Scannapieco, sax e "salernitanità" in giro per il mondo

di Mario Avagliano
 
In Europa è la Francia la patria del jazz. E perciò può accadere che un sassofonista italiano sia più famoso a Parigi che a Roma o a Milano. E’ il caso del salernitano Daniele Scannapieco, classe 1970, talento del jazz made in Italy, vincitore quest’anno del prestigioso premio Django D’Or, il riconoscimento per il miglior giovane musicista del 2003. Il suo primo cd da solista, fresco di sala di registrazione, è in vendita a Parigi già dal 10 aprile scorso, mentre uscirà in Italia solo a giugno-luglio. Da Campagna, dove è nato e dove sta trascorrendo le vacanze pasquali, Scannapieco confessa il suo amore per Salerno (“per me è una delle città più belle del mondo”) e parla con orgoglio della scuola jazzistica salernitana.
 
Quando nasce la sua passione per il jazz?
Prestissimo, a sei anni, anche perché vengo da una famiglia di musicisti. Mio padre Antonio suonava per mestiere la fisarmonica. Mio zio Federico, che ora non c’è più, suonava il clarinetto e mi invogliò a studiare il suo strumento. Mi ricordo che mi esibivo nella banda di Campagna, insieme ai miei cugini e a mio fratello Tommaso.
Hanno continuato pure loro?
Mio cugino Michele Montefusco, figlio della sorella di mia madre, è diventato un ottimo chitarrista, vive a Napoli e suona nell’Orchestra Italiana di Arbore. Mio fratello Tommaso suona il contrabasso e si esibisce spesso dal vivo nei locali di Salerno.
Dalla banda di paese passò al Conservatorio…
Sì, cominciai a studiare al Conservatorio di Salerno. Avevo un bravo maestro, Gaetano Capasso. Ricordo che volevo abbandonare lo studio del clarinetto, perché mi ero appassionato al sax. Suonarlo mi procurava delle vibrazioni particolari nel corpo ed è stato subito amore! Capasso mi convinse a diplomarmi, a non perdere tanti anni di fatica e lo ringrazio ancora per questo.
Chi erano i suoi compagni al Conservatorio?
Con me c’erano Dario Deidda, Giovanni Amato e Peppe Lepore. Tramite Dario entrai nel giro del JazzClub dei musicisti salernitani.
Sul finire degli anni Ottanta a Salerno c’era una fucina di giovani talenti…
Effettivamente è stato un periodo d’oro per i musicisti salernitani e anche per me. Con Dario Deidda, Pietro Condorelli e Amedeo Ariano mettemmo su   gruppo di jazz che si chiamava “Dade”. Suonavamo nei locali di Salerno, di Cava e di Napoli, il Botteghelle, il Metrò, il Bogart, il Moro, il Piazza Amedeo…
Partecipava anche lei alle jam-session a “Il Posto”, a Fratte?
“Il Posto” fu un’idea eccezionale. Ricordo che, nonostante fossimo squattrinati, pagavamo 100 mila lire al mese a testa per l’affitto di quei locali e quasi ogni giorno ci vedevamo lì e suonavamo ore e ore, parlando, confrontandoci, imparando gli uni dagli altri. Oltre ai fratelli Deidda, c’erano Amedeo Ariano, Giovanni Amato, Aldo Vigorito, Giampiero Virtuoso, Gianni Ventre, il chitarrista blues degli Almamegretta, purtroppo scomparso…
Nacque a Fratte la scuola jazzistica salernitana?
Non lo so. Una cosa è certa: grazie a quella nidiata di musicisti, Salerno adesso è una città che conta moltissimo nel panorama jazzistico italiano. Tanto per dirne una, la migliore sassofonista italiana, Carla Marciano, è salernitana.
La scuola jazzistica salernitana si è inaridita o continua a produrre talenti?
Non si è affatto inaridita. Citerei per esempio il cavese Julian Mazzariello, che è destinato a diventare uno dei più grandi pianisti italiani. Lui e Dario Deidda forse sono i musicisti salernitani più talentuosi, quelli - come dire - toccati dal “dono di Dio”. Ma ne stanno emergendo anche altri.
Nomi e cognomi, per favore.
Una rivelazione è sicuramente Pierpaolo Bisogno, vibrafonista e percussionista. In questo periodo sta suonando con Sandro Deidda alla trasmissione “Novecento” di Baudo. Poi ci sono i sassofonisti Peppe Plaitano e Antonello Altieri. E sicuramente ne dimentico altri.
Nel ’90, dopo il diploma al Conservatorio, lei si trasferì a Roma. Come fu l’impatto con la capitale?
Partimmo insieme, io, Amedeo Ariano, Dario e Sandro Deidda, e Jerry Popolo. Affittammo un appartamento vicino alla Stazione Termine. I primi tempi furono duri, anche dal punto di vista economico. Pur di racimolare qualche lira e di farci conoscere, accettavamo di tutto, anche di suonare musica funky o altri generi.
Come fece ad uscire dall’anonimato?
Ebbi la fortuna di stringere amicizia con Stefano Di Battista, uno dei migliori sassofonisti del mondo. Lui mi presentò al pianista Stefano Sabatini e così cominciai a suonare con loro stabilmente.
Quando ha cominciato a suonare in Francia?
Era un giorno di marzo del 1999. Stefano Di Battista si presentò da me con una prenotazione aerea e mi disse: “Prepara le valige che partiamo per Parigi”.
Come andò?
Fui baciato dalla fortuna. Paco Sery stava registrando un disco a Parigi. Stefano andò a trovarlo e Paco gli chiese se conosceva un sassofonista tenore. E così mi trovai a suonare con lui. Poi conobbi Andrè Ceccarelli, il famoso batterista francese, che mi  presentò a Dee Dee Bridgwater.
E’ nato così un sodalizio che dura ancora oggi.
Dee Dee è una persona straordinaria, oltre ad essere una delle cantanti più apprezzate del panorama jazzistico internazionale. Ha delle qualità vocali superlative. In tournée con lei ho fatto il giro  degli Stati Uniti e d’Europa, da Instabul a Oslo. Un’esperienza eccezionale.
Tanto che l’anno scorso la Bridgwater l’ha voluta in sala di registrazione.
Ho suonato per il suo ultimo disco, “This is new”, e nelle prossime settimane mi esibirò con lei in Svizzera.
Nel 2002 è anche uscito il primo cd del suo quintetto jazz, High Five.
Il disco si chiama “Jazz for more…” e sta andando forte nelle vendite. Devo dire che il nostro gruppo è davvero ben assortito: Fabrizio Bosso alla tromba, Julian Mazzariello al piano, Pietro Ciancaglini al contrabasso e Lorenzo Tucci alla batteria. Ci stanno chiamando a suonare dappertutto. Il 6 luglio saremo al “Paris Jazz Festival”, come gruppo di spalla del grandissimo sassofonista americano Joe Lovano.
Ritorna a Parigi?
Per un jazzista il richiamo di Parigi è irresistibile. A differenza dell'Italia, in Francia esiste un vero e proprio mercato del jazz e per la gente è normale comprare i dischi jazz. Però negli ultimi anni il jazz è in forte ascesa anche nel nostro Paese.
A proposito di dischi, sta per uscire il suo primo cd da solista.
Uscirà entro l’estate. E’ un disco composto tutto di pezzi nuovi, scritti da me, da Stefano Di Battista e da Fabrizio Bosso.
Di che genere?
Diciamo hard bop. E’ un genere che rappresenta uno sviluppo del Be bop, uno stile jazzistico dal ritmo veloce e elaborato, caratterizzato dall'uso di accordi dissonanti, salti di note e maggiore libertà strumentale. In una parola è "movimento", energia, io lo trovo geniale e credo che anche il pubblico apprezzerà!
Lei ha collaborato con alcuni tra i più grandi musicisti jazz italiani e internazionali, da Roberto Gatto a Giovanni Tommaso, da Andrè Ceccarelli a Tony Scott, da Paco Sery e Joe Lovano. A chi deve di più?
A parte Di Battista, direi Giovanni Tommaso. Lui ha creduto in me quando ancora non ero nessuno, mi ha preso nel suo gruppo e mi ha portato per la prima volta all’Umbria Jazz.
Ha suonato anche con musicisti pop?
Poche volte, per fortuna. Amo troppo il jazz. Ho suonato con Fred Bongusto, con Stefano Palatresi e con Tullio De Piscopo e, in più di un’occasione, anche con Sergio Cammariere. Siamo amici.
Qual è stato il concerto più memorabile della sua carriera?
L’esibizione al Town Hall di New York, il 12 gennaio del 2001, con gli Italian Jazz All Stars. Quello è un luogo storico per il jazz e per me è stato un momento importante, anche di riconoscimento.
Un giramondo come lei è legato alla sua terra?
Io mi sento legatissimo a Campagna. Quand’ero piccolo, mi stava stretta. Sognavo Roma, sognavo l’estero. Ora invece solo qui a Campagna riesco a studiare e a comporre con serenità. Nelle grandi città e in tournée vivi a mille tutto il giorno. Qui invece si sente scorrere l’acqua del fiume, c’è un’aria pulita, passa una macchina ogni 15 minuti, posso giocare sul prato con il mio nipotino.
E a Salerno ci viene mai?
Eccome. La considero una delle città più belle del mondo, con quel lungomare meraviglioso. Negli ultimi anni poi è anche migliorata dal punto di vista estetico. Ci torno sempre volentieri.
Nel salernitano c’è un locale dove è possibile ascoltare del buon jazz?
Ce ne sono almeno tre. Ovviamente il Fabula di Salerno, e poi il Bishop a Lancusi, che ogni martedì propone serate jazz “da paura”, e il   “Round Midnight jazz club”, che ha un pubblico di appassionati molto selezionato.
 
(La Città di Salerno, 20 aprile 2003)

Giuseppe Galderisi: Un "Nanu" grande come il Mundial

di Mario Avagliano
 
Ha festeggiato proprio ieri i 40 anni di età, ma Giuseppe “Nanu” Galderisi, attaccante della nazionale ai mondiali del Messico e campione d’Italia con la Juventus e il Verona,  ha ancora nel cuore il ricordo di quel ragazzino “piccolino e nero” che sgambettava nei vicoli di Fratte o sul campetto in terra battuta di Marina di Vietri. Da Padova, dove dirige una scuola di calcio (“Galderisi Soccer Team”), l’ex calciatore di origine salernitana, che faceva impazzire le difese avversarie con il suo estro e la sua rapidità, confessa di avere un grande rimpianto: “Avrei voluto giocare nella Salernitana”. E aggiunge: “Un Galderisi potrebbe presto venire a Salerno, mio figlio Andrea, di 13 anni, capocannoniere dei giovanissimi. E in futuro, chi sa, piacerebbe anche a me tornare nella mia città, magari come allenatore dei granata”.
 
Lei è nato a Fratte?
Sì, mio padre Francesco è di Calvanico, e di mestiere faceva il carpentiere, mia madre Anna è di Baronissi. Avevo ancora pochi mesi quando, per motivi di lavoro del mio papà, io e la mia famiglia ci siamo trasferiti a Trecasali, in provincia di Parma.
Quando è tornato a Salerno?
Avevo dieci-undici anni. Non è stato facile integrarsi per me che venivo da Parma, ma lo sport mi ha aiutato. Avevo il calcio nel sangue, giocavo per strada, nei vicoli, nei cortili. Mi chiesero subito di entrare nella squadra del rione, la Frattese. Ero attaccante e divenni il piccolo idolo del quartiere. Mi chiamavano Peppe ‘u parmense. Ogni volta che facevo goal, mi davano in premio una coca cola o un dolcetto.
Inizi difficili…
Come dice il mio amico Bettega, se hai un sogno grande dentro, tutto il percorso della vita diventa più facile.
E lei sognava?
Io sognavo sempre. Ogni volta che chiudevo gli occhi, sognavo di fare goal e di diventare un campione.
Nel ’75, a dodici anni di età, Galderisi passa al Vietri-Raito.
Venne a prelevarmi Enzo Campione, che è tuttora un punto di riferimento per me, nel calcio come nella vita. Tra Fratte e Vietri successe quasi un putiferio. I dirigenti e i tifosi della Frattese non volevano perdermi. Mi dispiacque, ma al Vietri-Raito c’era la possibilità di fare provini per i grandi club nazionali…
Che cosa ricorda di quegli anni?
Ricordo che giocavamo su un campetto di terra battuta, con il mare di fronte. C’era sempre il sole e un intenso odore di iodio. A volte il pallone superava la rete e finiva in acqua. Per recuperarlo, dovevamo prendere la barca e inseguirlo remando tra le onde. Nicola, il mio primo allenatore, mi teneva ore e ore a palleggiare, con il pallone attaccato alla “forca”. A 13 anni esordii in prima squadra, in Promozione.
C’erano molti ragazzi?
Era un bel gruppo, con tanti talenti: Marco Pecoraro, che poi andò all’Inter; Franco Della Monica, che fu ingaggiato dalla Juventus. Si viveva molto insieme, anche se il calcio era il nostro sogno. Enzo Campione ci seguiva passo passo, era un fratello maggiore per noi. Senza di lui, parecchi di noi si sarebbero persi.
Lei era tifoso della Salernitana?
Tifosissimo. Non avevamo i soldi per pagarci il biglietto, così io e i miei amici scavalcavamo un muro altissimo per entrare nel vecchio stadio Vestuti e assistere alle partite della grande Salernitana. Quante partite “rubate”! Ricordo ancora la formazione… C’erano diversi campioni: Capone, un attaccante di razza; Chimenti, che faceva spesso il numero della bicicletta e mi entusiasmava; Abbondanza, un giocatore molto tecnico.
Nel 1977 arriva la svolta: viene chiamato dalla Juventus.
A Vietri ebbi l’occasione di fare un provino per la Juventus e uno per l’Inter. Mi prese la Juve e così, a quattordici anni e mezzo, feci la valigia e partii per Villar Perosa, una specie di college bianconero. Ricordo ancora il giorno della partenza alla stazione di Salerno: mia madre e mio padre commossi, Enzo e gli amici che erano venuti a salutarmi.
Da un campetto sul mare alla società più blasonata d’Italia…
Per me fu un salto incredibile. Mi alzavo ogni mattina alle 7 e andavo a scuola. All’una si faceva colazione e poi nel pomeriggio l’allenamento. Alle 10 e mezza, tutti a letto. Dopo qualche mese, mi allenavo già con la prima squadra.
Divenne un po’ la mascotte della Juventus?
Ero il ragazzino da seguire e a cui trasmettere certi valori. La Juve per me è stata una palestra di vita. C’era gente come Zoff, Scirea, Bettega, Boninsegna, Causio, Gentile, che mi ha dato molto. Palleggiavo spesso con Furino. Ogni volta che sbagliavo, mi rincorreva per tutto il campo…
E l’Avvocato Gianni Agnelli, veniva a vedervi?
Sempre, sempre. Mi aveva preso in simpatia e scherzava perché ero piccolino. Diceva che ero “furbo e svelto” e mi ripeteva spesso: “E’ ora di crescere…”.
Fu allora che nacque il soprannome di “Nanu”?
Sì, nel periodo di Villar Perosa. “Nanu”, per la verità, era il soprannome di Franco Della Monica, che veniva da Vietri come me. Franco era un vero fenomeno, tecnicamente più forte di me, anche se purtroppo non ha avuto altrettanto fortuna. Ebbene, quando io arrivai in Piemonte, lui andò in prestito a un’altra squadra. Stessa città, stessa carnagione, mi affibbiarono anche lo stesso suo soprannome.
Nella stagione 1980-1981 Galderisi debutta in serie A.
Che emozione! Era allenatore Trapattoni. Sia quell’anno che quello successivo vincemmo lo scudetto. Io però, devo essere onesto, sento di aver contribuito solo al secondo titolo.
Perché?
Beh, nel 1980-1981 avevo diciassette anni e  feci sempre panchina. L’anno dopo, invece, giocai 16 partite, segnai 6 goal, molti dei quali decisivi per lo scudetto. Sfiorai anche la nazionale. Bearzot si interessò a me, anche se alla fine preferì Selvaggi.
Due anni dopo, passa al Verona. Si era spezzato qualcosa nel rapporto con la Juventus?
No,però con il rientro di Paolo Rossi, c’era meno spazio per me. Io avevo bisogno di dimostrare a me stesso che valevo qualcosa e così scelsi di accettare l’offerta di andare in prestito al Verona. Non mi pentii.
Trovò un bell’ambiente a Verona?
Un contesto perfetto per un ragazzo come me che voleva sfondare. Il gruppo era eccezionale e Bagnoli mi responsabilizzò molto.
A Verona arriva il terzo scudetto.
Stagione 1984-1985. Indimenticabile. Nessuno avrebbe scommesso su di noi.
Il resto della carriera lo passa al Milan, alla Lazio, fino all’approdo al Padova.
A Padova sono stato benissimo. Ho giocato lì per sette stagioni e nel 1994-95 abbiamo anche ottenuto una storica promozione in serie A.
A 33 anni ha fatto di nuovo la valigia ed è volato in Usa.
Insieme a Donadoni. Ho giocato per il New England e il Tampa Bay. E’ stata un’esperienza di vita fantastica, anche per la mia famiglia.
Appese le scarpette al chiodo, ora invece sta tentando la strada dell’allenatore.
Ho frequentato il corso di Coverciano insieme a Mancini, Massaro, Zenga e Vierchwood. Ho allenato la Cremonese, il Giulianova e il Mestre. Finora, però, devo confessare che non ho ancora trovato ambienti dove un allenatore si può esprimere al massimo. Le serie C1 e C2 sono un po’ una giungla. Per carità, sto imparando moltissimo, ma spero di poter fare un salto di qualità il più presto possibile.
Magari con la Salernitana…
Magari… Sarebbe un altro sogno che si realizza. Purtroppo durante la mia carriera calcistica non ho avuto la fortuna di indossare la maglia granata e di godere dell’affetto di tifosi così caldi come quelli dell’Arechi.
Per la verità nel 1989 si parlò di un suo possibile passaggio alla Salernitana…
La Salernitana non mi chiese di venire a giocare a Salerno e quindi non è vero che io abbia rifiutato il trasferimento. Dico di più, se fosse stata avviata veramente una trattativa, sarei venuto di corsa.
La Salernitana, però, quest’anno arranca. La serie C è vicina.
Quasi tutte le squadre del Sud sono in difficoltà, anche il Napoli. So che i tifosi granata sono molto delusi, però una stagione storta non deve scoraggiare l’ambiente. La Salernitana sta investendo bene nel futuro e nei vivai, come dimostrano i risultati del settore giovanile. Capisco che l’eventuale retrocessione è dura da digerire, ma mi sembra che si siano poste le basi per risorgere.
Con un nuovo goleador di nome Galderisi junior?
Mio figlio Andrea promette bene, è innamorato del calcio e qui a Padova è il capocannoniere dei giovanissimi. So che a Salerno servono degli ’89... Se son rose, fioriranno.
Se si guarda indietro, che cosa le manca di Salerno?
Soprattutto il sole e il mare. Forse è la mia pelle che ha bisogno di calore, forse è il mio cuore, ma ogni volta che torno a Salerno a trovare i miei genitori, mi sento felice. E poi negli ultimi anni la città è cresciuta moltissimo. Sono orgoglioso di essere salernitano.
 
(La Città di Salerno, 23 marzo 2003)
 

Renzo Arbore parla di Roberto Murolo: "Un caposcuola"

di Mario Avagliano
 
"Roberto Murolo era il cantore della Napoli classica e nobile, celebrata da grandi giornalisti come Giovanni Ansaldo, dai pittori della scuola di Posillipo e da poeti come Salvatore Di Giacomo". Troviamo Renzo Arbore in viaggio per Napoli. Il cantante e showman che ha il merito di aver rilanciato Murolo, dopo circa trent’anni di silenzio, appena appresa la notizia della morte dell’amico, è partito subito per il Sud , insieme a Peppino Di Capri. "Se n'è andato un maestro, un caposcuola", mormora dall’automobile. E racconta di averlo incontrato il mese scorso. "Era sereno, sorridente, sempre affettuoso, anche se nel fargli visita mi resi conto che era molto malmesso".
 
Quando ha conosciuto Roberto Murolo?
Nel 1957, quando mi sono iscritto all’Università a Napoli. Fui invitato a casa di un compositore napoletano, Rocca, me lo presentarono e diventammo subito amici. D’altra parte io ero suo ammiratore fin da bambino. Sono cresciuto ascoltando i suoi dischi e quelli di Sinatra. Murolo era un po’ l’idolo della borghesia meridionale.
Non era un bel periodo quello per Murolo…
E’ vero, era un periodo di grande sofferenza, per la vicenda ingiusta nella quale è stato coinvolto (fu accusato di molestie sessuali a un minore, n.d.r). Sottolineo ingiusta: nessuno ha scritto che lui fu assolto, se pure per insufficienza di prove. Ma tutti i suoi amici sanno che non c’era nulla di vero.
Comunque fu costretto a un lungo silenzio.
Quelle accuse gli avevano fatto molto male. Viveva in casa e soltanto pochi amici lo portavano di tanto in tanto in qualche cenacolo a cantare. Ricordo che avevamo messo su un piccolo gruppo, "La posteggia", con Murolo, il marchese Giulio Patrizi, Sergio Bruni. Io ero l’americano, cantavo le canzoncine scapigliate, loro i classici della canzone napoletana.
Negli anni Ottanta lei è stato il protagonista del rilancio di Murolo, della nuova fase della sua carriera. Nel 1990, gli ha anche dedicato uno speciale televisivo, "’Na voce e 'na chitarra".
Questo è uno dei pochi meriti dei quali vado orgoglioso, di averlo ritrovato, riscoperto e rilanciato.
Subito dopo Murolo collaborò con artisti del livello di Fabrizio De Andrè, Lucio Dalla, Mia Martini…
Era amato anche dai jazzisti. Pino Calvi e Carlo Alberto Rossi hanno composto brani bellissimi per lui.
La critica ha scritto che lo stile di Murolo ha rivoluzionato la canzone napoletana e questa è stata la ragione del suo grande successo. E’ d’accordo?
Certamente. La sua è stata una rivoluzione tecnica: ha inventato la canzone napoletana non cantata a piena voce ma sussurrata, senza arrangiamenti, con l’accompagnamento solo di una chitarra. Ha aggiunto poesia alle canzoni già poetiche dei vari Di Giacomo e Mario Costa. E’ stata un po’ la stessa operazione che hanno fatto Joao Gilberto o Vinicio de Morales in Brasile con la canzone popolare brasiliana.
Lei ha detto in passato che la voce di Murolo è particolare.
Sì,la sua voce era come l'oro, non si alterava, era sempre luccicante. Era una voce che risuonava profonda e dolcissima come nessun altra. Ti commuoveva se la canzone era nostalgica, ti rasserenava se la canzone era allegra. Rifletteva la sua nobiltà di razza napoletana purissima. Roberto era un aristocratico dentro, nel senso migliore della parola, sia chiaro. Era nobile anche nella vita e nei modi, generoso con la gente.
Quale eredità lascia Roberto Murolo?
Innanzitutto i suoi dischi. Murolo rimane il testimonial più completo e più canonico della canzone classica napoletana. Ha tutte le caratteristiche per diventare immortale. Sono sicuro che tra cinquant’anni le sue canzoni saranno studiate nei conservatori come gemme di un periodo felicissimo per Napoli.
Due anni fa Renzo Arbore ha celebrato il novantesimo compleanno dell’amico con il "Roberto Murolo Day", 4 ore no stop sul canale satellitare Raisat.
Sono fiero di quel lavoro, che tra l’altro comprende spezzoni di alcuni vecchi film di Murolo e alcune sue felici apparizioni televisive. Sarebbe bello che fosse riproposto, come omaggio a questo grande artista. So che Rai2 è interessata. Tra l’altro la Rai possiede un altro documento prezioso di Murolo: 50 delle 100 canzoni che gli feci registrare in video per Rai International…
Che cose le mancherà di Murolo dal punto di vista umano?
Mi mancheranno la sua grazia, il suo gusto, la sua affettuosità. E poi mi mancheranno quelle serate che mi dedicava il giorno del mio compleanno, quando scendovo a Napoli per festeggiare insieme agli ex compagni di università e lui non faceva mai mancare la sua splendida voce e le sue canzoni.
 
(Quotidiani locali, L'Espresso, 15 marzo 2003)

 

Afeltra l'amalfitano sedotto da Milano e dal "Corriere"

di Mario Avagliano
 
Quel treno sbuffante e carico di sogni che nel 1937 lo trascinò via dalla sua Amalfi per portarlo al Nord, Gaetano Afeltra, uno dei maestri del giornalismo italiano,  non l’ha mai dimenticato. Trapiantato a Milano, Afeltra è diventato uno dei giornalisti di punta del “Corriere della Sera”, ricoprendo anche la carica di vicedirettore. Per quasi mezzo secolo, dalla plancia di via Solferino, ha visto passare il mondo, ha conosciuto direttori, uomini di cultura e politici, ed ha vissuto ogni evento della storia italiana. Seduto alla scrivania del suo ufficio milanese, ci racconta come nacque il suo amore per la carta stampata, ricorda i tempi d’oro di Rossellini e della Magnani sulla costiera amalfitana, da’ ragione a Giovannino Russo quando sostiene che la questione meridionale esiste ancora ma a parlarne oggi purtroppo si passa per “vecchi bacucchi”. E di Salerno dice: “E’ profondamente cambiata. E’ diventata una capitale”.
 
Com’era la Amalfi della sua infanzia?
Condizionata dal fascismo. A modo loro gli amalfitani partecipavano molto alla vita politica del Paese, con la contesa fra due partiti, quello delle "giacchette" (operai e impiegati) e quello delle "sciammeriche" (dal nome dell'abito di riguardo, designava la fazione dell'aristocrazia locale). La mia formazione avrebbe dovuto passare per le tappe obbligate di quegli anni, ma io di fare il piccolo balilla non ne volevo proprio sapere. Mi riuscì di evitarlo con l'aiuto del segretario del Fascio di Amalfi, un uomo dotato di una forte carica di simpatia.
Che vita conduceva a casa?
Una vita semplice, e ricca di valori. Mio padre e mia madre ci avevano insegnato ad essere autonomi e a mettere da parte i soldi. Tutti in famiglia avevamo il libretto di risparmio postale, li teneva la mamma e odoravano di fiori di lavanda perché li metteva nei cassetti del comò sotto la biancheria ricamata del suo corredo nuziale. Il salvadanaio, invece, era nascosto nella libreria dietro la “Divina Commedia” illustrata da Doré, tre volumi col dorso di pergamena. Quando il salvadanaio era pieno, facevamo una gita a Pogerola o a Tovere, due villaggi amalfitani, due angoli di Paradiso. La mamma, la sera prima, preparava un timballo di maccheroni, crocchette di patate, cotolette, e al mattino si partiva.
Chi erano i suoi amici, quali erano i luoghi che frequentava?
Il "Circolo dei combattenti" e il Bar Savoia, perché ero molto amico dei figli di Amatruda, il leggendario personaggio della vita amalfitana.
Come nacque la sua passione per il giornalismo?
Mi sono innamorato del giornalismo seguendo le tracce di mio fratello Cesare, il quale aveva cominciato a scrivere quando era ancora studente su un foglio locale, “L’azione democratica” di Salerno, poi aveva conosciuto ad Amalfi il critico musicale del “Giornale d’Italia Matteo Incagliati e, attraverso questi, Alberto Bergamini, direttore del “Giornale d’Italia”, ed era stato assunto a Roma. Ricordo che chiedevo continuamente a mio padre quando sarei potuto andarlo a trovare.
E ci riuscì?
Fortuna volle che un giorno, da Roma, chiedessero la presenza dei gonfaloni delle quattro repubbliche marinare per una manifestazione fascista in onore dei caduti del mare. A portare lo stendardo di Amalfi fu incaricato il capo dei vigili urbani, Salvatore Barbaro, che frequentava casa mia. Partii con lui, avevo sette anni. Mi portò alla sede del “Giornale d’Italia”, a Palazzo Sciarra. Lì ad accogliermi in maniera festosa c’era Adolfo Tino, che più tardi avrei frequentato a Milano. Mi prese per mano e, insieme con Cesare, mi portò a vedere la tipografia.
Che impressione le fece?
Quel salone immenso di luci e di macchine, l’odore dell’inchiostro, il ronzio della linotype, mi colpirono molto. Mi parve il paradiso! Sebbene fossi ancora bambino, a tanti anni di distanza posso dire che forse fu proprio in quel preciso momento che venni folgorato dalla passione per il giornalismo. Mio fratello fece comporre da un linotipista una riga con il mio nome e me la dette, ancora calda di piombo appena fuso. Ricevendo quella riga, mi parve di ricevere il sigillo di appartenenza a una comunità insieme misteriosa e potente.
Quando cominciò a scrivere?
Da studente. Mia madre era rimasta vedova. E così, per mantenermi in collegio e pagare la retta (eravamo nove figli), tra il 1933 e il 1934 fu costretta a vendere case e pezzi di terra. Con i pochi soldi che mi dava la mamma, mentre i miei compagni comperavano un pacchetto di sigarette Macedonia, io acquistavo giornali. Trovavo i libri di scuola noiosi, mentre i giornali erano dolci come lettere d’amore. Poi conobbi il corrispondente da Amalfi del “Roma” e del “Giornale d’Italia”, Nicola Ingenito, soprannominato “Nicola la stampa”, di professione ricevitore del lotto, e lui mi iniziò al mestiere di giornalista. Scrivevo qualche noterella su avvenimenti locali: un battesimo, un matrimonio, la festa di nomina di un cavaliere della corona d’Italia. Però già vedere quelle righe stampate mi inebriava di gioia.
Poi divenne corrispondente del “Giornale d’Italia”…
Sì, non avevo ancora 18 anni che Ciro Grimaldi, che fungeva da ispettore del “Giornale d’Italia” per la zona di Salerno, mi prese in simpatia e decise di darmi la tessera e l’incarico di corrispondente. “Ma mi raccomando – mi intimò – non dire la tua età”. Finita la scuola, però, tutto questo non mi bastava più. Mettevo in croce mio fratello Cesare perché mi aiutasse a raggiungerlo a Milano, dove si era trasferito.
E infatti nel 1937 partì per Milano, iniziando a collaborare all’Ambrosiano. In quali circostanze avvenne il suo distacco da Amalfi e come lo visse?
All’improvviso arrivò un telegramma di mio fratello che mi invitava a partire. Indossai l’abito nuovo e, carico dei “santini” e delle raccomandazioni di mia madre, presi l’autobus delle cinque e alle sette, alla stazione di Vietri sul Mare, montai sul treno diretto al Nord. Tutto il viaggio, che durava più di dodici ore, lo passai al finestrino. Finalmente vedevo l’Italia. Alla fermata di Firenze, come a quella di Bologna, saltai giù dal treno e, approfittando della sosta, scappai fuori nella piazza, per respirare l’aria di quel mondo nuovo per me. Dopo Bologna, il paesaggio cambiò, scoprii la pianura e mi sembrò di scorgere anche una femminilità differente da quella del Sud. Mi sembrava che bellissime donne senza volto fossero ad aspettarmi, pronte ad aprirmi le braccia. Il mio amore per il Nord è nato sul treno di quella sera, e non è finito più.
Nel 1942 lei fu assunto dal Corriere. Chi la chiamò e come ricorda il suo incontro con il grande quotidiano milanese?
Ricevetti un biglietto da Andrea Marchiori, l’onnipotente segretario di redazione del Corriere. C’era scritto: “Il direttore vuole vederla a mezzanotte”. Entrai nell’ufficio di Aldo Borelli sudando freddo. “Chi siete?”, domandò brusco, con un tono inquisitorio e usando il voi, che era di rigore sotto il regime fascista. Io ero assai emozionato, gli dissi che il cuore mi batteva, e gli chiesi di non giudicarmi dal comportamento di quella sera. Lui mi guardò quasi con tenerezza, si alzò, mi tese la mano e mi assicurò: “Non so se fra una settimana o fra due mesi, ma voi verrete al ‘Corriere’”.
Il suo primo giorno di lavoro al Corriere fu avventuroso…
Ero stato assunto come impaginatore. Per l’occasione, mi ero fatto tagliare i capelli e avevo indossato il mio miglior vestito. Erano le quattro del mattino di una domenica del 1942. Quando arrivò il proto, che si chiamava Croce, mi diede una busta contenente tutto il materiale da impaginare. Dentro trovai gli originali con le foto, ma nessun titolo, nessuna didascalia. Lo stenografo di turno mi consigliò di telefonare in albergo al caporedattore Serra. Ma che figura ci avrei fatto? Così presi la decisione di scriverli io. Quando ebbi finito, non riuscii ad andare a dormire. Mi assalì il timore di aver sbagliato qualcosa. A mezzogiorno entrai al Corriere con il cuore in gola. Serra si scusò con me. Poi arrivò un fattorino a dirmi che mi voleva il direttore. Borelli mi squadrò un momento e mi disse: “Buono il giornale di oggi!”.  E chiese: “Quanto è il vostro stipendio?”. “Duemila lire” riuscii a dire con un filo di voce. “Andate giù, troverete cinquecento lire di più al mese, spendetele con le ragazze!”.
Dopo l’8 settembre del 1943 lasciò il Corriere per partecipare alla resistenza.
Fui io a curare l’edizione straordinaria dell’8 settembre, listata a lutto. Ricordo che feci seguire al comunicato ufficiale un lapidario commento scritto di mio pugno in tipografia: “4 novembre 1918–8 settembre 1943 due date: una gloria e una vergogna”. Poi entrai nel movimento partigiano e mi occupai della stampa clandestina del Cln, collaborando con Parri, Valiani e Lombardo. Dopo la liberazione, nel primo dopoguerra diressi il Corriere Lombardo e Milano Sera. Nel ’46, però, tornai al Corriere, il mio primo amore.
Al Corriere sono anche passati diversi salernitani, da Giovannino Russo a Raffaele Mauri, fino ad Alfonso Gatto. Li frequentava? C’era un senso di solidarietà tra di voi?
Tutti noi ci frequentavamo ed eravamo amici. Parlando di quei tempi, Gatto diceva: "Bella gente, bella umanità, bella anche la città di nebbia e di freddo: tutti riusciremo a fare qualcosa aiutandoci l'un l'altro". Questa era la nostra solidarietà.
Aldo Falivena, da noi intervistato, ricorda ancora le sue celebri lezioni di giornalismo a lui, a Ronchey, ad altri. Ci ha anche citato la definizione di giornalismo secondo Afeltra: plagio, nel senso di ricerca negli archivi, e fantasia. E’ sempre vera?
Sì, ritengo di sì.
Tra il 1972 e il 1980 lei è stato direttore de “Il Giorno”. Come ricorda quella esperienza?
Molto burrascosa, anche perché trascorsa in anni molto difficili. Ci furono parecchi contrasti perché si voleva un giornale fortemente politicizzato, mentre io volevo fare un giornale normale, obiettivo e bene informato. Credo di esserci riuscito solo in parte.
Dalla terza pagina del Corriere, anche negli anni recenti, lei ha raccontato Amalfi, il suo mare, la sua gente, i suoi colori. Che cosa significa per lei nostalgia…
Un ricordo che incide forte nella memoria. Questa è la vera nostalgia.
Comunque per molti anni è venuto ad Amalfi ogni estate.
E ci portavo tanti amici, che impararono ad amare Amalfi e poi vi tornarono anche senza di me. Per esempio in quegli anni Rossellini e la Magnani divennero per me quasi concittadini, anche se erano nati altrove.
Lei ama la sua terra ma ama profondamente anche Milano, la sua città d’adozione. Che differenza c’è tra le due realtà?
Amalfi è la città di nascita e dei ricordi. Milano è la città del lavoro, della maggiore severità di vita e di costume. A Milano nulla è lasciato al caso e alla fortuna, ma tutto è affidato al lavoro, vi sono rapporti semplici e chiari senza preamboli o raggiri, ovunque regna l’ordine e la regolarità, espressione della schiettezza e della generosità dell'animo lombardo.
Ad Amalfi e alla costiera lei ha dedicato alcuni dei suoi più bei libri: da “Desiderare la donna d’altri” a “Spaghetti all’acqua di mare”. Qual è a suo avviso quello che meglio descrive la sua terra?
“Com'era bello nascere nel lettone”.
Dai suoi scritti traspare un grande amore anche per le pietanze della costiera: i cannelloni, i caciocavalli di Agerola, il sanguinaccio, l’”annòlla” (il ventre del maiale avvolto di spezie), la “pezzente” (un insaccato di tutti gli interiori), gli spaghetti al pesce “fuiuto”. Qual è il piatto che le manca di più?
Mi mancano i sapori della cucina di mia madre.
Ha scritto Indro Montanelli che “Afeltra, come tutti i meridionali, tira al patetico. Ma a differenza di tutti i meridionali, lo corregge con l’umorismo”. Si ritrova in questa definizione?
Abbastanza.
In un suo libro si legge che gli amalfitani adoravano Napoli e detestavano Salerno. Perché?
E’ una storia antica. Un tempo Napoli era la Parigi degli amalfitani agiati. Via Toledo era il loro Fauborg St. Honoré, e la Rivieria di Chiaia il rue de Rivoli. Invece per Salerno c’era un’avversione istintiva. Quando vi si recavano, tornavano con il mal di testa. Sostenevano che l’aria di Salerno era pesante. Pura maldicenza. La ragione vera del disturbo era la nafta del piroscafo oppure le curve della costiera. Oggi tutto è cambiato.
E’ stato di recente a Salerno? Che impressione ne ha avuto?
Ottima, però Salerno mi è parsa una città che ormai ha poco della provincia, anche per dimensione: è diventata qualcosa di molto più grande, una capitale.
 
 
(La Città di Salerno, 23 febbraio 2003)
 
 

Il duo Deidda-Amato e la primavera jazz della scuola salernitana

di Mario Avagliano
 
Il jazz made in Italy parla salernitano. E’ da qualche anno ormai che, in televisione come nei più importanti festival jazz italiani ed europei, i musicisti salernitani raccolgono applausi e consensi. Tutto cominciò a cavallo degli anni Ottanta-Novanta, quando a Salerno nacquero decine di band di giovani talentuosi e scapigliati. Molti di loro hanno fatto "carriera", dai fratelli Deidda a Giovanni Amato, e poi Giampiero Virtuoso, Aldo Vigorito, Gerry Popolo, Amedeo Ariano, e ora producono dischi, suonano con i più importanti jazzisti europei, collaborano con le stelle della musica pop. Un fenomeno misconosciuto in città, e quasi del tutto ignorato dalle istituzioni. "Siamo più apprezzati a Roma, a Milano o a Parigi, che a Salerno, dove mancano spazi e organizzazione. Attenzione, la scuola jazzistica salernitana rischia di morire", lanciano l’allarme due di loro, Dario Deidda, forse il miglior bassista elettrico italiano, ora impegnato in tournée con Fiorella Mannoia, e Giovanni Amato, trombettista e compositore di notevole spessore, originario di Nocera Inferiore, alla vigilia del suo primo disco jazz.
 
Quando inizia la vostra passione per il jazz?
Amato: Ho iniziato a suonare la tromba all'età di otto anni, sotto la guida di mio padre, anch'egli trombettista. E’ proprio ascoltando la sua collezione di dischi (Armstrong, Davis, Henry James, Brecker) che mi sono innamorato del jazz, e ho cominciato ad improvvisare.
Deidda: Anche io vengo da una famiglia di musicisti. Mio padre era pianista. Io ho cominciato a suonare il basso e poi il contrabbasso a 12 anni e poi, grazie a lui, io e i miei fratelli ascoltavamo tanta musica, non solo Pino Daniele e i cantautori, come facevano i miei coetanei, ma anche Frank Sinatra, Benny Goodman.
La prima esperienza importante?
Amato: E’ arrivata prestissimo. Intorno ai sedici anni entrai a far parte di una jazz band importante, la "Elbas Jazz Group", del batterista napoletano Antonio Golino. Fu proprio Dario a fare il mio nome a Golino, che cercava un trombettista. Io però ero restio a suonare dal vivo. Per dirla tutta, avevo paura. La prima volta, non mi presentai neppure. Poi lui mi martellò di telefonate… Con loro suonai per due o tre anni nei più noti club di Napoli, come l’Otto Jazz Club. Per me è stata una palestra.
Deidda: Ho iniziato a suonare con mio padre nei night di Salerno e dintorni. La mia prima serata è stata al Casinò Sociale. Io suonavo il basso, e talvolta il mandolino, e mio fratello Sandro il sassofono. Mio padre presentava un repertorio vasto, che spaziava dalla musica brasiliana allo swing, e poi gli standard americani, Sinatra, Peppino Di Capri, Buscaglione, Fred Buongusto, le canzoni napoletane classiche…
Tra gli anni Ottanta e Novanta, come ci hanno raccontato anche i Neri per caso, a Salerno fare musica era la passione di un’intera generazione di giovani.
Amato: E’ stato un periodo eccezionale, fatto anche di amicizia e di condivisione. Il precursore è stato 
Dario: per tutti noi era un mito da emulare. Mi ricordo che tra il ’90 e il ‘91 avevamo preso un locale a Fratte, che chiamavamo "Il Posto". Andavamo lì e suonavamo per ore e ore solo per il piacere di imparare gli uni dagli altri e di provare nuove sonorità. C’erano Dario, Sandro e Alfonso Deidda, Amedeo Ariano, Giampiero Virtuoso, Angelo Mutarelli, Gerry Popolo, Daniele Scannapieco, Gaspare Di Lieto.
Deidda: C’è stato un bel momento per il jazz a Salerno, tra il 1985 e l’inizio degli anni Novanta. C’erano molti locali di musica live, c’era la predisposizione da parte del pubblico ad ascoltare, c’era una miriade di gruppi, c’era una generazione di giovani molto comunicativa, che aveva voglia di scambiare emozioni, di sperimentare, di studiare. La storia del "Posto" significava anche questo.
Di quali gruppi avete fatto parte in quel periodo?
Amato: Ho suonato nei locali del salernitano e di Napoli per anni, con tanti gruppi. Poi c’è stata l’esperienza dei "Deidda Brothers", con i quali ho vinto anche diversi festival. E poi il "Giovanni Amato quartet", da me fondato, una band in cui si sono alternati al basso, oltre a Dario, anche Joseph Lepore e Aldo Vigorito, alla batteria Amedeo Ariano e Giampiero Virtuoso, al piano Francesco Nastro e Michele Di Martino.
La musica ad alto livello vuol dire anche studio, fatica, applicazione…
Amato: Beh, certo, anche se hai talento devi applicarti. Io ho studiato musica classica, e mi sono diplomato nell'89 al conservatorio di Salerno con il massimo dei voti.
Deidda: Ci siamo diplomati nello stesso anno, io e Giovanni eravamo compagni di scuola. Ricordo le ore passate a suonare nelle aule vuote del Conservatorio di Salerno. Sono d’accordo con lui, studiare, sperimentare, è importantissimo.
Come avete vissuto il distacco da Salerno?
Deidda: La mia prima esperienza jazz importante è stata con Maurizio Giammarco. E’ stato tramite lui che sono entrato nel circuito nazionale. L’ho conosciuto a Salerno nel ’90, in una jam session, e subito dopo mi ha chiamato a Roma. Nel ’92 mi sono stabilito definitivamente nella capitale. Il distacco l’ho sofferto poco, anche perché proprio in quel periodo a Roma sono venuti anche Amedeo Ariano, mio fratello Sandro e Daniele Scannapieco.
Amato: Per me il distacco è stato ed è bellissimo. Amo la mia terra e amo tornare a Nocera, ma mi sento prima di tutto un musicista italiano…
Con quali artisti avete lavorato? E chi vi ha colpito di più?
Deidda: Ho avuto la fortuna di suonare e collaborare con due mostri sacri del jazz mondiale: Petrucciani e George Coleman. Per quanto riguarda la musica pop, ho fatto parte della band di Pino Daniele. E’ un grande artista anche se ha i suoi sbalzi d’umore. D’altra parte è del segno dei Pesci, come me.
Amato: L’elenco è lungo: da Gianna Nannini ad Alex Baroni, fino a Gianni Morandi. Ricordo in particolare l’esperienza con Nino Buonocore, perché mi dava molto spazio e con lui era possibile improvvisare, e quella con Gino Paoli, con il quale ho registrato un disco, che mi ha sorpreso per la sua tranquillità ed umiltà. Nel jazz, direi il sodalizio con Giovanni Tommaso, che mi ha fatto conoscere al grande pubblico. Poi, naturalmente, c’è Gegè Telesforo…
Gegè Telesforo è un divulgatore del genere jazz in Italia…
Amato: Con lui ci si diverte. E’ bravissimo. E poi, sì, è vero, ha contribuito e contribuisce a far conoscere il jazz nel nostro Paese.
Deidda: Gegè è un amico, e lavoriamo molto insieme. Sono il bassista della sua band, i "Pure Funk Live", ed è anche il produttore del mio primo disco.
C’è spazio per la musica jazz adesso a Salerno?
Deidda: Ce n’è poco. Ormai a Salerno resiste solo il "Fabula" come locale, grazie alla passione di Antonio Mogavero… Per fortuna a Fisciano c’è il "Round Midnight jazz club", che propone musicisti di alto livello, e dove è possibile ascoltare la musica senza distrazioni come il cibo, le chiacchiere…
Amato: Dario ha ragione. Il pubblico c’è, ma mancano i manager e manca qualità nell’organizzazione. E sono spariti anche i locali dove suonare dal vivo. Se non bastasse, c’è anche un problema di discriminazione al contrario.
Cioè?
Amato: A Salerno i musicisti jazz campani sono bistrattati e malpagati. Vengono trattati meglio quelli che vengono da Firenze o, che so, da Milano. Morale della favola, siamo apprezzati di più nel Centro-Nord o in Europa, dove peraltro si respira tutta un’altra aria, e c’è rispetto per i musicisti jazz…
Deidda: Credo che il problema riguardi tutto il Sud, e non solo Salerno. Nel Meridione, dispiace dirlo, c’è poca considerazione per il jazz.
Colpa anche delle istituzioni?
Amato: Molti politici si ricordano di noi solo sotto le elezioni, perché sanno che la realtà jazzistica salernitana è forte. Poi non fanno nulla o quasi per la musica jazz.
Nonostante che il jazz italiano parli sempre più salernitano…
Amato: E’ vero. Certe volte mi capita, in giro per l’Italia o per l’Europa, a Parigi, a Vienna, in Spagna, che dopo i concerti mi chiedono di dove sono e commentano: "Anche tu di Salerno!".
Deidda: La scuola salernitana è forte e importante in Italia, grazie a noi Deidda, a Giovanni, a Daniele Scannapieco, ad Amedeo Ariano, ad Aldo Vigorito, che è stato uno dei primi a tracciare la strada e a sfondare. Però molti di noi non sono buoni manager di se stessi... I nostri colleghi del Nord si sanno "vendere" meglio. Per me, invece, la passione conta più della popolarità e del successo.
Tra di voi siete rimasti amici?
Amato: L’amicizia è rimasta, anche se ognuno di noi cerca di fare la musica propria. Spesso collaboriamo o ci si ritrova a suonare assieme alle jam session.
Deidda: Quando posso, vado a sentire gli amici di un tempo. E non mancano occasioni di suonare insieme, come si faceva a Fratte.
La scuola salernitana del jazz si è inaridita o produce nuovi talenti?
Amato: Non si è affatto inaridita. Anzi, stanno emergendo nuovi talenti, come il pianista Julian Olivier Mazzariello, di Cava de’ Tirreni; l’altro pianista Alessandro La Corte; la sassofonista Carla Marciano, il batterista Gaetano Fasano.
Deidda: Mazzariello è un astro nascente del jazz italiano. La Marciano ha già prodotto un disco, a dicembre. Il problema è che dopo c’è il vuoto. Non conosco a Salerno gruppi jazz di ragazzi di 23-24 anni.
Come mai?
Deidda: Mancano gli spazi, mancano le possibilità per i giovani salernitani. Molti locali vorrebbero fare musica dal vivo e non hanno neppure l’impianto di amplificazione. Il pubblico pretende qualità, altrimenti si distrae. Risultato? I giovani musicisti si scoraggiano e si rischia di disperdere un patrimonio.
Nel salernitano si organizzano festival jazz ad alto livello?
Amato: A mio avviso il Festival più bello è quello di Minori, "Jazz On The Coast", organizzato da Gaspare Di Lieto. Anche quello di Baronissi è di buon livello, e ha il merito di dare molto spazio ai musicisti italiani. Il guaio, invece, è quando una rassegna si chiama jazz e non c’è nulla di jazz… Accade anche questo, purtroppo.
I prossimi progetti?
Amato: A fine marzo inizierò a registrare il primo disco jazz a mio nome, con pezzi originali e pezzi standard riarrangiati. Suoneranno con me il pianista Pietro Lussu, il batterista Lorenzo Tucci e il bassista Aldo Vigorito. Ho appena inciso un disco con Gianluca Renzi e uno con Gegè Telesforo. Poi, con il mio gruppo "Giovanni Amato Organ Project" (Mazzariello all’organo, Ariano alla batteria e Popolo al sax), parteciperò al Festival Veneto Jazz, alla rassegna di Montalcino e a quella di Villa Celimontana a Roma.
Deidda: Marzo è una data importante anche per me: uscirà il mio primo cd, "Three from the Ghetto", per l’etichetta americana "Go Jazz", con Julian Mazzariello al piano e organo e Stephane Huchard alla batteria. Tra gli ospiti ci sono anche Bob Malach e Gegè Telesforo. E’ un disco di jazz moderno, con uno spirito un po’ rock: quasi tutti i pezzi sono originali. Proprio ieri, poi, ho iniziato la tournèe con Fiorella Mannoia, che durerà fino ad aprile. Sono contento. Fiorella è una donna semplicissima, alla mano, mi trovo benissimo con lei. E’ una grande interprete, la numero uno in Italia dopo Mina.
 
(La Città di Salerno, 2 febbraio 2003)
 
 
Scheda biografica
 
Dario Deidda nasce a Salerno il 1° marzo del 1968. Si è diplomato in contrabbasso al conservatorio di Salerno nel 1989. Basso elettrico, ha fatto parte della band di Pino Daniele nel 1999 e di Barbara Cola (1997). Suona stabilmente nei tours italiani di Carl Anderson (il Giuda del film "Jesus Christ Superstar"). E’ il bassista dei "Pure Funk Live" di Gegè Telesforo e dei "Cuban Stories", band di Latin e Salsa Jazz del fratello Alfonso. Ha inoltre formato con i "colleghi" e amici Marco Siniscalco e Luca Pirozzi, un trio di soli bassi elettrici denominato "Bassic Istint". Ha partecipato a vari festival internazionali e ha collaborato con i più importanti musicisti jazz italiani e americani (Petrucciani, George Coleman, Maurizio Giammarco, Roberto Gatto), facendo parte di numerose band televisive: "Il caso Sanremo", "D.O.C.", "M. Costanzo Show", "Comici", "Saranno Promossi", "L’ottavo nano", "Roxy Bar". A marzo uscirà il suo primo cd, "Three from the Ghetto", per l’etichetta "Go Jazz" (USA).
 
Giovanni Amato nasce a Nocera Inferiore il 30 novembre del 1967. Inizia a suonare la tromba all'età di otto anni. Intorno ai sedici anni entra a far parte della jazz band di Antonio Golino, l’"Elbas Jazz Group". Nel 1989 si diploma al conservatorio di Salerno. Dal 1990 inizia un'intensa attività concertistica che lo introduce nei grandi circuiti Italiani ed internazionali. Numerose le collaborazioni con i più famosi musicisti jazz quali: Giovanni Tommaso, Roberto Gatto, Maurizio Gianmarco, Lee Konitz, Gary Peacoc, Steve Grossman, Bob Russo con la sua Chicago University Band, Mike Goodrich e tanti altri. Partecipa ad importanti rassegne sia in Italia che all'estero come "Umbria Jazz Festival", "Jazz & Image", "Ülm Jazz Festival" (Germania), "International Jazz Festival di Tabarka" (Tunisia), "Duc Des Lombardes" Paris (Francia). Lavora anche in band televisive di trasmissioni di successo di Rai Due come "Pippo Chennedy show", "Scirocco" e "Furore".
 

Orlando si confessa: "Voglio fare un film sulla mia città"

di Mario Avagliano
 
Anche dal vivo, Angelo Orlando, l’attore e regista salernitano, ora mattatore del "Maurizio Costanzo Show", ha la voce flebile dell’indimenticabile personaggio di "Pensavo fosse amore invece era un calesse", diretto e interpretato da Massimo Troisi. In questi giorni a Roma, al Teatro Ambra Jovinelli, sta andando in scena, con grande successo di pubblico, la sua nuova commedia, "Barbara", che vede tra i protagonisti Valerio Mastandrea. Ma Orlando, che in appena quattordici anni, dall’88 ad oggi, ha macinato già 17 film come attore, 2 film come regista, 3 film come sceneggiatore, 6 commedie teatrali come autore, 2 libri, più svariate partecipazioni a fiction e varietà televisivi, rivela di sentirsi ancora "quel ragazzo che tirava calci a un pallone in un campetto di Torrione". Poi ricorda due grandi del cinema italiano con i quali ha lavorato, Federico Fellini e Massimo Troisi, e annuncia: "Mi piacerebbe raccontare una storia, magari un film, e ambientarlo tutto a Salerno..."
 
Com’era Angelo Orlando da ragazzo?
Per me ogni cosa ha origine in quel periodo. Prima d'intraprendere qualsiasi iniziativa, devo chiedere il permesso al ragazzo che sta ancora lì, in una grande pianura piena di facce di ragazzi che, come me, vivevano giorno per giorno nel quartiere di Torrione, inventandosi mille modi per passare la giornata. La cornice era quella classica: una vecchia fabbrica abbandonata, la Marzotto, due binari della ferrovia, un campetto polveroso e, tutt'intorno, un agglomerato di mistero, perché il mio mondo si fermava lì, in quel quartiere.
Ha trascorso tutta l’adolescenza a Torrione?
No, i miei si trasferirono e io mi ritrovai, da un quartiere metropolitano come Torrione, nel deserto che era la litoranea a metà degli anni settanta. I vecchi compagni di quartiere, con i quali avevo condiviso giochi e sogni, non li rividi più. Per me cominciò un periodo più riflessivo. Mi ricordo che a scuola, quando mi chiedevano: "dove abiti?" e io rispondevo "sulla litoranea!", i miei compagni di classe facevano una faccia come se gli avessi detto: "a Belgrado!".
Che scuola frequentava?
Il Liceo Ginnasio "Tasso", a Piazza San Francesco. Fu in quel periodo che cominciai a scoprire Salerno. Certe mattine non andavo a scuola apposta perché volevo girarla tutta. Facevo lunghe passeggiate che duravano l’intera mattinata, poi andavo a casa dei miei nonni, insieme ai miei fratelli. Mio padre ci veniva a prendere e ci riportava nell’inverno solitario della litoranea. I miei compagni di classe non li frequentavo. Mi sentivo molto solo. Fui bocciato ma, per fortuna, l'anno successivo, nella nuova sezione, le cose andarono meglio. Ci fu qualcosa che si sbloccò dentro di me. Legai moltissimo con i nuovi compagni e, con tanti di loro, sono ancora in contatto.
Negli anni del liceo s’iscrisse alla scuola di recitazione di via delle Botteghelle. Chi erano i suoi compagni?
In via delle Botteghelle eravamo una ventina di ragazzi. Molti di loro non hanno proseguito, altri invece continuano ad occuparsi di teatro, come Rossella Valitutti e la sua associazione "traccedombra", oppure sono diventati registi apprezzati, come Bruno Montefusco, che è stato uno dei primi a portare in scena una delle mie commedie, o come Pasquale De Cristofaro, un altro bravo regista che ho ritrovato qualche anno fa a Salerno al Teatro Nuovo. Ci accomunava la passione per il teatro, forse l'età, eravamo tutti giovanissimi, insieme alla convinzione che, per riuscire a far qualcosa in più, bisognava andar via da Salerno. Io devo molto a Gianni Caliendo, che aveva fondato la scuola e la dirigeva. In quel periodo, per me, più che maestro fu una specie di faro.
Perché un faro?
Gianni era tornato dopo essersi diplomato all'Accademia Silvio D'Amico a Roma e voleva creare qualcosa d'importante a Salerno. Era pieno di entusiasmo, ma soprattutto aveva qualcosa in più, che mi disorientava: era serio. Mi ricordo che una volta non mi fece partecipare alle lezioni perché ero arrivato con dieci minuti di ritardo. Aveva una passione che gli usciva dagli occhi. Non vedevo l'ora di andare a seguire i suoi corsi. Tutto era rivoluzionario per me e mi scuoteva nell'intimo: le tecniche di respirazione e di rilassamento, il recupero dei sentimenti. Mi avevano sempre detto che fare l'attore era qualcosa che riguardava il talento e basta. Lì, ai corsi e alle lezioni di Gianni, apprendevo e constatavo che il talento da solo non poteva bastare. C'era bisogno di educarlo, giorno per giorno.
E' vero che la svolta della sua carriera fu dovuta a un corso di animazione della Regione Campania?
No, il corso di animazione organizzato dalla Regione Campania è stato solo uno scossone nella mia vita. Era un periodo che non sapevo cosa fare. Ero finito in un vortice di pigrizia. I sogni erano troppi e l'immaginazione aveva preso il sopravvento. Passavo i giorni davanti alla tv e ogni mese andavo a timbrare il cartellino al collocamento. Mi ero iscritto all'università ma procedevo per inerzia. Un giorno mi chiamò un amico e mi propose di fare un colloquio per un corso di animatore turistico. Mi disse che era il lavoro del futuro: "mare, vacanze, tante donne e ti pagano pure!".
Che c’entrava il corso per animatori con il cinema?
Tra le materie c'era anche Cinema. Mi ricordo che aspettavamo con ansia l'arrivo del professore che però, durante l'anno scolastico, si presentò una volta sola. Era Claudio Gubitosi, l’attuale direttore del Festival di Giffoni. Ci fece una lezione unica di cui non capimmo neanche una parola, ma che ci coinvolse totalmente. Ci parlò di macchine da presa, di inquadrature, di sceneggiatura e di un festival che stava organizzando da qualche anno. Poi non lo vedemmo più. Ci dissero che era troppo occupato e che tanto, il cinema non c'entrava molto con l'animazione. Probabilmente neanche Claudio Gubitosi sa che la prima lezione di cinema me l'ha data lui.
Come avvenne il suo distacco da Salerno?
In modo graduale. Direi quasi con il contagocce. Andavo via d'estate perché dovevo fare la stagione nei villaggi turistici. Poi tornavo ad ottobre, frequentavo i corsi di lingue alla vecchia università di via Vernieri, davo qualche esame, ma poi, arrivava un'altra estate e ripartivo. Quando cominciai a fare l'animatore anche d'inverno, il distacco fu quasi completato, ma non ho mai sentito un vero allontanamento, neanche quando mi sono trasferito definitivamente a Roma. Salerno l'ho sentita più vicina proprio nel momento in cui ho capito che l'avevo lasciata.
Come nasce l’Angelo attore e regista? Quali sono i suoi inizi?
L'inizio è sempre una favola, almeno nel ricordo. In questo caso, la favola è Roma nella primavera del 1986. Era da un po' che avevo in mente di voler provare a fare il comico sul serio. Fino ad allora lo avevo fatto solo nei villaggi turistici. L'inverno precedente ero andato a fare un provino al Derby di Milano, ma Arturo Corso, il direttore artistico del Derby, mi disse che non bastava essere "napoletano" per far ridere. Questa cosa mi umiliò un po' ma mi diede più coraggio.
E che cosa fece?
Cominciai a guardare tanto cabaret e a studiare la comicità di quel periodo. Erano i tempi in cui c'erano Aldo e Giovanni senza Giacomo, Marco Milano, Enzo Jacchetti, Giobbe che lavorava in coppia con Victorhugo. Tornai a fare l'animatore e l'anno successivo ci riprovai. Questa volta a Roma. Mi avevano parlato di un locale dove non c'era bisogno di provini per salire sul palco e affrontare il pubblico. Questo posto si chiamava "Alfellini" e il direttore artistico era Marcello Casco. Marcello Casco era un tipo grande e grosso e dal tono burbero: appena mi vide mi disse che per lui non c'erano problemi, se avessi avuto il fegato di esibirmi nel suo locale, lo potevo fare a mio rischio e pericolo. Mi spiegò che ad un certo punto della mia esibizione si sarebbe accesa una luce e solo in quel preciso istante, se la mia esibizione non fosse stata gradita al pubblico, avrei potuto essere il bersaglio di un fitto lancio di sacchetti di segatura di cui la gente era dotata. Io accettai.
Come andò?
Bene. Fu un sollievo sentire la gente ridere fin dalle prime battute. La luce si accese e invece dei sacchetti, fui sommerso dagli applausi. Marcello Casco a fine serata, mi disse che ero stato promosso e che ero entrato a far parte della sua compagnia. Nel locale di via Carletti ci passai due anni. Ero troppo contento di esibirmi tutte le sere. L'Alfellini era una vetrina incredibile. Alla fine delle serate ci fermavamo tutti a mangiare lì e Marcello ci deliziava con i suoi aneddoti che ci facevano sbellicare dalle risate. Era un periodo di grande entusiasmo ma anche di sacrifici enormi. Ero sempre senza una lira. Certe notti, in tasca non c'erano neanche i soldi per comprare il biglietto del notturno, perciò ero costretto a tornare a casa a piedi e, dato che abitavo in un casolare dall'altra parte di Roma, partivo nel cuore della notte e arrivavo a casa all'alba.
Nel 1989 arriva l’incontro con Federico Fellini, in "La voce della luna". Come conobbe Fellini e che le è rimasto di quella straordinaria esperienza?
Alla fine degli anni ottanta avevo già lavorato in diversi varietà televisivi. Avevo formato un duo di cabaret con un mio amico e collega dell'Alfellini. Ci chiamavamo Orlando & Russoniello e stavamo cominciando a far parlare di noi, perché facevamo un cabaret strano e folle. Entravamo in scena e parlavamo a raffica, esasperando il linguaggio con due modi di essere decisamente fuori dalle righe. Attorno a noi si era formata una certa curiosità, ma relegata all'ambiente. Non eravamo ancora conosciuti al grande pubblico. Il nostro agente ci propose di fare la rassegna di Riso in Italy che si sarebbe tenuta al teatro Sistina. La prima sera, dopo il nostro sketch, si aprì all'improvviso la porta del nostro camerino e apparve Fellini. Era emozionato come un bambino e ancora si asciugava gli occhi dalle lacrime. Ci disse addirittura che non aveva mai riso così in vita sua. Ci disse che due pazzi così non li aveva mai incontrati e voleva sapere tutto di noi. Voleva sapere qualsiasi cosa. Io non riuscivo a crederci, ma Fellini era più emozionato di noi. Lo giuro. Sembrava che avesse trovato finalmente quello che cercava da tempo. Ci disse che stava preparando un film e che voleva assolutamente affidarci un ruolo.
Fu ingaggiato subito?
Dopo qualche giorno lo andammo a trovare negli studi sulla Pontina, dove stava allestendo il set. Ci raccontò tutto il film. Quando cominciò a raccontarmi il personaggio che voleva affidarmi, mentre mi parlava disegnava con matite colorate su un foglietto di carta. Poi mi fece vedere il disegno e io capii che ero diventato un personaggio felliniano. Mi veniva quasi da piangere. Mi sembrava una specie di sogno. Alla fine ci riaccompagnò alla macchina. Dallo specchietto vidi che stava ancora lì, in piedi che ci guardava allontanarci. Mi voltai verso Roberto e gli dissi: "Fellini sta ancora lì che ci saluta!".
Due anni dopo la chiama Massimo Troisi e recita al suo fianco in "Pensavo fosse amore e invece era un calesse", che le frutta anche il Premio David come migliore attore non protagonista.
Le riprese di quel film furono una vacanza a Napoli. Massimo Troisi era un uomo gentile e delicato. Per me è stato il calore di un incontro. La gioia e la consapevolezza di aver sfiorato una grande energia. Era qualcosa nello suo sguardo, forse era un attimo di silenzio in più... forse era qualcosa che aveva a che fare con la comprensione che custodiscono dentro di loro i personaggi straordinari. Era la sua attenzione e il suo modo di parlarti che ti metteva a nudo. Con Massimo era tutto più semplice perché lui era così, un uomo semplice. Un mago della semplicità. Quando vinsi il David di Donatello mi chiamò e mi disse: "l'ho sempre saputo!".
Nella sua carriera di attore, oltre che da Fellini e Troisi, lei è stato diretto da Monicelli, Nichetti, Nanni Loy, Maurizio Ponzi, e anche da giovani registi come Farina, Apolloni. A chi deve di più? Oppure, chi l’ha colpita di più?
Ogni regista con cui ho lavorato ha lasciato una traccia dentro di me. Non ho mai vissuto il set da semplice attore. Non mi sono mai chiuso in roulotte, ma sono sempre stato attento a quello che mi succedeva intorno. Un regista con cui lavorerei di nuovo è Enzo Decaro e, al di là del fatto che mi chiami a lavorare con lui, io spero che ritorni presto dietro la macchina da presa, perché credo che il cinema abbia bisogno di lui e della sensibilità di un artista come lui. Un altro regista con cui ho lavorato e che mi piacerebbe facesse un film dietro l'altro, se non altro per la dedizione e il "troppo amore" con cui affronta ogni sua iniziativa, è Francesco Apolloni.
Nel suo curriculum, figura anche la televisione: Doc International Club, con Renzo Arbore, e ora il Maurizio Costanzo Show. Meglio Arbore o Costanzo? Che differenza c’è tra le due esperienze?
Tra le due esperienze, la sostanza che rende la vera differenza, è il tempo. Comunque, apparire in televisione mi dà sempre un po' di fastidio perché devo essere identificato in quello che fa quella cosa. Identificare qualcuno in qualcosa è sempre sbagliato perché uno non è mai così come appare.
L’Orlando di oggi è soprattutto regista e scrittore di testi teatrali e di sceneggiature di film. In questi giorni, a Roma, sta andando in scena una sua esilarante commedia, "Barbara". Di che parla?
Barbara è la storia di un'attesa. E' un microcosmo dove imparare a riconoscere una presenza da un'assenza. Barbara è anche poesia, ma può diventare dolore e tortura. Barbara è la necessità di imparare ad aspettare, ma è anche esasperazione di un'attesa dove ogni cosa portata al limite, diventa un gioco dell'assurdo.
Sarà programmata anche al Teatro Verdi di Salerno?
Sarebbe un altro sogno che si realizza.
Tra i tanti testi che ha scritto per il cinema e per il teatro, ci sono riferimenti autobiografici o riferimenti a Salerno?
Salerno è tutto quello che appartiene al cuore ed il cuore è la sede di ogni emozione. Devo sempre fare i conti con il cuore prima di raccontare qualcosa. E Salerno e il suo ricordo è sempre lì che mi aspetta. Mi piacerebbe raccontare una storia, magari un film e ambientarlo tutto a Salerno. Prima o poi lo farò...
A proposito di Salerno, ha nostalgia della sua città? E se sì, di che cosa?
La nostalgia ha un odore preciso. E la nostalgia di Salerno, ha l'odore del ritorno. Certe notti, passando in macchina dall'autostrada, e vedendo le luci della città in cui sono nato, mi sono commosso. Devo dire grazie a questa commozione perché per ogni goccia di sentimento speso per la mia città, il mio cuore si alimenta e sento che dentro di me nasce qualcosa d'importante che mi fa dire: "è bello essere nati proprio qui!".
Ha amici a Salerno che frequenta ancora?
I miei amici sono andati quasi tutti via. Comunque torno spessissimo a Salerno perché mio padre e mia madre vivono ancora lì.
Nell’ambiente dello spettacolo, ci sono salernitani promettenti?
Lo scenografo di molti miei lavori teatrali è salernitano. Si chiama Paki Meduri ed è un giovane promettente, nonché un artista di grande talento. Gli artisti salernitani sono molto stimati a Roma: penso ad alcuni musicisti che nell'ambiente sono considerati come dei veri maestri, come i fratelli Deidda. Ci sono giovani attori emergenti, come Beatrice Fazi e Yari Gugliucci. Per non parlare della scuola salernitana di fumetti, che sforna talenti straordinari come Bruno Brindisi e Luigi Siniscalchi. Lo spettacolo così come il mondo artistico è pieno zeppo di salernitani che sembrano esplodere da un momento all'altro, però…
Però?
Io li osservo e gioisco quando vedo qualcuno di loro emergere, ma vorrei che non si accontentassero di avere quel successo da cui si può essere sfiorati. L'importante non è brillare, ma è sforzarsi giorno per giorno e lottare per non piazzarsi là dove la corrente ci trascina, ma provare ad andare contro corrente e mettersi sempre in discussione. Nell'arte non bisogna mai accontentarsi.
Com’è Angelo Orlando nel privato? Timido come nel film di Troisi? Ironico come con Arbore e Costanzo?
Non lo so. Anzi, so di non riuscire a saperlo. Certe volte mi stupisco da solo perché ho un atteggiamento che non avevo mai estratto dal cilindro. Sono timido ma posso essere di un coraggio estremo. Dentro di me esistono tanti comportamenti e so che metterli tutti insieme in ordine per formare qualcosa di unico, è un'impresa quasi impossibile. Di sicuro posso dire che posso essere molto diverso da come certe volte appaio.
Che ha in serbo per l’immediato futuro?
Non lo so ancora. Per il momento aspetto ancora Barbara, come i due protagonisti della mia commedia.
E sogni nel cassetto?
Svuotare questo benedetto cassetto…
 
 (La Città di Salerno, 26 gennaio 2003)
 
Scheda biografica
 
Angelo Orlando è nato a Salerno il 6 dicembre del 1962. Dopo aver frequentato la scuola di recitazione in via delle Botteghelle, con Gianni Caliendo, e l’esperienza come animatore turistico, approda a Roma, dove comincia a fare cabaret e partecipa ad alcuni varietà televisivi. Scoperto da Federico Fellini, nel 1989 recita nel film da lui diretto "La Voce della luna". E’ l’inizio di una carriera brillante, che lo porta ad interpretare 17 pellicole, tra le quali figurano "Ladri di futuro" (1990), di Enzo Decaro; "Pensavo fosse amore invece era un calesse" (1991), di Massimo Troisi; "Vietato ai minori" (1992), di Maurizio Ponzi; "Pacco, contropacco, contropaccotto" (1992), di Nanni Loy; "Soldato ignoto" (1993), di Marcello Aliprandi; "Palla di neve", di Maurizio Nichetti (1994); "Bidoni" (1994), di Felice Farina ; "Panni sporchi" (1998), di Mario Monicelli; "Le sciamane" (2000), di Anne R. Ciccone; "L'ultimo mundial" (2001), di A. Ponziani e T. Zangardi. Orlando è anche autore di sei testi teatrali di successo: "Delirimetropolitani" (1993); "Messico e nuvole" (1994); "Casamatta vendesi" (1996-1997); "Domani notte a mezzanotte qui" (1997-1998); "Cafè" (1999); "Barbara" (2003). Ha diretto due film, "L'anno prossimo vado a letto alle dieci" (1994) e "Barbara" (1998), e scritto la sceneggiatura di "L'ultimo mundial" (1998), regia di Antonella Ponziani e Tonino Zangardi; "Tobia al caffè" (1999), regia di Gianfranco Mingozzi; "Ormai è fatta" (1999), regia di Enzo.Monteleone. Ha ricevuto vari riconoscimenti, sia come attore che come autore, tra cui: il Premio David Donatello come migliore attore non protagonista (1992) per "Pensavo fosse amore invece era un calesse"; il Premio Charlot d’oro (1992) come migliore attore comico dell’anno; la candidatura al Globo d’oro e al Nastro d’argento (1998) per la sceneggiatura di "Ormai è fatta". Nelle ultime settimane, dopo la partecipazione nel 2000 e 2001 a due fiction di Rai e Mediaset ("Non lasciamoci più. 2°serie, regia di Vittorio Sindoni; "Ma il portiere non c'è mai?", regia di Carlo Corbucci e Pipolo), è tornato in tv come "opinionista" del Maurizio Costanzo Show.
 

I segreti di Teresa

di Mario Avagliano
 
Nell'estate del 1982, una talentuosa cantante originaria di Cava de’ Tirreni scalò le classifiche italiane di vendita di dischi. Con canzoni quali "Voglia 'e turnà", Teresa De Sio dimostrò che era possibile entrare nel cuore della gente non solo con le canzonette usa e getta. Sono passati venti anni da allora, e Teresa ha sperimentato vari generi musicali, dal rock alla musica classica napoletana, dal jazz al folk, collaborando con artisti come Brian Eno, Fabrizio De Andrè, Ivano Fossati e Fiorella Mannoia, e collezionando successi anche in Inghilterra e negli Stati Uniti. Ora è in sala di registrazione a Roma per preparare il nuovo album, che uscirà in tarda primavera e, ci rivela in anteprima, a differenza degli ultimi conterrà "diverse canzoni in dialetto napoletano". Poi, in una pausa, parla delle sue origini, della sua passione per il cinema, come la sorella Giuliana, e confessa di essere dolce ma anche "dura, alla bisogna".
 
Lei è nata a Napoli ma ha trascorso la sua infanzia e adolescenza a Cava de’ Tirreni. Che ricordi ha di quegli anni?
Il mio ricordo di Cava è bello, struggente, legato a momenti di grande felicità e soprattutto di speranza. Ecco, se penso alla mia adolescenza, ricordo me, in costume, sul bordo della piscina del Tennis Club, dove ho imparato a nuotare, che sogno un futuro luminoso. E poi ricordo i primi amici, quelli più cari, delle fughe in motorino, delle avventure, degli scioperi, delle passeggiate in piazza, ai quali sono legata tuttora, come Elisabetta Di Marino, che sento al telefono praticamente quasi ogni giorno.
Com’era Cava allora?
Ho un’immagine mitica di Cava negli anni Settanta, certo enfatizzata dal fatto che erano gli anni della giovinezza, quelli di maggiore leggerezza, quando il mondo sembrava ancora possibile da vivere. Il mio ricordo di Cava, dei suoi portici, delle sue colline, è colorato di questo sentimento, e quindi anche pieno di nostalgia, nonostante che io non sia una donna che vive di nostalgie, ma al contrario, sempre proiettata sul presente e verso il futuro.
Com’è nata la sua passione per la musica e quali sono stati i suoi inizi?
Da bambina sognavo di diventare una ballerina. Ricordo che a tre anni mi guardavo nello specchio vestita con un tutù che mi avevano portato mio padre e mia madre di ritorno da un viaggio e già pensavo che quella sarebbe stata la mia vita. Fino ai dodici anni di età, ho frequentato la scuola di danza del San Carlo a Salerno. Poi i miei genitori decisero che non potevo dedicarmi in modo assoluto soltanto al ballo, senza studiare. Comunque la mia prima volta sul palcoscenico fu al Teatro Verdi, a cinque anni, per un saggio di danza.
Curioso, come sua sorella Giuliana.
Ah sì, non ci avevo mai pensato... Io e Giuliana avevamo in comune anche la grande passione per il cinema. Andavamo al Capitol, a Cava, che era proprio sotto casa. Anche adesso sono una consumatrice accanita di pellicole. E non nascondo che mi piacerebbe molto scrivere musiche e storie per il cinema.
La sua famiglia le è stata di stimolo? Ho letto che suo nonno paterno ha avuto un ruolo importante…
Mio nonno, don Roberto De Sio, gestiva il Bar Remo a Cava ed era un non vedente. Malgrado ciò, suonava il pianoforte, la chitarra, il mandolino e la fisarmonica. Forse la mia passione per la musica è nata nei pomeriggi in cui mio nonno mi teneva seduta sulle sue ginocchia, di fronte al pianoforte, e mi spiegava il funzionamento dei tasti bianchi e neri. E io mi meravigliavo di questa cosa così leggera ed impalpabile che era la musica che usciva da una cosa così pesante come il pianoforte.
Al Liceo Classico Marco Galdi lei partecipa al movimento del ’77. Che cosa facevate in quel periodo e che giudizio ha di quella stagione politica e culturale?
E’ stata una stagione di fermenti culturali, di iniziative spontanee. Sinceramente però devo confessare che io non mi rendevo conto di far parte di un movimento, certe cose le facevo per intuito. Con alcuni amici, Sandro Ferro, Gigino Violante, che purtroppo è scomparso e al quale devo gran parte della mia formazione umoristica, Elio Venditti, Antonio Santucci, Annalaura Paolillo e tanti altri, mettemmo su "Gruppo Tre", che organizzava spettacoli musicali e teatrali. Ricordo che andammo anche al Mulino Ferro, durante il periodo dell’occupazione, recitando poesie di Brecht e cantando musica rock. D’estate, poi, tenevo lezioni di ripetizione ai bambini degli operai del Mulino che erano in sciopero.
Cosa si porta dietro quell’esperienza?
Beh, quella spinta sociale è rimasta dentro di me, anche se in maniera alterna. Io credo che l’arte non debba avere né obblighi né vincoli, ma debba guardare le cose come un uccello migratore, con la libertà di decidere di volta in volta dove fermarsi. In questo quadro, quando c’è bisogno davvero di impegnarsi socialmente, non mi tiro indietro.
L’arte in generale. Pochi sanno, infatti, che Teresa De Sio, prima di fare musica, era un’attrice di teatro.
Già, lasciata la danza io ero disperata. Mio zio materno, Gianni Testa, che era di Salerno, mi fece entrare in una compagnia teatrale salernitana, la Scacchiera. Scoprii che recitare era ancora più bello che ballare. Poi, a 16-17 anni, passai alla compagnia di Alessandro Nisivoccia, al Teatro San Genesio, con la quale partecipai a decine di spettacoli. Ricordo in particolare la messa in scena di uno spettacolo suggestivo, "Napule ca’ se ne va", che fece conoscere ed apprezzare a una rockettara come me le canzoni classiche napoletane. Uno degli autori e fautori dello spettacolo era il giovane Alfonso Andria, ora presidente della Provincia di Salerno.
A metà degli anni Settanta lei si trasferisce a Roma.
Ci tengo a dire che non è stata una scelta di abbandono della mia città. Nel ’74 ho trovato per caso un ingaggio da parte della Compagnia dell’Atto. Cercavano un’attrice, mi sono presentata al provino e sono stata presa. Poiché le prove iniziavano il giorno dopo, sono rimasta a Roma e non sono mai più tornata. E’ stata il destino che ha scelto per me. Con loro ho passato tre anni, recitando i classici greci, Euripide e anche Brecht.
Fino all’incontro, a Torino, con Eugenio Bennato.e il gruppo "Musica Nova", che fondeva il linguaggio folk con la canzone d'autore.
Un altro segno del destino. Nel ’77 ero stata ingaggiata dal gruppo teatrale Cabaret Voltaire, a Torino, per mettere in scena "Affabulazione" di Pier Paolo Pasolini. Una sera, a cena, incontrai in un ristorante gli elementi della Nuova Compagnia di Canto Popolare, che si erano esibiti sotto la Mole. Cantai una canzone insieme a loro. C’era anche Eugenio, che mi sentì cantare e mi chiese che facevo. Cominciò così l’amicizia con lui, e subito dopo il suo distacco dalla Compagnia, mi chiese di diventare la voce di Musica Nova.
Insomma, fu Eugenio Bennato a indicarle la strada della musica…
Senz’altro. Senza di lui non avrei fatto questo percorso. Fu lui a convincermi che cantare era ancora più bello di ballare e di recitare. I tre anni con Musica Nova hanno rappresentato un’esperienza fondamentale nella mia vita, anche perché ho scoperto la musica popolare e che esisteva un modo di fare musica che non era né l’imitazione di quella anglofona né la musica leggera. Poi è finita perché tutte le cose ad un certo punto finiscono e perché io volevo cominciare a diventare anche autrice.
Dopo il primo album, "Sulla Terra Sulla Luna", nel biennio 1982-1983, con "Teresa De Sio" e "Tre", lei conquista le vette della classifica: un milione di copie vendute. Ebbe paura di tanto successo?
L’ubriacatura da successo si rischia quando non si è preparati. Io ero abituata a stare sul palcoscenico dai 5 anni di età… E poi in quel periodo ero occupatissima a suonare e cantare dal vivo e non avevo neanche modo di vivere fino in fondo il successo. Diciamo che il peso del successo si è fatto sentire molto di più dopo.
Come è cambiata Teresa De Sio rispetto agli esordi? Dalle villanelle della grande tradizione partenopea, al grande successo popolare di canzoni quali "Voglia 'e turnà", "Pianoforte e voce", "Terra 'e nisciuno", alla sonorità rock di Brian Eno, per ritornare alla riscoperta della musica popolare del sud…
Il mio percorso artistico è stato molto ricco e articolato, e forse lo sarà ancora di più in futuro. D’altra parte la poliedricità fa parte della mia personalità. Mi piace sperimentare linguaggi artistici diversi, non adagiarmi. Sul lavoro ho un carattere molto passionale e ho bisogno di stimoli forti, di novità, di rischiare, di guadagnarmi sempre gli applausi, senza dare nulla per scontato. Quando arrivi a un certo punto, con più di un milione di dischi venduti, concerti dal vivo con 40 mila spettatori paganti, rischi di sentirti appagata, di ripeterti. Io ho voluto cambiare. Una decisione che mi ha fatto guadagnare molto e anche perdere molto.
Perché?
Per esempio, la collaborazione con Brian Eno, mi ha fruttato molti consensi e mi ha fatto crescere dal punto di vista artistico e umano, ma mi ha procurato anche molte critiche. C’è chi ha detto, sbagliando, che l’incontro tra un’artista mediterranea e uno nordico e freddo, non aveva senso. Risultato? I due dischi nati dal nostro sodalizio, "Africana" e "Sindarella Suite", hanno avuto più successo in Inghilterra e in Usa che in Italia.
Oltre che con Brian Eno, lei ha collaborato con musicisti e cantanti del calibro di Fabrizio De André, Ivano Fossati, Piero Pelù, Fiorella Mannoia. Qual è l’esperienza alla quale è più legata?
Senza togliere niente a tutti gli altri, che sono cari amici, direi la collaborazione con Fabrizio De Andrè. E’ stato il mio maestro. Fin da piccola era quello che ascoltavo di più, insieme alla musica afroamericana e a Jony Mitchell e Bob Dylan. L’opportunità di lavorare con lui, è stata straordinaria. Figuratevi che ha significato per me che uno come Fabrizio cantasse una mia canzone, intitolata "Un libero cercare". E’ stato come un premio alla carriera! E poi De Andrè mi ha sorpreso anche dal punto di vista umano.
Cioè?
Tutti mi avevano detto che era un orso, un uomo durissimo. Ero terrorizzata, invece con me ha mostrato un lato molto dolce. L’altra cosa che ho apprezzato immensamente è stata la sua capacità di ascolto. Avrebbe potuto mettersi in cattedra, fare il professore. Invece no. Siamo diventati amici.
Napoli e la Campania sono una delle isole felici della musica pop italiana, un po’ come Bologna e Genova. Pino Daniele, Edoardo Bennato, Teresa De Sio, Eugenio Bennato, Nino D’Angelo, Gigi D’Alessio, gli Almamegretta… Collabora o ha collaborato con qualcuno di loro? Di chi ha più stima o è più amica?
Di Edoardo Bennato ho già detto. Pino Daniele scrisse una canzone intitolata "Nanninella" per il mio primo album, "Sulla Terra Sulla Luna", ma il rapporto con lui non è stato tanto pacifico, anzi è stato abbastanza turbolento. E poi, se a quell’epoca c’era una qualche vicinanza tra i nostri percorsi artistici, successivamente abbiamo preso strade completamente diverse. Mi interessano molto i nuovi gruppi, come gli Almamegretta e i 24 Grana. Con Raiss degli Almamegretta ci alleniamo insieme in palestra, solo che lui è molto più muscoloso di me…
Tra le sue grandi passioni c’è la musica classica napoletana. Ha nuovi progetti in preparazione su questo versante?
Sono felice di poter annunciare ai lettori de "La Città" che tra qualche mese sarà ripubblicato il mio album di canzoni napoletane "Toledo e Regina". E’ richiestissimo dal pubblico e la mia etichetta, la Universal, ha deciso di riproporlo. Credo molto in questo disco, perché la musica napoletana classica è eterna. Posso anticipare anche che ci sarà qualche canzone nuova.
Intanto lei è in sala di registrazione. Ci rivela qualcosa del nuovo album?
Sicuramente rifletterà il mio amore per la musica, la poesia e la letteratura latinoamericana. Proporrò ad esempio "Terra", uno straordinario e ammaliante brano di Caetano Veloso che ho tradotto in italiano. Riprenderò poi alcune canzoni inedite presentate nel corso del tour dell’anno scorso, "Da Napoli a Bahia da Genova a Bastia", una sorta di viaggio per mare scritto assieme al navigatore Giovanni Soldini, come "Il pane della domenica"e anche "Stammo Buono".
E’ un ritorno alle canzoni in dialetto napoletano?
Sì, ho voglia di scrivere di nuovo in napoletano.
Ha già in mente il titolo? Quando uscirà nei negozi?
Il titolo, scusatemi, è ancora top secret. Mi auguro che il disco esca prima dell’estate, in tarda primavera.
Com’è Teresa De Sio nel privato? Pigra o attiva? Dolce o dura?
Molto passionale nel lavoro, molto ironica nella vita. Dolce o dura non saprei rispondere: l’uno e l’altra, alla bisogna.
Ha mai nostalgia della sua terra? Del cibo, dei profumi, del mare?
E come no! E’ per questo che mi piace cucinare piatti campani. Mi riesce molto bene, per esempio, il gateau di patate.
Che impressione ha di Cava e di Salerno. Le trova cambiate? In meglio o in peggio?
Salerno mi piace di più adesso che negli anni Settanta-Ottanta. Si è rivoluzionata, in senso positivo. Ma anche Cava è migliorata negli ultimi anni.
Ci sono canzoni, nel suo vasto repertorio, che parlano delle nostre zone?
C'è una canzone che ho scritto anni fa, "Dammi spago", che parla proprio della mia giovinezza, degli amici del bar, dei luoghi a me cari. E tra questi, ovviamente, c'è anche Cava...
 
 
(La Città di Salerno, 19 gennaio 2003)
 
 
Scheda biografica
 
Teresa De Sio nasce a Napoli, ma trascorre la sua infanzia e adolescenza a Cava de’ Tirreni. L’inizio della sua carriera è nel teatro, con il gruppo di Alessandro Nisivoccia, al San Genesio di Salerno. Solo nel 1979 arriva la prima esperienza musicale significativa, con Musica Nova, di Eugenio Bennato. Nel 1980 viene pubblicato il suo primo album come solista, "Sulla Terra Sulla Luna", di cui firma tutti i testi, in dialetto napoletano. Nel 1982 esce "Teresa De Sio", che contiene tra le altre canzoni "Voglia 'e turnà" e "Aumm Aumm". A sorpresa il disco vende oltre cinquecentomila copie e una lunghissima tournée corona il successo dell'anno. Nel 1983, con la pubblicazione di "Tre", ancora cinquecentomila copie vendute. Nel 1985 esce "Africana", primo album dove compaiono composizioni in lingua italiana con un linguaggio rock. Al suo fianco c’è Brian Eno. L'album viene pubblicato in Inghilterra, Francia e Germania. L’anno dopo per la prima volta Teresa si avvicina alla musica napoletana dei primi del Novecento, con "Toledo e Regina", una raccolta di classici interpretati in maniera mirabile. Nel 1988 viene pubblicato il doppio album "Sindarella Suite", la prima parte contiene canzoni, la seconda la suite composta assieme a Brian Eno e Michael Brook intitolata "La Storia Vera di Lupita Mendera" che verrà presentata in anteprima al Festival Internazionale della Poesia di Parma. Tra il 1991 e il 1997 escono quattro nuovi album: "Ombre Rosse" (1991); "La Mappa del Nuovo Mondo" (1993); "Un Libero Cercare (1995), al quale collaborano Fabrizio De André e Fiorella Mannoia; "Primo viene l’amore" (1997), una raccolta dei suoi grandi successi, con alcuni inediti. Dopo due anni di tour in Italia e all’estero, nel 1999-2000 realizza il progetto "La Notte del Dio che Balla", che partecipa ai maggiori festival italiani: più di tre ore di musica dal vivo, dalle radici della musica popolare alle contaminazioni tecnologiche. Nel 2001-2002, parte un nuovo tour ,"Da Napoli a Bahia da Genova a Bastia", una sorta di viaggio per mare scritto assieme al navigatore Giovanni Soldini.
 

Giovannino Russo: La scazzetta e i nipotini di Lombroso

di Mario Avagliano
 
 
Nel Corrierone di Missiroli, di Ostellino, di Ottone, di Spadolini, di Di Bella e, nei giorni nostri, di Mieli e di De Bortoli, dal 1955, ovvero da quarantasette anni, ininterrottamente, è di casa il salernitano Giovannino Russo, che è stato uno dei padri del meridionalismo moderno, e insieme a La Malfa e a Francesco Compagna, uno degli ispiratori, a livello culturale, della politica di intervento straordinario nel Mezzogiorno. "Ora parlare di Sud è passato di moda", borbotta amareggiato nella sua casa romana. Russo ha conosciuto ed è stato amico dello storico sindaco di Salerno Alfonso Menna, del quale - nel nostro colloquio - tesse le lodi ma mette in rilievo anche le ombre ("ha favorito uno sviluppo urbanistico disordinato"), e dal suo osservatorio privilegiato ha sempre seguito da vicino e con partecipazione emotiva i mutamenti e le vicissitudini della sua città nativa, nonostante la lontananza.
 
Lei ha vissuto a Salerno fino a 5 anni.
Come ho raccontato in "Flaianite", sono nato in via Roma, nel palazzo di fronte a quello che è l’attuale Municipio. Mio padre era il Direttore della Cassa di Risparmio di Salerno ed era originario di Sala Consilina. Mia madre era della famiglia Scolpini di Padula.
Ha ricordi della sua infanzia a Salerno?
Ho tanti ricordi. Ad esempio, di quando mio padre mi portava ai giardini pubblici che erano di fronte casa. La domenica c’era una banda che suonava musica d’opera. Ho ancora negli occhi la Festa di S. Matteo, con le sue luminarie colorate. E poi per me, che in seguito ho vissuto in montagna, il mare di Salerno, che contemplavo dalla grande balconata su cui giocavo, è stato sempre motivo di nostalgia.
Come mai la sua famiglia si trasferì a Potenza?
Nel ’29 la Cassa di Risparmio fu assorbita dal Banco di Napoli, e mio padre ricominciò la sua carriera in quella che allora veniva definita la città delle tre "P": promozione, prima nomina e punizione. L’incontro con la Lucania ha plasmato il mio carattere.
Perché?
Noi salernitani siamo fantasiosi ma anche un po’ improvvisatori; lì invece vige un certo rigore montanaro, una certa critica alla chiacchiera. La vivacità salernitana, insieme al rigore lucano, mi hanno aiutato nella vita.
Tornava mai a Salerno?
Certo che sì. La sorella di mia madre, zia Giovanna, abitava a Salerno e d’estate ero suo ospite e andavo al mare in uno stabilimento vicino al Porto. L’acqua era bellissima, ci si specchiava dentro, solo che non ho mai imparato a nuotare, perché tale era la paura di mia zia che mi accadesse qualcosa, che mi permetteva di bagnarmi solo vicino a riva. E’ stata una cosa rovinosa. Ho imparato a nuotare da adulto, a trent’anni…
Concluso il liceo a Potenza, si è trasferito a Roma.
No, prima ho frequentato due anni di università a Bari, dove ebbi come professori anche Moro e De Martino. All’epoca mi ero dato anche alla politica. Nel ’43 avevo fondato, insieme ad altri giovani, il Partito d’Azione in Lucania, partecipando alla battaglia elettorale del ’46 per l’elezione della Costituente e per la Repubblica. Solo successivamente sono venuto a Roma, dove ho concluso gli studi in giurisprudenza, laureandomi, e ho cominciato la pratica da avvocato.
Da praticante avvocato a giornalista e scrittore: un bel salto!
Debbo molto a Carlo Levi, che avevo conosciuto in Lucania durante le elezioni del ‘46. Avevo anche scritto un articolo sul suo libro "Cristo si è fermato a Eboli", pubblicato dal Nuovo Risorgimento di Bari, diretto da Vittorio Fiore, che aveva suscitato molte polemiche e qualche risentimento da parte della borghesia locale che non gradiva la visione "contadina" della società lucana.
Che c’entra Carlo Levi?
Beh, Levi mi presentò al direttore dell’Italia Socialista, una testata erede dell’Italia Libera del Partito d’Azione. Vi ho lavorato prima come cronista e poi come redattore della terza pagina. Ricordo che scrissi tra l’altro la prima critica italiana a Fontamara, di Ignazio Silone. Quando il giornale chiuse, fu sempre Levi a segnalarmi a Pannunzio, direttore del Mondo.
Ho letto che per timidezza lei consegnò il suo primo articolo per il Mondo alla portineria del giornale…
E’ vero. Levi però aveva già parlato di me a Pannunzio. Si trattava di un articolo che raccontava il viaggio-inchiesta tra i contadini della Lucania dell’americano Theodor White, che scriveva per il New York Times ed era autore del famoso pamphlet "Come si fa un presidente". Il mio pezzo fu pubblicato dopo appena dieci giorni dalla consegna.
E così entrò nel principale salotto letterario italiano del tempo…
Lì conobbi Moravia, Flaiano, Ercole Patti, Vitaliano Brancati, Vittorini, Sandro De Feo. Fu una grande scuola per me. Pannunzio mi inviò a Parigi, a Londra. E poi mi dedicai a una serie di reportage sul Sud che nel ’55 raccolsi nel libro "Baroni e contadini", che vinse il Premio Viareggio. Quelle inchieste rappresentarono una novità per il Mondo, che era un grande giornale ma non prestava molta attenzione alle problematiche sociali. Con me, con il mio amico Francesco Compagna, e con La Malfa, nacque un’ala meridionalista del giornale che ha avuto un ruolo importante. Anche se, al dibattito sul meridionalismo, ho partecipato più dalle colonne del Corriere della Sera.
Già, perché nel ’55 lei fu assunto al Corriere.
Fui chiamato al Corriere da un salernitano, Raffaele Mauri, che era il vero uomo-macchina della redazione romana, anche se sulla carta il capo era Silvio Negro. Mauri mi convocò e mi chiese a bruciapelo: "Vuol fare il giornalista?". Io ero convinto di fare già il giornalista! Poi ebbi un colloquio un po’ allucinante con il direttore Missiroli che, sentendo che venivo dalle pagine culturali, si preoccupò di spiegarmi come si scriveva un articolo di cronaca. Infine fui assunto. Da allora sono rimasto praticamente sempre al Corriere, dal ’55 ad oggi. Credo di essere uno dei pochi così "fedeli".
Sul Corriere fu lei a riaprire il dibattito sulla questione meridionale.
Scrissi vari articoli di fondo sul problema del Mezzogiorno e sul pesante divario con il Nord, polemizzando o discutendo con personaggi meridionali e non. Ricordo ad esempio una polemica con De Vita. Questi scritti li ho riuniti in "Sud specchio d’Italia", edito da Liguori nel ’93.
In questi anni manteneva ancora il legame con Salerno?
Il mio primo articolo su Salerno pubblicato sul Mondo è del ’51. In "Baroni e contadini" c’è un vivace ritratto di Salerno, dove si racconta fra l’altro la storia dell’inventore salernitano Natella, che gabbò Mussolini riuscendo a fargli credere che era possibile trarre l’energia elettrica dall’aria. Sul Corriere, poi, ho scritto molti articoli su Salerno, occupandomi in particolare del fenomeno Alfonso Menna.
Alfonso Menna è stato sindaco di Salerno dal 1956 al 1970. Che giudizio si è fatto di lui?
Era mio amico, e aveva rapporti antichi con la mia famiglia, visto che – quando era segretario comunale – conosceva bene mio padre. Pensi che, anche a distanza di anni, al mio compleanno ricevevo sempre un suo telegramma di auguri. Credo che abbia dato molto a Salerno. Ho apprezzato la sua attività e il suo lavoro, anche se resto critico sul modo disordinato in cui si è sviluppata urbanisticamente la città. Il libero sviluppo che Menna ha garantito a Salerno è stato uno dei suoi meriti ma anche un suo limite. In certe zone della costiera salernitana non è stato rispettato il paesaggio.
Afeltra ha scritto che Menna era "un uomo semplice fatto per le cose difficili".
Non ho mai pensato che fosse un uomo semplice. Piuttosto era un uomo molto intelligente ed efficiente, che era animato da una specie di orgoglio salernitano, e riuscì a creare un equilibrio fra le forze politiche, comunicando all’esterno un’immagine di Salerno come città che aveva capacità di sviluppo. Insomma, fece uscire Salerno dal folklore meridionalista, anche grazie ai rapporti personali che aveva con esponenti nazionali della politica, dell’economia e anche del giornalismo. Menna era molto legato a Raffaele Mauri. Fu Mauri a presentarmi Menna. Ma tessé rapporti anche con Piero Ottone e altri giornalisti di rango. Dopo Menna, Salerno è decaduta.
Secondo lei perché?
Menna diede a Salerno un’identità verso la bellezza, per esempio con la geniale intuizione del lungomare. Questo culto estetico negli anni successivi si è perso. Un segnale è stata anche la battaglia sfortunata per insediare l’università nel centro storico invece che a Fisciano, alla quale ho partecipato insieme ad Elena Croce. Devo dire, però, che nell’ultimo quinquennio ho potuto osservare una rinascita della città, grazie al sindaco De Luca. Anche se è una rinascita a due facce.
Ovvero?
La nuova classe dirigente ha affrontato il problema annoso del centro storico, che è stato recuperato e rivitalizzato. Salerno però resta una città di contraddizioni spaventose, un po’ come Napoli. Accanto a questo risanamento così efficace, c’è il caos del traffico e l’affollarsi di una periferia a cui non si pensa abbastanza. D’altra parte in me c’è il rimpianto della Salerno della mia infanzia, una città ancora ottocentesca ben organizzata, con il senso dell’urbanistica e dell’urbanesimo.
Che cosa è mancato a Salerno nella storia più recente?
Nel dopoguerra la classe dirigente di Salerno ha mostrato tutti i difetti di quella meridionale: la vacuità, il notabilato senza interesse collettivo, il notevole clientelismo. A parte le eccezioni di Menna e De Luca, non ha espresso grandi capacità amministrative. Inoltre, sono mancati leader nazionali. Lo stesso Fiorentino Sullo era un "immigrato" che fu costretto a trasferirsi politicamente a Salerno a causa dell’ostracismo della Dc di Avellino.
A proposito di classi dirigenti e di Sud, che fine ha fatto il meridionalismo?
Oggi se si parla di meridionalismo, si rischia di passare per vecchi bacucchi. Esiste ancora un divario enorme tra Nord e Sud dell’Italia, però il meridionalismo è passato di moda, a destra e purtroppo anche a sinistra. Il governo è nordico e il potere di contrattazione del Meridione è assai diminuito. La responsabilità è in gran parte dei politici meridionali, sia della Casa delle libertà che dell’Ulivo, che riempiono la gente di paroloni e non concludono niente di concreto. Dopo la stagione dell’intervento straordinario, non esiste alcuna presenza né culturale né politica del meridionalismo.
Si parla invece di devolution.
Solo a sentire il termine, mi si accappona la pelle. Sono stato il primo ad attaccare la Lega, quando i vari Bocca, Feltri e Biagi non avevano ancora capito la componente populista e demagogica del fenomeno. Pubblicai anche un libro: "I nipotini di Lombroso". Dare maggiore autonomia ai poteri locali è un’esigenza giusta, e ritengo sia colpa del centrosinistra non aver affrontato, se non timidamente, il problema di un reale decentramento. Il progetto di federalismo propugnato da Bossi è però una vera iattura e mina le basi dell’unità nazionale. Non dimentichiamoci che il federalismo è un’unione di Stati che si confederano!
Un’ultima curiosità prima di congedarci. Quando viene a Salerno, dove va a passeggio?
Sono molto amico di Nicola Fruscione e di recente ho partecipato a un paio di dibattiti al Circolo Canottieri. Ho anche ricevuto una medaglia di riconoscimento della città di Salerno. Quando però sono libero da impegni, mi piace perdermi nei vicoli di via dei Mercanti e andare ad assaggiare la scazzetta, il dolce con la glassa e le fragoline di bosco della pasticceria Pantaleone, alla ricerca del tempo perduto. Non ho dubbi: la mia "madelaine" di Proust, a Salerno, è da Pantaleone…
 
 (La Città di Salerno, 12 gennaio 2003)
 
 
Scheda biografica
 
Giovanni Russo è nato a Salerno il 15 marzo del 1925. Dall'età di cinque anni, fino al termine del liceo classico, è vissuto a Potenza. Nel ’43 è stato uno dei fondatori del Partito d’Azione in Lucania. Laureato in giurisprudenza, ha cominciato la carriera giornalistica nel ’48, al quotidiano "L'Italia Socialista" di Roma, quindi ha collaborato a "Il Mondo" diretto da Mario Pannunzio, quando Ennio Flaiano era redattore capo, fino ad entrare nella redazione del "Corriere della Sera" di Missiroli, del quale è stato per lunghi anni inviato speciale. Autore di molti reportage sul Sud, ha pubblicato diversi libri che ritornano con partecipazione su vari aspetti della società meridionale e della politica e cultura italiana, tra cui: Baroni e contadini (1955, Premio Viareggio); L'Italia dei poveri (1958); L'atomo e la Bibbia (1963); Chi ha più santi in Paradiso (1964); Università anno zero (1966); Il fantasma tecnologico (1968); I Bambini dell'obbligo (1971); I figli del sud (1974, Premio Basilicata), Terremoto (1981); Il paese di Carlo Levi (1985, Premio Basilicata); Flaianite (1990); I nipotini di Lombroso (1992); Sud Specchio d'Italia (1993, Premio Mezzogiorno); Perché la sinistra ha eletto Berlusconi (1994); I re di carta (1996); Il futuro è a Catania (1997); È tornato Garibaldi (2000, Premio Carlo Pisacane); Lettera a Carlo Levi e Le olive verdi (2001); Oh, Flaiano! (2001). Per il giornalismo ha vinto tra l'altro il Premio Marzotto 1965 e il Premio Pannunzio 1991.
 
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