l’autore del famoso pannello della storia della Repubblica di Amalfi. 
Lei lavora ancora oggi dieci ore al giorno. Qual è il segreto della sua longevità artistica?
Non c’è nessun segreto. E’ la passione per il lavoro. Pensi che la settimana scorsa mia figlia Maria Grazia è venuta “infuriata” da me e mi ha rimproverato perché alle undici e mezza di sera stavo ancora lavorando… Ecco perché i miei pavimenti si riconoscono subito: perché danno gioia di vita, perché sono costruiti come ricerca di bellezza.
A proposito di Maria Grazia, è la sua erede?
E’ il caso di dire che l’allieva ha superato il maestro. Ha una tavolozza ancora più ricca della mia. Credo che farà molto bene, andrà lontano, anche se ha un carattere un po’ troppo simile al mio…
Lei ha un brutto carattere?
No, però ho un carattere chiuso e soprattutto sono un isolato, non ho e non cerco padrini politici o artistici… Non mi piego alle mode dell’arte o alle convenienze politiche.
Che fine ha fatto il suo sogno di realizzare un grande pannello sulla costiera amalfitana?
Ecco, ha toccato un nervo scoperto. Credo che non lo farò mai, proprio perché non ho sponsor politici. Mi sarebbe in un certo senso dovuto, per la mia storia personale e per quello che penso di aver dato alla ceramica salernitana, ma non mi aspetto niente.
  
 (La Città di Salerno, 25 giugno 2006)
 
Carta d’identità
 
Il Maestro Giovanni Cappetti è nato a Salerno il 26 agosto 1928. Fa ceramica dal 1950.
Vedovo, ha cinque figli (Nicola, Paolo, Monica, Angela e Maria Grazia)
Studi: La sua formazione comprende studi alla Scuola di Arte Ceramica di Salerno e al Liceo Artistico di Napoli, ma anche gli studi di lettere, filosofia teorica ed architettura presso l’Università di Napoli. 
Hobby: pesca, ricerca funghi ed asparagi, passeggiate sulle Dolomiti e sulle Alpi, cucina, musica classica (in particolare Wagner).
Mostre: Le opere di Giancappetti sono state presentate in numerose mostre in Italia e all’estero. Tra gli eventi di maggior rilievo, va ricordata la personale allestita a New York, nel 1992, in occasione delle celebrazioni colombiane.

Intervista a Gianfranco Aiello, odontoiatra

di Mario Avagliano
 
 
E’ presente nella guida dei grandi medici del Corriere della Sera, di Class e di Men’s Health, tra i 70 massimi specialisti italiani di ogni branca della medicina. Ha fondato l’Accademia di Estetica Dentale Italiana e l’Istituto Odontoiatrico Italiano, di cui è anche presidente nazionale. Il salernitano Gianfranco Aiello, docente di odontoiatria estetica presso l’Università di Padova, è il numero uno in Italia nella cura delle patologie della bocca ed è l’alfiere di una nuova filosofia medica ed umana, rivolta alla ricerca di terapie non invasive di conservazione del sorriso. Intervistato da la Città, il professor Aiello loda la classe odontoiatra salernitana, che giudica “di grande valore”, e si augura che il ritorno di Vincenzo De Luca a Palazzo di Città “restituisca a Salerno la dignità perduta negli ultimi anni”.
 
Lei è lucano di nascita ma è cresciuto e si è formato a Salerno.
Sì, mi sono trasferito a Salerno con la mia famiglia nel 1962, all’età di dieci anni. Mio padre Domenico era funzionario dell’Inps. Potenza era terribilmente fredda, era poco più di un paese di montagna, quasi immobile nella sua povertà e nel suo grigiore. Quando giunsi a Salerno, mi sembrò l’America, grazie alla vivacità del corso, alle vetrine scintillanti, a tutte quelle automobili per strada… L’impatto per me fu sconvolgente e subito m’innamorai della mia nuova città, della sua storia, della sua gente, dei suoi paesaggi. Ora mi considero a tutti gli effetti un salernitano.
Quali scuole frequentò?
Il Liceo Classico De Santis. Nella mia sezione c’era, tra gli altri, il futuro giornalista Michele Santoro. Ricordo ancora i miei docenti, tutti quanti bravissimi, in particolare il professor Lazzaro di Greco e la professoressa Borrelli di filosofia.
Com’era la Salerno degli anni Sessanta?
Era una città ricca, opulenta, ridondante di benessere. Erano gli anni del boom economico e Salerno era tumultuosa, in continua espansione, anche grazie all’attivismo di un sindaco forte come Alfonso Menna. I negozi del Corso erano affollatissimi e ogni giorno sorgevano nuove industrie. Insomma, si respirava un clima lontano mille miglia da quello di Potenza… 
A 19 anni fece le valige e partì per Milano…
M’iscrissi alla facoltà di Medicina dell’Università di Milano. Per mantenermi, collaboravo come free-lance a Il Giorno e al Corriere della Sera, scrivendo d’arte.
Come mai si indirizzò su Medicina?
Fu merito di mio padre. Fu lui a mettermi in testa l’idea di fare il medico, quando avevo appena dieci anni, perché ero bravo a scuola. E medico è stato.
E perché ha scelto proprio odontoiatria?
E’ stata una casualità. Ero andato a Zurigo per una mostra d’arte, e lì ebbi occasione di conoscere un grande odontoiatra, il professor Maier dell’Università di Zurigo. E’ grazie a lui che si è sviluppata la mia passione per questo lavoro. Così, dopo la laurea alla facoltà di Medicina di Napoli, ho completato gli studi a Zurigo, specializzandomi in odontoiatria. Nel 1981 ho aperto il mio primo studio dentistico, a Salerno. Pochi anni dopo, ho aperto uno studio anche a Milano.
Lei è l’alfiere di un’odontoiatria che mette al centro il paziente e la sua dignità. Com’è nata questa sua filosofia medica?
Devo molto agli anni di formazione in Svizzera, dove si pratica un’odontoiatria diversa, che non è quella dell’estrazione e della susseguente protesi. Ha contato molto anche la mia sensibilità personale. Per me fare il medico significa innanzitutto conservare, curare, fare gli interessi del paziente.  
In Italia l’opinione corrente è che andare dal dentista è sempre una sorta di incubo…
E’ vero, il dentista è visto come l’incapsulatore. Ma i miei pazienti non hanno bisogno del dentista, io sono il loro medico e insegno tutte le procedure per stare bene e tornare quanto meno possibile nel mio studio. Pensi che in Danimarca, dove sono vent’anni che l’odontoiatria segue questa filosofia, in media si registra una carie ogni mille abitanti.
Una media eccezionale.
Anche i miei pazienti non possono lamentarsi... Le otturazioni che ho fatto venticinque anni fa, sono ancora in bocca. Io ho sempre privilegiato un approccio che utilizza i protocolli medici più avanzati e più accurati.
Lei è presidente sia dell’Accademia di Estetica Dentale Italiana che dell’Istituto Odontoiatrico Italiano. Che rapporto c’è tra odontoiatria ed estetica?
L’idea di fondo da cui siamo partiti è che dove c’è salute, c’è anche bellezza ed estetica. Nella società attuale c’è una forte domanda di immagine cui si può e si deve rispondere, però seguendo procedure mediche non estetiche... Abbiamo dimostrato che curando i denti, si possono rispettare anche i parametri estetici. Attraverso le nostre terapie, quindi, restituiamo il sorriso oppure lo riabilitiamo in termini di bellezza.  
Il contrario dell’approccio americano.
La scuola americana punta a rivestire i denti, a fare il falso perfetto o, se si vuole, il perfetto falso. Per noi invece il primo canone della bellezza è la naturalezza, il secondo è l’individualità. Questo significa che andiamo a restaurare, a nobilitare il contesto naturale del paziente, senza interventi invasivi. Tra l’altro è anche un’odontoiatria che costa poco, forse per tale motivo è mal vista. Ma per noi questo significa essere vero medico della bocca.
E’ sempre possibile salvare i denti, oppure nei casi più gravi bisogna procedere all’estrazione?
Guardi, nel corso degli anni abbiamo messo a punto metodiche conservative innovative, che si avvalgono di fibre ad alta tecnologia per stabilizzare i denti, anche quando diventano mobili a causa di gravi malattie alle gengive. Questo ci ha permesso di passare da situazioni disperate di estrazioni di massa alla salute del paziente.
Che giudizio ha degli odontoiatri salernitani?
Ho un altissima opinione dei colleghi salernitani. Credo che a Salerno vi sia una classe odontoiatra di grande valore.
Lei è anche impegnato in varie iniziative di solidarietà. Ce ne parla?
Giovedì 22 giugno, assieme all’ex ministro Umberto Veronesi, presenterò a Milano, presso la libreria Bocca, l’iniziativa “Donare un sorriso” e il libro “La metà del viso”, realizzato con la collaborazione dell’architetto salernitano Ferdinando Basile, in cui venticinque protagonisti del giornalismo italiano, ritratti dal fotografo Alfredo Bernasconi, raccontano il sorriso nelle sue mille sfaccettature, personali e sociali. Il ricavato della vendita del libro (che si trova anche presso la libreria Feltrinelli di Salerno) verrà devoluto interamente alla Fondazione Umberto Veronesi per la ricerca sulle malattie dei bambini, di origine tumorale e non. Il libro verrà presentato anche a Salerno il prossimo 18 ottobre, su richiesta del Presidente della Provincia Villani.
In che consiste il progetto “Donare un sorriso”?
Ogni anno, come Istituto Odontoiatrico Italiano, “adottiamo” un certo numero di bambini provenienti da famiglie non abbienti, e ci impegniamo a provvedere alle loro cure odontoiatriche fino al compimento dei 18 anni d’età. Anche i bambini poveri hanno diritto a una bocca sana.
So che lei è molto vicino anche a un Paese africano.
Sono responsabile sanitario del Consolato del Congo in Italia e da diversi anni sono impegnato ad aiutare quella Nazione dal punto di vista sanitario, con l’invio di medici, di autoambulanze, di containers allestiti a presidi sanitari. Cerchiamo di formare il personale sul posto, anche perché il Congo, come tanti altri Paesi del terzo mondo, ha bisogno di sviluppare una cultura nazionale della medicina per combattere le malattie.
Da salernitano famoso, un giudizio spassionato sulla Salerno di oggi.
E’ una Salerno che purtroppo mi pare addormentata e un po’ ripiegata su se stessa dal punto di vista imprenditoriale. E’ diventata una città di commercianti più che di imprenditori. Ed è venuto meno anche quel clima di grande risveglio che si era respirato negli anni di De Luca sindaco, quando Salerno ha avuto una sterzata straordinaria. Amo profondamente questa città e mi auguro che con il ritorno di De Luca a Palazzo di Città, le venga restituita la dignità perduta.
 
(La Città di Salerno, 18 giugno 2006) 
 
Carta d’identità
 
Il professor Gianfranco Aiello è nato a Potenza il 7 aprile 1952. Si trasferì a Salerno nel 1962. Vive e opera tra Salerno e Milano.
Separato, ha due figli (Gianluca di 17 anni; Emanuele di 14 anni).
Hobby: è collezionista di vedute di Salerno e della Costiera Amalfitana e dei libri dei viaggiatori del Grand Tour; è stato uno dei fondatori del Golf Club Salerno; ama la musica classica e la musica lirica, in particolare Brahms e Puccini.
Ultimo libro letto: “L’ombra di barone”, del lucano Mario Trufelli.
Film preferiti: la filmografia di Fellini, Rossellini e Antonioni e il cinema verista francese.
 
Carriera: E’ professore di odontoiatria estetica presso l’Università di Padova. E’ stato Presidente della Commissione Odontoiatrica dell’Ordine dei Medici di Salerno e responsabile del servizio medico di odontoiatria estetica dell’Ospedale S. Raffaele Resnati di Milano. Ha fondato nel 1987 l’Accademia di Estetica Dentale Italiana, di cui è presidente nazionale.

 

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