Storie – La lunga strada sconosciuta

di Mario Avagliano

Tra il 1933 e il 1945 prima la persecuzione nazifascista e poi la seconda guerra mondiale separarono brutalmente molte famiglie di ebrei, costringendo i loro membri a cercare di sopravvivere in vari angoli d’Europa. E’ il caso di Hela Schein e di Otto e Heinz Skall, nonché di Willi Kleinberg e Gusti Mandler (rispettivamente secondo marito di Hela e seconda moglie di Otto), una famiglia ebrea “frammentata” in quegli anni tra Austria, Cecoslovacchia e Italia.
La loro vicenda è stata raccontata, con garbo e sensibilità, da Roberto Lughezzani nel bel libro La lunga strada sconosciuta. Una famiglia ebrea nella morsa del nazifascismo (Marlin editore).
La tragica storia ricalca quella di milioni di ebrei: nell’attesa angosciosa della fine, Willi muore di crepacuore, mentre Hela, deportata in Polonia, sparisce nell’orrore del lager; Otto con la seconda moglie Gusti si suicida a Praga per sfuggire alla deportazione a Theresienstadt.
L’unico sopravvissuto della famiglia è il giovane Heinz, figlio di Hela e di Otto, che ha studiato in Italia e dopo il varo delle leggi razziali finisce nel campo d’internamento di Campagna, e poi a Sala Consilina, in provincia di Salerno.
A Sala Consilina Heinz intreccia una tenera storia d’amore con una giovane insegnante, Rita Cairone, che sposerà dopo la guerra. Egli resterà fino all’ultimo il custode delle memorie familiari, il depositario delle lettere straordinarie che i suoi gli avevano scritto negli ultimi anni di vita. Sono lettere che si leggono con viva commozione e, contro ogni forma di negazionismo, testimoniano la ferocia con cui il nazismo infierì su milioni di esseri umani, di null’altro colpevoli che di essere ebrei.

(L'Unione Informa, 11 giugno 2013 e portale Moked.it)

Roberto Lughezzani "La lunga strada sconosciuta"
Una famiglia ebrea nella morsa del nazifascismo
Presentazione di Elena Skall

Ft. 12,2 x 20
pp. 228€ 16,00
ISBN 978-88-6043-079-3

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Storie - Il caso Palatucci e il compito della storiografia

di Mario Avagliano

La storia non si fa né con le glorificazioni improvvisate né con i giudizi sommari. La storia richiede una lunga attività di scavo e di ricerca, non solo negli archivi, che tenga conto dei documenti e delle testimonianze disponibili e anche del contesto in cui si svolsero i fatti. Lo dimostra la vicenda del funzionario di polizia irpino Giovanni Palatucci nel periodo della persecuzione degli ebrei, tra il 1938 e il 1944, oggetto di attenzione in queste ultime settimane da parte dei principali quotidiani nazionali.
Palatucci è il classico esempio di come, senza opportuni studi ed approfondimenti, un personaggio possa essere considerato, a seconda dei punti di vista, “santo” o “criminale”. Dal riconoscimento di Giusto tra le Nazioni dello Yad Vashem e il processo di beatificazione da parte della Chiesa cattolica, alle accuse del New York Times di collaborazionismo con i nazisti.
Uno dei primi a sollevare dubbi sul salvataggio da parte di Palatucci di migliaia di ebrei fu, nel 2008, lo studioso Marco Coslovich, nel libro Giovanni Palatucci. Una giusta memoria. Ora a riaprire il dibattito è stata la presa di posizione del Centro Primo Levi di New York, a seguito di uno studio su circa 700 documenti di vari archivi internazionali, tra i quali quello della città di Fiume.

Sul caso Palatucci, inviterei a leggere le interviste di Michele Sarfatti a Panorama e all’Huffington Post e le sue dichiarazioni al Corriere della Sera.
Sarfatti, che ha partecipato alla ricerca del Centro Primo Levi ed è uno storico di grande spessore e serietà scientifica, dopo aver affermato che dai documenti esaminati non sono emerse «evidenze storiografiche del salvataggio di migliaia di ebrei da parte di Giovanni Palatucci» e che il ruolo del funzionario irpino è stato «ingigantito», ricorda però che fu deportato a Dachau per attività antitedesca e spiega che la sua vicenda merita rispetto e ricostruire il suo operato non significa spostarlo «nel campo dei cattivi».
Quanto alle accuse di collaborazionismo con i tedeschi, Sarfatti precisa testualmente: “resto perplesso su una frase della giornalista del NYT, secondo la quale Palatucci avrebbe ‘aiutato i tedeschi a identificare gli ebrei da rastrellare’. Frase che attribuisce ai ‘ricercatori’, senza specificare chi. Ma di questo non esiste prova alcuna”.
Ma il ruolo di salvatore di Palatucci è stato del tutto inventato? Un’affermazione del genere sarebbe scorretta. Nella pratica di riconoscimento dello Yad Vashem ci sono prove che Palatucci soccorse una donna ebrea, Elena Aschkenasy. E, come aggiunge Sarfatti, ci sono in suo favore testimonianze “che in linea generale ritengo fondate, ma devono essere vagliate con attenzione studiando le carte”. Ad esempio quella sul salvataggio dei due coniugi Salvator e Olga Conforty (la figlia Renata Conforty lo ha ricordato sul Corriere della Sera del 23 giugno).
Il problema è che, come osserva Sarfatti, “i riconoscimenti pubblici a Palatucci hanno preceduto la ricerca storica”. Ora lo Yad Vashem ha avviato un processo di riesame del suo caso sulla base della nuova documentazione. E, come propone il direttore del Cdec, anche in Italia si potrebbe nominare un gruppo di lavoro per fare chiarezza sulla vicenda.
Aggiungo che mi trovo d’accordo con Anna Foa sul fatto che, probabilmente, in seguito alle ricerche in corso i numeri andranno ridimensionati e alcuni eventi andranno riletti, ma va tenuto conto che la necessaria segretezza di un’attività di questo tipo non rende semplici le verifiche e comunque anche aiutare o salvare solo alcune persone è un fatto rilevante e meritevole di ricordo, di riconoscimento e di apprezzamento.

(L'Unione Informa 26 giugno 2013 e Portale Moked.it)

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Storie – Il tennis ai tempi del Führer e una partita epica per la vita

di Mario Avagliano

Lo sport a volte racconta la tragicità della storia. È il caso della partita che si tenne il 20 luglio 1937 a Wimbledon, in quel meraviglioso campo che Giorgio Bassani definiva “il Vaticano del tennis”. Anche quel giorno d’estate di settantasei anni fa, ci racconta il libro “Terribile splendore” di Marshall Jon Fisher (editore 66tha2nd, pp. 376), la tribuna di Wimbledon era gremita di folla e di autorità e il campo centrale «verde e teso come un panno da biliardo». La svastica sventolava sui pennoni dello stadio insieme alla bandiera inglese e a quella americana, mentre nel Royal Box gli ufficiali nazisti sorseggiavano del tè in compagnia di esponenti della casa reale.

È il giorno della finale interzone di Coppa Davis, Germania contro Usa, e di fronte a quattordicimila spettatori va in scena la più bella partita di tennis di tutti i tempi, quando ancora si giocava con i pantaloni di flanella lunghi e racchette di legno che sembravano mazze.
L’imberbe proletario yankee Don Budge, ex fattorino di Oakland, detto “Il Terrore Rosso” per il colore dei capelli, che ama il jazz e Bing Crosby (“datemi un suo disco e io smetto con il tennis), e impugna una pesante Wilson dal manico extralarge, affronta l’idolo del pubblico, l’elegante barone tedesco Gottfried von Cramm, di sei anni più grande, che invece utilizza una Dunlop dal manico sottile.

Alle soglie della Seconda guerra mondiale, il significato dell’incontro tra l’americano numero uno al mondo e l’aristocratico tedesco travalica i confini dello sport: Budge si batte per la gloria della sua patria, simbolo della libertà, von Cramm rappresenta la Germania hitleriana ma in realtà gareggia per la sua stessa vita.
Il barone tedesco è biondo, atletico, “gioca come giocherebbe Dio” ed è sposato con la seducente Lisa von Dobenek, ma è tutt’altro che l’archetipo dell’ariano vagheggiato da Hitler. Non si è iscritto al partito nazista ed è sorvegliato dalla Gestapo, a causa della sua omosessualità (“sintomo di degenerazione razziale”, ha tuonato il Führer) e delle sue amicizie con gli odiati ebrei. Il suo stesso amante è un ebreo galiziano, “Manny” Herbst, diciottenne.
La strategia di sopravvivenza del barone funziona sulla base dei successi collezionati sul campo. Come ha confidato al suo allenatore americano Bill Tildne (anche lui omosessuale): “Io qui mi gioco la vita. Loro sanno cosa penso e sanno di me”. Poco prima del match, arriva una telefonata imprevista: «Era Hitler, voleva augurarmi buona fortuna».

La partita per la vita dura cinque set. Il tennista yankee, passato in svantaggio di due set, recupera e raggiunge l’avversario tedesco. Il quinto set è epico: von Cramm torna avanti 4-1 ma Budge rimonta e sul 7-6, al suo quinto match-point, con un rovescio in tuffo manda la pallina miracolosamente nell’angolo. È la vittoria per l’americano.
Un anno dopo von Cramm finisce in prigione per reati di natura sessuale. In quello stesso periodo in Italia, a Ferrara, Giorgio Bassani, ottimo giocatore di tennis, come il protagonista de Il giardino dei Finzi-Contini, viene espulso dal circolo del tennis in seguito alle leggi razziali. Nel 1939 il barone tedesco prova a tornare a Wimbledon ma non viene ammesso: “Moralmente non adatto”. Intanto la moglie Lisa ha chiesto il divorzio, i suoi locali preferiti sono stati chiusi e i suoi amici ebrei sono perseguitati dai nazisti. Il mondo scivola verso la catastrofe.

(L'Unione Informa e portale Moked.it del 30 luglio 2013)

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Storie – Stati Uniti 1938, una nuova terra promessa

di Mario Avagliano

Nelle pieghe della memoria, per molti versi sbiadita, delle leggi razziali in Italia, è conservata una vicenda individuale e collettiva: l’emigrazione forzata di circa duemila ebrei italiani negli Stati Uniti. Professori universitari, medici, avvocati, scienziati, giornalisti, artisti ma anche gente comune, costretti dai provvedimenti persecutori ad abbandonare la patria che li aveva disconosciuti come cittadini e a rifarsi una vita al di là dell’Oceano Atlantico, spesso ottenendo prestigiosi riconoscimenti. Dai premi Nobel Salvador Luria e Franco Modigliani all’architetto Giorgio Cavaglieri, dall’artista Leo Castelli al musicista Mario Castelnuovo Tedesco, dal cardiologo Massimo Calabresi al fisico Emilio Segrè e ai manager Giorgio Padovani, Giorgino Funaro ed Enrico Pavia. Il loro dramma è stata ricostruito nel libro America nuova terra promessa. Storie di ebrei italiani in fuga dal fascismo (Francesco Brioschi editore, pp. 192) di Gianna Pontecorboli, giornalista italiana che vive a New York e collabora con il Centro Primo Levi.
Attraverso le interviste ai testimoni e ai loro parenti, la Pontecorboli racconta la corsa ad ostacoli per ottenere il visto per l’America (impresa non facile, anche per l’opposizione di un potente funzionario americano, Breckinridge Long, ex ambasciatore a Roma e ammiratore di Mussolini), l’impatto con il nuovo continente, che non sempre li accetta bene, il legame indissolubile con l’Italia, l’adesione di molti di loro alla causa dell’antifascismo (ad esempio nell’ambito della Mazzini Society), il contributo dato alla Liberazione del nostro paese e al processo di ricostruzione ma anche la decisione della maggior parte di quegli italiani traditi di restare negli Stati Uniti, la nazione che aveva dato loro la possibilità di una vita dignitosa e senza persecuzioni. Una pagina di storia importante anche per comprendere, come scrive Furio Colombo nell’introduzione, le responsabilità dell’Italia e degli italiani non ebrei, senza indulgere, come si continua a fare, nell’auto-assoluzione. Tanto più in vista del 75° anniversario delle leggi razziali del novembre 2013.

(L'Unione Informa e portale Moked.it, 6 agosto 2013)

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Storie – Il buono e il cattivo. Il comandante di Auschwitz e l'ebreo che riuscì a catturarlo

di Mario Avagliano

Il buono e il cattivo. In «Il comandante di Auschwitz» (Newton Compton Editori), Thomas Harding, laureato in antropologia alla Cambridge University, già giornalista e film-maker, ha ricostruito le vite parallele di uno dei più spietati criminali nazisti e dell'ebreo che riuscì a catturarlo.
Da un lato Rudolph Hess (Höss, se si segue la grafia tedesca), classe 1901, volontario alla Grande Guerra ad appena 14 anni, iscrittosi al partito nazista nel 1922, sostenitore dell’antisemitismo e poi divenuto nel 1940 comandante di Auschwitz (dopo un’esperienza a Dachau e a Sachsenhausen), responsabile del massacro di oltre un milione di persone e freddo esecutore della “soluzione finale” voluta da Hitler.
Dall’altro Hanns Alexander, classe 1917, ebreo tedesco, cresciuto a Berlino, rifugiatosi in Gran Bretagna per sfuggire alle persecuzioni delle SS, in seguito arruolatosi nell’esercito inglese, con la matricola 264280, rischiando moltissimo (se catturato dal Reich, sarebbe stato considerato un traditore e quindi giustiziato). Il 12 maggio 1945 il tenente Hanns entrò in contatto con l’orrore della Shoah, entrando nel lager di Bergen-Belsen. Nell’immediato dopoguerra venne reclutato quale investigatore del I War Crimes Investigation Team, detto anche I WCIT, il pool creato per scovare e assicurare alla giustizia internazionale i gerarchi nazisti responsabili delle atrocità dell'Olocausto.
Ma l’ex kommandant di Auschwitz, che si era rifugiato sotto falsa identità in una fattoria di Gottrupel, è una preda difficile da stanare, e Hanns dovrà giocare d’astuzia e agire con determinazione per riuscire a catturarlo.
Un dettaglio interessante: Harding è il pronipote di Alexander, ignaro dell’avventuroso passato del prozio fino al giorno del suo funerale, il 28 dicembre 2006.

(L’Unione Informa e portale moked.it del 17 settembre 2013)

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Coniugi Aldrovandi e Mazzanti nominati Giusti tra le Nazioni

di Rossella Tercatin

Celebrare la semplicità di gesti straordinari, e la naturalezza di scelte coraggiose. Tanti sorrisi e tanta commozione a Milano nella sala Jarach del Tempio centrale, per la solenne cerimonia di consegna della Medaglia di Giusti tra le Nazioni ai coniugi Giulia e Antonio Aldrovandi e Rachele e Armando Mazzanti che negli anni bui dell’occupazione nazista rischiarono la propria vita per salvare la famiglia Weisz, avvisandola dei pericoli, e impegnandosi per dare un rifugio ai due bambini, Piero e Liana, di otto e cinque anni, che per un anno abitarono insieme alla famiglia Aldrovandi in un paesino sul Lago D’Orta, fatti passare come figli di un fratello residente in una città già occupata dagli Alleati.
Oggi la loro generosità è stata ufficialmente riconosciuta dallo Yad Vashem di Gerusalemme, e le medaglie affidate ai figli di Giulia e Antonio, Giuseppina e Sandro, all’epoca due ragazzini di 14 e 11 anni, che con i piccoli Weisz svilupparono un’amicizia profonda che dura ancora oggi, e a uno dei nipoti di Rachele e Armando, Davide, alla presenza di tanti altri parenti e amici delle due famiglie di tre diverse generazioni. Alla cerimonia hanno preso parte il presidente della Comunità di Milano Walker Meghnagu e il rabbino capo Alfonso Arbib, il giornalista Gad Lerner e l’addetta dell’Ambasciata d’Israele Sara Gilad, oltre ai due protagonisti della storia, i salvati, Liana e Piero, che hanno condiviso con il pubblico i ricordi “di quell’anno strano in cui noi bambini di città, ci ritrovammo a vivere in campagna, circondati da creature strane come i conigli, con una famiglia che non era la nostra, eppure ci ha fatto sempre sentire come a casa” ha sottolineato Piero.
“Non esiste un riconoscimento nel mondo in cui viviamo all’altezza di quello che hanno fatto i signori Aldrovandi e Mazzanti. Salvare bambini, vite umane. Non per ricevere una ricompensa, ma solo per fare la cosa giusta da fare. È qualcosa di straordinario” ha dichiarato Meghnagi. “Nessuna epoca e nessuna società è immune dal rischio che per colpa dell’indifferenza accadano nuove ingiustizie. Penso a quello che è successo nei nostri mari, ma anche alla notizia di una ragazzina di 15 anni di etnia Rom prelevata dal pullman della sua gita scolastica per essere espulsa insieme alla famiglia – ha ricordato Gad Lerner – Credo che riconoscere oggi i Giusti tra le Nazioni serva anche a questo”. “Fare qualcosa di contrario alla legge, per obbedire a un imperativo morale superiore non è affatto facile – ha evidenziato rav Arbib – Non solo perché allora il prezzo che si rischiava di pagare era la vita, ma anche perché voleva dire non solo pensare controcorrente, ma anche scegliere di agire, senza farsi bloccare da dubbi o tormenti. Per questo dobbiamo essere infinitamente grati a persone come i coniugi Aldrovandi e Mazzanti”.
A consegnare le medaglie per l’ambasciata d’Israele è stata Sara Gilad. Tutto intorno i figli, nipoti e pronipoti di quegli eroi della quotidianità, capaci di compiere qualcosa di straordinario nel modo più normale possibile. Nuove generazioni pronte a prendere l’impegno di continuare a ricordare e trasmettere il messaggio di giustizia. Per non dimenticare e per mantenere vivi non solo la memoria, ma soprattutto il significato delle gesta dei propri nonni.

(L'Unione Informa, 17 ottobre 2013)

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Storie - La "sorella" di Anne Frank

di Mario Avagliano

All’inizio degli anni Quaranta due ragazzine, una dai capelli neri acconciati con cura, che indossava “sempre bluse e gonne immacolate con calzettoni bianchi e lucide scarpe di vernice”, l’altra “un maschiaccio biondo”, con i vestiti in disordine che giocava a biglie e faceva capriole sulla piazza, giocavano allegre per le strade di Merwedeplein, ad Amsterdam. Anne Frank ed Eva Schloss erano nel pieno dell’adolescenza e non immaginavano quale sarebbe stato il loro futuro. Di Anne sappiamo tutto, anche grazie al suo straordinario diario. La storia di Eva, invece, almeno in Italia, è ignota a molti, e ce la racconta lei stessa nel libro Sopravvissuta ad Auschwitz (Newton Compton Editori), arrivato in questi giorni in libreria. Nelle pagine della sua memoria scorrono le immagini della sua infanzia in Austria, della campagna antisemita, dell’avvento dei nazisti e della fuga nel 1938 in Belgio e poi in Olanda, dove Eva stringe amicizia con la loquace Anne, che conquista tutti con le sue storie e il suo eloquio brillante e che scherzosamente le amiche chiamano “Signora Qua Qua”.
I tempi felici non sono destinati a durare. Nel maggio del 1940 i tedeschi invadono l’Olanda e già a partire da agosto emanano le prime leggi contro gli ebrei. Due anni dopo, scatta l’imposizione di portare sugli abiti una stella di David gialla, con la scritta Jood, e la famiglia Schloss, come tante altre, decide di entrare in clandestinità. L’11 maggio 1944, però, giorno del suo quindicesimo compleanno, a causa di una delazione Eva viene arrestata dai nazisti assieme alla madre Fritzi e deportata ad Auschwitz. La sua salvezza è merito in parte del caso e in parte della forza di volontà della mamma, che nel lager lotta con tutte le sue forse per proteggerla. Quando nel gennaio del 1945 il campo viene liberato dall’Armata Rossa, Eva torna a casa con la madre e inizia la ricerca disperata del padre e del fratello maggiore Heinz, che purtroppo sono morti. Ad Amsterdam, però, il suo destino s’incrocia di nuovo con Anne Frank, o meglio con ìl padre di lei Otto, che intreccia una relazione sentimentale con la madre Fritzi, che poi sfocia nel 1953 nel matrimonio. Incredibilmente, quindi, la sua vita si lega di nuovo a quella ragazzina dai capelli scuri conosciuta anni prima. Nel 1986, trasferitasi a Londra da quarant’anni, Eva, che ha lavorato come fotografa professionista, usando all’inizio la Leica con cui Otto Frank aveva immortalato la sua Anne, all’inaugurazione di una mostra itinerante su Anne Frank per la prima volta racconta la sua storia. Da quel momento in poi diventa una Testimone e inizia a girare il mondo per far conoscere la sua esperienza, a cui è stata dedicata anche la pièce teatrale And They Came for Me: Remembering the World of Anne Frank.

(L'Unione Informa e moked.it del 22 ottobre 2013)

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Storie – Alle origini dei Protocolli in Russia

di Mario Avagliano

Negli anni Venti Adolf Hitler – a quel tempo pittore dilettante pressoché sconosciuto – scriveva che l’accanito tentativo di dimostrare la falsità dei Protocolli dei Savi di Sion ne provava l’autenticità. Negli anni Trenta Julius Evola, nella prefazione all’edizione dei Protocolli curata da Preziosi, affermava che non era necessario accertare l’autenticità del testo, perché la realtà storica ne dimostrava la veridicità. La veridicità o l’autenticità di un falso che, come scriverà all’alba della seconda guerra mondiale Henri Rollin, sarebbe divenuto il più diffuso nel mondo dopo la Bibbia.
Nei volumi dedicati ai Protocolli dal dopoguerra in poi si analizza la storia, spesso romanzata, di questa calunnia, alla ricerca, quasi sempre, di uno o più falsari in terra francese, senz’affatto spiegare in modo chiaro le origini dell’intera questione. Rara eccezione è l’analisi lessicale e filologica dei Protocolli operata ne Il manoscritto inesistente da Cesare G. De Michelis, che firma la prefazione anche di uno stimolante saggio appena uscito in libreria: L’ombra del kahal. Immaginario antisemita nella Russia dell’Ottocento di Alessandro Cifariello (Viella 2013 – pp. 278).
In questo libro Cifariello esamina la preistoria dei Protocolli in un ambiente russofono ed analizza la questione ebraica in Russia e la diffusione dei miti attorno agli ebrei e alla comunità ebraica nella letteratura russa dell’Ottocento. Cifariello si sofferma in particolare sulla subcultura antiebraica propria della cultura russa del XIX secolo e sulla giudeofobia, ovvero quella recondita paura degli ebrei che, inizialmente sotto-testo narrativo, diventerà successivamente accusa reale capace di scatenare distruzione e morte attraverso i pogrom antiebraici.
Il titolo del saggio di Cifariello riecheggia quello pubblicato nel 1869 da Jacob Brafman, ebreo convertito, diventato giudeofobo, che era intitolato appunto Il libro del Kahal. Brafman utilizzò il termine Kahal, che indicava la forma di autogoverno delle comunità ebraiche dell’Europa orientale, in modo distorto, con il significato di potenza occulta che, attraverso una cospirazione planetaria, attuava il programma di dominazione del mondo e di disgregazione fisica e morale dell’Impero russo.
Di grande interesse è anche la rassegna operata da Cifariello della lunga serie di testi pubblicati sulle pagine di riviste e quotidiani russi, in cui i due schieramenti contrapposti – i giudeofili e i giudeofobi (tra cui figurano personalità di spicco come Suvorin e lo stesso Dostoevskij) – si combattono a colpi d’inchiostro sul campo della questione ebraica. Una rassegna che attesta il passaggio d’idee e miti della giudeofobia dalle riviste ai romanzi, e dimostra quanto la bellettristica, ovvero la letteratura dilettantesca, sia stata parte di un più complesso sistema culturale, assieme alla pubblicistica e alla pamphlettistica reazionaria e conservatrice, e come abbia generato al proprio interno, a cominciare dagli avvenimenti storici della seconda metà degli anni settanta dell’Ottocento, un particolare genere di romanzo: quello giudeofobico, in cui il complotto ebraico viene presentato a tinte fosche, a volte persino con gli strumenti del romanzo gotico o del mistero.
Ne sono esempio le opere di cinque scrittori, oggi (fortunatamente) dimenticati, ma molto popolari nel periodo d’attività: Boleslav Michajlovič Markevič, Nikolaj Petrovič Vagner, Vsevolod Vladimirovič Krestovskij, Ieronim Ieronimovič Jasinskij, Savelij Konstantinovič Efron-Litvin. L’ombra del Kahal è, dunque, una profonda analisi letteraria sulle origini, tra storia e mito, dell’antisemitismo russo. Un’opera preziosa per indagare sulle origini dei Protocolli.

(L'Unione Informa e Moked.it del 29 ottobre 2013)

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